RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 29 MARZO 2021

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RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI

29 MARZO 2021

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

Il povero resta dunque povero e il ricco acquista ricchezza  non per merito proprio ma per ragioni di nascita

(Luigi Eianudi)

citazione da: CARLO COTTARELLI, All’inferno e ritorno, Feltrinelli 2021, pag. 83 

 

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SOMMARIO

Ex colonnello russo: la falsa “pandemia” è un’operazione speciale di poteri nascosti per ridurre la popolazione
Klaus Schawb e Thierry Malleret, “Covid 19: The great reset”
“500 morti al giorno? Dati fasulli, ecco come gonfiano il numero di decessi”
Letta, il paramassone gentile, al bivio fra Draghi e Prodi
La civile disobbedienza aiuta a riconoscersi
“IL DECRETO DI DRAGHI È UNA TRUFFA!” 
Se avevate ancora qualche dubbio sulla natura dell’Amministrazione Biden…
Lockdown, medioevo nel 2021: i terrapiattisti del Covid
La “Reality Police” della Nuova Normalità
Dantedì? Se Dante potesse ci picchierebbe, altroché. Per lui la libertà era sacra, per noi il lockdown è infinito
Bizzi: fine dell’Operazione Corona, a partire dal 12 aprile
Non è stato un incidente: avanza un’agenda inesorabile
Conte Priamo e Bill Gates: l’Italia finisce come Troia
“Curare i malati subito a casa”. Così il Tar stronca le linee del ministero
Non c’è l’obbligo di dire la verità in autocertificazione.
Fermato in pieno lockdown, scrive il falso nell’autocertificazione: il gup di Milano lo assolve perché “non c’è obbligo di dire verità”
Fermato in pieno lockdown, scrive il falso nell’autocertificazione
“Con i soldi festeggiamo a champagne”, così dopo il finto salvataggio
Quarto giorno di blocco per il canale di Suez. Le navi in attesa ripartono per nuove rotte
Bill e Melinda Gates vogliono ridurre la popolazione attraverso il nuovo coronavirus?
Le differenze del capitale. Razza, genere, antagonismo, compatibilità

 

 

IN EVIDENZA

Cosa non torna nell’incidente di Suez

Ancora poche certezze dal Canale di Suez. Da martedì il transito delle navi mercantili è bloccato a causa della Ever Given ferma di traverso nell’idrovia. E a oggi sono circa 320 le navi che attendono su entrambi gli accessi del Canale. Un danno che si aggira intorno ai nove miliardi di dollari al giorno. Senza possibilità di quantificare il tempo che ci vorrà per liberare la nave.

Ma cosa ha causato davvero il blocco? Le indagini proseguono e l’incidente della Ever Given rischia di colorarsi di giallo. Il presidente dell’Autorità di Suez, Osama Rabie, ieri ha parlato ai media per chiarire la situazione. Oltre a ribadire che non vi è alcuna certezza sulla riapertura al traffico, il funzionario egiziano ha fatto intendere che stanno emergendo alcune novità dall’inchiesta che deve chiarire la dinamica dell’episodio.

Il problema del vento

Rabie ha detto qualcosa di molto importante: il vento e la tempesta di sabbia “non sono stati i motivi principali dell’incidente”. Anzi, attualmente le autorità del Canale non escludono che “un errore tecnico e umano possa aver contribuito all’incaglio”. Affermazioni che fanno riflettere. È chiaro che Rabie deve in qualche modo “scagionare” il suo Canale. L’immagine di Suez è stata profondamente colpita da questo incidente e il fatto che molte compagnie abbiano già ipotizzato cambi di rotta rappresenta una minaccia enorme per la stabilità finanziaria del Canale di Suez e di tutto l’Egitto. Meglio quindi chiarire che la navigazione è sicura e che non esiste possibilità di tempeste di sabbia o correnti che possa incidere sulla navigazione. Tanto è vero che lo stesso presidente dell’Autorità di Suez ha voluto lanciare un messaggio che ha tutta l’aria di essere uno spot: “Se l’incidente fosse avvenuto nel nuovo canale sarebbe stato risolto più facilmente”. Purtroppo però il punto era quello del tracciato non raddoppiato.

In base alla rotta tracciata dai satelliti e alle informazioni rilasciate dall’Autorità di Suez, la Ever Given ha scarrocciato a causa del forte vento. Tecnicamente quindi il vento forte (si parla di raffiche a 40 nodi) avrebbe deviato lateralmente la rotta della nave facendo scivolare l’imbarcazione fuori rotta. Questa ipotesi, che resta stata quella più accreditata almeno fino alle parole di Rabie, si fonda sul fatto che quell’enorme quantità di container caricati sulla nave avrebbe costituito una superficie talmente ampia da creare un vero e proprio effetto “vela”, spingendo così la nave verso la riva del Canale. Un fatto possibile, che anzi confermerebbe la pericolosità di queste navi gigantesche su questa idrovia.

I dubbi sullo scarroccio

Tuttavia, mentre molto esperti concordano con questa analisi, altri hanno iniziato a interrogarsi sulla possibilità che il vento potesse essere stato sufficientemente forte da far incagliare la nave in quel punto.

Un analista esperto di navigazione sentito da InsideOver ci ha spiegato, ad esempio, che in base alla scarsa velocità, alla poca quantità d’acqua, con la nave a pieno carico e con la poca corrente di quel punto, la Ever Given, scarrocciando, avrebbe comunque dovuto rallentare per effetto dell’attrito sul fondale. E in ogni caso risulterebbe molto difficile che la nave, deviata dal vento laterale, possa mettersi poi di traverso. Più facile, dicono gli esperti, che il vento la spingesse parallelamente alla costa, facendola scivolare lungo la parete rocciosa che limita il canale. Mentre sulla questione della visibilità, l’informatizzazione dei sistemi di navigazione e la conoscenza totale del canale di Suez e del suo fondale permette una navigazione praticamente “alla cieca”. Anche perché esiste un convoglio e una squadra di rimorchiatori.

Schema incidente Suez (La Presse)

Di che errore tecnico parlano?

Appurato che vento e visibilità non sarebbero stati gli unici elementi a deviare la rotta della nave taiwanese – almeno secondo le autorità di Suez – ci si domanda quale possa essere stato l’errore “tecnico” o quello “umano”.

Innanzitutto, bisogna capire chi può aver compiuto l’errore tale da far perdere il controllo della nave in quel tratto del Canale. Come premessa, va detto che le compagnie di navigazione spesso riducono il numero del personale di bordo al minimo essenziale: parliamo quindi di pochissimi uomini all’interno di una nave di dimensioni gigantesche. Perciò è possibile che in plancia vi siano poche persone, forse anche solo cinque. In ogni caso, queste serve per capire che nel momento in cui è stato commesso, eventualmente, un errore, c’erano altre persone che avrebbero potuto evitarlo. Il regolamento di Suez prevede inoltre la presenza di un pilota del posto insieme a uno specialista di sistemi, ma questa presenza non deve essere sopravvalutata. Fonti che conoscono perfettamente come avviene il passaggio di Suez hanno confermato a InsideOver che il pilota dell’Autorità inviato sulle navi è tendenzialmente ininfluente. Conosce le manovre e il regolamento, ma è molto raro che intervenga nella navigazione. Il comandante è il solo responsabile, ed è perfettamente in grado di portare la nave lungo la rotta del Canale, per di più con l’ausilio di sofisticati mezzi di localizzazione, di tracciamento della rotta e all’interno di un convoglio.

Un comando sbagliato può devastare una nave

L’errore potrebbe però essere dato da un comando sbagliato. Soprattutto verso la sala motori. E questo potrebbe, per esempio, spiegare la forza d’urto con cui la nave si è incagliata nella costa. Gli esperti ritengono che il vento da solo non avrebbe potuto produrre un tale livello di incagliamento fino al bulbo della nave se nel frattempo il fondale rallentava l’imbarcazione. L’errore, in sostanza, potrebbe essere stato quello di aver ordinato di aumentare la potenza. Perché solo il motore poteva dare quel tipo di spinta propulsiva.

Questo ovviamente, se si vuole pensare alla casualità: c’è anche chi crede che più che all’ipotesi di un errore nella catena di comando si debba guardare a un’azione studiata a tavolino o addirittura all’intervento di hacker in grado di penetrare nei sistemi informatici dell’imbarcazione e impartire gli ordini. Ipotesi che per ora non possono trovare riscontro, ma che non devono nemmeno essere considerate così lontane dalla realtà. Ricordiamo che Gianni Cuozzo, amministratore delegato di Aspisec, durante il convengo “Le rotte digitali del trasporto – IoT e big data: opportunità e rischi della digital transformation” a Genova ha hackerato una petroliera in navigazione nel Mar Adriatico. E ci è riuscito con un semplice pc portatile fornito dall’Autorità di Sistema Portuale genovese. L’esperto di cyber rischi, come racconta BusinessInsider, si è servito di due portali accessibili a chiunque per identificare la nave e capire quale fosse il sistema informatico che la governava. Attraverso il sistema si tracking è penetrato nella rete della nave e in quel momento aveva tutte le capacità di controllare le attività all’interno dell’imbarcazione.

Si prova a disincagliare la Ever Given

Al netto di queste ipotesi, quello che però ora è certo è che bisogna cercare di disincagliare la nave. Le operazioni effettuate con escavatori e draghe stanno dando i primi frutti sperati. Secondo le informazioni che arrivano dal luogo dell’incidente, il timone e l’elica della hanno ripreso a funzionare e questo ha permesso di far muovere leggermente la poppa. Adesso circa 14 potenti rimorchiatori sono all’opera per spostare il gigante e Rabie ha detto che si auspica “di non dover essere costretti all’alleggerimento del carico“. Una manovra che risulterebbe molto più complessa di quanto si pensa, perché data la posizione è impossibile rimuovere i container da tutte le parti dell’imbarcazione e perché esistono pochissimi mezzi nel mondo a poter compiere questo tipo di operazioni in acqua. E in ogni caso i tempi di manovra diventerebbero sempre più lunghi, con un aumento sproposito di costi per le compagnie e per l’Egitto. E ora è conto alla rovescia.

FONTE: https://it.insideover.com/economia/cosa-non-torna-nellincidente-di-suez.html

Ex colonnello russo: la falsa “pandemia” è un’operazione speciale di poteri nascosti per ridurre la popolazione

detoxed.info

di John Cooper

*** Intervista video di fine marzo 2020 ***

Un’intervista approfondita a 360 gradi dove viene analizzato ogni aspetto fondamentale del fenomeno coronavirus e dove vengono rivelati i suoi veri inquietanti obbiettivi.

E’ quella che il colonnello Vladimir Vasilievich Kvachkov, già membro del Direttorato principale per l’informazione, l’apparato dei servizi segreti di intelligente militari russi, e delle Spetsnaz, le forze speciali russe, ha rilasciato al canale Studiya Rubezh.

Kvachkov è stato già onorato dell’Ordine della Stella Rossa ai tempi dell’ex Unione Sovietica e dopo il crollo del Muro di Berlino con la nascita della Federazione russa è stato insignito di altre prestigiose onorificenze militari, quale l’ordine del coraggio.

La disamina del militare esperto di intelligence è semplicemente disarmante.

L’intervista integrale del colonnello Kvachkov

Il coronavirus non avrebbe in alcun modo le caratteristiche di una vera pandemia globale nè quella di una epidemia mortale, ma sarebbe in realtà una operazione su scala mondiale scatenata dalle élite globaliste per arrivare al raggiungimento finale dei loro obbiettivi.

Il colonnello non gira intorno alla questione e spiega subito la vera natura del coronavirus.

“Il fenomeno coronavirus che viene falsamente definito una pandemia ha bisogno di essere esaminato dalla prospettiva dei poteri globali. E’ un fenomeno religioso, politico, finanziario, economico e nazionale. Permettemi di dire che non c’è nessuna pandemia, è una menzogna, va considerata come una operazione strategica globale. E’ esattamente questo il modo in cui va pensata questa operazione. Questi è un’esercitazione di comando e personale dei poteri mondiali che sono dietro le quinte, per controllare l’umanità.”

L’umanità quindi non sarebbe in alcun modo di fronte ad un fenomeno di natura sanitario, ma piuttosto ad una vera e propria operazione terroristica per ridisegnare completamente la nuova mappa geopolitica del mondo.

Il pianeta sostanzialmente, nel decennio che è appena iniziato, andrà incontro ad una radicale trasformazione e il coronavirus sarà il mezzo attraverso il quale le grandi élite globali che governano il mondo da dietro le quinte, per utilizzare una definizione ricorrente di Kvachkov, riusciranno a perseguire i loro obbiettivi.

Il primo importante fine delle grandi élite è quello della riduzione della popolazione mondiale.

“E’ questo l’obbiettivo del coronavirus. Lo ripeterò ancora una volta, abbiamo poca fede in Dio e ancora meno nell’esistenza di Satana, il nemico della razza umana. L’obbiettivo delle forze sioniste e finanziarie mondiali dietro le quinte è la riduzione della popolazione mondiale. È la loro idea fissa, pensano che ci siano troppe persone nel mondo”

Come si vede, l’esperto di intelligence russo introduce anche un elemento di carattere escatologico nella sua analisi. La matrice ideologica che sosterrebbe le grandi élite internazionali sarebbe strettamente legata alla religione satanica, in antitesi ed acerrima nemica del cristianesimo.

Il mondo dopo il coronavirus

Il misterioso virus di Wuhan sarebbe il mezzo ideale per creare una sortà di società a due livelli, nella quale la classe media sostanzialmente uscirebbe di scena.

Nel mondo post-covid, la piramide del potere infatti sarebbe composta da una élite che dispone di illimitati mezzi economici e finanziari, sotto la quale si trova una moltitudine di persone povere che farebbero fatica a ricevere i basilari mezzi per il sostentamento quotidiano.

La globalizzazione quindi accelererebbe verso la sua ultima fase terminale per ampliare ancora di più le differenze socio-economiche a favore del vertice della piramide, ma non prima di aver ridotto consistentemente il numero di persone presenti sul pianeta, passaggio fondamentale per erigere il nuovo ordine globalista.

“Dovrebbero esserci 100 milioni appartenenti alle élite, e un miliardo massimo di persone sulla Terra per servirli. Allora si vivrebbe di abbondanza sulla Terra. Perchè noi, il popolo, siamo troppi per i poteri mondiali dietro le quinte. Ecco perchè il coronavirus e la crisi finanziaria è emersa quasi immediatamente dopo sono legate indistricabilmente le une alle altre.”

Il depopolamento non sarebbe infatti dovuto alla portata letale del coronavirus. Se si guarda infatti al conteggio ufficiale dei morti da coronavirus, anche considerando tutte le persone morte con altre gravi patologie, la percentuale in rapporto alla popolazione mondiale è solamente pari allo 0,0002%.

Il vero fattore che porterebbe ad un abbattimento del numero di persone nel mondo verrebbe invece dagli effetti devastanti sull’economia globale che la quarantena forzata sta provocando.

Nel solo caso dell’Italia, si pensi che la perdita di PIL sarebbe pari a -15% solamente nel primo semestre. Si tratta di una recessione senza precedenti nella storia del Paese.

In questa nuova società quindi il welfare economico dell’Occidente sparirebbe definitivamente e si andrebbe incontro ad un processo di grecizzazione economica generalizzata.

Kvachkov si sofferma anche a considerare la nuova condizione dell’ordine globalista. I cittadini non sarebbero più tali, non avrebbero in altre parole quei diritti politici che sono stati abituati a considerare imprescindibili nel corso della loro esistenza.

Le masse sarebbero rimesse ai diktat e alle angherie delle grandi élite internazionali, ed è esattamente quanto si vede accadere in Italia in questo momento.

Si assiste infatti alla fine dello Stato di diritto per come lo si conosceva e al tramonto dei diritti costituzionali fondamentali, sostituiti da ordini amministrativi in aperta violazione della carta costituzionale.

Il coronavirus è l’11 settembre globale del mondo

L’ex membro delle Spetsnaz ricorda che questo non è stato il primo tentativo per arrivare a questo obbiettivo e cita a questo proposito l’11 settembre.

“Il primo tentativo di portare via quei diritti al popolo è avvenuto l’11 settembre 2001. Non molti sembrano ricordarlo che dopo il cosiddetto attacco contro le Torri gemelle, il Pentagono e la Casa Bianca, negli USA è stata dichiarata la guerra mondiale al terrorismo. I poteri mondiali che sono dietro le quinte hanno creato gli eventi dell’11 settembre. Adesso hanno bisogno di un’altra scusa per avere un controllo maggiore sull’umanità. Ecco perchè sono venuti fuori con il coronavirus.”

Se l’11 settembre è stato certamente il fattore scatenante tale da poter giustificare tutte le guerre degli Stati Uniti in Medio Oriente, il coronavirus in questo caso assumerebbe la stessa funzione a livello mondiale per poter erigere la società che hanno in mente le élite globaliste.

Allora come oggi, i grandi poteri transnazionali avrebbero avuto un ruolo decisivo nella creazione di questi eventi, senza i quali sarebbe stato praticamente impossibile arrivare al passaggio successivo.

A questo proposito, si ricordi un importante documento firmato dai neocon americani, dal titolo “Progetto per un nuovo secolo americano”.

In questo manifesto del 1997, si parla esplicitamente della necessità di avere un “evento catalizzante catastrofico come una nuova Pearl Harbor” per poter giustificare le guerre del deep state di Washington in Medio Oriente.

4 anni dopo, diversi firmatari di quel documento, tra i quali Dick Cheney e Donald Rumsfeld, facevano il loro ingresso nella Casa Bianca e un evento catastrofico aveva effettivamente luogo, ovvero l’11 settembre.

Ora per Kvachkov il coronavirus avrebbe la stessa funzione, ma su una scala di proporzioni ancora più vasta.

“Riceviamo informazioni speciali di propaganda politica, una sorta di psico-propaganda informativa. Si tratta di un’operazione psico-informativa speciale delle potenze mediatiche globaliste internazionali che sono al soldo dei poteri liberali sionisti che stanno creando questo terrore. Adesso stanno osservando chi obbedisce e chi no.”

I media quindi in quest’ottica avrebbero avuto la funzione di sommergere la popolazione con messaggi terroristici senza dare spazio ad un serio contradditorio scientifico sulla effettiva pericolosità del Covid.

Questa sarebbe solo la fase preliminare nella quale si verifica chi è disposto a sottomettersi al regime globalista e chi no.

Per il colonnello, il prossimo obbiettivo sarebbe proprio la Russia, il Paese più disallineato alle grandi forze globaliste dove nel quale la crisi da coronavirus non avrebbe infatti avuto lo stesso impatto che sta avendo in Occidente.

Si può essere in disaccordo con l’analisi dell’esperto militare russo, ma molti elementi portati alla luce dall’ex membro del GRU, coincidono perfettamente con quanto sta accadendo.

Il coronavirus si sta rivelando il mezzo ideale per ridisegnare completamente i rapporti di forza della società occidentale per come la si conosceva.

Un mondo che assomiglia terribilmente a quanto descritto nel rapporto del 2010 pubblicato dalla famiglia Rockefeller, nel quale la pandemia è annunciata con largo anticipo e porta esattamente al tipo di sistema politico di cui parla il colonnello.

L’ultimo passo è la costruzione di un governo unico mondiale nel quale i cittadini sono spogliati dei loro diritti e ridotti al rango di sudditi.

Un sistema distopico folle che riflette una versione perversa e anticristiana dell’umanità. Un sistema che purtroppo sembra terribilmente vicino alla sua realizzazione definitiva.

Fonte: https://www.detoxed.info/ex-colonnello-russo-la-falsa-pandemia-e-unoperazione-speciale-dei-poteri-mondiali-per-ridurre-la-popolazione/

FONTE: https://lacrunadellago.net/2020/04/27/il-colonnello-kvachkov-ex-dei-servizi-segreti-militari-russicoronavirus-operazione-terroristica-per-controllare-la-popolazione-mondiale/

 

Coronavirus, l’accusa di Paolo Becchi: “500 morti al giorno? Dati fasulli, ecco come gonfiano il numero di decessi”

Paolo Becchi, Giovanni Zibordi 

I 400 a 500 morti Covid al giorno che tutti pensano siano dei morti in più del normale, sono fasulli. Sono usciti i dati settimanali di mortalità totale (per tutte le cause) rilevati dall’Osservatorio Europeo (EuroMoMo://euromomo.eu/graphs-and-maps) e l’indice per l’Italia è il più basso mai registrato in questo periodo dell’anno, anche rispetto agli anni come il 2019 o 2018, quindi anni pre-Covid. In altre parole, il numero di morti totali, per tutte le cause e non solo per Covid, è ritornato nella media (anzi leggermente più basso del normale per questo periodo dell’anno). Si muore nel complesso di meno da almeno due mesi. Non c’è più nessuna emergenza. Entriamo nel merito dei dati. L’Osservatorio Europeo fornisce il totale dei decessi settimanali per l’intera Europa, mentre peri singoli paesi fornisce una stima, indicando una deviazione statistica dalla media storica. Per l’Italia Istat ha fornito all’Osservatorio europeo il numero totale di morti solo fino al 31 gennaio. I decessi totali del mese di gennaio 2021 sono 70,538, contro una media degli anni 2015-2019 di 68,324. Si tratta dunque di circa 2 mila decessi in più. I morti Covid di gennaio del Bollettino giornaliero sono però riportati come 12,527. Se si sottrae questo numero dai morti totali si ottiene 58,011 morti “non Covid”. Dato che i morti totali del periodo precedente al Covid nella media indicata erano 68,324 se ne deve implicitamente concludere che ci sarebbe stato un calo di circa 10mila morti per altre patologie rispetto alla media degli anni 2015-2019.

Poco realistico

Riassumiamo. Nel mese di gennaio c’è stato un aumento di mortalità totale di circa 2mila decessi rispetto agli anni “pre-Covid”, ma dato che i “morti Covid” del Bollettino giornaliero sono indicati a 12mila ci sarebbe stato un calo di circa 10milamorti per tumori, cuore e ogni altra patologia. Insomma, si muore tanto di Covid e molto poco di altre malattie. È realistico? Arriviamo ora al mese di marzo, per il quale Istat non fornisce i morti totali, ma solo quelli Covid stimati a oltre 12mila (una media di circa 400 al giorno). L’Osservatorio Europeo per l’Italia calcola l’indice di mortalità a -0,4, sotto la media e per questo periodo dell’anno non è mai successo che scendesse sotto lo 0. Si vede nel grafico una linea rossa che è il valore atteso medio della mortalità sulla base dei dati degli ultimi anni e poi l’andamento settimanale di ogni anno in blu. Da sottolineare: il valore medio della mortalità tipica della settimana è calcolato non solo sulla base del 2020 che è stato un anno ovviamente anomalo in marzo, ma sulla base degli ultimi anni che vengono estrapolati, come risulta dal grafico riportato. In altre parole -lo ripetiamo -il confronto non è tra il 2021 e il 2020, ma tra il 2021 e un estrapolazione statistica della mortalità tipica di marzo in Italia basata su tutti gli anni passati e il loro trend medio. Il dato italiano dell’indice di mortalità risulta oggi nella media stagionale tipica del mese di marzo, anzi un po’ sotto, a differenza ad esempio di novembre e dicembre e di marzo e aprile 2020. Di conseguenza è impossibile che ci siano 400 morti Covid al giorno, che sarebbero almeno 12mila morti Covid in un mese. Se fosse vero, allora per motivi misteriosi i morti di cuore, tumori e altre patologie sarebbero calati di circa 10mila in gennaio e di un numero proporzionalmente anche maggiore a marzo. Le autorità stanno giocando coni dati. Se si vuole insistere a riportare 400morti a causa della Covid- 19 al giorno, bisognerebbe allora spiegare perché ci siano 400 morti in meno per cuore, tumori, infezioni e così via. I dati dei morti Covid sono evidentemente gonfiati. Come fanno a gonfiarli? Tanti scienziati – non quelli pagati per andare in tv – hanno fatto notare che i tamponi sono tarati per rilevare anche tracce di altri virus o virus morti e non indicano affatto una persona malata e nemmeno contagiosa. In Italia sono tarati a 40 cicli e sopra 30 cicli i tamponi non sono affidabili, ma si fa finta di niente e si continua così, per avere questa alta mortalità Covid.

Il ruolo dell’Oms

Bisogna avere il coraggio di dirlo. I dati dei 400 morti Covid al giorno sono falsi. Se il totale dei morti è lo stesso della media degli altri anni da già due mesi, non ci possono essere migliaia di morti Covid in eccesso rispetto ai decessi per altre cause. Si gioca su questi tamponi per creare la falsa immagine di una epidemia sempre più pericolosa,quando ormai è evidente che il virus è diventato endemico e l’OMS aspetta solo la realizzazione della campagna vaccinale in Europa – che purtroppo a causa della guerra commerciale sui vaccini prosegue con lentezza – per dichiarare la fine della pandemia. Nel mondo il virus in media ha causato un decesso ogni 3 mila persone all’anno. Nei paesi occidentali in media un decesso ogni 1,000 persone all’anno. E in media si tratta di ottantenni e in maggioranza malati, persone con uno o due anni di aspettativa di vita (in media). Queste sono le medie. Si tratta quindi di un fenomeno statisticamente e socialmente poco rilevante, tanto è vero che 4 miliardi di persone in Asia vivono normalmente e in America stanno riaprendo tutto. È evidente che se in Italia i morti sono stati di più si tratta soprattutto di un problema riguardante politiche sanitarie adottate che sono state inadeguate. Prima o poi, per i morti di Bergamo con le cremazioni forzate per evitare le autopsie dei cadaveri e nascondere quello che è successo, qualcuno dovrà pagare. Speriamo che qualche magistrato non si faccia intimorire. Come che sia adesso però i morti totali sono nella norma, non ci sono morti in più. I dati dei morti Covid attuali sono quindi falsi. Non si può continuare con questa finzione di classificare chiunque venga rilevato da un tampone positivo come morto Covid. Altrimenti bisogna togliere dalle statistiche altrettanti morti di cuore o tumore o insufficienza renale e così via. Se il governo pubblicasse tutti i giorni i numeri dei decessi non solo per Covid ma anche per altre malattie tutti se ne accorgerebbero. Invece si continua con la farsa di fingere che ci sia una emergenza di morti in più quando invece gli stessi dati ufficiali lo smentiscono. Stiamo distruggendo la vita dei giovani, degli adulti che lavorano, stiamo creando depressione e disoccupazione e disuguaglianze sociali terribili, stiamo facendo crollare la natalità di altre 50 mila nascite, tutto sulla base di dati artefatti. Non è molto chiaro perché lo facciamo. Il precedente governo era costruito sull’emergenza sanitaria,facendo molti morti e distruggendo l’economia, il nuovo governo ha ancora bisogno di questa narrazione?

FONTE: https://www.liberoquotidiano.it/news/commenti-e-opinioni/26689460/coronavirus-accusa-paolo-becchi-500-morti-giorno-dati-fasulli-come-gonfiano-numero-decessi.html

Klaus Schawb e Thierry Malleret, “Covid 19: The great reset”

di Alessandro Visalli – 21 03 2021

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Il prof Schwab è un ingegnere che ha anche un dottorato in economia alla famosa Università di Friburgo, in pratica la patria dell’ordoliberalesimo, con un master in Public Administration ad Harvard, fondatore del Word Economic Forum[1] ed autore di un libro di grande successo come “The Fourth Industrial Revolution” nel 2016. Si tratta, insomma, di una persona con un curriculum accademico indiscutibile, apprezzabilmente interdisciplinare, e di certissima derivazione ideologica-culturale. Uno dei papi del capitalismo contemporaneo, insomma.

Thierri Malleret è più giovane, sulle sue spalle sarà caduta la redazione di gran parte del libro. Si occupa di analisi predittiva (una remunerante specializzazione) e di Global Risk al Forum. Educato alla Sorbona in scienze sociali e specializzato ad Oxford in storia dell’economia (master) ed economia (dottorato). Si è mosso tra banche d’affari, think thank, impegni accademici e servizio presso il primo ministro francese.

Questo libro fa parte di una proliferante letteratura. Un tipo di letteratura divulgativa ed esortativa, molto generica e contemporaneamente molto larga nella visione, fatta per tradursi in presentazioni da convegno attraenti e stimolanti, dirette ad un pubblico di manager e imprenditori che hanno bisogno di sentirsi consapevoli, aggiornati e progressisti con poco sforzo. Una lettura da weekend sul bordo della piscina.

Una letteratura quindi di medio successo[2], diretta ad una élite mondiale ma anche a quel vasto mondo che aspira diventarlo. Ed una letteratura che ha diversi versanti, quello più aziendalista e quello più statalista, più liberal e più conservative, più basato sull’economia e più sulle scienze sociali e politiche. Un esempio di impostazione statalista, liberal e fondata sull’economico è quella di Mariana Mazzucato in testi come “Il valore di tutto[3] (2018), o “Mission economy[4] (2021). In questi due testi, di cui il primo costituisce la base teorica del secondo, l’economista inglese cerca di rimettere in questione la pretesa dell’economia finanziarizzata (e concentrata sul “shareholders value”) di contribuire allo sviluppo sociale in favore di una economia che metta insieme settore pubblico e privato intorno a “missioni” e sia concentrata sull’effettiva creazione di valore per tutti gli “Stakeholders”. Nella stessa direzione, ma con uno scopo più limitato, va il libro di Stephanie Kelton “Il mito del deficit[5], che si sforza di affermare il punto di vista della Teoria Monetaria Moderna (MMT) e per questa via una “economia per il popolo” che riesca a superare i miti dei limiti alla spesa pubblica e del debito. Invece della politica monetaria la funzione della stabilizzazione macroeconomica è affidata, in questa prospettiva, alla spesa discrezionale per ottenere una economia migliore per tutti. La proposta di maggiore sostanza è di inserire una “funzione di guida automatica” attraverso una regola anticongiunturale di assunzione in pubblici servizi altamente decentralizzati e scelti dalle comunità.

Uno sguardo più concentrato sull’evoluzione delle tecniche, e rivolto a soluzioni meno radicali, se pure in direzione di maggiore regolazione (in particolare della Gig Economy) e protezione dell’occupazione e dei prevedibilmente tanti nuovi disoccupati, è presente nel libro di Richard Baldwin “Rivoluzione globotica[6] del 2019.

Sguardi attenti all’economico, ma con una prospettiva piuttosto ampia e socialmente densa, sono quelli degli ultimi libri di Paul Collier “Il futuro del capitalismo[7] (2018), e di Raghuram Rajan “Il terzo pilastro[8] (2019), oppure, da una prospettiva più liberal, di Thomas Piketty “Capitale e ideologia[9] (2020). Collier identifica “nuove ansie”, in modo non dissimile da tutti gli altri, e cerca di trovare soluzioni in una nuova etica da rifondare nel sistema economico e sociale. In modo non dissimile da Rajan e Fukuyama, l’autore riafferma la necessità di coesione e identità sociale ma ricerca un modo di riaverla compatibile con le condizioni di frammentazione e pluralismo della modernità. Paradossalmente la risposta non è né nella aerea identità mondiale (che si muterebbe in dispotismo) né nella obsoleta identità statale, ma in quella dei “luoghi”. Intorno a questo concetto si può anche ricostruire un’etica di impresa nel rapporto con il territorio e la creazione di una società inclusiva che rimetta sotto controllo i tre “divari” essenziali: di classe, geografico e globale. Anche l’ex banchiere centrale indiano ed ex professore di finanza alla Booth School of Economics di Chicago, Rajan, sostiene la necessità di ritrovare una via di mezzo (un “terzo pilastro”) tra Stato e mercati ed inquadra in un vasto discorso storico il diesquilibrio provocato dalla svolta neoliberale che porta all’affermazione del populismo. Senza dimenticare di allargare a Cina e India il suo sguardo torna a proporre quindi un “localismo inclusivo” che attribuisca potere alle comunità e le protegga con una “rete di sicurezza”. Le comunità da rivitalizzare dovranno essere basate sulla prossimità (come per Collier) e sia sul sostegno dello Stato come essere dotate di una sovranità responsabile non indifferente alle responsabilità internazionali. Anche qui per le imprese si tratta di passare dalla massimizzazione del profitto a quella del valore. Thomas Piketty, con la sua consueta generosità espositiva, ricostruisce a largo raggio i “regimi della disuguaglianza” nella storia dell’umanità fino a giungere a quella che chiama “la società dei proprietari” (anche detta “capitalismo”). Da questa nella fucina del XX secolo è emersa sia la soluzione socialdemocratica sia, in seguito, l’“ipercapitalismo”. Il testo, enormemente lungo e prolisso, si limita in ultima analisi a rilanciare il progetto federale europeo in senso sociale affinché si sottragga a quella che chiama la “trappola social-nativista”, e ad avviare il superamento del capitalismo attraverso gli istituti della “proprietà provvisoria” (per via fiscale) e della deliberazione aziendale.

Quindi si possono leggere, in una prospettiva più ampia e sensibile agli assetti geopolitici in mutamento, i nuovi libri di Branko Milanovic “Capitalismo contro capitalismo[10] (2019) e di Francis Fukuyama “Identità[11] (2018). Milanovic distingue le forme idealtipiche del “capitalismo liberal-meritocratico” e del “capitalismo politico”. Il primo liberale ed occidentale, il secondo orientale e illiberale (ovvero “comunista”). Nella prefazione la crisi post-Covid è identificata come causa di tre principali effetti: la recrudescenza dello scontro tra Usa e Cina (ovvero tra due “capitalismi” nella sua classificazione); la riduzione delle supply chain mondiali e quindi della ipermondializzazione; la rivalutazione del ruolo dello Stato nella vita economica. Da ultimo, Fukuyama, in un libro concentrato sul problema della crescita dei populisti, evidenzia il bisogno di thymos, riconoscimento, dignità, identità, dai quali non ci si può sottrarre.

L’impostazione che danno gli autori di “Covid-19 The Grand Reset” è compatibile con buona parte di questa letteratura, e non di rado la cita in alcuni passaggi chiave. Come la Mazzucato propongono di passare dalla cattura del valore per gli azionisti alla creazione per gli “Stakeholders”, come la Kelton superano l’ossessione per il deficit pubblico e la paura dell’inflazione, come Baldwin descrivono gli effetti della transizione tecnologica e la percepiscono anche come una minaccia davanti alla quale occorre far fronte con più protezione, con Collier e Rajan hanno in comune l’attenzione al territorio ed ai luoghi, come alle identità. Temono come Milanovic il protagonismo della Cina e la crescita dei populismi come Fukuyama.

Tuttavia, la soluzione che propongono è molto meno centrata sul protagonismo statuale rispetto alla Mazzuccato ed alla Kelton (con riferimento al piano di occupazione), è meno localista di Collier e Rajan e su questo molto più in sintonia con Piketty. Si tratta di una soluzione integralmente elitista e fondata sul protagonismo delle grandi aziende globali, alle quali chiedono un deciso cambio di prospettiva e quindi di farsi carico della responsabilità sociale verso le comunità, e dei relativi oneri. Si tratta, in un certo senso e sul piano retorico, di una svolta effettiva: la ripresa della generazione dei beni pubblici intenzionalmente guidata e della conseguente pianificazione. Ma guidata, e qui c’è tutta la differenza possibile, dai grandi attori di mercato. Ovvero, in altri termini, pensata per garantirne la centralità anche dopo il neoliberismo come lo abbiamo conosciuto.

Bisogna essere attenti, il capitalismo avrà anche un suo “spirito”, ma è capace di adattarsi a sempre nuovi ambienti, plurale e decentrato, metamorfico. Lontano dall’essere derivato e diretto dalla tecnica e dall’economico il sistema di regolazione è sempre essenzialmente fondato su una egemonia[12] e questa porta in esistenza delle distribuzioni e delle soggettività, nuove istituzioni, opportunità. La letteratura citata dunque cerca consapevolmente di rigenerare il capitalismo affinché all’ordine segua l’ordine, ed alla centralità dei soggetti creati dal sistema di regolazione neoliberale segua quella dei medesimi (al contempo cambiati). Se la crisi del modo di regolazione ‘fordista’, al calare del millennio, estremizzò e al tempo pervertì gli elementi di questo[13], allargandoli su scala mondiale attraverso una potente dinamica di integrazione subalterna (ponendo al centro nuovi assetti tecnologici e la creazione dell’ordine nel quale viviamo), qui si tratta di ripetere l’operazione. Estremizzare e pervertire, per superare/confermare l’ordine sociale esistente e saltare nel prossimo.

Nel post “Il Proconsole imperiale”[14] avevo compiuto il breve divertissement di ricordare l’inno all’ordo renascendi di Rutilio Namaziano[15], scritto nel 417 d.c. In esso il senatore di origine romano-gallica esprime lo sforzo terminale di una illustre ed antica cultura politico-istituzionale di elaborare le strategie necessarie perché i privilegi e le prerogative siano salvate dal disfacimento. Per rilegittimarsi al governo, ricorda Rutilio ai suoi pari, bisogna esercitare una frenata potestas, una moderazione, e risuscitare in tal modo l’entusiasmo ed il consenso popolare intorno a sé, ovvero intorno alla virtus, al meritum, ai boni. Con il suo poemetto, in altre parole, cerca di richiamare tutti i membri dell’ordine, i vecchi come i nuovi, i vari lignaggi, ad una coscienza comune. Quella di essere, alla fine, la pars melior humani generis. L’unica che può indicare, in mezzo alle rovine di un mondo che finisce, la “legge della rinascita”. Ovvero il principio del risorgere dalle proprie stesse rovine.

Come sappiamo non funzionerà. Dopo sessanta anni, l’ultimo imperatore d’occidente sarà deposto.

In “Covid-19: the great reset[16], i due autori tentano qualcosa che assomiglia al tentativo della casta senatoria nel tardo Impero Romano. Con la stessa buona fede e protervia propongono di essere incaricati dalla società, in quanto clarissimi e boni, di risolvere i problemi che essi stessi hanno provocato. Un tentativo condotto nella stessa linea del libro successivo, “Stakeholder Capitalism”, con Peter Vanham, in uscita in questi giorni[17]. E, peraltro sulla traccia dei suoi libri precedenti[18] ed in linea con il “Manifesto di Davos[19].

L’operazione ideologica che è tentata in questi testi è di enorme ambizione, non va sottovalutata. Si tratta di raccogliere la sfida posta dall’evidente, e non nascosto, fallimento dell’economia neoliberale, eccessivamente concentrata sul breve termine, sull’arricchimento come rapina invece che come giusto effetto della creazione di valore, sull’esaltazione delle parti peggiori dell’uomo, sulla distruzione della natura entro e fuori di esso, per rovesciarlo in un successo dei medesimi attori. Una vera e propria rifondazione ideologica dall’alto che è espressamente proposta dalle élite per le élite di fronte al baratro del conflitto, della perdita di egemonia e di controllo del mondo e, forse, della rivoluzione (come arriva a dire, cercando di stimolare il senso di sopravvivenza del capitalismo). Si tratta di un tentativo di riaggregazione di classe, anche oltre e sopra le differenze e le fratture geopolitiche in via di allargamento. Una riaggregazione necessaria e decisiva per ricandidarsi alla gestione da una posizione più salda.

Ci vuole una straordinaria dose di pazienza per ascoltarli, ma ci proveremo.

Il libro è strutturato in alcuni “Macro reset” e “Micro reset”.

I “Macro Reset”, ovvero la risistemazione (che è contemporaneamente un azzeramento, ed una rimessa a posto) sono insieme economici, sociali, geopolitici, ambientali e tecnologici. Al contempo i “Micro Reset” riguardano alcune tendenze come l’accelerazione della digitalizzazione, la maggiore resilienza delle catene logistiche mondiali, le modifiche nel governo e un nuovo capitalismo orientato agli interessi (“Stakeholders capitalism”). Ma riguardano anche una rimessa a posto del sistema produttivo nel suo insieme, con un drastico processo di de-densificazione e cambiamenti importanti nell’ambiente. Infine, per gli autori ci sarà un cambiamento antropologico, niente di meno che la “ridefinizione dell’umanità”, e delle scelte morali. Cosa che porrà in questione le definizioni della sanità mentale e del benessere stesso. In definitiva saranno da cambiare interamente le nostre priorità.

Occorre fare due precisazioni prima di procedere con la lettura: in primo luogo tutta la ricostruzione è fondata sulla teoria della complessità, organicamente contraria alla ricerca di nessi e meccanismi causali gerarchicamente ordinati (di una spiegazione comprensiva). L’effetto è di una sorta di affastellarsi orizzontale di quadri interpretativi e di fenomeni. Dichiaratamente interdipendenti, e soggetti al primato della velocità. Chi volesse cercare l’esplicazione di una qualche legge di sviluppo, o di una teleologia resterebbe quindi deluso.

La seconda precisazione, necessaria per non leggere in modo sbagliato le previsioni contenute nel libro, è che sono, appunto, previsioni, non prescrizioni. Molte delle conseguenze più gravi e distruttive dell’evento pandemico sono semplicemente descritte, gli autori non necessariamente le giudicano positive o le desiderano. In effetti non si impegnano a farci comprendere fino a che punto le giudichino in ultima analisi positive (anche se in alcuni casi si può supporre sia così, perché ogni descrizione è sempre almeno in parte normativa), perché il loro punto è strettamente un altro: che fare?

Tenendo conto di ciò la crisi del Covid-19 è essenzialmente interpretata come un potentissimo acceleratore di dinamiche disparate, se pure intrecciate. Se si parte dalla risistemazione tecnologica l’enfasi passa sull’accelerazione delle trasformazioni digitali ed i cambiamenti nei consumi e nella regolazione. Invece, se si muove dall’azzeramento (certo creativo) economico il Covid-19 introduce elementi di incertezza (tra i quali la scelta tra salvare le vite e l’economia) nel nesso tra crescita economica e occupazione, politiche monetarie e fiscali, alternativa tra deflazione ed inflazione, destino del dollaro americano. Dalla risistemazione sociale si muove dall’attuale ineguaglianza verso un nuovo contratto sociale e la ripresa del “big goverment”. Sul piano geopolitico si tratta di muoversi nella crescita della rivalità tra Usa e Cina, oltre che la tendenza ad una nuova regionalizzazione. E per l’ambiente affrontare i rischi pandemici e dell’inquinamento, mettendo insieme per l’avvenire le politiche ambientali e quelle pandemiche.

Questa è la mappa del libro.

Insomma, in poco meno di 300 pagine il testo cerca di dare una sintetica immagine del mondo e del suo destino, alla portata di un weekend di un manager o politico medio. Si parte dalla qualifica di crisi senza paralleli[20] nella storia moderna attribuita alla dinamica mondiale attivata dal coronavirus, e dalla chiara enunciazione, fatta a giugno 2020, del fatto che la pandemia è intervenuta ad accelerare linee di faglia, fallimenti di cooperazione, che non torneranno mai più al loro posto. Il mondo di domani sarà quindi necessariamente e completamente diverso dal mondo di ieri. Avremo due ere, “prima del coronavirus” (BC) e “dopo il coronavirus” (AC). Quindi “The Great reset” è, con le parole degli autori, “un tentativo di identificare i cambiamenti futuri e di apportare un modesto contributo a delineare ciò che potrebbe assomigliare alla forma più desiderabile e sostenibile di questi”[21].

La proposta degli autori è di mettere a fuoco un framework concettuale semplificato che aiuti a riflettere in questa situazione di estrema tensione e disordine per creare senso in essa (“making sens of it”). L’obiettivo è dunque esplicitamente politico.

I cambiamenti sistemici che propongono di considerare drasticamente accelerati dalla crisi pandemica sono i seguenti, e tutti già in corso:

– La ritirata parziale dalla globalizzazione,

– La crescente separazione tra le economie di Usa e Cina,

– L’accelerazione dell’automazione,

– Le preoccupazioni per la crescente sorveglianza,

– Il nazionalismo e la paura per l’immigrazione,

– Il crescente potere della tecnologia.

Il punto è che queste accelerazioni potrebbero rendere possibili cose prima inconcepibili, come forme di politica monetaria (helicopter money e MMT), il cambiamento delle priorità sociali, radicali forme di tassazione e di welfare, drastici riallineamenti geopolitici. Potrebbero, anzi dovrebbero. Se non lo faranno si andrà incontro ad una fase di torbidi, di conflitti, forse di guerre e di rivoluzioni.

Vediamo meglio, però, la dimensione Macro della ‘risistemazione’.

Per cominciale viene esplicitato il framework ideologico: il mondo del XXI secolo è segnato essenzialmente dalla “interdipendenza”; prodotta dalla globalizzazione e dal progresso tecnologico essa viene definita testualmente come “reciproca dipendenza”, anzi, per essere proprio precisi, come una “dynamic of reciprocal dependence among the elements that compose a system”[22]. Dunque, il mondo è orizzontale, concettualmente attraversato da dipendenze, che, però, mettono tutti sullo stesso piano. Un “sistema” nel quale le parti non possono fare le une a meno delle altre. Quindi “iperconnesso”, “concatenato”. Insomma, nel quale sono “tutti nella stessa barca”.

Potrebbe sembrare ovvio e non problematico (se si sceglie di non far caso a che si tratta di una nave per la tratta degli schiavi, e la maggioranza dei passeggeri sono in catene).

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È chiaro che se si segue pacificamente l’immagine della “stessa barca” e dei felici passeggeri di 193 “cabine separate”, allora i rischi diventano tutti interconnessi, sistemici, orizzontali, interdipendenti.

È in questa specifica mossa, posta all’avvio del libro e inavvertita quasi, che si radica l’invito di affidamento all’ordine capitalista, ed ai suoi migliori campioni, le grandi imprese raccolte a Davos (ed altrove). Come proponeva Quinto Aurelio Simmaco, ideologo nella stessa linea di Rutilio Namaziano e negli stessi anni, mentre l’impero si apprestava a cadere ed era pieno di ‘barbari’, i nobili clarissimi, membri dell’Ordo, erano “la luce del mondo” e per questo autorizzati a gestire il governo degli altri uomini. Non era dal potere politico (in quel caso imperiale, nel nostro nazionale) che derivava la virtus, ma dall’investitura dei pari e dalla tradizione stessa. Ma, qui l’astuzia della costruzione ideologica: non si tratta di avere solo il diritto a governare (come vuole in fondo il neoliberismo rozzo nel quale siamo stati fino ad ora) ma anche il dovere. L’intero discorso di Schwab si muove su questa antica traccia: la virtus è un dono che non può restare infruttuoso. Nessun disimpegno è ammesso, c’è una identità profonda tra il bene collettivo e la responsabilità e capacità del sistema delle grandi imprese di conseguirlo. Lo “Stakeholders capitalism”, appunto. Saranno loro, direttamente, a doversi fare carico dei beni pubblici da distribuire, dei giochi da organizzare, della coesione, del controllo, e della pace.

Dicevamo che siamo su una nave negriera che, purtuttavia, viene descritta dai nostri come se fosse un transatlantico nel quale (è vero) ci sono cabine di prima e seconda classe, e talvolta dei disordini, ma anche una salda guida che deve solo riconoscersi come tale per far andare tutto al suo posto. Riconoscersi come guida significa, necessariamente, accoglierne la responsabilità. Ciò è tutto.

O meglio lo sarebbe, se non fosse che in questo modo della situazione nel quale il mondo è si perde l’essenza: si perdono le catene da rompere.

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In fondo tutto dipende da pochi slittamenti di senso, da alcuni incroci nei quali si forma la coesione di senso del nuovo paradigma.

Uno di questi è che la dipendenza[23] di tanta parte del mondo da poca altra, e dei molti dai pochi, è riletta dagli autori come “interdipendenza”. A tal fine viene fatto uso del cosiddetto pensiero della complessità. Per Schwab ed il suo coautore il primo fattore di analisi è dunque prendere atto che la “interdipendenza” orizzontale invalida il pensiero a “silo”, capace solo di dividere i singoli problemi in compartimenti specialistici. Nell’esempio che fa il libro, i disastri infettivi hanno effetti diretti sui “fallimenti della governance globale”, sull’instabilità sociale, la disoccupazione, le crisi fiscali e le migrazioni involontarie. E ognuna di queste aree di crisi ne influenza altre nelle dimensioni economiche, societarie, geopolitiche, ambientali e tecnologiche.

Il secondo fattore caratterizzante è la “velocità”. La cui prima espressione è il 52% della popolazione mondiale oggi collegata ad internet, il miliardo e mezzo di smartphone, i 22 miliardi di device connessi con la Iot. Tutto, perciò, si muove più velocemente, incluse le infezioni, e come risultato tutti operiamo ormai in una “real-time society”, in una nuova cultura dell’immediatezza, ossessionata dalla velocità, che apparentemente fornisce tutto just-in-time. Una vera e propria dittatura dell’urgenza. Che (anche qui fa capolino l’ideologia) rende ancora più evidente lo scollamento con la lentezza della decisionalità pubblica. Secondo decisivo slittamento e cerniera.

Il terzo è la “complessità”. Ovvero “ciò che non capiamo o troviamo difficile capire”, ovvero (come voleva Simon), “un insieme fatto di un gran numero di parti in interazione in modo non semplice”. Parti nelle quali non ci sono collegamenti causali visibili tra gli elementi, e che sono quindi virtualmente impossibili da predire. Un esempio è ovviamente la pandemia stessa, che è un sistema adattivo complesso composto di molte differenti componenti o frammenti di informazione (in campi che vanno dalla biologia alla psicologia). Un sistema dunque difficilissimo da prevedere e nel quale ogni parte si interconnette con tutte le altre secondo una logica ricorsiva e quindi oscura. Un sistema molto più grande della somma delle sue parti. Dunque, il punto fondamentale è che “la complessità crea limiti alla nostra conoscenza e comprensione delle cose” fino a che potrebbe soverchiare la capacità dei decision maker di prendere decisioni ben informate. È per questo che, in profonda continuità con l’ispirazione più profonda della ideologia neoliberale, la soluzione dei problemi non è la ripresa del potere statuale, della democrazia popolare, o del primato delle leggi sugli interessi individuali, ma lo “Stakeholders capitalism”. Ovvero è la rinnovata centralità, ma nella responsabilità, dell’ordine delle imprese (grandi), rilette come primarie fornitrici di beni pubblici. Beni pubblici che queste possono creare e distribuire in fondo proprio perché decentrate, complesse, informate (ognuna dei suoi specifici stakeholders).

Abbiamo quindi una lettura della situazione informata all’obiettivo di essere semplice e desiderabile, che sceglie di leggere il mondo sotto la triplice lente di una interdipendenza orizzontale, della velocità e della complessità. Che lo pensa decentrato, libero, imperniato su un ordine di “boni” e di “clarissimi”, chiamati al governo dalla loro stessa “virtù”.

Ma vediamo ora quale è la situazione, quali i “Reset” (ristrutturazioni, messe al loro posto, azzeramenti).

I reset economici

Ci sono quindi le ristrutturazioni, risistemazioni, messe a posto e azzeramenti (tutto insieme) di tipo economico.

Secondo alcune analisi recenti gli effetti sulla crescita economica si faranno sentire per almeno 40 anni, e non andrà come le altre volte (nelle quali alla fine l’elevata mortalità cambiò i rapporti di forza in favore dei lavoratori), perché la tecnologia cambierà il mix. Inoltre, come ha detto Jin Qi (un importante scienziato cinese), questa epidemia tenderà a restare e coesistere per lungo tempo, diventando stagionale. Né ha veramente senso il presunto trade-off tra salute ed economia: comunque se non si risolve il problema le persone non torneranno alla loro vita precedente, dunque “il governo deve fare tutto quel che è necessario, spendendo tutto quel che costa negli interessi della nostra vita e salute collettiva per riportare l’economia alla sostenibilità”[24].

Nello svolgere la ricostruzione dei massivi impatti dell’epidemia (al giugno 2020), gli autori finiscono per concentrarsi anche sull’impatto della tecnologia sul mondo del lavoro. È chiaro che l’automazione è distruttiva, ma nel tempo incrementa la produttività e la ricchezza, che alla fine provoca una maggiore domanda di beni e servizi e quindi nuovi tipi di lavori che riassorbono la disoccupazione. È corretto, scrivono (si tratta in fondo della cara vecchia Legge di Say), ma in quanto tempo? Inoltre, la pandemia stessa, e le sue misure di distanziamento sociale, ha accelerato enormemente questi processi di distruzione. Processi che, di necessità, provocheranno centinaia di migliaia, o milioni, di lavori persi. L’analisi degli autori è sotto questo profilo ormai standard[25]: man mano che i consumatori preferiscono servizi automatizzati ai loro omologhi faccia-a-faccia quel che accadrà ai call center si estenderà. Il processo di automazione, che non è mai lineare, subirà un salto in corrispondenza della recessione economica, e sempre più imprese messe alle strette cercheranno di aumentare la produttività (intesa come rendimento per unità di capitale investito), sostituendo i lavoratori a bassa competenza con l’automazione. I lavoratori a bassa competenza impegnati in lavori di routine (nella manifattura come nei servizi, la ristorazione o la logistica) ne saranno dunque colpiti. Il mercato del lavoro si polarizzerà tra pochi lavoratori ad alte competenze e salari e tutti gli altri. Nel futuro più remoto, invece, potremmo assistere a ondate di nuova occupazione in modi e forme oggi non prevedibili.

Nell’era post-pandemia la nuova normalità economica potrebbe essere quindi caratterizzata da una crescita più bassa, con declino della popolazione in molti territori e nazioni. In queste condizioni per gli autori dobbiamo cogliere l’occasione di avere una “pausa di riflessione” e introdurre modifiche istituzionali e delle scelte politiche. Come avvenne dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando fu promossa la Conferenza di Bretton Woods e si espanse in Europa il Welfare State. A questo punto l’analisi si sposta decisamente verso la dimensione utopica. Si immagina che le “nuove norme sociali” possano superare l’ossessione della mera crescita quantitativa registrata dal Pil, in favore di una crescita fondata piuttosto su fattori intangibili come il rispetto per l’ambiente, la responsabilità sociale, l’empatia e generosità. In questo contesto i nuovi driver di crescita, in grado di riattivare il sistema economico in un “inclusivo e sostenibile dinamismo”, potrebbero essere, per gli autori, la green economy (energie green, ecoturismo, economia circolare), e le varie forme di economia sociale che crei lavori nei settori dei servizi alle persone, educazione e salute.

In una sezione del libro che non sembra affatto diversa da quanto proposto, come abbiamo visto, nel recente libro di una delle figure di punta della MMT, Stephanie Kelton, “Il mito del deficit[26], Klaus Schwab ed il suo coautore dichiarano che nella fase post-pandemica saranno necessarie “decisive, massive e rapide” politiche fiscali e monetarie. Cosa che, del resto, è avvenuta immediatamente dopo l’avvio della emergenza sia con riferimento alle politiche monetarie (acquisti di titoli da parte delle Banche Centrali), sia a quelle fiscali (supporti alle imprese ed ai cittadini, e forme senza precedenti di versamenti diretti sul conto corrente di milioni di loro). La sostenibilità a breve termine di questa enorme espansione di spesa pubblica è stata garantita dall’intervento delle Banche Centrali al fine di contenere il costo degli interessi sul debito. È stata quindi abbattuta la barriera “artificiale” tra gli interventi delle Banche Centrali e quelli fiscali, e sono emerse anche ipotesi teoriche che sistematizzano questo approccio. Tra queste gli autori citano la MMT e la pratica dell’helicopter money[27]. Del resto in condizioni di interessi vicini allo zero le normali politiche monetarie sui tassi di interesse sono disattivate, quindi non restano che gli stimoli indiretti ai deficit fiscali intenzionali. In questi semplici termini (e semplicistici a diretta ammissione) secondo gli autori la MMT direbbe che il governo centrale può spendere emettendo debito che le Banche Centrali compreranno. Il deficit sarà quindi monetizzato e il governo potrà usare le risorse come vuole, senza preoccuparsi in prima battuta della copertura fiscale delle spese.

Il rischio è però che un governo che abbia in questo modo “l’albero dei soldi magico” possa stimolare involontariamente la partenza di un’inflazione fuori di controllo. In altre parole, il QE perpetuo potrebbe esserne una causa e l’helicopter money uno dei veicoli di trasmissione. La ragione addotta è che non ci sono limiti teorici a quanto denaro una Banca Centrale può creare, solo il limite dopo il quale la reflazione diventa inflazione. Potrebbe essere una minaccia, ma non è all’agenda oggi. Per ora abbiamo la prevalenza di impulsi deflazionari, creati potentemente e strutturalmente dalla tecnologia e dal tendenziale invecchiamento (entrambi per natura deflazionari) e dall’eccezionalmente alto tasso di disoccupazione. Tutte dinamiche che il clima post-pandemico esaspererà. Quindi nei prossimi anni ci dovremmo trovare in condizioni simili a quelli del Giappone negli ultimi venti anni: debolezza strutturale della domanda, inflazione molto bassa, e interessi ultra-bassi. Condizioni nelle quali, a dire il vero, il Giappone ha reagito con efficacia per gli autori.

Un altro fattore della situazione potrebbe essere il declino della centralità del dollaro, anche esso in corso da molto tempo. Cosa che potrebbe essere accelerata dalla tendenziale insostenibilità della spesa pubblica americana (le sole medicare, medicaid e social security ammontano, senza spese militari ed altri investimenti, al 112% delle tasse federali riscosse). Del resto a breve termine non ci sono alternative, non la moneta cinese, fino a che non liberalizzerà i controlli sui capitali, non l’euro, che è sempre sotto minaccia di dissoluzione, non un paniere di monete, ancora sperimentale.

Il “reset” sociale

A questo punto il libro inizia a trattare le ristrutturazioni sociali.

Ed anche qui il canovaccio interpretativo è il medesimo: la pandemia interviene esacerbando i problemi preesistenti, e determinati in particolare dalle ineguaglianze, dalle difficoltà di azione dei governi e dalla disgregazione sociale. Ci sono state risposte molto diverse anche in paesi simili, in funzione dell’organizzazione preesistente, della rapidità delle decisioni, dei costi e ampiezza del sistema sanitario, la fiducia nella politica, il senso di solidarietà interna. Quindi, per Schwab, il periodo post-pandemico causerà, probabilmente, “un periodo di massiva redistribuzione della ricchezza verso i poveri e dal capitale al lavoro. In secondo luogo, il Covid-19 suonerà la morte del neoliberalismo, un corpo di idee e politiche che possono grosso modo essere definite come volte a favorire la competizione sulla solidarietà, la distruzione creativa sull’intervento dei governi, e la crescita economica sul benessere sociale”[28]. Una teoria che è stata sotto attacco per molti anni, e qualificata come “feticismo del mercato”, ma che per gli autori riceverà ora il coup de grace. Non a caso i due paesi che hanno subito più perdite sono anche quelli che lo guidavano (Uk e Usa).

La pandemia ha, del resto, esacerbato tutte le ineguaglianze preesistenti e può essere al momento chiamata come “un grande divisore (unequalizer)”, che rende ancora più insopportabile la tensione. Inoltre, ha reso più stridente la contraddizione tra i lavoratori più necessari (infermieri, operatori di logistica, alcune classi di operai) e il semplice fatto che si tratta anche dei meno pagati e dei più esposti al mercato. Quelli che vedono sistematicamente più a rischio il loro lavoro. Come dicono gli autori in Uk, ad esempio, il 60% dei lavoratori nel settore di cura operano con contratti-zero-ore e quindi sono i più esposti e meno pagati.

Ora nell’epoca post-pandemica queste ineguaglianze sociali si incrementeranno nel breve termine, tuttavia nel periodo successivo il vasto senso di oltraggio renderà queste dinamiche non più a lungo politicamente accettabili e si imporrà un ridisegno. Ciò anche a causa dei disordini sociali che nel prossimo futuro saranno esacerbati dall’estensione della povertà e disoccupazione, oltre che dei disordini razziali (il libro è scritto poco dopo la morte di George Floyd).

Tutto ciò provocherà “il ritorno del ‘big’ governement” (come noto formula simbolica dell’espansione del welfare jhonsoniano). In questa situazione si fa fatica a pensare che si possano affrontare i problemi con soluzioni integralmente marked-based, quindi il delicato bilanciamento tra pubblico e privato si sposterà in favore del primo. È stato rivelato che nell’assicurazione sociale non è efficiente affidare la responsabilità dei migliori interessi sociali al mercato. Emerge perciò un’idea che era anatema solo pochi anni fa: che affidare gli interessi pubblici alle economie che corrono da sole senza supervisione può avere effetti devastanti. Dalla formula della Thatcher si passa perciò a quella della Mazzucato “non il profitto ma la partnership dei fondi pubblici con il business è la molla dell’interesse pubblico”[29]. Per Schwab accadrà qualcosa come quel che avvenne negli anni 30, il governo deciderà di riscrivere le regole del gioco permanentemente, non tollerando massiva disoccupazione e insicurezza sociale. Si avrà un massivo potenziamento dell’assicurazione sociale, dei benefici alla disoccupazione, la retrocessione del “shareholder value” (valore degli azionisti) e la messa in primo piano dello “stakeholder capitalism”, la riduzione della finanziarizzazione, l’affermazione di misure per rendere illegale il buy-back azionario, nazionalizzazioni, riforme fiscali, ricerca pubblica. Tutte cose messe in evidenza anche da Joseph Stiglitz[30].

Insomma, quello che gli autori propongono di considerare è una completa riconsiderazione del contratto sociale. Quello attuale, ossessionato dal rischio della crescita dell’inflazione, ha generato un senso diffuso di esclusione e marginalizzazione, e un sentimento di ingiustizia. Quel che bisogna fare è adattare il welfare state alle nuove condizioni e rafforzare le persone (empowering) e responsabilizzarle a domandare un contratto sociale giusto. La pandemia accelera questa transizione, e cristallizza la scelta rendendo impossibile il ritorno allo status pre-pandemico sotto questo profilo.

Che forma prenderà questo nuovo contratto sociale? Non ci sono soluzioni uniche, perché dipendono dalla storia dei singoli paesi, un “buon” contratto per la Cina è diverso da uno per gli usa, la Svezia o la Nigeria. Ma l’assoluta necessità postpandemica renderà indispensabile avere una forte, se non universale, assistenza sociale, sanità pubblica e servizi di base; una rafforzata protezione per i lavoratori (ad esempio per i lavoratori della gig-economy, nei quali gli impiegati a tempo pieno sono sostituiti da contractor e freelancers). Un altro aspetto critico illustrato dagli autori è il rischio della società della sorveglianza, anche in questa direzione saranno necessarie regole pubbliche e discussione pubblica.

Il “Reset” geopolitico

Ancora, un’altra dimensione del “reset” sarà geopolitica.

La pandemia interviene su una situazione nella quale il vuoto di governance globale e la crescita di varie forme di nazionalismi stavano aprendo un vuoto. Si prefigura quindi il rischio concreto di un’anarchia post-pandemica nella quale varie forme di rampante nazionalismo si confrontano nel progressivo riequilibrio in corso tra est e ovest. Gli autori citano in proposito la cosiddetta “trappola di Tucidide[31]. Il problema è il venire meno del “bene pubblico globale” della “egemonia” americana (controllo delle vie di mare, lotta al terrorismo, …), senza che vi sia un sostituto. Entreremo dunque in una “età dell’entropia” nella quale si affermeranno intense lotte per l’influenza e tensioni non mosse dalla ideologia (con l’eccezione dell’Islam) ma dal nazionalismo e dalla competizione per le risorse. Insomma, una era di “deficit di ordine globale”. Gli scenari plausibili vanno dalla guerra tra Cina e Usa, all’implosione e fallimento degli stati o petrostati, fragili, la possibile disgregazione della Ue. Quattro questioni sono in particolare sottolineate, in relazione all’accelerazione determinata dalla crisi pandemica ma sulla base di dinamiche in corso: l’erosione della mondializzazione; l’assenza di governance globale; l’incremento della rivalità tra Usa e Cina; la caduta di fragili e fallimentari stati.

La globalizzazione, in primo luogo, secondo il loro racconto era una vaga nozione che si riferiva allo scambio globale tra nazioni di beni, servizi, persone e capitali e di dati. Essa ha portato centinaia di milioni di persone fuori della povertà, ma da parecchi anni hanno cominciato a prendere il centro della scena i contraccolpi politici e sociali determinati dai costi asimmetrici (in particolare in termini di disoccupazione nel settore manifatturiero nelle zone ad alti salari). Ora, l’opinione degli autori in merito è netta: l’economia mondiale è così interconnessa che la mondializzazione non può finire, ma è possibile che rallenti ed anche che si inverta. L’epidemia ha fatto proprio questo, il rischio ha comportato limitazioni, controlli dei confini, protezionismi e il rischio della ripresa di varie forme di nazionalismo. Come mostrò il “trilemma di Rodrik[32] la democrazia è possibile, in associazione con gli stati nazionali (ovvero quella che conosciamo e l’unica di fatto esistente) solo se la mondializzazione viene contenuta. Per contrasto, ricordano gli autori, la mondializzazione e gli stati nazionali sono possibili in coesistenza solo se non c’è democrazia. Infine, democrazia e mondializzazione presuppongono la scomparsa degli stati nazionali indipendenti (ovvero una qualche forma di impero mondiale). L’Unione Europea è stata spesso utilizzata come modello ed esempio della pertinenza del modello concettuale. Combinare l’integrazione economica con la democrazia implica che molte decisioni essenziali sono prese a livello sopranazionale, rompendo la sovranità del livello sottostante. Nel contesto attuale, quindi, il ‘trilemma’ suggerisce che “la globalizzazione deve necessariamente essere contenuta se noi vogliamo conservare qualche sovranità nazionale o qualche democrazia”[33]. La crescita dei nazionalismi rende il ritiro della globalizzazione dunque inevitabile in gran parte del mondo e mostra che il rigetto della globalizzazione da parte degli elettori “è una risposta razionale quando l’economia è forte e l’ineguaglianza alta”.

La forma più visibile di progressiva deglobalizzazione è nel suo “reattore nucleare”: le global supply chain. L’accorciamento o la rilocalizzazione delle catene di fornitura sono incoraggiati da: 1) il fatto che il business vede che esiste un trade-off tra resilienza ed efficienza in esse; 2) la pressione politica che va dalla destra alla sinistra.

Chiaramente il completo ritiro delle supply chain globali comporterebbe la necessità di ciclopici investimenti pluriennali per ristrutturare interamente e potenziare le infrastrutture, porti, linee ferroviarie, nuove aree industriali, come sta facendo peraltro il governo giapponese che ha accantonato 243 miliardi per le operazioni di uscita dalla Cina delle sue imprese. Il più probabile scenario è quindi intermedio: la regionalizzazione. La creazione di molteplici e parzialmente separate aree di free trade, sul modello europeo, come del resto è in corso da tempo. Il Covid accelera infatti la divergenza tra Nord America, Europa ed Asia, incoraggiando tutti a guadagnare una sorta di auto-sufficienza interna, e ridurre l’intrico delle supply chain mondiali. Che forma prenderà tutto questo? Potrebbe anche andare male, ripetendo il cammino della storia nella quale un ciclo di antiglobalizzazione si impose, per gli autori, negli anni trenta, come risultato della Grande Depressione, danneggiando le maggiori economie.

Lo scenario della ripresa del nazionalismo non è comunque inevitabile ma bisognerà aspettarsi, per un certo numero di anni, una tensione essenziale tra le forze del nazionalismo e quelle dell’apertura lungo tre dimensioni critiche: le istituzioni globali, i commerci e i movimenti di capitale. Complessivamente nei prossimi anni sarà quindi inevitabile che qualche grado di deglobalizzazione avvenga, spinta dalla crescita del nazionalismo e della frammentazione internazionale. Questo non significa che sia meglio ripristinare lo status quo ex ante (l’iperglobalizzazione, per gli autori, è caduta di fronte ai suoi costi sociali e politici e non è più difendibile politicamente) ma solo che è importante limitare la possibile caduta verticale e libera della stessa, cosa che secondo loro comporterebbe danni maggiori e sofferenze sociali. Una ritirata totale dalla globalizzazione provocherebbe infatti guerre commerciali e militari, danni a tutte le regioni economiche, inoltre crisi sociali e scontri etnici o nazionalismi difensivi. La situazione richiede perciò azioni immediate ed energiche, nelle conclusioni proveranno a dire come. Questo è uno degli snodi chiave della costruzione egemonica ed ideologica tentata: si deve agire per evitare il peggio per tutti, e tocca a “noi”.

Chiaramente il processo di deglobalizzazione rende anche più difficile la “global governance”, ovvero il “processo di cooperazione tra attori internazionali animato dall’obiettivo di provvedere a risposte ai problemi globali”. Include nella definizione la totalità delle istituzioni (pubbliche e soprattutto private), politiche, norme, procedure e iniziative attivate attraverso le diverse nazioni per rendere prevedibile e stabile il cambiamento. Ciò, in particolare dopo la crisi Covid, è reso più difficile dal conflitto tra gli imperativi locali, che sono a corto-termine, e i cambiamenti globali a lungo termine. Nulla come la reazione alla crisi pandemica lo mostra con maggiore evidenza, ognuno si è battuto da solo e tutti hanno cercato di salvarsi per primi, chiudendo agli altri le frontiere, sequestrando i flussi di passaggio di materiale medico, etc. Parte di questo scenario è dato dal conflitto crescente tra Usa e Cina (che, però, non è del tipo di quello tra gli Usa e l’Urss, perché ad opinione degli autori questa non cerca di imporre la sua ideologia al mondo). Secondo il citato Wang Jisi le relazioni sono al loro peggio dal 1979 e il disaccoppiamento economico e tecnologico è ormai “irreversibile” e volto a dividere il sistema globale in due parti (come avverte anche Wang Huiyao, Presidente del Centro per la Cina e la Globalizzazione di Beijing). Ovviamente per analizzare questa situazione bisogna ricordare che i due punti di vista cinese e americano sono influenzati in modo decisivo dalla loro storia e dalla posizione che riveste in essa alcuni fatti cruciali, per i cinesi l’umiliazione ottocentesca e per gli Usa la loro posizione di preminenza nel dopoguerra. Ma anche sapere che la pandemia ha avvantaggiato la Cina perché il virus rende inefficace il vantaggio americano di tipo militare (che è al momento insuperabile). Ha fatto quindi prevalere il “soft power” cinese, più efficace per combattere la pandemia ed ha inoltre esposto aspetti della società americana scioccanti come il fallimento sanitario o il razzismo. Inoltre, la Cina è stata in primo piano nell’inviare soccorsi, come ha ricordato Kishore Mahububani. D’altra parte, gli Usa hanno ancora fattori strutturali di forza altamente dominanti, dal sistema universitario al vertice mondiale, alla preminenza del dollaro. Il confronto è quindi aperto ed incerto.

Il reset ambientale

Un altro settore nel quale possono essere individuate delle risistemazioni cruciali è l’ambiente.

Apparentemente si tratta di una relazione lasca, ma anche qui i rischi sistemici (in prima istanza geopolitici, sociali e tecnologici) si ripercuotono molto velocemente in un mondo altamente interconnesso, e, inoltre, producono relazioni e risposte non lineari che sono difficili, se non impossibili, da prevedere. Una delle differenze è che la pandemia richiede risposte immediate e si vede quindi bene la relazione causale, cosa che non avviene per la sfida principale del riscaldamento climatico. Tuttavia, per gli autori la causa è comune, al fondo la pandemia è causata da una disastrosa zoonosi, la quale è stata resa più probabile dall’insieme del cambiamento climatico e dall’estensione delle attività umane dovuta alla ipermondializzazione. Gli autori citano l’ormai classico “Spillover[34] e la lettera al Congresso Usa nella quale più di cento gruppi ambientalisti e di protezione della biodiversità segnalavano come negli ultimi cinquanta anni i disastri causati da zoonosi siano quadruplicati. E indicavano l’agricoltura responsabile di almeno la metà di questi. Ma ci sono anche evidenze, sostiene il libro, di una relazione tra l’inquinamento dell’aria e i rischi pandemici variando il livello di letalità e, tramite altri meccanismi, la relazione tra le aree più inquinate e quelle a maggiore tasso di mortalità da Covid. D’altra parte, è stata registrata una diminuzione delle emissioni climalteranti in relazione agli arresti delle attività, la quale, tuttavia, non è stata sufficiente neppure con un terzo della popolazione chiusa in casa.

Dunque, è necessario un cambiamento strutturale del modo di produrre energia e dei comportamenti di consumo. Per queste ragioni la pandemia dominerà anche questa agenda nel prossimo futuro. Il prossimo UN Cop-26 (poi rinviato a questa estate) dovrà scegliere tra due possibili narrative: secondo la prima la crisi è così grave che conviene mettere da parte per un poco le misure climatiche e cercare di spingere con tutti i mezzi possibili la ripresa; la seconda cercherà di cogliere l’occasione per rilanciare le due agende insieme. Questa seconda è la direzione presa da alcuni decision-maker influenti che propongono la transizione energetica come occasione per un nuovo e massivo ciclo di investimenti occasionato dalla stessa crisi pandemica e dalla necessità stringente di rispondervi con massive politiche fiscali. In altre parole, se si deve investire per far ripartire il sistema economico conviene farlo partire in altra direzione, risolvendo i problemi pregressi climatici.

Il “Reset” tecnologico

Infine, avremo un rimescolamento ed accelerazione drastico nel settore tecnologico.

Su questo terreno gli autori ricordano la pubblicazione nel 2016 del libro “La quarta rivoluzione industriale[35]. Da allora i cambiamenti tecnologici sono stati sorprendentemente veloci, giustificando la diagnosi di un cambiamento epocale in arrivo. AI, volo dei droni, traduzioni simultanee, i device mobili che diventano sempre più parte della nostra vita personale e professionale. L’automazione ed i robot che stanno penetrando nella produzione e nel business in modo sempre più accelerato. L’innovazione nella genetica e nella biologia sintetica che è sempre più vicina al nostro orizzonte. Tutto questo sarà accelerato dalla pandemia, che catalizzerà nuove tecnologie e “turbocambierà” ogni business digitale o dimensione digitale dei business esistenti. La trasformazione digitale vedrà la pandemia come potentissimo catalizzatore. In questi mesi di blocco forzato delle attività milioni di persone sono state costrette dalle circostanze a mutare le proprie abitudini, collegarsi in remoto, farsi portare i pasti, consegnare le merci, etc… per Schwab quando l’emergenza terminerà molte cose torneranno, dato che siamo animali sociali, ma alcune pratiche si saranno consolidate (in fondo è molto più economico e facile fare una riunione con zoom, magari tra quattro o cinque città diverse, che non viaggiare per incontrarsi una mattina). Questa trasformazione ha con l’occasione superato di slancio anche i rallentamenti che i regolatori avevano fino ad ora posto a molte tecnologie (pensiamo ai diritti di volo con i droni, o la resistenza alla telemedicina).

Parimenti nel mondo economico sarà spinta sempre di più l’automazione e tutte le forme di telelavoro (il cosiddetto “smart-working”); ciò tanto più quanto i collegamenti fisici potrebbero essere resi più difficili dalla frammentazione del contesto della mondializzazione. Sarà quindi avviato un ciclo di “turboadozione” in moltissimi settori; Jd.com e Alibaba, giganti dell’e-commerce cinesi, sono ad esempio convinti che nell’arco di dodici mesi la consegna dei pacchi sarà integralmente automatizzata. Una grande attenzione bisognerà prestare anche alla robotica industriale ed al machine learning. I cosiddetti Robotic Process Automation (RPA) favoriranno la creazione di aree di business più efficienti e in grado di rivaleggiare sempre di più con i lavoratori umani.

Ma una lezione che viene dall’est è che una efficiente metodologia, tecnologicamente assistita, di contact tracing è un potente fattore di successo contro il Covid-19. Mentre la sua efficacia è dimostrata, al contempo pone acuti problemi di privacy. Per cui al di là di Cina, Hong Kong, South Corea, che hanno imposto direttamente misure massive di controllo coercitive (a volte incrociando i dati con le altre fonti, come la rete di videosorveglianza urbana e le spese con carta di credito, altre, come a Hong Kong, arrivando fino ad imporre il braccialetto elettronico ai visitatori) altri paesi, come Singapore, hanno optato per soluzioni meno invasive basate sul bluetooth che non intercetta il segnale oltre i due metri e trasmette i dati al server del Ministero della Salute solo se necessario. È l’applicazione TraceTogether che sembra essere stato il modello della nostra. Tuttavia, come evidenziano gli autori, in questo caso resta il problema che le app volontarie sono del tutto inefficaci se, come accade in Italia, troppi rifiutano di scaricarla per paura di fornire i propri dati alle agenzie governative. Con 5,2 miliardi di smartphone esistenti attualmente è chiaro che ci sarebbe la piena possibilità tecnologica (il nostro gestore sa sempre dove siamo, fino a che il nostro dispositivo è acceso) di tracciare in tempo reale, ma ci sono al momento insuperabili problemi di uniformazione e messa in contatto dei dati.

Del resto, ormai ogni aspetto della nostra vita è tracciabile, ogni esperienza digitale, potenzialmente ogni passo nelle nostre città. C’è quindi un forte rischio di distopia e gli autori non lo nascondono in alcun modo. In questo contesto viene citato il libro di grande successo di Shoshana Zuboff, “Il capitalismo della sorveglianza[36]. Come ha scritto Yuval Harari abbiamo davanti la scelta fondamentale tra una sorveglianza totalitaria (sviluppata ai fini di protezione sanitaria o dal terrorismo) e il potere dei cittadini[37]. Si tratta del rischio, continuano, di un “oscuro futuro di uno stato della sorveglianza techno-totalitario”.

I Micro-reset

Nella seconda parte del libro vengono dettagliate le micro-trasformazioni che potrebbero prodursi nell’industria e nel business. Chiaramente per molte industrie la crisi pandemica ha prodotto effetti devastanti, per altre è stata un’occasione di ripensare la propria organizzazione. Ad esempio, per molti settori di intrattenimento, viaggi od ospitalità, un ritorno alla condizione pre-pandemica è inimmaginabile per ogni futuro vicino e forse per sempre. Per altri, come i settori manifatturieri o del cibo, è più questione di trovare la via per aggiustarsi allo shock e di ricapitalizzarsi per la nuova tendenza (con più tecnologie digitali). Le cose più ovvie saranno: incoraggiare il remote working; ridurre i viaggi e le riunioni faccia-a-faccia in favore di interazioni virtuali; accelerare la digitalizzazione di ogni soluzione. Tutto ciò non è affatto nuovo, ma ora diventa per molti una questione di vita e di morte. Come diretto risultato la IoT sarà enormemente potenziata allo specifico scopo di rendere digitale e controllare in remoto quanti più aspetti possibile dei cicli di produzione. Manutenzione, inventario, strategie di sicurezza possono essere controllate via computer. Ma la trasformazione impatterà anche sulle global supply chain, costringendole a riorganizzarsi. L’insieme dei fenomeni messi in movimento, direttamente ed indirettamente, dalla pandemia, costringeranno a ridurre e rilocalizzare le supply chain troppo estese, o intrecciate, e ad elaborare produzioni alternative o piani per il rischio di interruzioni e distruzioni. Ogni business dovrà “ripensare le sue operazioni e probabilmente sacrificare l’idea di massimizzare la propria efficienza e profitti per potenziare la ‘sicurezza dell’offerta e la resilienza”[38], al fine di proteggersi contro un cambio regolatorio, o di un fornitore specifico. I costi di produzione inevitabilmente saliranno, ma sarà il prezzo della sicurezza.

Nell’epoca post-pandemica, dunque, il business sarà soggetto a molta più interferenza da parte del governo rispetto a prima. Saranno implementate regole più stringenti (ad esempio, sul riacquisto di azioni, o la distribuzione di dividendi) per pratiche giudicate immorali, dal momento che le imprese molto spesso dovranno chiedere l’aiuto per ristrutturarsi. Ma anche riceveranno istruzioni su cosa produrre, al fine di garantire un plafond di produzioni strategiche di area (regionale). La massimizzazione dei profitti e lo short-terminism non sarà più favorito o tollerato, perché rende tutti più fragili in vista di future crisi. Inoltre, sempre secondo gli autori, nel mondo la pressione a ridurre la protezione sociale e abbassare i salari cesserà e si invertirà. Molto probabilmente nel mondo post-pandemico diventeranno centrali le lotte per i salari minimi e il potenziamento dei sindacati. Molto probabilmente le compagnie dovranno adattarsi se vorranno accedere ai fondi pubblici e la gig economy soffrirà di questo più di ogni altro settore, “il governo le forzerà a offrire ai lavoratori contratti con i benefici e le protezioni sociali e sanitarie”[39].

Ma gli effetti annunciati più importanti sono su turismo e sul settore dell’entertainment, dove le cose devono avvenire oggi “di persona” (l’elenco è terrificante, e comprende in effetti l’enorme cifra dell’80% del totale dei posti di lavoro in Usa). Attività come viaggi e vacanze, bar e ristoranti, eventi sportivi, cinema e teatri, concerti e festival, conferenze e convegni, musei e librerie, educazione, saranno costrette a ridefinirsi. Anzi, per come la mettono “essi non potranno trovare spazio nel mondo virtuale o, se lo potranno, solo in una forma monca e subottimale[40]. Durante l’intera epidemia, per mesi e forse un anno (il libro è uscito sei mesi fa) dovranno adattarsi e una ridotta capacità. Più specificamente, la trasformazione favorirà le grandi catene, mentre distruggerà fino al 75% dei piccoli esercizi. Al capo opposto le grandi compagnie di viaggi, ad esempio aeree, andranno incontro ad un mutamento cataclismico che avrà carattere permanente (venendo esacerbato dal mutamento delle abitudini di viaggio delle imprese). Ma l’impatto sugli aeroporti si propagherà già per le connessioni a monte ed a valle, colpendo le catene di auto rent, le imprese che costruiscono aerei e l’intera lunga catena di fornitori.

Quindi ci sono stati, e ci saranno, impatti sui comportamenti di acquisto e sull’educazione. Insomma, ci saranno numerosi ed in parte imprevedibili impatti su diverse filiere, alcune in incremento ed altre in decremento.

Anche gli impatti sulla vita urbana delle grandi città potrebbero essere davvero molto grandi, perché anche se solo una piccola parte degli abitanti e users sceglierà di non frequentarle più, cercando luoghi più verdi, decentrati, comodi ed economici, tante attività dagli elevati costi fissi, la cui profittabilità è impostata al margine subiranno egualmente durissimi e durevoli contraccolpi. E subirà notevolissimi contraccolpi il settore del “commercial real estate” che è un essenziale driver della crescita economica globale. Potrebbe crearsi un eccesso di offerta di uffici e servizi centrali (il recente abbandono repentino del progetto decennale del nuovo stadio della Roma, da parte di una proprietà che è specificamente nel business del turismo e del lusso è un segnale chiaro in tale direzione) che porterà ad una enorme catena di fallimenti di portata sistemica. In molte grandi città i prezzi delle case, ed in particolare dei locali commerciali ed affitti, cadranno per un lungo periodi di tempo, inevitabilmente. La possibilità di lavorare in remoto, al contrario, determinerà la crescita delle regioni e delle città (piccole probabilmente) nelle quali la qualità della vita è migliore, in particolare fino a che i prezzi delle case resteranno accessibili.

Qualcosa di altrettanto distruttivo potrebbe avvenire ai grandi campus, il cui business model potrebbe andare in bancarotta.

Ma ci saranno effetti anche sul big teach, la salute e l’industria del benessere, il settore finanziario, l’industria automobilistica e quella energetica. Alcune di queste saranno ovviamente avvantaggiate dal clima indotto dalla pandemia, tra queste il big teach, che è un settore ad alta resilienza, e il settore della salute, ovviamente centrale. È probabile che saranno anche potenziate e favorite dal governo le attività sportive (in particolare all’aperto), per i loro effetti salutari e socializzanti. Altri settori spinti alla trasformazione, ma anche favoriti, saranno quello finanziario al dettaglio (che si sposterà sempre più on line, riducendo i costi), quello dell’automotive, e quello della produzione elettrica che andrà incontro alla inevitabile transizione, con massivi investimenti. Inoltre, le banche, sotto un altro profilo, si troveranno al centro della tempesta. Dovranno infatti far fronte alla crisi di liquidità dei clienti e di non-performimg loans che cresceranno enormemente.

I Reset individuali

Quindi ci sono i cambiamenti individuali.

Attraverso i suoi effetti che il testo classifica come “Macro” e “Micro” la pandemia avrà comunque importanti conseguenze anche a livello individuale. In primo luogo, essa ha già costretto la maggioranza della popolazione del mondo ad autoisolarsi da amici e familiari, a cambiare completamente i propri piani personali e professionali, e ha creato profonde insicurezze economiche, psicologiche e di sicurezza fisica. Ci ha ricordato la nostra fragilità umana e quella delle nostre società. D’altra parte, una prima impressione è stata che la pandemia potesse unire le persone (ci sono stati episodi spontanei di tipo comunitario, solidaristico), ma in una seconda si è visto che in realtà le ha separate. Ma la reazione più rilevante è l’incertezza. L’essere umano ha bisogno sempre di avere qualche certezza e non sapere cosa avverrà, o perché, induce un profondo turbamento che può arrivare ad un senso di vergogna e disonore. Questo insieme di confuse ragioni induce molti a cercare di ridurre lo stress cercando un rifugio nel pensiero in “bianco o nero” e in soluzioni semplicistiche, per questo secondo gli autori proliferano teorie cospiratorie e una enorme propagazione di rumore, fake news, falsità e altre strane idee. Inoltre, la pandemia ha scatenato un dibattito con importanti implicazioni morali circa la salvaguardia a tutti i costi della crescita economica a discapito della salute dei più deboli. Su questo terreno le scuole libertariane e utilitariste si sono scontrate con quelle incentrate sui beni comuni in una disputa difficile da risolvere. Gli autori ricordano che inizialmente sono state assunte posizioni di stretta protezione ed anche di apertura (in Uk), che successivamente sono state abbandonate quando i costi hanno cominciato a manifestarsi pienamente.

Nell’immediato post-pandemia non potrà quindi essere portata avanti indefinitamente la chiusura (anche la crisi economica uccide le persone, come ha scritto Amartya Sen). E, del resto, ormai è chiaro che essa produce ingenti danni anche riferiti alla sanità mentale. Occorrerà perciò trovare un compromesso che dipende essenzialmente, per ognuno di noi, dai valori che considera preminenti. Ciò potrebbe costituire un’occasione di ripensare le nostre priorità e comportamenti. Migliorando la nostra creatività, gestione del tempo, comportamenti di consumo, amore per la natura e ben essere.

governancerid

In conclusione

La crisi del Covid ha esasperato tutte le linee di faglia che erano presenti nella nostra società, ineguaglianze, senso di ingiustizia, incremento della divisione geopolitica, polarizzazione politica, crescita del deficit pubblico e dell’alto livello del debito, inesistente governance globale, eccessiva finanziarizzazione, degrado dell’ambiente. Cosa ci riserva il futuro? Sarà solo un lampo prima del tuono, o andrà meglio? Per gli autori in effetti noi non lo sappiamo, “ma quel che sappiamo è che se non riavviamo il mondo di oggi quello di domani sarà profondamente peggiore”[41].

Per evitarlo dobbiamo a loro parere, è anzi assolutamente necessario, avviare un “gran Reset”. Dove, però, il termine va letto come riorganizzazione. Se non riusciamo infatti a riparare i mali che sono da tempi radicati nella nostra società e nella sua economia aumenterà il rischio che, come è più volte accaduto, “alla fine un ripristino sarà imposto da shock violenti come conflitti e persino rivoluzioni”. È per questo che la pandemia, con tutte le sue sofferenze, “rappresenta una rara finestra di opportunità per riflettere, reimmaginare e ripristinare il nostro mondo”[42]. Si tratta, seguendo una facile retorica, di fare del mondo un posto meno divisivo, meno inquinato, distruttivo, più inclusivo, equo e giusto.

Schwab, rivolgendosi ai suoi interlocutori, le élite economiche del mondo, dichiara quindi espressamente che non fare nulla non è una opzione. Chi resisterà, dicendo che in fondo il mondo si è sempre riassestato dopo ogni crisi, che la ricchezza sta continuamente aumentando e che tutto andrà a posto da solo, si sbaglia; trascura che quelle della crescita della ricchezza sono solo medie, bisogna vedere dove va, il numero di persone che sono affondate e non si vedono in quelle medie cresce sempre di più. La rabbia cresce, come il caso di George Floyd mostra. In quella mobilitazione, in corso mentre il testo veniva scritto, una gigantesca esplosione di sentimenti repressi e di lunga frustrazione per l’ingiustizia ha creato un immediato movimento di massa.

Certo, non è difficile vedere che l’epidemia è leggera rispetto a quelle del passato quanto a tasso di mortalità, ma questa considerazione può indurre in errore. Il mondo strettamente interconnesso contemporaneo e l’insieme dei molti problemi che ha con sé la rende egualmente un detonatore micidiale. Perciò quel che accadrà è che nel mondo post-pandemico le questioni di giustizia, la stagnazione dei redditi “per una vasta maggioranza” e la ridefinizione del complessivo contratto sociale si imporranno all’agenda. Insieme ad esse si imporranno le questioni ambientali e quelle dello sviluppo della tecnologia a favore dell’intera società, e solo non di pochi privilegiati. Come il testo ammette tutti questi problemi c’erano anche prima, ma ora sono al centro del tavolo e ci rimarranno.

Secondo la stringente posizione ideologica degli autori l’assoluto prerequisito per affrontarli e risolverli è quindi solo la collaborazione e cooperazione tra i paesi del mondo. Non progrediremo senza. In altre parole, perché sia attivata un’era di maggiore cooperazione e non di nazionalismo e separazione è necessario che appena l’economia riparte siano implementati realmente i 2030 Sustainable Development Goals[43] delle Nazioni Unite e si proceda ad una profonda ristrutturazione che mobiliti le migliori forze.

Questo auspicio è alla fine il “Gran Reset”: che dalla caduta venga la forza di rialzarsi.

Non bisogna leggere molte delle cose scritte in questo libro come se fossero false per il solo fatto che lo dice il direttore del World Economic Forum di Davos. Molte sono giuste, e alcune sembrano addirittura prefigurare una sorta di necessaria “svolta keynesiana”. Molte sono le cose che abbiamo anche noi sempre detto. Per certi versi sono le stesse che dice la MMT, o che ripete sempre la Mazzucato. È prevista una certa ritirata della mondializzazione, ed un avanzamento della funzione di regolazione e spesa pubblica. È chiaramente e dichiaratamente annunciata la fine del neoliberismo.

Tuttavia, è il senso dell’operazione che è diverso. Diverso è l’interlocutore, come altro il soggetto chiamato a mobilitarsi.

Si tratta di cambiare tutto per non cambiare niente. Tomasi di Lampedusa deve essere una delle letture serali del nostro. L’orizzonte non è una nuova versione del “embebbled capitalism” (o “liberalism”, come scrisse John Ruggie[44]) di Bretton Woods, ma una maggiore centralità nell’organizzazione sociale e nella stabilizzazione delle grandi imprese. È quindi uno “Stakeholders capitalism”. Qualcosa che può ricordare il sistema privatizzato del welfare ludico del tardo Impero Romano, anche lì in un contesto di dissoluzione sociale e di altissima dispersione dei centri di potere. Come propose allora Simmaco, la classe (senatoria) si può compattare intorno al compito di essere per conto dell’autorità pubblica editor, individualmente e collettivamente, dei giochi cistercensi (e gladiatorii) che esibiscono il potere, aggregano spettatori e clientes, controllano e organizzano il consenso.

Si tratta quindi di trovarne l’equivalente in un welfare privatizzato, inestricabilmente corporate e di stato. Una centralità tra impresa e territorio che è fatta di noblesse oblige da parte di questa e di grata accoglienza da parte del cliente, pubblico, beneficiario, dipendente, … tutto questo ma non cittadino.

Lo dice meglio, e più esplicitamente, anche la McKinsey[45]:

– L’economia di libero mercato è una delle ragioni più importanti per la creazione di ricchezza e miglioramento della qualità della vita di cui l’umanità ha goduto nelle ultime generazioni,

– Eppure, c’è rabbia e sfiducia palpabili nei confronti dell’idea di capitalismo, e del ruolo del business in molte società,

– Già prima che il Covid-19 cambiasse il mondo il 60% delle persone pensava che il capitalismo stesse facendo più male che bene in 22 paesi su 28 interpellati,

– Quindi gli uomini di affari non possono stare dietro le quinte, devono prendere l’iniziativa,

– È un’opportunità per un cambiamento positivo, la missione non è di servire gli azionisti ma clienti, fornitori, lavoratori e comunità.

Insomma, giù nella stiva, legati alle catene e privi di luce ed acqua, mentre il naufragio si avvicina arriva una voce dall’alto. I capitani dicono di fidarsi, loro sanno cosa è bene per tutti e sanno come portare la nave in porto, si prenderanno carico di ogni cosa.

Questa sarebbe la fine del neoliberismo per Schwab.

Certo, il neoliberalismo ha avuto un inizio al termine del ciclo keynesiano, e come tutto avrà fine.

Ma non è ancora il momento.


Note
[1] – Una fondazione svizzera i cui partner sono in pratica l’intero campo delle primarie aziende multinazionali del mondo occidentale. Si va da multinazionali come Air Liquid (azienda chimica americana), ABB, ABN Amro, Astra Zeneca, Basf, Bayer, Boeing, BP, Hitachi, Chevron, Enel, Eni, General Electric, Honda, Hyundai, Mitsubishi, Moderna, PepsiCo, Petronas, Pfizer, Nestlè, Nielsen, Nokia, Total, Novartis, Volvo, Volkswagen, Walmart, Snam, Sony, Siemens, Unilever, UPS, Tata, Coca Cola, Lego Brand Group, Lookheed Martin, Saipem, Johnson e & Johnson, a fondi ed aziende finanziarie come Algebris, Allianz, AXA, Bank of America, Credit Swisse, Deutsche Bank, Visa, Nomura, Barclays, JP Morgan Chase, UBS, Unipol, BlackRock, Generali, Goldman Sachs, Western Union, HSBC, Intesa, Morgan Stanley, aziende di consulenza come McKinsey, Accenture, della new economy come Adobe, Apple, Amazon, Cisco, Microsoft, Facebook, Google, HP, IBM, Tibco, Zoom, istituzioni come la nostra Cassa Depositi e Prestiti, la Banca Europea degli Investimenti, o istituzioni cinesi ed aziende come Alibaba, Huawei, China Energy Investment, China Construction Bank, China Railway Group, State Grid Corporation of China, la Russian Direct Investment Fund, il Saudi Industrial Investment Fund, Banche centrali come la State Bank of India. Questo per restare ai primi nomi di un lunghissimo elenco nel quale in pratica non manca nessuno.
[2] – Un altro autore specializzato in questa sottoletteratura è Richard Florida, il quale nel 2011 ha pubblicato un libro dal medesimo titolo “The Great Reset”, Harper. O Richard Baldwin, specializzatosi nel descrivere ad ampio raggio i processi di innovazione tecnologica ed i suoi effetti sul mutamento sociale e politico (e geopolitico), si tratta ti libri come “La grande convergenza”, quando nel 2016 ipotizzava una terza ondata della mondializzazione (ne abbiamo parlato in questo post), o, il più recente “Rivoluzione globotica”, di tre anni dopo. In un ambito per certi versi più ristretti, focalizzato sul mutamento tecnologico, si può leggere Brynjolfsson e McAfee (“La macchina e la folla”, 2017) Tyler Cowen (“La media non conta più”, 2015) o Jerry Kaplan (“Le persone non servono”, 2016).
[3] – Mariana Mazzucato, “Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale”, Laterza 2018 (ed.or 2018). Un testo ambizioso nel quale nella prima parte cerca di rivitalizzare l’illustre tradizione risalente almeno a Smith che vede distinguere tra lavori produttivi di valore e non, e che, su questa base, pone sistematicamente in discussione la pretesa della finanza di contribuire allo sviluppo del valore, distinguendo tra “capitali pazienti” e “speculativi”, a breve termine ed improduttivi. La chiave è la medesima poi prescelta da Schwab, occorre passare nuovamente dalla massimizzazione del valore per gli azionisti (“improduttiva”) alla creazione di effettivo valore per gli “Stakeholders” (cfr. p.200). La conclusione, tuttavia, diversamente dal nostro, è che bisogna andare verso la ricostruzione della fiducia nella funzione pubblica e “fissare una missione” (p.278).
[4] – Mariana Mazzucato, “Mission economy. A Moonshot Guide to Changing Capitalism”, Allen Lane, 2021. Libro nel quale l’economista inglese riflette sulla crisi pandemica.
[5] – Stephanie Kelton, “Il mito del deficit”, Fazi editore 2020.
[6] – Richard Baldwin, “Rivoluzione globotica”, Il Mulino 2019.
[7] – Paul Collier, “Il futuro del capitalismo”, Laterza 2020 (ed.or. 2018).
[8] – Raghuram Rajan, “Il terzo pilastro. La comunità dimenticata da Stato e mercati”, Bocconi Editore 2019 (ed. or. 2019).
[9] – Thomas Piketty, “Capitale e ideologia”, La nave di Teseo, 2020 (ed.or. 2020).
[10] – Branko Milanovic, “Capitalismo contro capitalismo. La sfida che deciderà il nostro futuro”, Laterza 2020 (ed. or. 2019).
[11] – Francis Fukuyama, “Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi”, Utet 2019 (ed. or. 2018).
[12] – Termine chiaramente polisemico, ma che qui si intende spendere per la sua capacità di organizzare il senso e creare un ordine, sposato dai soggetti che essa stessa costituisce non per mero interesse bensì per adesione ad un intero ‘mondo’ internamente coerente. L’ordine (ed il ‘mondo’) comprende tecniche, saperi, culture e ruoli. Ogni operazione consapevolmente egemonica è una sorta di sfida al mondo come è, definisce dei nemici e si sforza di dissolverne la coerenza e coesione, combatte certezze, crea idee nuove (spesso rimontate dalle vecchie). Ogni nuovo assetto egemonico ha i suoi soggetti ed i suoi attori cruciali, individua dei valori irrinunciabili e dei disvalori da respingere, include delle tecniche, produce una economia. Creando soggettività si fa carico di esse, e risponde ai bisogni che fa emergere come decisivi.
[13] – In poche parole, lo scheletro era dato dalla integrale subordinazione del consumo, messo a centro dell’uomo stesso, alla logica capitalista, negoziando da una parte produttività e distribuzione in termini reali (in modo da garantire da riproduzione della forza-lavoro e la stabilità sociale, ovvero la riproduzione sociale) e dall’altra la gestione politica della moneta (progressivamente smaterializzata in tutti gli anni sessanta e settanta, con enormi conseguenze sistemiche).
[14] – Si veda, “Il Proconsole imperiale: draghi, serpenti, vermi”.
[15] – Rutilio Namaziano, “De reditu”, cit in Sergio Roda, “Nobiltà burocratica, aristocrazia senatoria, nobiltà provinciali”, “Storia di Roma”, 3.I, Crisi e trasformazioni, Einaudi, 1993, p.643.
[16] – Klaus Schawb, Thierry Malleret, “Covid-19: the great reset”, Word Economic Forum, 2020, citazioni dal e-book.
[17] – Klaus Schawb, Peter Vanham, “Stakeholder Capitalism”, Wiley, aprile 2021. Nel libro Schwab propone di superare lo “shareholder capitalism” che fu all’origine della volta neoliberale (una delle parole d’ordine della Scuola di Chicago) in favore di un nuovo capitalismo che, invece degli azionisti, pone al centro le imprese private come “fiduciari della società”. In questo spostamento di accento sono le stesse aziende che dovrebbero farsi carico della trasformazione del modello e pagare le giuste tasse, combattere al loro interno la corruzione, promuovere parità di condizioni concorrenziali e sostenere i diritti umani e dei lavoratori. Esse, le imprese, sono le principali interessate al comune futuro. Come scrive lo stesso autore: “I business leaders oggi hanno una incredibile opportunità. Dando allo stakeholder capitalism un significato concreto, possono muoversi oltre le obbligazioni legali e confermare il proprio dovere verso la società. Possono portare il mondo più vicino all’ottenimento di obiettivi condivisi, come quelli emersi con l’accordo di Parigi sul clima o gli Sdgs. Se i business leader realmente vogliono lasciare il proprio segno nel mondo, non hanno alternative”.
[18] – Klaus Schawb, “La quarta rivoluzione industriale”, Franco Angeli, 2016; Klaus Schawb, “Governare la quarta rivoluzione industriale”, Franco Angeli, 2019.
[19] – “The Davos Manifesto” è un set di principi etici che dovrebbe fungere da guida per le imprese nell’età della quarta rivoluzione industriale. Pubblicato nel 2020 dichiara che lo scopo di un’azienda non è di servire i propri azionisti, ma di coinvolgere tutti i suoi stakeholders nella creazione di valore condiviso. Dipendenti, clienti, fornitori, comunità locali e società, comprendendone ed armonizzandone gli interessi e orientandosi verso la prosperità a lungo termine.
– Un’azienda serve i propri clienti fornendo una proposta di valore che soddisfi al meglio le loro esigenze. Accetta e sostiene una concorrenza leale e condizioni di parità. Ha tolleranza zero per la corruzione. Mantiene affidabile e degno di fiducia l’ecosistema digitale in cui opera. Rende i clienti pienamente consapevoli della funzionalità dei suoi prodotti e servizi, comprese le implicazioni negative o le esternalità negative.
– Un’azienda tratta le sue persone con dignità e rispetto. Onora la diversità e si impegna per il miglioramento continuo delle condizioni di lavoro e del benessere dei dipendenti. In un mondo in rapido cambiamento, un’azienda promuove l’occupabilità continua attraverso il miglioramento delle competenze e la riqualificazione.
– Un’azienda considera i propri fornitori come veri partner nella creazione di valore. Offre una buona possibilità ai nuovi operatori di mercato. Integra il rispetto dei diritti umani nell’intera catena di fornitura.
– Un’azienda serve la società in generale attraverso le sue attività, sostiene le comunità in cui lavora e paga la sua giusta quota di tasse. Garantisce un utilizzo sicuro, etico ed efficiente dei dati. Agisce come amministratore dell’universo ambientale e materiale per le generazioni future. Protegge consapevolmente la nostra biosfera e promuove un’economia circolare, condivisa e rigenerativa. Espande continuamente le frontiere della conoscenza, dell’innovazione e della tecnologia per migliorare il benessere delle persone.
– Un’azienda fornisce ai propri azionisti un ritorno sull’investimento che tiene conto dei rischi imprenditoriali sostenuti e della necessità di innovazione continua e investimenti sostenuti. Gestisce responsabilmente la creazione di valore a breve, medio e lungo termine alla ricerca di rendimenti sostenibili per gli azionisti che non sacrificano il futuro per il presente.
– Un’azienda è più di un’unità economica che genera ricchezza. Soddisfa le aspirazioni umane e sociali come parte del più ampio sistema sociale. La performance deve essere misurata non solo sul ritorno agli azionisti, ma anche sul modo in cui raggiunge i suoi obiettivi ambientali, sociali e di buona governance. La remunerazione dei dirigenti dovrebbe riflettere la responsabilità delle parti interessate.
– Un’azienda che ha un ambito di attività multinazionale non solo serve tutti quegli stakeholder che sono direttamente coinvolti, ma si comporta come stakeholder – insieme ai governi e alla società civile – del nostro futuro globale. La cittadinanza globale aziendale richiede a un’azienda di sfruttare le proprie competenze di base, la propria imprenditorialità, abilità e risorse rilevanti in sforzi di collaborazione con altre aziende e parti interessate per migliorare lo stato del mondo.
[20] – Certo, non è la prima epidemia che ha colpito l’umanità, né la peggiore. La peste del 1300, ad esempio, distrusse dal 20 al 40% della popolazione europea e indusse a creare pratiche come la “quarantena”, e le prime forme di “institutionalized public healt”. Al contempo creando sempre forme di ansia sociale e di isteria di massa.
[21] – Schwab, op.cit., p. 12.
[22] – Op.cit., p. 21
[23] – Per la storia di questo concetto, e la sua pratica politica, si veda Alessandro Visalli, “Dipendenza”, Meltemi 2020.
[24] – Op.cit., p. 43
[25] – Si veda, ad esempio, i testi prima citati di Brynjolffson o di Tyler Cowen e di Baldwin.
[26] – Stephanie Kelton, “Il mito del deficit”, Fazi Editore 2020. Ma c’è una importante differenza, anche se nessuno dei due libri entra nei dettagli quello dell’economista americana non propone un reddito universalista di prima istanza, ma un programma di lavoro garantito sul modello del New Deal. È chiaro che in questo modo le imprese non sono più al centro della scena.
[27] – Op.cit., p. 67.
[28] – Op.cit., p.78
[29] – Op.cit., p.92, nota 68.
[30] – Op.cit., p.94, nota 69
[31] – Si veda Graham Allison, “Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide?” Fazi Editore, 2018.
[32] – Viene citato il classico libro di Dani Rodrik, “La globalizzazione intelligente”, Laterza, 2011.
[33] – Op.cit., p. 107
[34] – David Quammen, “Spillover”, Adelphi 2012.
[35] – Klaus Schwab, “La quarta rivoluzione industriale”, op.cit.
[36] – Shoshana Zuboff, “Il capitalismo della sorveglianza”, Luiss 2020
[37] – Op.cit., p.168
[38] – Op.cit., p. 180
[39] – Op.cit., p. 184
[40] – Op.cit., p. 191
[41] – Op.cit., p. 243
[42] – Nota 165
[43] – Cfr https://unric.org/it/wp-content/uploads/sites/3/2019/11/Agenda-2030-Onu-italia.pdf
[44] -John Gerard Ruggie, “International Regimes, Transactions, and Change: Embedded Liberalism in the Postwar Economic Order”. International Organization 36 (2), 1982.
[45] – Si veda https://www.mckinsey.com/business-functions/strategy-and-corporate-finance/our-insights/the-case-for-stakeholder-capitalism#

FONTE: https://sinistrainrete.info/crisi-mondiale/20070-alessandro-visalli-klaus-schawb-e-thierry-malleret-covid-19-the-great-reset.html

Letta, il paramassone gentile, al bivio fra Draghi e Prodi

«Circola una foto di Micron giulivo a tavola con Macron; il pisano ha un cartellino al collo, come accade ai congressisti e agli oggetti appena comprati, col prezzo ancora appeso». Marcello Veneziani fotografa così il personaggio appena cooptato alla guida del Pd dopo Zingaretti. «Pure il suo predecessore, brav’uomo sempre ridente, era piuttosto mediocre: e non solo perché il suo titolo di studio fosse quello di odontotecnico». Con Letta, scrive Veneziani su “La Verità“, «si ha la conferma che siamo entrati nella fase della serietà, inaugurata dall’arrivo a Palazzo Chigi di Mario Draghi al posto di un nullivendolo vanitoso e logorroico. Un fatto positivo, c’è da rallegrarsi». A favore di Letta, Veneziani registra un paio di cose: «È una persona per bene, almeno così ci è parso finora, piuttosto corretto nei rapporti politici e misurato nel linguaggio e nel comportamento. E innalza la media assai scadente dei leader ignorantoni che guidano la politica allo stato attuale».

Ancora: «Enrico Letta è il trattino di congiunzione tra Sergio Mattarella e Mario Draghi. Metà democristiano e metà tecnico, Letta impersona l’anello mancante al disegno evoluzionista o involuzionista del suo partito, tra la sinistra e l’eurocrazia. In passato fu l’anello di Enrico Lettacongiunzione tra Gianni Letta e Romano Prodi». Il primo problema per lui «è stato quello di cancellare l’immagine del professorino, garbatino e sfigatino, che sta sereno e rassegnato a passare campanelli di comando ad altri». Veneziani lo descrive «moderato per indole, famiglia e corso di studi». Infatti «si è presentato senza cravatta per farsi sbarazzino e ha sparato subito due cose scapigliate che contrastano con la sua immagine vecchigna e compassata: ha detto largo ai giovani, inteso come ius soli, e voto ai sedicenni. E delle due la seconda mi è parsa perfino peggiore della prima», annota Veneziani: «Gli manca solo un tatuaggio dark sulla carotide per smentire il suo curriculum e la sua immagine canonica».

“Enrichetto” ha usato toni da decisionista «per far dimenticare la prudentocrazia di cui è stato flebile portavoce negli anni scorsi, travolto dal ciclone Matteo». Il suo modello di riferimento più prossimo è Emmanuel Macron, «ma senza la grandeur francese», e in più «con l’umiltà e la sobrietà del moderato progressista pronto a “morire per Maastricht”, come titolava un suo pamphlet». Il giovane Letta ebbe per padrino Andreatta, l’uomo del fatale divorzio (insieme a Ciampi) fra Tesoro e Bankitalia: l’inizio della fine, per il sistema-paese che aveva ereditato il boom economico sorretto dall’industria di Stato. Cattolico e tecnocrate democristiano, Andreatta: un uomo «d’indubbio prestigio», ma legato alla funesta stagione della Grande Privatizzazione dell’Italia, decretata in ossequio al super-potere (massonico) che fece del neoliberismo globalista la nuova religione. Questi i natali politici di Enrico Letta, che ha per zio «il cardinale in borghese Gianni Letta, maestro di curia e cerimonie», e inoltre – aggiunge Veneziani – ha per suocera il “Corriere della Sera”, «avendo sposato una sua figlia redattrice».

Per questo, sempre secondo Veneziani, il nuovo segretario del Pd non rappresenta la storia, la cultura e l’ideologia del mondo di sinistra. «Ma non si sa mai, a volte la funzione sviluppa l’organo». Ma che significa, oggi, «una sinistra guidata da un non leader di una non-sinistra, peraltro non eletto da un congresso?». E’ come avere «un flacone sterile», in pratica «un segretario senza carisma né appeal politico», un uomo di potere «che viene dalla Trilateral e dall’Aspen». Si crede davvero che potrà trasformare, come lui stesso ha promesso, «il partito del potere», quel partito-establishment «che si è posto in questi anni come una sorta di Protezione Civile, da tenere comunque al governo per impedire l’arrivo di calamità naturali e popolari», in un partito a sua volta popolare, alleato ai grillini populisti, benedetto dal Papa Venezianipopulista, e aperto al populismo verde-Greta? Oppure, invece, «la sinistra sarà solo usata come una cipria per imbellettare con una pallida ombretta rossa un partito che in realtà è solo l’esecutore testamentario dell’Europa, che da Paolo Gentiloni a David Sassoli non ha altro dio all’infuori di lei?».

Al tempo di Veltroni e dell’Ulivo – ricorda Veneziani – si sceglieva per il governo un Prodi, venuto dal parastato parademocristiano, «ma il partito restava nelle mani del ceppo storico di sinistra». Ora, invece, non è più solo il governo: «E’ il partito, che viene euro-commissariato». Ci sarà un riallineamento generale dei pianeti al nuovo corso “eurodragato”, che riguarderà pure l’altro versante, o (proprio per spirito di polarizzazione) la Lega e Fratelli d’Italia rimarcheranno il loro tratto pop, nazionale ed eurocritico? «Le scadenze imminenti tra vaccini, recovery e Quirinale possono innescare processi imprevisti», segnala Veneziani. «Le variabili sono tante», cominciando da Matteo Renzi: «Il pupo fiorentino irrequieto che sta lì accucciato, ormai senza giocattoli perché li ha rotti tutti, cos’altro s’inventerà per farsi notare?». Be’, dipende: bisognerà vedere che tipo di spartito sarà “consigliato” di recitare, a Renzi, a Letta e agli altri attori della politica italiana in emergenza politico-pandemica, letteralmente annullata da Conte e ora “riformattata” da Draghi.

A parte l’ottima disamina di Veneziani, per leggere la situazione vale la pena scendere anche nelle cantine del “back office” del potere (massonico) illuminato frequentemente da Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni”. Enrico Letta? Tecnicamente, un paramassone. Tradotto: un non-massone, a disposizione dei poteri che, attraverso le superlogge, governano il pianeta utilizzando super-strutture come l’Ue. Pessimo il giudizio di Magaldi sul Letta di ieri, quello che sedeva a Palazzo Chigi: si è limitato ad eseguire gli ordini della peggiore oligarchia massonica, prolungando l’effetto devastante dei tagli senza anestesia inferti dal massone “neoaristocratico” Mario Monti, «chiamato in servizio da un supermassone della medesima tendenza, cioè Napolitano». Di mezzo c’è sempre anche l’eterno establishment nazionale “collaborazionista”, vassallo dei poteri anti-italiani che ispirano il mercantilismo franco-tedesco, dietro la facciata di un Prodi e Montieuropeismo sbandierato ma inesistente. Prestanome di poteri forti, Enrico Letta – come rivelò una fonte di stampa – quand’era premier partecipò a una cenetta a casa di Eugenio Scalfari, presenti anche Napolitano (allora presidente) e Mario Draghi, che era a capo della Bce.

Qualche anno fa, il massone “rooseveltiano” Gianfranco Carpeoro ha ricordato che Enrico Letta non ha nulla che fare con la massoneria, ma in compenso è un esponente dell’Opus Dei (insieme a suo zio Gianni Letta e al berlusconiano Marcello Dell’Utri). Quanto a Matteo Renzi, che licenziò brutalmente Letta nel 2014, Magaldi racconta: chiese inutilmente di entrare nelle superlogge più reazionarie (grazie all’amico Tony Blair, solo in apparenza esponente della sinistra). Dopo il lungo esilio, Renzi è tornato alla ribalta affossando Conte: ora spera finalmente di poter entrare nel grande giro mondiale della supermassoneria, stavolta però nel campo “progressista”, al quale è approdato lo stesso Mario Draghi, fino a ieri presente in ben 5 Ur-Lodges di segno oligarchico. Un mondo parallelo, rispetto a quello visibile, utilissimo per guardare oltre la superficie: Draghi, dice Magaldi, oggi si propone di rompere il neo-feudalesimo del finto europeismo a guida tedesca.

Anche qui, attenzione: l’attuale leadership politica della Germania è solo lo strumento del quale si è finora servita l’oligarchia massonica che ha ispirato l’austerity per indebolire la democrazia, sabotando il benessere diffuso. Un altro dei suoi cavalli di razza? L’italiano Romano Prodi, spacciatosi per uomo di sinistra. «Prodi è un altro massone “neoaristocratico”, come Monti e Napolitano, e come lo stesso Draghi fino a qualche anno fa: solo che, a differenza di Draghi – rileva Magaldi – Prodi non hai mai fatto ammenda dei suoi errori, né si è sognato (come invece l’attuale premier) di mettersi a disposizione della causa progressista». Un equivoco vivente, Romano Prodi, grande rottamatore (col DraghiDraghi del Britannia) dell’Italia che funzionava, e che dava fastidio all’industria tedesca. L’ex capo della Bce si è pentito, mentre Prodi no: e spera ancora di tagliare il traguardo del Quirinale, bruciando Mario Draghi. Gli darà una mano Enrico Letta, a salire al Colle?

Magaldi non scopre le carte, ma su Letta si mostra scettico: resta pur sempre un semplice paramassone, in attesa di disposizioni dall’alto. Certo – aggiunge il presidente “rooseveltiano” – rispetto a Zingaretti, il salto è enorme: il Pd era guidato da uno scolaretto, ora invece dispone di un professore prestigioso. Un uomo accorto, garbato e colto. Ma, appunto: a disposizione dei poteri superiori. “Morire per Maastricht”, come ricordava Veneziani, era stato il suo libro-bandiera. Tradotto: sangue, sudore e lacrime. Paracadutato nel Pd allo sbando (al governo con la Lega, dopo aver subito la coabitazione coi catastrofici 5 Stelle e il presenzialismo dell’imbarazzante Conte), Enrico Letta deve supportare un personaggio di caratura mondiale come Draghi, che – già un anno fa, scrivendo sul “Financial Times” – ha lasciato intendere che non dovrà mai più essere chiesto a nessuno, per alcuna ragione, di “morire per Maastricht”. Sarà capace, Enrico Letta, di capovolgere anche lui le sue convinzioni, rimettendo il Pd a disposizione di un progetto finalmente progressista, capace cioè di ripudiare il rigore di Maastricht e imporre l’introduzione della democrazia a Bruxelles?

FONTE: https://www.libreidee.org/2021/03/letta-il-paramassone-gentile-al-bivio-fra-draghi-e-prodi/

 

 

 

ARTE MUSICA TEATRO CINEMA

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

La civile disobbedienza aiuta a riconoscersi

100giornidaleoni.it

È vero, siamo in nettissima minoranza, ma in realtà siamo molti di più di quello che crediamo di essere.

Il problema, banalmente, è il conformismo di tanti. Per quieto vivere molte persone, consapevoli degli avvenimenti in corso, quotidianamente si mascherano come dei ladri ed annuiscono quando quel conoscente / parente / collega che incontrano, attacca bottone con stupidaggini sentite alla tv sulla “pandemia”.

Molti hanno timore di venire esclusi dalla propria cerchia di amicizie e si adattano alla corrente. Poi ci sono gli indecisi, quelli che: “qualcosa non mi torna”. Costoro vengono riportati coi piedi per terra facilmente da chiunque gli dica “Eh, vedi che io ho un amico che è stato intubato, era sano!” o dal medico che lo bacchetta “vieni a farti un giro negli ospedali!”. Altri soggetti da nascondino sono poi i tiepidi, quelli che introducono i discorsi con “io non sono negazionista eh, il virus c’è c’è c’è!”. Anche tali elementi si mimetizzano nella nebbia pandemica.

Infine ci sono quelli che negano ma che nel profondo hanno compreso che sta accadendo qualcosa di anomalo. Costoro hanno però bisogno di negarlo a se stessi. Il riconoscere la verità, li obbligherebbe ad assumersi delle responsabilità, il loro é semplice istinto di autoconservazione, preferiscono mettere in dubbio chiunque li induca al pensiero critico definendoli complottisti. Insomma, già siamo pochi, se poi si conduce una vita ordinaria obbedendo a qualsiasi cosa, defilandosi di continuo, diviene difficile anche solo incrociarsi in mezzo alla mandria manipolata ed ipocondriaca. La civile disobbedienza aiuta a riconoscersi.

Fonte: https://100giornidaleoni.it/blog/la-civile-disobbedienza-aiuta-a-riconoscersi/

Pubblicato il 24.03.2021

FONTE: https://comedonchisciotte.org/la-civile-disobbedienza-aiuta-a-riconoscersi/

 

 

BELPAESE DA SALVARE

“IL DECRETO DI DRAGHI È UNA TRUFFA!”  Malvezzi smonta pezzo per pezzo la balla sul 60% dei ristori

 Decreto sostegni: ristori fino al 60%”: così titolavano i giornali a poche ore dalla pubblicazione delle misure previste dal Governo per sostenere le imprese. Una cifra consistente, se ci si ferma a quel 60%. Ma è davvero così? La risposta, ahinoi, è un clamoroso NO.

VIDEO QUI: https://youtu.be/pdM76CmqCew

L’economista Valerio Malvezzi, grazie anche al lavoro di un team di esperti tra cui il finanzialista Remigio Baschirotto, ha analizzato quello che lo stesso Professore ha avuto modo di definire “un documento scritto in bizantino”, ovvero tanto complesso da renderne difficile la comprensione persino agli addetti ai lavori. Ciò che ne è venuto fuori è che quanto è stato detto sui “sostegni” è una vera e propria truffa ai danni, naturalmente, delle imprese italiane in difficoltà.

“Il Governo Draghi – afferma in diretta Malvezzi – sta spacciando, raccontando, millantando e ingannando la gente dicendo che il contributo è fino al 60%, ma la verità è che si tratta di un trucco contabile vergognoso dello Stato”.

La percentuale dei ristori che dovrebbero arrivare (?) alle aziende italiane che hanno perso centinaia di migliaia di euro di fatturato a causa delle chiusure imposte dall’esecutivo si ferma infatti al 4,17%.

Nessun errore di battitura: la percentuale non solo non è del 60%, ma non arriva nemmeno al 5%.

Com’è possibile un divario così ampio tra le due cifre? Il professore lo ha spiegato all’interno di questo video e la sua rabbia è incontenibile: “Il Decreto Sostegni è un’inc***ta! Fot***o milioni di persone e ingannano l’opinione pubblica!”

Ciò che aveva previsto il nostro economista si sta avverando? “Io mi chiedo se questa è una prima applicazione della distruzione creativa del documento del G30 che vi ho raccontato tante volte: stanno distruggendo il family business italiano”.

Con Francesco Vergovich e Fabio Duranti, ecco la sua spiegazione a ‘Un giorno speciale’.

FONTE: https://www.radioradio.it/2021/03/decreto-draghi-truffa-malvezzi-ristori-sostegni/

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

Se avevate ancora qualche dubbio sulla natura dell’Amministrazione Biden…

Angelo Brunetti – 28 03 2021

Se avevate ancora qualche dubbio sulla natura dell'Amministrazione Biden...

Se ancora avete dubbi sulla natura guerrafondaia dell’Amministrazione guidata dal Joe Biden, il Democratico, basta guardare a quali modelli si ispira.

Da ultimo, il segretario di Stato americano Antony Blinken ha scelto ed elogiato un suo illustre predecessore come modello:  Madeleine Albright.

Chi sarebbe? Per farvi capire chi sia il modello, basta citare la sua giustificazione delle sanzioni USA contro l’Iraq.

Blinken, su Twitter, venerdì scorso, ha salutato Albright, ex ambasciatore degli Stati Uniti alle Nazioni Unite e segretario di stato durante la Presidenza di Bill Clinton, definendola una “donna coraggiosa”.

“Durante la sua carriera diplomatica come ambasciatrice degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite e prima donna Segretario di Stato, la sua tenacia ed efficacia hanno reso gli Stati Uniti più forti e più rispettati a livello globale”, ha twittato Blinken, aggiungendo che Albright è un modello per lui e “molti dei nostri diplomatici.”

Blinken, insomma, si è scelto come modello come la Albright chi in un’intervista di 60 minuti con Lesley Stahl, sostenne che la morte di mezzo milione di bambini iracheni presumibilmente a causa delle sanzioni “ne valeva la pena”.

VIDEO QUI: https://www.youtube.com/watch?v=G8MGiPo5IxU&feature=emb_rel_end

Se questo è il modello, c’è da stare poco allegri.

Albright in seguito ha criticato l’intervista di Stahl, sostenendo che è caduta inconsapevolmente in una trappola tesa dal giornalista e non intendeva sostenere che i bambini iracheni siano superflui.

Tuttavia, nonostante le polemiche per questa intervista, non ha cambiato idea sulle sanzioni .

Alla domanda in un evento a Charlottesville nel 2012 sulle sanzioni statunitensi all’Iran, Albright ha respinto apertamente il parallelo con l’Iraq, dicendo che “non erano assolutamente la stessa cosa”.

Albright è stata anche uno delle più esplicite sostenitrici del bombardamento NATO della Jugoslavia guidato dagli Stati Uniti nel 1999.

È stata anche criticata per aver impedito ai caschi blu delle Nazioni Unite di intervenire nel genocidio in Ruanda,  come denuncia questo rapporto.

Più recentemente, l’ex diplomatica ha provocato altre polemiche per aver affermato che esiste “un posto speciale all’inferno per le donne” che non avessero sostenuto l’allora candidata presidenziale Hillary Clinton.

 

Angelo Brunetti

ANGELO BRUNETTI

FONTE: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-se_avevate_ancora_qualche_dubbio_sulla_natura_dellamministrazione_biden/82_40447/

Lockdown, medioevo nel 2021: i terrapiattisti del Covid

Uscire dal medioevo: lo chiedeva (in modo “gridato”) un giornalista come Paolo Barnard, co-fondatore di “Report”, almeno dieci anni fa. Nel saggio “Il più grande crimine”, denunciava il carattere neo-feudale dell’élite eurocratica ordoliberista, capace di coniugare neoliberismo economico e autoritarismo politico-sociale nell’adesione fanatica al dogma mercantilista dell’economia “neoclassica”, tra i fantasmi settecenteschi di David Ricardo (prima produco, poi risparmio: senza possibilità di investire a monte, scommettendo sull’economia), come se il denaro fosse ancora un bene materiale e limitato, paragonabile alle materie prime e ai prodotti agricoli come il grano. Al centro della polemica innescata da Barnard campeggiava la grande menzogna sulla “scarsità di moneta”, utilizzata (ormai in tempi di valuta “fiat”, virtualmente illimitata e a costo zero) da un oligopolio privatistico, pronto a imporre l’austerity per ottenere la più grande retrocessione sociale di massa della storia moderna: il debito pubblico come colpa e come handicap, non più interpretato in modo keynesiano come leva strategica destinata a produrre benessere diffuso attraverso investimenti lungimiranti.

Oggi gli storici dimostrano quanto sia sbagliato utilizzare il termine “medioevo” nella sua accezione tradizionale, oscurantistica e pre-scientifica, gravemente inesatta: gli studi più recenti dimostrano infatti che le maggiori innovazioni rinascimentali, letteralmente Roberto-Speranza3grandiose,  furono generate proprio dalla temperie medievale. L’handicap residuo, semmai, riguarda il profilo politico di quel periodo, ancora dominato – al netto delle tante eccezioni virtuose, in alcune aree europee – dalla cappa di piombo rappresentata dal potere assolutistico per eccellenza, quello teocratico, storicamente nemico del progresso e capace di condizionare negativamente l’evoluzione in senso costituzionale delle stesse monarchie. E’ proprio quel medioevo, probabilmente, a pesare ancora – e molto – sull’attualità odierna, con personaggi come Angela Merkel ed Emmanuel Macron, fino a ieri impegnati (in chiave anti-italiana) a cementare l’asse franco-tedesco in una sorta di grottesca riedizione del Sacro Romano Impero di marca carolingia.

La vocazione “medievale” di un certo potere globalista è riemersa anche a livello atlantico, nell’opaca sovragestione di un fenomeno terroristico come l’Isis, ultima reincarnazione della filiera dell’orrore inaugurata durante l’era Bush e perfettamente tollerata, in Medio Oriente, da una superpotenza che per anni non ha mosso un dito per fermare quei tagliagole che sembravano usciti da un b-movie ambientato nell’epoca delle crociate. Paura e sottomissione: dallo spread manipolato alle prodezze (incontrastate) del “califfo” Al-Baghdadi, il passo è stato brevissimo. Attori e metodi diversi, in apparenza estranei l’uno all’altro, ma nella sostanza rispondenti al medesimo Isisschema: terrorizzare le masse per renderle impotenti, pronte all’obbedienza più cieca, azzerando la politica secondo lo slogan ormai celebre del credo neoliberista. Ovvero: non ci sono alternative, rispetto alle decisioni che il regime dominante fa calare dall’alto, come indiscutibile verità di fede.

E’ di stampo chiaramente medievale anche la recentissima guerra santa scatenata contro le cosiddette fake news, prodotte dalle fonti indipendenti: serve a silenziarle, convalidando così le tonnellate di fake news sfornate, in serie, proprio dal sistema mediatico mainstream. Un capitolo particolarmente ignominioso, destinato a passare alla storia (almeno, quella dell’informazione), riguarda la decisione del governo Conte-bis di istituire una sorta di Ministero della Verità, apertamente dichiarato, per mettere il bavaglio alle notizie scomode sul fronte pandemico-sanitario. Un triste primato, quello italiano, eguagliato – in barbarie – solo dalla decisione di Big Tech di silenziare Donald Trump nell’autunno 2020, togliendo letteralmente il diritto di parola al presidente degli Stati Uniti d’America, quand’era ancora in carica e nel pieno esercizio delle sue funzioni: una lesione democratica difficilmente dimenticabile, specie nel grande paese che si vanta di essere (stato) la culla della democrazia occidentale, cui dobbiamo buona parte della nostra stessa modernità.

C’è ben poco di moderno, in realtà, nell’arcaico mitologismo dell’approccio scientista (non più scientifico) degli ultimi decenni, in cui un gruppo di tecnici allevati dall’Onu ha decretato l’origine meramente antropica delle variazioni climatiche che stanno mettendo a dura prova l’ecosistema terrestre. Come se si trattasse di un nuovo credo religioso, gli specialisti dell’Ipcc Panel hanno avuto bisogno – per diffondere le loro tesi – di un clero particolarissimo, supportato dai grandi media e capitanato da una influencer svedese di appena 16 anni. Tipicamente medievale, in senso deteriore, lo stile della narrazione: è così, punto e basta. Vietato eccepire: per chi dissente, è pronto il rogo (metaforico, oggi) con cui arrostire gli eretici, destinati come minimo alla gogna. Per questa via, di trauma in trauma, con la medesima violenza Gretaculturale si è arrivati – in pochissimi mesi – a bollare con il marchio più infamante, quello del negazionismo, chiunque osasse contestare non già l’esistenza del pericolo-Covid, ma il metodo scelto per arginarlo.

Era la primavera 2020 quando alcuni tra i maggiori epidemiologi del mondo, già in prima linea nel contrasto dell’Ebola, firmarono la Dichiarazione di Great Barrington. La tesi poteva sembrare persino ovvia: è illusorio sperare di arginare un virus ad elevatissima contagiosità. Proposta secca, dunque: isolare anziani e malati, e favorire invece il rapido contagio della gran parte della popolazione, in modo da indurre lo stesso virus a diventare innocuo, per il nostro organismo. Non stupisce, purtroppo, che le raccomandazioni di Great Barrington (nel frattempo sottoscritte da decine di migliaia di medici e scienziati) siano rimaste lettera morta, ignorate dai grandi media. Un anno dopo – marzo 2021 – eminenti specialisti confermano: i paesi come la Svezia, che non hanno adottato nessun lockdown, non pagano un prezzo più alto di quelli che, invece, hanno ceduto alla tentazione delle restrizioni. A giugno, la Svizzera celebrerà addirittura un referendum: saranno i cittadini a dire fino a che punto un governo ha diritto di sospendere la libertà, in cambio di una sicurezza sanitaria solo promessa (e con la certezza di devastare l’economia).

Negli ultimi giorni, la tesi epidemiologica di Great Barrington (protezione sanitaria selettiva e promozione diffusa dei contagi) ha conquistato le prestigiose pagine di “Science”, sulla scorta di una recente ricerca universitaria statunitense, illuminata ormai anche dalle statistiche. Di nuovo: se si insiste con il distanziamento sociale, non si risolve nulla. Peggio: così facendo, di Covid si parlerà ancora per decenni. L’alternativa? Semplice: isolare i soggetti fragili ed esporre tutti gli altri al contagio, nel più breve tempo possibile. La scommessa: se i contagiati diventano decine milioni, il virus si adatterà al nostro organismo, cessando di rappresentare una minaccia. E, nel frattempo: occorre decidersi finalmente a curare, a casa e in modo tempestivo, i soggetti che si ammalano. Il nuovo medioevo italiano, incarnato da Terrapiattismoun potente gruppo di tecnocrati di cui il ministro della sanità funge da zelante portavoce, dopo un anno di epidemia (e centomila decessi) ancora non prevede un protocollo medico basato sulle cure precoci domiciliari. Secondo i medici, si ridurrebbe anche del 70% il ricorso all’ospedale, garantendo guarigioni rapide.

Roberto Speranza, e con lui i tanti “terrapiattisti del Covid”, si comportano tuttora come se ignorassero l’esistenza di cure efficaci e ormai collaudate, prescrivibili da casa. Di fronte all’impennata dei contagi (ovvia, dato il periodo stagionale, e salutata con favore dai medici che puntano all’immunità di gregge, grazie alla stragrande maggioranza di contagiati asintomatici), questi personaggi sembrano davvero agire come i teorici della Terra Piatta: dopo un anno di restrizioni rivelatesi perfettamente inutili, oltre che catastrofiche per l’economia, insistono nel proporre la vana stregoneria del lockdown, il disastroso sacrificio umano imposto a 60 milioni di persone, come se questo bastasse a estinguere un virus che invece, dicono gli scienziati, è ormai palesemente endemico. Come nelle fiabe, all’oscuro nemico pressoché onnipotente si pretende di opporre un solo rimedio, il vaccino, che semmai è raccomandabile come forma di protezione delle fasce più fragili della popolazione. Per ora, purtroppo, continua a vincere il medioevo. O meglio, le leggende sul medioevo: come la storiografia contemporanea rivela, infatti, alla Terra Piatta non credevano nemmeno nell’anno mille.

(Giorgio Cattaneo, “Lockdown, medioevo nel 2021: grazie ai terrapiattisti del Covid”, dal blog del Movimento Roosevelt dell’8 marzo 2021).

FONTE: https://www.libreidee.org/2021/03/lockdown-medioevo-nel-2021-i-terrapiattisti-del-covid-2/

 

 

La “Reality Police” della Nuova Normalità

C.J.Hopkins
unz.com

Quindi, secondo Facebook e l’Atlantic Council, ora sarei un “individuo pericoloso,” sapete, come un “terrorista,” o un “assassino seriale,” o un “trafficante di esseri umani,” o qualche altro tipo di “criminale.” Oppure avrei tessuto le lodi di “individui pericolosi,” o diffuso i loro simboli, o  tentato in altri modi di “seminare il dissenso” e causare “danni offline.”

In realtà, non ho ben chiaro di cosa sarei colpevole, ma sono sicuramente una persona orribile, con cui non dovreste avere assolutamente nulla a che fare, le cui rubriche non dovreste leggere, i cui libri non dovreste acquistare, e la cui condivisione dei post su Facebook potrebbe farvi sospendere immediatamente l’account. O, come minimo, farvi arrivare questo avvertimento:

Un attimo, aspettate, non cliccate ancora sulla x in alto a destra. Siete già sul sito web in cui è postato questo “pericoloso” e “terroristico” articolo (o lo state leggendo in una e-mail, probabilmente sul vostro telefono), il che significa che il vostro nome è già sulla lista ufficiale dei “lettori di contenuti che potrebbero incitare alla strage.” Quindi, a questo punto, tanto vale andare fino in fondo.

Inoltre, non preoccupatevi, non ho intenzione di lamentarmi di come Facebook sia stato cattivo con me per un post di 2.000 parole … beh, magari lo farò, ma, più che altro, vorrei farvi capire come la “realtà” venga fabbricata e controllata da società globali, come Facebook, Twitter, Google, i media mainstream, naturalmente, le piattaforme di crowdfunding, come Patreon e PayPal, e i “think tank,” come l’Atlantic Council e il suo Digital Forensic Research Lab (“DFRLab”).

Prima, però, lasciate che vi racconti le mie disavventure su Facebook.

Quello che è successo è che ho scritto un post su Facebook e molte persone hanno cercato di condividerlo, così Facebook e il DFRLab hanno sospeso o disabilitato i loro account, o, semplicemente, impedito loro di condividerlo, inviando loro l’avviso di cui sopra. Facebook non ha sospeso il mio account, o censurato il post sul mio account, o mi ha contattato per farmi sapere che mi consideravano ufficialmente un “individuo pericoloso.” Hanno invece punito chiunque cercasse di “pubblicizzare” il mio “pericoloso” post, una tattica che chiunque sia stato in un campo di addestramento o in una prigione (o abbia visto questa classica scena da Full Metal Jacket), conosce bene.

Ecco il “pericoloso” post in questione. (Se siete particolarmente sensibili ai contenuti “terroristici,” prima di avventurarvi oltre è meglio che inforchiate i vostri occhiali “filtra-terrorismo,” o che prendiate qualche altra misura profilattica per proteggervi dai “danni offline“).

La foto, che ho rubato a Gunnar Kaiser, proviene da una mostra d’arte a Düsseldorf, Germania. Il mio commento è autoesplicativo. Come potete vedere, è estremamente “pericoloso.” Irradia letteralmente “danno offline.”

OK, prima che mi scriviate per informarmi che questo è solo il prodotto di uno stupido algoritmo di Facebook, pensate a quello che ho riportato sopra. Se un algoritmo impedisse la condivisione e sospendesse gli account personali in base all’individuazione di parole chiave, avrebbe censurato il mio post originale e, presumibilmente, sospeso il mio account. Ma, se Facebook ha un algoritmo in grado di riconoscere certe frasi “pericolose” e poi censura o sospende gli account delle persone che condividono un post che include quelle frasi, ma non censura il post originale o sospende l’account dell’autore del post … beh, è un po’ strano, no?

In ogni caso, poco dopo averlo pubblicato, su Facebook ho iniziato a vedere segnalazioni come questa:

 

Questi sono solo alcuni esempi, ma penso vi siate fatti l’idea.

Il punto è che, a quanto pare, la corporatocrazia si sente minacciata quel tanto che basta da persone prese a caso su Facebook da dover condurre queste operazioni di controspionaggio. Seriamente, pensateci per un minuto. Non sono Stephen King o Margaret Atwood. Non sono nemmeno Glenn Greenwald o Matt Taibbi. Sono un mediocre autore di letteratura alternativa e, fondamentalmente, un satirico politico e un blogger, eppure Facebook e i loro partner all’Atlantic Council, e AstraZeneca, e Pfizer, e Moderna, e chissà quali altre corporation globali e transnazionali, organizzazioni non governative come il WEF e l’OMS, considerano una non entità come il sottoscritto una minaccia alla loro narrativa sulla “Nuova Normalità” sufficiente quanto basta da richiamare l’attenzione della Reality Police.

Ora, lasciate che sia chiaro a chi mi sto riferendo quando parlo di “Reality Police.” La partnership di Facebook con l’Atlantic Council è solo un esempio, ma abbastanza valido. Ecco un breve profilo del Consiglio Atlantico …

“Il Consiglio Atlantico degli Stati Uniti è stato fondato nel 1961 come think tank e organizzazione anticomunista di pubbliche relazioni per patrocinare, all’interno degli Stati Uniti, il sostegno alla NATO nel secondo dopoguerra … l’elenco dei direttori attuali, onorari e a vita è praticamente una galleria bipartisan dei criminali di guerra americani, tra cui Henry Kissinger, George P. Shultz, Frank Carlucci, James A. Baker, R. James Woolsey, Condoleezza Rice, Colin Powell, Robert Gates e Leon Panetta. Tra gli ex presidenti del Consiglio Atlantico vi sono due funzionari dell’amministrazione Obama, James L. Jones, (consigliere per la sicurezza nazionale) e Chuck Hagel (segretario alla difesa). Il presidente del consiglio è Brent Scowcroft, un ufficiale in pensione della US Air Force che ha ricoperto posizioni di sicurezza nazionale e di intelligence nelle amministrazioni Nixon, Bush I e Bush II. È finanziato da sostanziose contribuzioni da parte del governo e delle corporation del settore finanziario, della difesa e del petrolio. Il resoconto annuale del 2017 documenta anche grossi finanziamenti da HSBC, Chevron, The Blackstone Group, Raytheon, Lockheed Martin e Ford Motor Company, e molti altri. Nella categoria dei donatori da 100.000 a 250.000 dollari c’è anche Google Inc. Tra i maggiori sponsor del consiglio troviamo il Dipartimento di Stato USA, il Foreign & Commonwealth Office del Regno Unito e gli Emirati Arabi Uniti. Altri contributori includono Arabia Saudita, Qatar, Boeing, BP, Exxon, l’esercito, la marina, l’aeronautica e il Corpo dei Marines degli Stati Uniti.”  Kevin Reed, World Socialist Website

Queste sono le persone che stanno sorvegliando la “realtà” (la “realtà” che hanno fabbricato e che stanno continuando a costruire, momento per momento), che decidono cosa è successo o non è successo ufficialmente, cosa significhi e chi si qualifichi come “fonte autorevole di notizie,” e che “verificano con i fatti” tutto ciò che vediamo su Internet. Non sono nerd brufolosi o hacker fumati di Menlo Park. Stiamo parlando di GloboCap e del complesso militare-industriale.

Se siete uno dei miei ex amici e colleghi “New Normal” (o uno dei miei troll su Facebook o Twitter) e, per qualche ragione sconosciuta, state ancora leggendo questa rubrica, e forse siete in procinto di farvi “vaccinare” in via sperimentale o di denunciare uno dei vostri vicini per non aver indossato la mascherina o per essere all’aperto senza un valido motivo, sappiate che è GloboCap che fabbrica la vostra “realtà” e la cosiddetta “scienza,” che, secondo voi, io starei “negando,” anche se la realtà è proprio davanti ai vostri occhi…

Naturalmente, questo non era iniziato con la “Nuova Normalità.” Ogni sistema di potere fabbrica la propria “realtà” (i sistemi totalitari in modo più fanatico di altri). No, ho già scritto sulla fabbricazione della “normalità e sulla guerra al dissenso e al populismo che GloboCap porta avanti senza interruzione contro chiunque si opponga alla sua egemonia o rifiuti di conformarsi alla sua ideologia, fin da quando pubblicavo articoli eretici come questo per CounterPunch … prima che gli editori vedessero da che parte soffiava il vento e purificassero ideologicamente l’elenco dei collaboratori per rientrare nelle grazie di GloboCap. (Dopo la purga ideologica, Google  ha reinserito CounterPunch nei ranghi dei fornitori di “notizie reali“).

Ed è così che funziona il controllo della realtà. È fondamentalmente un’operazione di bullismo. Come l”intero fenomeno della “cultura della cancellazione.” “L’annullamento della cultura” è un’etichetta stupida. Stiamo parlando di un impero globale che impone all’intero pianeta una conformità ideologica totale (o, in termini più semplicisti, la sua versione della “realtà“) attraverso la paura e la forza. I nazisti chiamavano questo processo Gleichschaltung [sincronizzazione].

Il capitalismo globale ha raggiunto la fase in cui non ha più bisogno di tollerare il dissenso (qualsiasi tipo di dissenso, da qualsiasi parte) per mantenere l’illusione di “libertà e democrazia,” perché non c’è alternativa al capitalismo globale. È ovunque. Non c’è nessun posto dove fuggire o nascondersi. Quando la Reality Police vi trova e minaccia di “cancellarvi,” avete due scelte… obbedire o essere vaporizzati.

Se siete un Palestinese, un Siriano, uno Yemenita, il presidente di un paese africano non cooperativo, o qualche altra persona non occidentale, potreste benissimo essere vaporizzati fisicamente. Per gli occidentali, la vaporizzazione è meno drammatica e definitiva. Verrete semplicemente esclusi da Internet, licenziati, ostracizzati socialmente, considerati  “individui pericolosi,”  “razzisti,”  “antisemiti,”  “teorici della cospirazione,” “suprematisti bianchi,”  “terroristi interni,”  “anti-vax,”  “negazionisti del Covid.”

Se siete un membro dei media indipendenti, o un attivista di primo piano, o un avvocato, o un medico, o semplicemente qualcuno con un certo seguito sui social media e non avete visto la luce della “Nuova Normalità,” allora sarete demonizzati, demonetizzati, deplorati, censurati, e sottoposti alle raccapriccianti tattiche di controspionaggio che ho descritto sopra. Se non mi credete, basta chiedere a Robert F. Kennedy, Rainer FuellmichVanessa BeeleyWhitney WebbJames CorbettKen JebsenCory MorningstarThe Last American VagabondGeopolitics & EmpireThe Centre for Research on Globalization, OffGuardian, e ad innumerevoli altre persone e blog che hanno sfidato la narrativa ufficiale della “Nuova Normalità.”

Oppure, date un’occhiata a questo “avvertimento” che arriva su Twitter appena si tenta di leggere qualcosa pubblicato da OffGuardian …

Potrei continuare all’infinito, e sono sicuro che lo farò nei prossimi articoli. Al momento questa è l’unica storia [che valga la pena narrare], il passaggio dalla democrazia simulata al totalitarismo patologizzato come struttura di governo del capitalismo globale. Per ora, vi lascio solo con un’altra immagine in questo pezzo già eccessivamente pittorico. Non preoccupatevi, è stata accuratamente “verificata,” quindi non c’è bisogno di leggere o mettere in discussione le avvertenze scritte in piccolo (anche se ho la sensazione che lo farete) …

Fate attenzione alle “coincidenze non correlate.”  Alcune di esse, ho sentito dire, possono essere piuttosto sgradevoli.

C.J.Hopkins

Fonte: unz.com
Link: https://www.unz.com/chopkins/the-new-normal-reality-police/
22.03.2021

FONTE: https://comedonchisciotte.org/la-reality-police-della-nuova-normalita/

 

 

 

CULTURA

Dantedì? Se Dante potesse ci picchierebbe, altroché. Per lui la libertà era sacra, per noi il lockdown è infinito

25 03 2021

Lui uscì a riveder le stelle, liberandosi dal male, noi, a malapena, possiamo uscire per fare la spesa.

Celebrare Dante in galera, leggerne i suoi versi, musealizzarne l’essenza disinnescandola in maratone di lettura online. Feticismo fariseo. Pareva brutto non fare niente nel giorno dei settecento anni della sua nascita, ovvio. Anche oggi, ci siamo puliti la coscienza. L’equilibrio è ristabilito.

Possiamo evocare il nome dei padri, possiamo disturbare il sonno glorioso dei giusti, possiamo leggerne i versi, persino masturbarci sopra le loro pagine, ma ormai il bluff è svelato: nel profondo nostro, profondo rosso, non sentiamo più accendersi il motivo del nostro esistere e reagire, combattere ed ambire, strettamente legato ai loro insegnamenti, se non per dimostrazione di stile. Quasi sempre, ormai per la totalità, così va. L’eredità si è rotta, la trasmissione interrotta. Riempiamoci pure la bocca, ma domani saremo gli stronzi di sempre.
Ogni nostro sforzo quotidiano dovrebbe essere volto alla ricerca della giustizia, in questi mesi. Sì dovrebbe respirare tensione, non solo generata dalla continua privazione ma dalla necessità di liberarci dal male che buca lo stomaco. Tripartire la nostra volontà quotidiana: famiglia, lavoro e ricerca della giustizia. Ognuno dovrebbe cavalcare il disagio. Eppure sembriamo atomi che non si legano e, per questo, non producono effetti. Passivi, sodomizzati, strillanti su un social network: eccoli i “botoli ringhiosi”, nel Dantedì, che siamo diventati, chiusi nell’infinito pandemico, a gridare nel Purgatorio che osa punire anche solo l’idea di Bene con le fruste dei virologi che lasciano segni sulla schiena: non permetterti di vivere, di sperare, la curva non cala, i contagi esplodono, i morti aumentano, serve un nuovo lockdown, serve altra prigione. E noi qui, oggi, a celebrare Dante che della libertà fece ambizione assoluta?

Ma forse non ci rendiamo pienamente conto. Io mi chiedo: cos’altro debbano fare, dal governo, per non meritarsi una vera e propria sommossa popolare? Forse, dare della mignotta a nostra madre? Come si riesce a intavolare, in ogni disgraziato giorno italiano, un dibattito su questo e quello, quando ad Anagni vengono scoperte magicamente oltre venti milioni di dosi di vaccino, in un Paese che lagna assenza di vaccini e che, proprio per questo, è ancora agli arresti domiciliari ad aspettare che il caldo sciamano, santo e magico, venga a salvarci tutti, o meglio, quelli che, di questo passo, saranno rimasti poiché fuori pericolo rispetto al fallimento economico o psicologico? Ma come si fa? Con quale coscienza? Con quale visione di uomo, di cittadino e di Stato?

Questi cavoli della Boldrini e della figlia di Fedez; questi grandissimi cavoli della corsa scudetto e delle uscite di Michele Serra; questi ingombranti cavoli di Enrico Letta e del nuovo suicidio del Pd. Questi rampanti cavoli di ogni cosa mobile o immobile, compreso il Dantedì, tanto siamo sempre meno degni di ricordare un padre nobile. Quel padre ci disconoscerebbe: “Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta (Pg I 71). La vita rifiuta per lei. E noialtri, poveri farisei virtuali, me in primis, non stiamo rifiutando la vita per giungere alla libertà, non compiamo il sacrificio della ribellione – eppure c’è chi ancora va definendosi tale in un giubilo mistico di infantilismo e tenerezza -, ma abbiamo accettato, supinamente, la riduzione della vita stessa a un’eccezione. Dante, nei suoi passi, mostra una continua tensione alla redenzione, alla libertà come fondamento dell’integrità degli uomini, in continuo equilibrio tra libero arbitrio e sfera morale: “dalle prime opere fino alla Commedia, dove continuamente presente è la tensione dell’anima verso la purificazione degli affetti, sostenuta dalla ragione e illuminata dalla grazia”, ci ricorda Bruno Bernabei nell’Enciclopedia Dantesca, “Libertade è tra i vocaboli centrali del mondo dantesco, pervaso dall’ideale della libertà”. Il rovesciamento dalla servitù. Quella dantesca appare non come una libertà “di” (che oggi pretendiamo come se ciò che facciamo determina la nostra esistenza, specie in rapporto agli altri), ma una libertà “da”. E qui risuona più forte di tutte le letture online della Divina commedia online del cacchio di questa giornata, l’ammonimento di Alighieri esiliato ai concittadini, che possiamo oggi leggere non solo con accezione al Divino, ma anche come evocazione più alta di cosa sarebbe giusto fare per non essere più considerati cittadini de iure e sudditi de facto: “Non vi accorgete…che è la cupidigia che vi domina,…che vi tiene costretti con minacce fallaci e vi imprigiona nella legge del peccato e vi proibisce di ubbidire alle santissime leggi […] l’osservanza delle quali…non solo è dimostrato che non è servitù, ma anzi, a chi guardi con perspicacia, appare chiaro che è la stessa suprema libertà”. Libertà dantesca, nobile affrancamento che dovrebbe essere anzitutto dalle macerie di noi stessi e dalle nostre aspettative: attendiamo, e i giorni della pandemia ne sono testimonianza, che la libertà ci venga data, ci venga offerta, peggio ancora, ci venga concessa.

Dunque eccoci qui a celebrare il cimitero, la Cultura come rito forzato, atto dimostrativo, il ricordo come ricorso. Eccoci, oggi, a spolverare le bomboniere nella cristalliera, ricordando i tempi che furono. Nel frattempo ci ricordo che, quasi sicuramente, le restrizioni dureranno anche dopo Pasqua, fino al 13 o al 18 aprile, nonostante le dichiarazioni del ministro Franco e dello stesso Draghi “sull’ultimo sforzo” e su “da dopo Pasqua ricomincia gradualmente una parvenza di normalità”. E chi gli impedisce di non proseguire con le zone rosse fino a metà maggio?

Ancora una volta: i padri sono sempre più giovani di noi, anche se hanno settecento anni. Mentre lo ricordiamo e mentre lui ricorda chi siamo e come siamo fatti, chiediamo scusa a Dante della nostra inconsistenza. E questo Regno cretino, se voleva dare vita a qualcosa di concreto, poteva almeno regalare una copia della Divina a ogni studente. Una casa, una Divina commedia, che è lettura degli uomini, del tempo, di Dio. Ben più di un’interrogazione.

“Color che ragionando andaro al fondo, s’accorser d’esta innata libertate; però moralità lasciaro al mondo “. Quale moralità può lasciare un mondo umano in rovina che si limita a farsi sterilizzare, a replicare, a godere dell’immagine-verità, a prostituirsi verso chiunque politicamente possa garantire le proprie necessità di sopravvivenza, che campa di mera gratificazione istantanea, che rinuncia al proprio pensiero critico per cucire in fretta e senza approfondire, il reale e i suoi accadimenti, morendo nel nozionismo, nelle porzioni di dichiarazioni dei media, del web, dei leader che dà vita a una percezione di conoscenza?

Anche oggi ci siamo puliti la coscienza. Anche oggi abbiamo constatato, in gran parte, l’inutilità degli intellettuali in questo mondo, l’inutilità degli intellettuali che si esprime nell’impossibilità di tradurre e declinare, di contaminare la sfera morale, e non solo pompare le possibilità infinite del libero arbitrio, e la volontà degli stessi di apparire, di monetizzare, di farsi riconoscere. Vuoti simulacri. Nello sforzo dell’anima per uscire dal peccato, nel riportare il mondo ad un salvifico antropocentrismo.

È Massimo Dapporto, nei suoi ragionamenti sulla libertà dantesca, a ricordarcelo: “Ancora la dialettica fra libertà e schiavitù; tra un giudizio non compromesso dalla passione e il condizionamento dell’appetito. Perché la libertà in Dante è “de la volontà la libertate”, come dirà in Paradiso o, nelle parole ancora della Monarchia, “principio primo della nostra libertà si è la libertà dell’arbitrio”. Anche qui, l’io della modernità non può che sentirsi lontano, forse dolorosamente lontano, dalle certezze dantesche. L’io spodestato del soggetto moderno, non più padrone a casa sua; l’io invaso dall’inconscio, o disturbato dal progresso delle neuroscienze, che non sanno dove collocare l’organo della libertà nella contemporanea topografia del cervello, rischiano di rendere il concetto di libertà dantesca remoto, supremamente inattuale. Dante vive in un regime intellettuale e morale di orgogliosa alterità antropocentrica; in cui la diversità radicale della ragione apparenta l’uomo al divino e alla sua trascendenza”, così come fu per il genio dell’imperfezione, Leonardo, e così come fu per quell’uomo rinascimentale, che mise in asse Natura, Bellezza e Assoluto, che noialtri, poveri topi da laboratorio, andiamo cercando ma che sempre meno riusciamo a capire. 

FONTE: https://blog.ilgiornale.it/ricucci/2021/03/25/dantedi-se-dante-potesse-ci-picchierebbe-altroche-per-lui-la-liberta-era-sacra-per-noi-il-lockdown-e-infinito/

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

Bizzi: fine dell’Operazione Corona, a partire dal 12 aprile

Contrordine, cari concittadini: niente più lockdown a Pasqua. Il clamoroso dietrofront di Angela Merkel, che si è scusata coi tedeschi («è stato un mio errore»), secondo Nicola Bizzi conferma quanto annunciato da lui stesso nelle scorse settimane. Ovvero: «Entro una data precisa – il 12 aprile – dovrà essere avviata, in modo vistoso, la de-escalation dell’emergenza Covid». Lo afferma lo storico fiorentino, editore di Aurora Boreale e co-autore del saggio “Operazione Corona, colpo di Stato globale”, nella trasmissione web-streaming “L’orizzonte degli eventi“, il 25 marzo. Una conferma l’ha offerta Gioele Magaldi, poche ore prima, nella diretta su YouTube “Massoneria On Air” condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights” sul tema del Grande Reset enunciato a Davos. «Non è certo casuale – ha sottolineato Magaldi – la data del 1° Maggio, serata in cui il Movimento Roosevelt compirà una “passeggiata” a Roma, in piazza Campo dei Fiori sotto la statua di Giordano Bruno, per festeggiare – ci auguriamo – anche la fine del coprifuoco». Magaldi lo definisce «una misura di guerra, vergognosamente adottata in tempo di pace per alimentare in modo subdolo il clima di “terrore sanitario” che si è impossessato del paese a partire dal primo folle lockdown varato nella primavera 2020 da Giuseppe Conte».

Colpo di Stato globale? Esattamente, risponde Bizzi. Che cita uno degli autori di “Operazione Corona”, l’esperto finanziario Andrea Cecchi. «Nell’autunno 2019 – riassume Cecchi – il sistema stava letteralmente per esplodere, a causa della crisi dei Repo, le compensazioni Angela Merkelinterbancarie: la bolla finanziaria (derivati e titoli di Stato) era tale, che tutte le banche rischiavano di saltare per aria, da un giorno all’altro, non essendovi più liquidità per sostenere il debito speculativo a catena». Unica possibile soluzione: l’emissione “oceanica” di miliardi, da parte delle banche centrali: un evento senza precedenti, nella storia. Serviva però un alibi altrettanto “storico”: per esempio una crisi mondiale pilotata, innescabile solo attraverso una pandemia. Cecchi mette in fila due momenti fondamentali: a giugno 2019, la Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) lanciò l’allarme sistemico. Tradotto: sta per crollare l’intero sistema finanziario del pianeta. A ottobre, ecco l’Event 201: viene effettuata la spettacolare simulazione di un evento pandemico capace di paralizzare il mondo, causato da un virus altamente contagioso ma a bassa letalità.

Poco dopo, ecco il coronavirus di Wuhan e il lockdown della Cina: per la prima volta nella storia, i cittadini vengono tutti rinchiusi in casa. «Obiettivo immediato dell’operazione: abbattere la domanda e in particolare la richiesta di prestiti. A questo mirava il blocco dell’economia – sostiene Cecchi – in attesa che poi si passasse alla fase due, cioè l’emissione di fiumi di denaro (da parte delle banche centrali) con l’alibi della crisi pandemica». Come dire: non possiamo più lesinare la moneta, dobbiamo “produrla” – a costo zero – senza limiti, e subito. Fece scalpore, in questo senso, l’intervento di Mario Draghi sul “Financial Times” a marzo 2020: agire «come in guerra», inondando di soldi gli Stati, le aziende e le famiglie. Un compito interpretato con tempestività, in Europa, da Christine Lagarde: la Bce ha smentito la sua stessa storia, tenendo in piedi paesi come l’Italia con l’acquisto di Btp per decine di miliardi di euro, senza Andrea Cecchipiù badare ai guardiani (tedeschi) dell’austerity. Tutto bene? Sì, se questo era indispensabile per evitare il peggio. Il risvolto è meno nobile, secondo questa lettura: l’intera operazione di monetazione straordinaria sarebbe stata motivata in primis dalla necessità di salvare la finanza, usando come alibi una “pandemia” gonfiata ad arte.

E adesso chi si sta adoperando per “sgonfiarla”, a partire dal 12 aprile 2021? Dice Nicola Bizzi: sono esattamente quei soggetti finanziari che ormai si sentono al sicuro: la grande paura del virus, infatti, non “serve” più. Bizzi fa un nome di enorme peso (i Rothschild) e ricorda – sul piano visibile, geopolitico -il ruolo decisivo giocato dalla Russia di Putin: col suo vaccino Sputnik («che è un antinfluenzale») ha di fatto “smontato” il teatro politico-mediatico del terrore, portandosi dietro oltre metà del mondo, dall’India al Sudamerica. «La stessa Cina, che è stata utilizzata per far partire “l’Operazione Corona”, cioè l’epidemia di Wuhan, il grande terrore e la pratica sistematica del lockdown, adesso non vede l’ora di chiudere la partita». Bizzi ricorda il ruolo dell’Italia di Conte: «E’ stato il primo paese occidentale ad applicare la ricetta della dittatura cinese, facendo da apripista per gli altri Stati democratici».

Nicola Bizzi vede la mano di Putin anche nella resistenza della Bielorussia, il cui presidente (Alexandr Lukashenko) denunciò di aver subito pressioni dall’Oms e dal Fmi, con offerte miliardarie, per fare il lockdown «come in Italia». In Russia, l’emergenza è finita da tempo: abolito ogni obbligo di distanziamento. «E attenti, la campagna vaccinale sta per essere smobilitata: è clamoroso che i grandi media si siano permessi apertamente di parlare delle reazioni avverse causate dal “vaccino” AstraZeneca, e paesi come la Polonia stanno già sbaraccando i loro centri vaccinali». Per Bizzi, si tratta di un copione preciso: «A fine 2020, nel grande potere, la cordata vincente (finanziaria) ha imposto ai “falchi” di Big Pharma la seguente soluzione: entro il 12 aprile 2021 si sarebbero impegnati a rendere visibile la retromarcia. Per “premio”, Bizzinon sarebbero stati processati per i loro crimini». Ed è quanto sta avvenendo, assicura Bizzi: «Se davvero il “partito del lockdown” farà dietrofront da metà aprile, non ci sarà nessun Processo di Norimberga per l’abominio che è stato appena commesso, su scala planetaria».

Inquietante, sotto questo aspetto, il voltafaccia dell’ex regina d’Europa: la Merkel ha prima annunciato il più severo dei lockdown in occasione delle festività pasquali, e poi – poche ore dopo – si è rimangiata tutto, chiedendo scusa ai tedeschi. E’ l’indizio più evidente del clamoroso terremoto di cui parla Bizzi? «Diciamo che si tratta di ipotesi ben circostanziate, fondate su informazioni precise che provengono dal mondo dell’intelligence, e non solo». Aggiunge Bizzi: da settimane, le agenzie di rating – megafono di Wall Street – annunciano la fine dell’emergenza pandemica entro aprile, con la forte ripresa di settori come il turismo e l’immobiliare. In questa gigantesca farsa – dice Bizzi – i “non-vaccini” in distribuzione (preparati genici sperimentali) verranno usati dal mainstream per giustificare l’allentamento delle restrizioni e la loro veloce scomparsa. In questa partita, più finanziaria che sanitaria – chiosa Bizzi – si era inserito anche un progetto allucinante, quello di chi mirava al “depopolamento” del pianeta attraverso l’inoculo di sostanze pericolose: ma quel progetto è tecnicamente fallito, per nostra fortuna. «Un consiglio? Intanto, evitare quei “vaccini”, che veri vaccini non sono». Se il quadro sarà confermato, del Covid non sentiremo parlare più: doveva servire essenzialmente a stampare miliardi? Bene: missione compiuta.

FONTE: https://www.libreidee.org/2021/03/bizzi-fine-delloperazione-corona-a-partire-dal-12-aprile/

 

 

 

Non è stato un incidente: avanza un’agenda inesorabile

Un temporale fa dei gesti grigi, racconta Paolo Conte in una bella canzone di qualche anno fa, quando ancora le persone circolavano libere e a viso scoperto, sapendo di non dover temere niente più di quanto gli ordinari programmi dell’universo avessero in cantiere, quanto a imprevisti e inconvenienti. Le agende dell’epoca non avevano raggiunto il grado totalitario, elettromagnetico e satellitare della cyber-zootecnia di oggi: esistevano ancora menti pensanti e dissonanti, zone-rifugio, individui non armati di smartphone e non schedati sui social. Poi crollarono imperi e torri, mentre terrorismi e guerre sbriciolarono le ultime sicurezze, con l’aiuto delle cosiddette crisi finanziarie. E infine – come da copione – arrivò la grande peste, lungamente annunciata. Irruppe al momento giusto, su uno scenario sbilanciato: la narrazione totalmente ipnotica della leggenda climatica, la santificazione dell’esodo umano sui barconi come destino inevitabile e persino desiderabile. E poi il feudo atlantico momentaneamente fuori controllo, e il marchesato cinese ansioso di servire da clava, nella guerra santa del globalismo mercantile fatto solo di numeri e obbedienza cieca.

Il grande strappo era necessario, per l’agenda dei sommi pianificatori, che a loro volta hanno l’aria di essere meri esecutori, sia pure dotati di formidabile talento per la zootecnia antropologica. Non è stato un incidente, il vortice che ha spalancato il baratro del 2020. Non è stato un Boris Johnsonincidente, si suppone, nemmeno la disavventura in cui è incorso Boris Johnson, l’uomo che si era schierato contro la follia contagiosa dei lockdown. Ad avanzare sospetti è Gioele Magaldi: ne parlerà nel suo prossimo libro, in uscita a ottobre, con risvolti allucinanti sulla genesi del grande strappo. Il premier inglese sarebbe stato prima spaventato a morte e quasi ucciso, e poi blandito con sapienza, perché non si sognasse di fare del Regno Unito un cattivo esempio, cioè un paese che esce dalla peste col minimo di vittime, senza devastare l’economia e l’esistenza stessa di milioni di persone. Qualcosa del genere, in piccolo, dice sempre Magaldi, era avvenuto nella Francia sconvolta dagli attentati terroristici: si trattava di piegare François Hollande, investito come leader anti-rigore (in opposizione alla nefasta leadership della Merkel) e poi ricondotto alla ragione, tra minacce e promesse.

Piccolezze, forse, di fronte alla magnitudo planetaria del grande strappo in corso, il cui copione passa per l’attesa messianica di un vaccino anomalo, un preparato genico che agisce direttamente sul Dna, senza che si conoscano gli effetti dell’innesto. Ma è solo l’antipasto, verso il bersaglio grosso: attuare, da subito, una sorta di riconversione universale del vivere, pensata dall’alto, sulla base di calcoli riservati e proiezioni inconfessabili, fidando come sempre nella docilità della politica, ormai ridotta a intrattenimento imbarazzante, e nella lingua biforcuta della narrazione, parole e voci a cui la maggioranza dormiente non sa ancora staccare la spina. Le acuminate analisi dei non pochi eretici si spingono tra le nubi a bassa quota, nei cieli intermedi dove i globocrati esercitano il loro imperio incontrastato, affidato a volti rassicuranti che declinano parole d’ordine soavemente decantate a reti unificate. Se rasoterra c’è chi ancora guarda alle scimmiette dei partiti, qualcuno invece riconosce addirittura gli ordini degli invisibili manovratori, ma poi non indovina da dove vengano, a loro volta, le istruzioni che anche costoro ricevono. E intanto il temporale avanza, come ricorda Paolo Conte, e fa i suoi gesti grigi.

(Giorgio Cattaneo, 27 febbraio 2021).

FONTE: https://www.libreidee.org/2021/02/non-e-stato-un-incidente-avanza-unagenda-inesorabile/

 

 

 

Conte Priamo e Bill Gates: l’Italia finisce come Troia

giovedì 14 maggio 2020 – Ruggiero Capone

 

L’idea che Bill Gates, uomo più ricco del mondo, possa telefonare a Giuseppe Conte (premier italiano) non poteva mai sfiorare la mente di qualcuno, nemmeno del più perverso e fantasioso ispiratore di trame fantapolitiche. Ed anche oggi, che quella telefonata c’è stata, suona come se il fantasma di Frank Sinatra abbia telefonato a Nino D’Angelo. S’afferma questo con il massimo rispetto per D’Angelo, senza dubbio alcuno vero interprete della tradizione melodica napoletana, diversamente da Conte che rappresenta la vera nota stonata nella nostra democrazia. Poi sono tornati tutti i conti sulla telefonata di Gates (un patrimonio ben superiore a 110 miliardi di dollari)  a Conte premier. Infatti Gates è socio di Xi Jinping (segretario generale del partito comunista cinese e presidente della repubblica popolare cinese) nella società che dovrebbe abbracciare il mondo col progetto d’interconnessione totale noto come 5G.

Ma facciamo un salto indietro, a quel primo dicembre 2018, quando s’acuivano le tensioni tra Cina e Stati Uniti, ed a seguito dell’arresto in Canada di Meng Wanzhou (direttrice finanziaria di Huawei, nonché figlia del fondatore del colosso di telefonia di cui sarebbe socio lo stesso Xi Jinping). L’azienda della famiglia Wanzhou ha realizzato per Xi Jinping il sistema di spionaggio globale del cittadino, un qualcosa che supera la stessa fantasia orwelliana del Grande Fratello. L’arresto di Meng Wanzhou avveniva a Vancouver, proprio l’1 dicembre, mentre il presidente cinese, Xi Jinping, e Donald Trump s’incontravano a margine del G20 di Buenos Aires, e per sancire una tregua commerciale. Xi Jinping si sentiva preso in giro da Trump anche per la tempistica dell’arresto, e mentre Pechino parlava di “violazione dei diritti umani”, da Washington spiegavano come la Cina stesse ordendo lo spionaggio completo degli Usa.

Il ministero della Giustizia canadese dichiarava che Meng, figlia di Ren Zhengfei (fondatore del gruppo Huawei ed ex ingegnere dell’Esercito di Liberazione Popolare cinese), era stata arrestata su richiesta delle autorità americane, e nell’ambito dell’indagine su sospette violazioni delle sanzioni iraniane da parte di Huawei. Ma il motivo vero erano le indagini sul super spionaggio cinese in danno Usa. Infatti il gigante cinese delle telecomunicazioni era già sotto controllo da parte di funzionari dell’intelligence statunitense: ritenevano la compagnia una minaccia alla sicurezza nazionale. Secondo quanto poi rivelato del Wall Street Journal, l’amministrazione Trump aveva fatto pressioni sul Canada e su altri alleati stranieri per non utilizzare le apparecchiature Huawei nelle loro nuove reti di telecomunicazioni 5G, e per via proprio dei rischi sul fronte della cybersicurezza. In quei giorni Bill Gates era silente e masticava amaro, il suo fidato amico Vittorio Colao faceva la spola tra Londra (dove amministra il fondo Atlantic) e la Cina, e per collaborare agli interessi finanziari di Microsoft (società di Gates) proprio sul 5G. In quel momento, e viste le circostanze, non si stenta a credere che Gates fosse più filocinese di Xi Jinping.

Secondo l’intelligence Usa, Huawei e altre società cinesi sarebbero monitorate dal governo di Pechino. Ad ottobre 2018, i senatori statunitensi Marco Rubio e Mark Warner avevano scritto al primo ministro canadese Justin Trudeau, esprimendo “gravi preoccupazioni circa la possibilità di interferenze del governo cinese nella rete di telecomunicazioni del Canada”. Comunque la Huawei non è la prima azienda cinese di telecomunicazione a finire nel mirino delle autorità statunitensi. Tra il 2017 ed il 2018, il Dipartimento del commercio statunitense aveva imposto alle società americane il divieto di fornire per sette anni al produttore di smartphone cinese Zte (di cui è socio anche Gates) componenti e tecnologie: tutto a causa del mancato licenziamento di alcuni manager responsabili di aver violato le sanzioni commerciali contro Iran e Corea del Nord.

A maggio 2018, Il divieto costringeva la Zte a chiudere tutte le principali attività negli Usa. Poi Washington raggiungeva un accordo con Pechino, multando la Zte per un miliardo di dollari più il versamento di ulteriori 400 milioni per garanzie su future violazioni.

Huawei è ancor oggi il più grande fornitore mondiale di apparecchiature per telecomunicazioni. Ma le sue attività negli Stati Uniti sono state limitate, e per via dello spionaggio cinese. A maggio 2019, il Pentagono dichiarava che “i dispositivi Huawei e Zte rappresentano un rischio di sicurezza inaccettabile, al personale delle basi militari statunitensi è stato vietato l’acquisto di cellulari di entrambi i gruppi”. Nell’estate 2019 l’Australia ha impedito a Huawei di fornire al paese la tecnologia 5G per le reti wireless, sempre per timori legati allo spionaggio. Il governo neozelandese ha seguito l’esempio australiano a novembre.

Da circa due anni in Europa si dibatte su come affrontare il problema della sicurezza delle nuove reti di “telefonia avanzata”, che di fatto sono monopolio della Cina. Il più grande operatore della Gran Bretagna (BT) ha escluso Huawei dalla fornitura di tecnologie per la realizzazione delle reti di prossima generazione 5G, decidendo d’eliminare i cinesi anche dalle già esistenti reti 3G e 4G. Di fatto l’Italia potrebbe rappresentare per Gates e Wanzhou e Xi Jinping il cavallo di Troia per invadere Occidente ed Europa. Più che di via della seta si tratterebbe d’una eterea vie dello spionaggio. In questa chiave la telefonata di Gates a Conte presenta non pochi lati oscuri. Specie se si considera che Gates è socio di quel Soros che due anni fa incontrava per ore (e col massimo riserbo) Paolo Gentiloni, predecessore di Conte a palazzo Chigi. Di fatto l’Italia è una terra di mezzo nonché un campo di Marte nello scontro tra i poteri economico-cibernetici. Chi governa non ha interesse ad informare i cittadini, ed è lecito affermare che questi giochi sono ben lontani dall’interesse del popolo. Di fatto Gates e Soros sovvenzionano le campagne politico umanitarie del fondo di Hillary Clinton che, secondo molti, avrebbe armato il “Russia Gate” contro Trump. Per disarcionare Trump la fazione legata alla Clinton starebbe trescando con i cinesi amici di Gates? Questo alto tradimento sarebbe per molti l’arma segreta che Trump tirerà fuori in campagna elettorale, convinto che il patriottismo americano non possa esimersi dal biasimare le condotte di Gates, Clinton e Soros. In questo scontro l’Italia cinesizzata sulla “via della Seta” rischia di trovarsi col cerino in mano, abbandonata da Trump, illusa da Pechino e bastonata finanziariamente da Berlino. Dobbiamo riconoscere a Conte l’indubbia capacità d’aver rammentato all’Italia l’identità primigenia che Virgilio ebbe a tratteggiare nell’Eneide, ovvero quella dannata origine troiana di Roma. Quella iattura di Troia, stupenda città che ebbe la forza di calamitare contro di se tutte le ire del mondo classico. Oggi il mondo va ben oltre le Colonne d’Ercole, e Conte Priamo premier è stato capace (forte del suo diplomatico Di Maio) di crear buriana da Washington a Pechino, mettendo in mezzo Gates, Colao e chissà quanti altri. Ecco il vero lockdown.

FONTE: http://www.opinione.it/politica/2020/05/14/ruggiero-capone_bill-gates-conte-xi-jinping-meng-wanzhou-huawei-justin-trudeau-trump-marco-rubio-mark-warner-5g-soros/?altTemplate=Stampa

 

 

 

DIRITTI UMANI

“Curare i malati subito a casa”. Così il Tar stronca le linee del ministero

La sentenza boccia la logica della “vigile attesa”. Il Covid-19 è una malattia che va aggredita subito da casa

Il medico non può perdere tempo e a stretto giro deve decidere “in scienza e coscienza” quale sia la cura migliore per il proprio paziente positivo al Covid-19.

Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio – Sezione Terza Quater ha accolto l’istanza cautelare e per l’effetto ha sospeso l’efficacia del provvedimento impugnato. Il riferimento è al ricorso presentato dai medici Fabrizio Salvucci, Giuseppe Giorgio Stramezzi, Riccardo Szumsky e Luca Poretti contro il ministero della Salute, Aifa – Agenzia Italiana del Farmaco per l’annullamento della nota del 9 dicembre 2020 recante i principi di gestione dei casi Coronavirus nel setting domiciliare nella parte in cui nei primi giorni di malattia prevede unicamente una “vigilante attesa” e somministrazione di fans e paracetamolo, e nella parte in cui pone indicazioni di non utilizzo di tutti i farmaci generalmente utilizzati dai medici di medicina generale per i pazienti affetti da Covid-19.

I giudici lo scorso 4 marzo hanno scritto che il ricorso appare fondato, “in relazione alla circostanza che i ricorrenti fanno valere il proprio diritto/dovere, avente g

iuridica rilevanza sia in sede civile che penale, di prescrivere i farmaci che essi ritengono più opportuni secondo scienza e coscienza, e che non può essere compresso nell’ottica di una attesa, potenzialmente pregiudizievole sia per il paziente che, sebbene sotto profili diversi, per i medici stessi“.

Curare i pazienti a casa

La decisione è stata accolta con grande soddisfazione da Luigi Cavanna, primario di oncoematologia dell’ospedale di Piacenza, che ebbe l’intuizione di curare i pazienti positivi a casa senza farli arrivare in ospedale: “I malati di Covid ai primi sintomi non presentavano una malattia acuta, che richiedeva il ricovero in ospedale. Diventava acuta, con crisi respiratoria, quando non era curata per tempo“. In quelle prime drammatiche settimane c’erano malati attaccati al respiratore anche nei ripostigli, così ha deciso di “andare casa per casa e di iniziare a somministrare i farmaci sin dai primi sintomi, anche prima che arrivasse l’esito del tampone“. Per le ecografie polmonari e per la misurazione dell’ossigenazione bastava uno strumento da trasporto: “Ed era possibile monitorare un paziente tutti i giorni a distanza“.

Dei pazienti di Cavanna, riporta Italia Oggi, nessuno è morto e in pochissimi hanno avuto necessità di ricovero in ospedale. Eppure le visite domiciliari non sono ancora diventate lo strumento principale di cura sul territorio. “Curare a casa e presto è fondamentale, ormai l’esperienza ce lo insegna. Va cambiata la strategia: non deve essere il paziente Covid ad andare in ospedale, ma il medico che deve andare da lui“, ha spiegato il primario di oncoematologia dell’ospedale di Piacenza.

FONTE: https://www.ilgiornale.it/news/cronache/i-giudici-riconoscono-i-positivi-covid-vanno-curati-subito-1930046.html

 

 

 

GIUSTIZIA E NORME

Non c’è l’obbligo di dire la verità in autocertificazione.

Dopo Reggio, Milano conferma l’irregolarità delle autocertficazioni

 

Marzo 26, 2021 posted by Guido da Landriano

 

Dire la verità nella autocertificazioni è un optional. A Milano il giudice per l’udienza preliminare,  Alessandra Del Corvo,  ha assolto un ragazzo di 24 anni accusato di aver mentito  compilando l’autocertificazione con le motivazioni del proprio spostamento  nel marzo del 2020, durante la prima ondata. Il ragazzo aveva ingenuamente affermato di tornare dal lavoro , ma era in realtà in un giorno di riposo.  “Un simile obbligo di riferire la verità – ha dichiarato il gup – non è previsto da alcuna norma di legge”.

Le FFOO hanno accusato il giovane di falso, e quindi hanno imbastito una denuncia penale. Il tutto ha portato il ragazzo a processo con rito abbreviato ma nel procedimento è stato dichiarato innocente in quanto l’obbligo di riferire la verità sarebbe “in palese contrasto con il diritto di difesa del singolo”, come previsto dalla Costituzione,e come chiesto perfino dalla procura. Nella sentenza, si legge che “è evidente come non sussista alcun obbligo giuridico, per il privato che si trovi sottoposto a controllo nelle circostanze indicate, di ‘dire la verità’ sui fatti oggetto dell’autodichiarazione sottoscritta, proprio perché non è rinvenibile nel sistema una norma giuridica” sotto questo aspetto.

A Reggio Emilia il GIP aveva prosciolto e perfino disapplicato i DPCM,  con motivazioni diverse e perfino più gravi, legate alla libertà di movimento. A questo punto , se perfino la procura chiede il proscioglimento, non ha più molto senso fare le verifiche delle autocertificazioni stesse.

Tutto il “Costrutto penale” e sanzionatorio su cui si basavano i DPCM è stato demolito: d un lato non si può giustificare il sequestro penale dei locali  che violano le norme,  dall’altro l’autocertificazione è un optional. Alla fine, per fortuna, la Costituzione vince sulle norme ingiustificatamente liberticide.

FONTE: https://scenarieconomici.it/non-ce-lobbligo-di-dire-la-verita-in-autocertificazione-dopo-reggio-milano-conferma-lirregolarita-delle-autocertficazioni/

 

 

 

 

Fermato in pieno lockdown, scrive il falso nell’autocertificazione: il gup di Milano lo assolve perché “non c’è obbligo di dire verità”

Fermato in pieno lockdown, scrive il falso nell’autocertificazione: il gup di Milano lo assolve perché “non c’è obbligo di dire verità”

La sentenza è destinata a far discutere. Il fatto risale a marzo del 2020 e il gup si è pronunciato oggi accogliendo la richiesta della procura di Milano “perché il fatto non sussiste”. Il giovane finito a processo per falso, un 24enne, aveva dichiarato di star rientrando da lavoro ma una successiva verifica lo aveva smentito
A marzo dello scorso anno, in pieno lockdown era stato fermato e aveva mentito, scrivendo nell’autocertificazione che stava tornando a casa da lavoro anche se quel giorno non era in turno. Ma oggi, finito a processo con l’accusa di falso, il 24enne protagonista della vicenda è stato assolto perché “l’obbligo di dire la verità non è previsto da alcuna norma di legge” e, anche se ci fosse, sarebbe “in palese contrasto con il diritto di difesa del singolo”, previsto dalla Costituzione. È destinata a far discutere la decisione presa dal gup di Milano, Alessandra Del Corvo con rito abbreviato. Il gup ha accolto la richiesta della procura di Milano di assoluzione “perché il fatto non sussiste“.

Il giovane, difeso dall’avvocato Maria Erika Chiusolo, fermato per un controllo alla stazione Cadorna il 14 marzo, aveva dichiarato di lavorare in un negozio e che in quel momento stava rientrando a casa dall’esercizio commerciale. Una decina di giorni dopo, però, per verificare se avesse detto la verità o meno, un agente aveva mandato una email al titolare del negozio, il quale aveva risposto dicendo che il 24enne quel giorno non era di turno. Per il giudice, si legge nella sentenza, “è evidente come non sussista alcun obbligo giuridico, per il privato che si trovi sottoposto a controllo nelle circostanze indicate, di ‘dire la verità’ sui fatti oggetto dell’autodichiarazione sottoscritta, proprio perché non è rinvenibile nel sistema una norma giuridica” sul punto. Secondo il gup, non solo mancano una norma specifica sull’obbligo di verità nelle autocertificazioni prodotte per l’emergenza Covid e una legge che preveda l’obbligo di fare un’autocertificazione in questi casi, ma è anche incostituzionale sanzionare penalmente “le false dichiarazioni” di chi ha scelto “legittimamente di mentire per non incorrere in sanzioni penali o amministrative”.

Secondo la sentenza, chi viene sottoposto a controlli del genere con le autodichiarazioni non può quindi trovarsi “di fronte all’alternativa di scegliere tra riferire il falso, al fine di non subire conseguenze”, ma poi essere comunque “assoggettato a sanzione penale” per falso ideologico del privato in atto pubblico, e la scelta di “riferire il vero nella consapevolezza di poter essere sottoposto a indagini” per il reato di “inosservanza dei provvedimenti dell’autorità”, come accadeva in quel periodo di lockdown. Questa “alternativa” di scelta tra il vero e il falso, chiarisce ancora il gup, “contrasta con il diritto di difesa” della persona. Altrimenti, si legge ancora, si dovrebbe sostenere che “il privato sia obbligato a ‘dire il vero’” nell’autodichiarazione “pur sapendo che ciò potrebbe comportare la sua sottoposizione a indagini” per un reato penale o, come in questi casi ora, a “sanzioni amministrative pecuniarie”. Il gup, infine, nella sentenza fa notare come nel caso dell’autocertificazione scritta per l’emergenza Covid, il controllo successivo “sulla veridicità di quanto dichiarato” dai privati “è solo eventuale e non necessario da parte della pubblica amministrazione” e quindi, tanti presunti atti falsi possono rimanere privi di sanzioni.Fermati per il lockdown con autocertificazione falsa, il giudice li proscioglie e scrive: “Il dpcm non può vietare di uscire di casa”

Non è la prima sentenza che va in questa direzione. Già a gennaio il giudice Dario De Luca, gip del tribunale di Reggio Emilia, aveva prosciolto una coppia fermata a un posto di blocco in pieno lockdown esibendo un’autocertificazione falsa, ritenendo illegittimo il dpcm anti-Covid. La sentenza è diventata definitiva lo scorso 13 marzo perché il pm non ha fatto appello e una sentenza, che sembrava destinata a fare scalpore, è diventata definitiva. Secondo il ragionamento del giudice, di fatto, non si può imporre un obbligo di permanenza domiciliare che “nel nostro ordinamento giuridico consiste in una sanzione penale restrittiva della libertà personale che viene irrogata dal giudice penale per alcuni reati all’esito del giudizio”.

FONTE: https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/03/25/fermato-in-pieno-lockdown-scrive-il-falso-nellautocertificazione-il-gup-di-milano-lo-assolve-perche-non-ce-obbligo-di-dire-verita/6145674/

 

 

 

IMMIGRAZIONI

La superlobby buonista che ci riempie di migranti

I pm di Ragusa indagano sui finanziamenti alla Mare Jonio di Casarini. Il ruolo di banchieri e preti

I talebani dell’accoglienza di casa nostra volevano creare una super lobby con la potente associazione degli armatori danesi per fare pressioni sulla Commissione europea a favore delle Ong del mare.

Non solo: giornalisti, banche politicamente corrette e prelati compiacenti davano una mano. Ed i responsabili di Mediterranea saving humans erano pronti a coinvolgere una “diocesi” per fare arrivare come “donazione” soldi da Copenaghen oggetto di un’inchiesta della procura di Ragusa. 125mila euro pagati all’ex disobbediente Luca Casarini e soci dall’armatore danese Maersk per avere trasferito, da una loro petroliera, sulla nave “umanitaria” Mare Jonio, 27 migranti poi fatti sbarcare in Italia. Per non parlare del ruolo di Banca Etica, non indagata, dove è arrivato il bonifico dei danesi, al corrente dei piani lobbystici dei talebani dell’accoglienza della Ong italiana.

Nelle carte dell’inchiesta per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina della procura di Ragusa con 8 indagati (Pietro Marrone, Giuseppe Caccia, Alessandro Metz, Luca Casarini, Alessandra Sciurba, Agnese Colpani, Giuseppe Fabrizio Gatti e Iaon Georgios Apostolopoulos) si specifica che il 7 ottobre 2020, un mese dopo lo sbarco dei migranti il capo missione Caccia, un tempo assessore dei Verdi a Venezia, vola a Copenaghen. Non solo per chiedere alla Maersk i soldi, che all’inizio erano 270mila, ma poi sono stati ridotti a 125mila euro. Anche “per una diversa concorrente finalità, allo scopo di avviare un dialogo costruttivo con i rappresentanti dell’associazione danese degli armatori”. Niente di male se non fosse per il fatto che i danesi “vivamente compiaciuti per la felice conclusione della vicenda Maersk Etienne” (la petroliera da dove l’11 settembre la Mare Jonio aveva trasbordato i migranti portandoli a Pozzallo ndr) hanno “preannunciato il proprio sostegno politico e materiale, nella prospettata opportunità di discutere dell’articolazione di forme, allo stato, del tutto inedite di coordinamento tra le organizzazioni armatoriali europee ed il mondo del soccorso civile in mare (…) nella fase critica del confronto con Stati riluttanti a favorire il disimbarco” dei migranti, si legge nelle carte. Il progetto prevede una specie di lobby, che eserciti pressione sulla Commissione europea a Bruxelles “affinchè non si ripetano più situazioni in cui le navi mercantili siano ostaggio delle “non scelte del governo” e da questo riuscire a sviluppare un rapporto con il mondo del soccorso civile in mare, dando il loro sostegno”. La petroliera dei 27 migranti trasbordati dalla Ong era ferma da oltre un mese e perdeva decine di migliaia di euro al giorno. Mediterranea saving humans ha risolto il problema portando i migranti in Italia ed i danesi hanno sganciato 125mila euro.

Caccia informa del viaggio in Danimarca e dell’intenzione degli armatori danesi di sostenere “sia politicamente che materialmente” la Ong il vicepresidente di Banca Etica, Nazareno Gabrielli, non indagato, uomo forte dell’istituto politicamente corretto che aveva sostenuto l’acquisto di Mare Jonio con 400mila euro di finanziamento.

“Nazareno gli risponde (a Caccia ndr) che si tratta di una cosa importante” si legge nelle carte di Ragusa. L’incontro e la comunanza di idee fra armatori danesi e talebani dell’accoglienza nostrani viene addirittura sancito da reciproci tweet, ovviamente senza fare cenno all’accordo pecuniario con la Maersk sui 125mila euro, che a fine novembre arriveranno sul conto della società armatrice di Mare Jonio nella filiale di Bologna di Banca Etica. L’istituto che non fa affari “sporchi” non è l’unico in rapporti con i talebani dell’accoglienza. Casarini insiste al telefono un paio di volte su un presunto prestito o finanziamento di Banca Intesa di 20mila-30mila euro. L’ex disobbediente insiste su “Banca Intesa” per “sapere se gli daranno quanto richiesto”.

Alla ricerca di un sistema per fare arrivare in Italia i soldi dei danesi Caccia ipotizza al telefono con Casarini, il 13 novembre, di utilizzare un certo “dott. Paolo Wolf specialista medicina nucleare a Venezia” non si capisce bene con quale ruolo. “Oppure in altro modo per motivi fiscali (…) si potrebbe fare una “donazione ad una diocesi della Chiesa cattolica italiana (…)” viene riportato nell’inchiesta. Alcuni prelati sembrano dare man forte alla Ong di Casarini e soci. Il 20 settembre proprio Casarini, che è solo un dipendente dalla società armatrice di Mare Jonio, ma in realtà sembra uno dei dominus, sollecita il viaggio a Copenaghen “il prima possibile, perché Don Gianni De Robertis (…) mi chiamava per dirmi Luca, il progetto è ok ed è sicuro!”. E Casarini aggiunge: “Abbiamo i creditori alle calcagna” per i debiti di Mare Jonio. Non è chiaro a quale progetto faccia riferimento De Robertis, direttore generale dell’influente Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Conferenza episcopale italiana.

Non è l’unico prelato molto vicino ai talebani dell’accoglienza. Caccia, si legge nelle carte, “esamina con don Mattia Ferrari (parroco di Nonantola, sostenitore di Mediterranea saving humans) questioni spicce, relative alla difficoltà di reperire fondi, tacendo del viaggio a Copenaghen, si lascia scappare una appena impercettibile indiscrezione: “…a parte i debiti mostruosi che abbiamo… insomma sono però anche in attesa di notizie di altre cose che dovrebbero migliorarci la vita”. Non mancano i rapporti privilegiati con i giornalisti: “Caccia una volta incassato il compenso dalla Maersk (30.11.20), comunicava, con toni trionfalistici, la notizia di avere portato a termine (…) una assai lucrosa “operazione commerciale”; rivolgendosi ai numerosi referenti del mondo della stampa oltre che ad alcuni tra i più affidabili sostenitori del progetto Mediterranea”. Ovviamente “glissava sui dettagli dell’operazione avendo cura di celare il fatto che lo sbandierato exploit commerciale avesse, in realtà, tratto origine da una laboriosa negoziazione” con i danesi dell’affare migranti. Fin dall’inizio il business era chiaro e Caccia parlando con Casarini il 17 novembre spiega intercettato “che il problema non è se (avranno i soldi) ma è come (in che modo avranno i soldi)”. Ed i 125mila euro sono arrivati il 30 novembre.

FONTE: https://www.ilgiornale.it/news/politica/superlobby-buonista-che-ci-riempie-migranti-1934278.html

 

 

 

 

Immigrazione, intercettazioni della Ong Mare Jonio: “Con i soldi festeggiamo a champagne”, così dopo il finto salvataggio

Con i soldi festeggiamo a champagne“: è questa una delle intercettazioni che inchiodano l’attivista Luca Casarini e la Ong Mare Jonio. Stando all’inchiesta della procura di Ragusa, la proprietà della nave avrebbe ricevuto 125mila euro per il trasbordo di 27 migranti dalla petroliera danese Maersk Etienne sull’imbarcazione Mare Jonio. Migranti che poi sono stati portati in Italia. I fatti risalgono allo scorso 11 settembre, mentre il bonifico sarebbe arrivato il 30 novembre.

“È una fattura di pomp*** a Copenaghen”, così Casarini aveva descritto il versamento al telefono con  Beppe Caccia, capo missione dell’operazione migranti ed ex assessore dei Verdi a Venezia. Come riporta il Giornale, la causale del bonifico indicava “servizi di assistenza forniti in acque internazionali“. Sono stati i danesi, in particolare, a studiare tutto nei minimi dettagli, in modo da far apparire l’operazione “legale”. Così si è pensato a un trabocchetto, ovvero – come spiega il procuratore capo di Ragusa Fabio D’Anna – “il rilevamento di una situazione emergenziale di natura sanitaria a bordo della petroliera danese documentata da un report medico del team di soccorritori che si era imbarcato illegittimamente sul rimorchiatore”. Dunque, la Mare Jonio, non potendo ufficialmente e stabilmente fare attività di salvataggio in mare, sarebbe partita da Lampedusa solo “per consegnare 80 litri di benzina”. Alla fine, però, ci sarebbe stata prima un’ispezione medica e poi il trasferimento di migranti.

In un primo momento dalla petroliera danese vennero fatti evacuare urgentemente una migrante “in presunto stato di gravidanza stimato al secondo trimestre” e il marito. Poi dopo la visita in ospedale in Italia, si era scoperto che la donna non aveva “nulla di patologico” e non era neppure incinta. Il giorno successivo, il 12 settembre, arrivò l’autorizzazione per far sbarcare a Pozzallo i 27 migranti trasbordati sulla Mare Jonio. Sono otto gli indagati nell’inchiesta, accusati di avere trasbordato i migranti in cambio di denaro. A sostegno di questa pesante accusa ci sono “intercettazioni telefoniche e riscontri documentali”. In una delle telefonata intercettate, per esempio, Casarini rivolgendosi ad Alessandro Metz, armatore della Mare Jonio, diceva: “Abbiamo svoltato e possiamo pagare stipendi e debiti”. O anche: “Mi sa che abbiamo fatto il botto“.

FONTE: https://www.liberoquotidiano.it/news/italia/26689366/immigrazione-ong-mare-jonio-intercettata-dopo-finto-salvataggio-soldi-festeggiamo-champagne.html

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

Quarto giorno di blocco per il canale di Suez. Le navi in attesa ripartono per nuove rotte

agi.it

Davanti all’incertezza sulla riapertura del Canale di Suez, bloccato da martedì a causa dell’incidente intercorso alla nave portacointaner Ever Given, le compagnie di navigazione hanno iniziato a scegliere rotte alternative per il passaggio dal Mar Rosso al Mediterraneo e viceversa. Diverse navi, comprese sette gasiere, sono state dirottate verso la via africana attraverso il Capo di Buona Speranza.

Intanto si stanno attivando piani di emergenza per le oltre 200 navi la cui rotta prevede il passaggio attraverso lo stretto artificiale egiziano. Almeno quattro petroliere Long-Range 2, che trasportano fino a 75mila tonnellate di materiale, stanno anch’esse valutando una modifica al piano di viaggio, ha riferito il Guardian citando l’azienda londinese di servizi marittimi e navali Braemar ACM.canale di suez La compagnia di navigazione internazionale Maersk, infine, ha confermato che sta “cercando tutte le alternative” possibili per le sue nove navi portacontainer attualmente ferme in coda.

Nel frattempo le operazioni per disincagliare la Ever Given proseguono, anche se il timore è che non si concludano prima di alcune settimane. I rimorchiatori non sono infatti riusciti a liberare la nave gigantesca nonostante gli sforzi per liberare la prua con gli escavatori.

Gli esperti temono che la mega-nave registrata a Panama, lunga 400 metri e con una capacità di quasi 220mila tonnellate, si sia incagliata così a fondo nella sabbia, su entrambe le sponde del canale, che potrebbe non essere possibile spostarla senza rimuovere parte del suo carico. E intanto la stima dei danni di Bloomberg parla, ad oggi, di una perdita di circa 9,6 miliardi di dollari al giorno.

Fonte: https://www.agi.it/estero/news/2021-03-26/canale-suez-quarto-giorno-blocco-navi-ripartono-per-nuove-rotte-11932640/

Pubblicato il 26.03.2021

 

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Bill e Melinda Gates vogliono ridurre la popolazione attraverso il nuovo coronavirus?

Bill Gates ha un piano diabolico per fatturare milioni di dollari con un vaccino contro il nuovo coronavirus?

In un post pubblicato sul blog La cruna dell’ago viene citato un articolo di Business Insider, dove sono riportate le dichiarazioni di Eric Toner del Johns Hopkins Center, a proposito di un «allarme» lanciato tre mesi fa, riguardo agli effetti di una pandemia da coronavirus a partire dal Brasile, con una simulazione che prevedeva 65 milioni di morti.

Dunque qualcuno già sapeva quel che sarebbe successo a Wuhan in Cina? Il coronavirus in realtà era già noto e qualcuno ne possiede il vaccino?

Prima di proseguire è bene chiarire quali sono i meccanismi sottesi a questo genere di narrazioni – le vediamo in tutte le tesi di complotto – sono almeno due: la dissonanza cognitiva e il bias di conferma.

La dissonanza cognitiva avviene quando siamo di fronte a due realtà contrastanti, una forte e l’altra più debole: una potenza mondiale come la Cina, si è lasciata sfuggire un grave focolaio di infezione.

Per compensare questo divario dobbiamo supporre che ci sia un complotto dei potenti volto a provocare l’epidemia, con uno scopo preciso: imporre nuovi vaccini o abbassare il numero di abitanti del Pianeta.

A tale scopo siamo spinti a cercare dati che confermano le nostre ipotesi, ignorando quelli che le smentiscono (bias di conferma); grazie anche alla facilità con cui otteniamo informazioni in rete sull’argomento, a prescindere dalla loro qualità e contesto.

Una tipica narrazione complottista

Ora che abbiamo ben chiari questi meccanismi non ci resta che analizzare la narrazione del post. Cosa c’entra Bill Gates? La simulazione è stata svolta per conto del World Economic Forum (Wef) e della fondazione di Melinda & Bill Gates.

Nel post si parla di «somiglianze impressionanti con quello che sta accadendo oggi». L’autore prosegue così alla ricerca di altri collegamenti.

Perché queste «fondazioni globaliste» si interessano della diffusione di un coronavirus? Il Wef sarebbe «il gotha delle élite finanziarie mondiali – continua l’autore – che si sono da poco incontrate nel loro consueto appuntamento annuale a Davos, in Svizzera».

Chi c’era tra gli ospiti di Davos? Greta Thunberg. Lei è una dei tanti «sostenitori delle teorie del cambiamento climatico» (un eufemismo, scelto dall’autore per semplificare quel 97% di studi che ne confermano l’esistenza, e la responsabilità umana).

Tra le colleghe di Greta anche Verena Brunschweiger, che secondo il noto sito complottista ZeroHedge «ha recentemente proposto di mettere fine alla propria riproduzione umana pur di salvare l’ambiente», spiega l’autore.

I nodi arrivano al pettine: «l’uomo dovrebbe scegliere la sua estinzione a favore della presunta protezione dell’ecosistema». A Davos “guarda caso” c’era anche Bill Gates, il quale avrebbe fatturato tanti soldi nella vendita dei vaccini, secondo l’autore.

Si parte dall’ipotesi che debba esserci qualcosa di grosso, che compensi il fatto che questa epidemia sia partita da una potenza mondiale. Si arriva quindi a cercare solo i dati che confermano il pregiudizio; non importa se presi da contesti diversi. Andiamo allora ad analizzare le fonti citate.

Analisi delle fonti

Sappiamo già che – dati alla mano – siamo di fronte a un nuovo coronavirus, classificato come 2019-nCoV. Il suo genoma è stato reso pubblico, e viene studiato per capirne le origini.

Non può esistere già un vaccino brevettato e nessun ricercatore avvalla l’ipotesi di una origine “artificiale”, la quale potrebbe avere semplici spiegazioni accidentali – se si parla di un centro di ricerca contro i patogeni più pericolosi – e non di un “centro militare per la guerra biologica”.

Nessuno oggi parla di “pandemia”, come fa notare anche Toner, citato da Business Insider.

Differenze tra pandemia ed epidemia

Una epidemia è circoscritta (i casi confermati in Cina sono quasi duemila, nel resto del mondo vanno da uno a otto), i morti causati dall’epidemia di polmonite, finora risultano solo in Cina, prevalentemente nel focolaio di Wuhan.

La pandemia, come quella simulata dai ricercatori, si diffonde con rapidità attraverso vasti territori tra diversi continenti.

Nessuno lancia un allarme. Si parla di un «esercizio» denominato «event 201». Studi e simulazioni statistiche sono più che normali quando si tratta di prevenire i coronavirus.

Coincidenze usate per sostituire le prove mancanti

Non è strano che – cercando a ritroso nel tempo – se ne possa trovare una a pochi mesi dall’attuale epidemia. Una coincidenza non dà un rapporto di causa-effetto.

Se si vuole ridurre il numero di persone che vivono in un pianeta con una pandemia, che senso ha commercializzare un vaccino per combatterla?

Senza contare che un relativo piano vaccinale prevede che si raggiunga una “immunità di comunità”, altrimenti ci accorgeremmo presto di un complotto volto a immunizzare solo gli amici di Bill Gates.

Quante istituzioni sanitarie e relativi medici dovrebbero essere complici del piano, nel più assoluto silenzio? Sono tutte cose che i complottisti non spiegano.

I “profitti” di Bill Gates coi vaccini

La Cnbc (fonte su cui si basa La cruna dell’ago), parla di un ritorno pari a 10miliardi di dollari «in termini di benefici economici» a seguito dei finanziamenti della fondazione di Melinda e Bill Gates. Non si parla del fatturato dell’associazione filantropica.

A scanso di equivoci la Cnbc riporta anche il resto delle affermazioni attribuite a Gates, che all’autore del blog devono essere sfuggite:

«Aiutare i bambini piccoli a vivere, ottenere la giusta alimentazione, contribuire ai loro paesi – questo ha un ritorno che va oltre ogni tipico ritorno finanziario».

Suggeriamo a tal proposito un articolo di Wall Street Italia del 18 gennaio scorso.

Leggi anche:

Le differenze del capitale. Razza, genere, antagonismo, compatibilità

di Anna Curcio – 26 03 2021

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L’ordine del discorso femminista e antirazzista ha ormai conquistato il mainstream, dal livello mediatico a quello politico-istituzionale. L’elezione di Kamala Harris, o il passaggio di Angela Davis da ricercata dall’Fbi a una delle cento donne più influenti secondo il «Time», ci parlano di qualcosa più specifico e profondo del semplice pinkwashing: qualcosa che chiama in causa le forme del comando capitalistico, che adesso invoca le attitudini del lavoro femminile (mai naturali e sempre storicamente determinate), dalla cura alle relazioni. In questo ricco e denso contributo, Anna Curcio propone una riflessione per ripercorre il rapporto storico che lega razza e genere al processo del capitale e interrogare, tra antagonismo e compatibilità capitalistica, la lotta femminista e antirazzista oggi.

* * * *

Negli ultimi tempi, la nostra attenzione è stata con insistenza sollecitata da questioni che qui per sintesi chiamerò di razza e genere, riservandomi di ritornare sui due termini nel corso del testo. Si tratta di sollecitazioni di segno diverso e finanche opposto, che interrogano inequivocabilmente la pratica teorica dell’antirazzismo e della lotta femminista e pongono, mi pare, l’urgenza di una riflessione.

La razza e il razzismo continuano a produrre violenza e morte, non solo negli Stati Uniti e lungo i confini nazionali, la violenza di genere ha assunto tale ricorsività che è stato coniato il termine «femminicidio». La pandemia ha seminato morte, paura e impoverimento in maniera disproporzionale lungo le gerarchie della razza e le donne sono state le più colpite dall’ondata di licenziamenti innescati dalla crisi sanitaria, quelle su cui maggiormente si è riversata la violenta riorganizzazione della riproduzione.

Nello stesso tempo, abbiamo visto i fuochi della rivolta razziale infiammare gli Stati Uniti rimbalzando in gran parte del mondo occidentale e non, e le mobilitazioni femministe e transfemministe crescere sul piano internazionale, sebbene con alterne fortune (mentre in Italia la pandemia ha rideclinato in termini più «militanti» che di massa la pratica femminista, grandi mobilitazioni hanno consacrato la legalizzazione dell’aborto in Argentina ma non hanno arrestato l’introduzione di una legge antiabortista in Polonia). In tutti i casi l’ordine del discorso femminista e antirazzista ha conquistato il mainstream, dai media alla politica istituzionale.

Angela Davis, da ricercata dalla Fbi è assorta a icona di un antirazzismo sulla bocca di tutti. «Vanity Fair» le ha dedicato una copertina e «Time» l’ha inserita tra le 100 donne più influenti del 2020. Silvia Federici, con la sua critica serrata all’esproprio capitalistico del lavoro di riproduzione, ha conquistato il «New York Times» che di recente ha pubblicato una sua lunga intervista. Finanche le istituzioni politiche non hanno resistito al richiamo delle differenze del capitale. Un esempio su tutti, l’elezione di Kamala Harris alla vicepresidenza degli Stati Uniti, accompagnata dal mantra della «prima donna nera alla Casa Bianca», in modo simile a quello che già si era sentito in occasione dell’elezione di Barack Obama. Che immagine diabolica quella del nero (oggi donna nera) alla Casa Bianca! Specchietto per le allodole di un’America post-razziale che si è già infranta fragorosamente sui riot di Ferguson (2014), Baltimora e St. Louis (2015), sulle incarcerazioni di massa, le violenze di polizia e le deportazioni oltre confine, e il tutto ben prima degli obbrobri del trumpismo.

Nel bene o nel male, dunque, la razza e il genere hanno fatto irruzione nel presente raggiungendo ambiti disparati e grande visibilità. Qui, io credo, vada oggi collocata una riflessione politica seria e accurata sulle differenze del capitale ovvero sulla funzione capitalistica di razza e genere che, occorre sin da subito sottolineare, non sono tra loro assimilabili, non prevedono una reductio ad unum, ma seguono ciascuna un percorso specifico e differente.

Nuove lenti per nuove sfide

L’irruzione nel presente delle differenze del capitale sta aprendo nuove sfide politiche, a partire dal modo in cui intendiamo e pratichiamo la lotta femminista e antirazzista. In questo senso pone l’urgenza di una riflessione che si interroghi innanzitutto sul se e come la crescente attenzione per le questioni di razza e genere possa intervenire a smontarne la funzione capitalistica delle differenze. Possa cioè interrompere la definizione di gerarchie razziali e di genere che stanno al cuore della riproduzione del capitale. Sono infatti largamente convinta, con buona pace delle visioni marxiste più tradizionali, che la lotta al modo di produzione capitalistico non possa che essere trasversale al genere e alla razza. Nello stesso tempo la lotta alla subordinazione razziale e di genere se non vuole rimanere subalterna all’interesse del capitale deve radicarsi nei rapporti sociali di produzione e riproduzione e puntare a interrompere le gerarchie capitalistiche. Razza e genere, detto altrimenti, vivono nel processo del capitale, ed è lì che occorre collocare la pratica teorica femminista e antirazzista.

Il rapporto storico che lega la valorizzazione capitalistica al razzismo e alla subordinazione di genere è anche il punto di partenza di questa riflessione. Si tratta di un rapporto intimo, strutturale ma non immutabile, sempre storicamente determinato dalle forze produttive in campo e mai necessario. Un rapporto dai confini mobili in cui le differenze possono seguire in varia misura il piano del capitale oppure rovesciarlo nella lotta, e anche la lotta non è mai data ma sempre la posta in palio dei processi.

A dimostrazione del nesso non oggettivo che lega, ad esempio, lo sfruttamento capitalistico e la subordinazione di genere, sta emergendo una sorta di potere femminile che, rovesciando la suggestione del noto lavoro di Mariarosa Dalla Costa, abbandona la sovversione sociale per sposare la logica del capitale. Non sto pensando però al pinkwashing, né sto parlando di donne che assumono ruoli già ricoperti da uomini secondo un sistema di quote o di political correctness. Ciò che ho in mente è qualcosa di più specifico e profondo che chiama in causa le forme del comando capitalistico, che adesso invoca le attitudini del lavoro femminile (mai naturali e sempre storicamente determinate), dalla cura alle relazioni. Si pensi in questo senso ai richiami per un governo al femminile nella gestione della pandemia o, per altri versi, all’organizzazione del comando in termini linguistici e relazionali, orizzontali e non verticistici, in alcuni ambiti del lavoro soprattutto riproduttivo, dalla scuola al sociale. Sebbene ciò non cancelli la subordinazione di genere e la violenza, tuttavia, sul piano qualitativo è indubbio che definisca una articolazione specifica, determinata (dalle forze in campo) e non necessaria, del rapporto tra genere e capitale, che adesso, con buona pace delle lotte, tenderebbe a collocare le donne sul lato del dominio più che su quello della subordinazione.

Altrettanto non si può dire per il rapporto tra razza e capitale (l’afropessimismo ne negherebbe a priori la possibilità, si veda in questa sezione l’intervista a Frank B. Wilderson III), ma se assumiamo il processo del capitale come storicamente determinato, occorrerà continuamente fare attenzione alla specifica articolazione del potere nella definizione delle differenze del capitale, per leggerne l’ambivalenza e orientare le lotte. Se le questioni di razza e genere seguono la logica del capitale invece di puntare a smantellare le gerarchie sociali e del lavoro, continueranno a definire, e forse a consolidare, tempi, modi e discorsi propri alla razionalità capitalistica. In questo senso femminismo e antirazzismo più che sovvertire i rapporti sociali esistenti, funzioneranno come puntello del capitale. Razza e genere invece di aprire spazi antagonisti definirebbero la compatibilità capitalistica. Ed è questo il nodo politico che dobbiamo con urgenza affrontare.

L’ipotesi che intendo avanzare è che il capitalismo contemporaneo non si limiti a produrre differenze e gerarchie razziali e di genere ma abbia imparato anche a comporle per riprodurle e fortificarle, a catturarle nello spazio del riconoscimento capitalistico. Oltre il diversity-management, prova adesso a definire una nuova e specifica articolazione del rapporto tra differenze e capitale, le traduce nei termini della sua razionalità e la cosa non può essere oltremodo trascurata. Aver chiara l’articolazione di potere che attraversa le differenze del capitale permette da una parte di spiazzare il campo a una narrazione disincarnata della lotta antirazzista e femminista, che mi pare dilagare complice la banalizzazione del discorso social e l’annullamento del pensiero critico che ci consegnano le istituzioni formative del paese. Dall’altra, riconduce l’analisi nel contesto dei rapporti sociali materiali che, anche questo va portato in primo piano, non sono mai solo economici ma sempre psichici e culturali insieme.

Razza e genere

Assunte nel loro rapporto al capitale, razza e genere, e arrivo al punto annunciato in apertura, sono categorie sociali (mai biologiche, se fosse ancora necessario sottolinearlo) storicamente determinate, che descrivono e definiscono forme di vita, aspettative e opportunità soggettive. Dispositivi di ingegneria sociale messi a lavoro per organizzare i rapporti di produzione e riproduzione capitalistica, mai statici e sempre a lavoro dentro il processo del capitale. Quando diciamo razzializzare, ad esempio, stiamo parlando della razza che si fa verbo (dunque azione, esercizio, pratica) per differenziare i soggetti all’interno di una specifica struttura di gerarchie. E anche il genere ha, a suo modo, storicamente svolto un’analoga funzione selettiva, si pensi, ad esempio, alla naturalizzazione delle donne al lavoro riproduttivo o, su di un piano differente, alla femminilizzazione del lavoro contemporaneo, dove l’attributo femminile si fa verbo che organizza la produzione dopo la crisi del fordismo.

Nel loro essere sociali e storicamente determinate dai rapporti di forza tra le classi, razza e genere (che, ripeto, non funzionano all’unisono ma seguono uno sviluppo autonomo proprio in quanto storicamente determinate), si muovono sempre su un piano di ambivalenza. Possono rafforzare o ridefinire le gerarchie sociali e del lavoro, oppure possono smantellarle. Si pensi nel primo caso agli albanesi in Italia dagli anni Novanta: pericolosi criminali nella fase emergenziale di gestione del loro arrivo, «minoranza modello» dopo qualche decennio di intensa attività imprenditoriale. Si pensi nel secondo caso agli immigrati italiani negli Stati Uniti di inizio Novecento che diventano «bianchi» dopo una lunga stagione di lotte operaie, o ancora alle lotte femministe dei Sessanta e Settanta nei paesi occidentali che hanno portato le donne a mettere in discussione il ruolo domestico, producendo un imponente contraccolpo sull’organizzazione fordista del lavoro.

La razza e il genere, dunque, vivono nella materialità dei rapporti sociali di produzione e riproduzione, all’interno dell’antagonismo inestinguibile tra le classi: l’interesse del capitale alla sua riproduzione da una parte, l’agire autonomo del lavoro per il rovesciamento dell’organizzazione capitalistica della società dall’altra. In questo senso, razza e genere definiscono lo stesso orizzonte di possibilità del processo del capitale. Ed è per questo che occorre sempre assumerle come connesse ai rapporti (antagonisti) di classe, solo così è possibile cogliere lo spazio per il cambiamento o la compatibilità capitalistica a cui alludono.

Attenzione però, non sto evocando la santa trinità (razza, genere, classe) dell’intersezionalismo. Ammesso che questo possa illustrare le condizioni molteplici della subordinazione e dello sfruttamento (a patto però di portare il concetto oltre l’idea originaria di oppressione categoriale assoluta, riferita alla donna nera; si veda in questa sezione il contributo di Tommy Curry) nulla sa dirci, oltre il piano puramente descrittivo, dell’origine di quell’oppressione, né (e di conseguenza) può dare conto dell’ambivalenza che definisce l’organizzazione capitalistica della società e dunque della possibilità del suo superamento. L’intersezionalismo resta legato alla condizione ontologia del soggetto; un principio astratto, sganciato dalla materialità dei rapporti sociali produttivi. Al contrario, il mio richiamo a leggere razza e genere connesse ai rapporti di classe è piuttosto, e in senso inverso all’intersezionalismo, la necessità di collocare sempre la pratica teorica femminista e antirazzista all’interno dei rapporti sociali materiali. Vuol dire insistere sul ruolo strutturale (o surdeterminato), e non sovrastrutturale, di razza e genere nel processo del capitale, sin dai suoi albori.

Accumulazione originaria e valorizzazione capitalistica delle differenze

In controtendenza alle letture marxiste più tradizionali, esiste una vasta letteratura che è tornata all’accumulazione originaria per portare in primo piano il ruolo della razza e del genere nella lunga transizione capitalistica. Queste analisi, che hanno ridefinito la stessa idea marxiana di accumulazione, hanno insistito sul ruolo strutturale di razza e genere nel processo di produzione e riproduzione del capitale, contribuendo a rinnovare il modo in cui pensiamo la nascita e lo sviluppo del capitalismo. Tuttavia, nell’assumere questa prospettiva, occorre fare attenzione a non inciampare in una lettura lineare dei processi storici, che vedrebbe razzismo e subordinazione di genere come effetto o conseguenza dell’avvento del capitalismo. Piuttosto l’idea è che il razzismo messo al lavoro attraverso schiavitù ed espansione coloniale nei processi di accumulazione originaria, così come le forme di subordinazione delle donne nella riorganizzazione della riproduzione, vivessero già nelle idee e nei comportamenti degli europei alle prese con la lunga transizione dal Medioevo al capitalismo. Comportamenti e idee che concorreranno a definire il contesto sociale e culturale in cui il capitalismo prende forma, si definisce e ridefinisce.

Lo stesso Marx, d’altra parte, non omette di rilevare il ruolo cruciale del commercio di lunga distanza e della schiavitù nella fase di accumulazione originaria (La guerra civile americana, 1862), né manca di osservare come il controllo sulla capacità riproduttiva delle donne precedesse le «recinzioni» e l’avvento del capitalismo, e fosse da rintracciare nell’introduzione della proprietà privata che già nelle società tribali aveva interrotto la discendenza matrilineare delle comunità tradizionali (L’ideologia tedesca, 1844; Quaderni antropologici, 1872). In modo più stringente, la tradizione radicale nera, che con il marxismo mantiene un rapporto difficile e irrinunciabile, ha insistito sull’esistenza di forme di subordinazione razziale che precedono la nascita del capitalismo. Black Marxism (1983)di Cedric Robinson, per esempio, offre in questo senso un’accurata analisi delle origini del razzismo nell’Europa medievale. Tuttavia, nel riconoscere l’esistenza di forme di razzismo e subordinazione di genere già prima dell’avvento del capitalismo non vuol dire immaginare un travaso fluido di comportamenti e idee da un modo di produzione a un altro. Nella transizione al capitalismo, la lunga tradizione di razzismo e subordinazione di genere nella storia dell’umanità vive come un salto di scala. Adesso traduce abitudini e atteggiamenti preesistenti nei termini della razionalità capitalistica, razzismo e subordinazione di genere diventano in questo senso, spazio di accumulazione e produzione di valore in un modo prima inimmaginabile.

L’importante, quanto trascurato, lavoro di George Rawick sul ruolo della schiavitù nella storia degli Stati Uniti (di cui il volume Lo schiavo americano dal tramonto all’alba del 1972 che DeriveApprodi ripubblicherà nei prossimi mesi costituisce un’introduzione), propone una lettura utile e suggestiva del rapporto tra razzismo e capitalismo. Nel ricordarci che tanto la schiavitù quanto il razzismo esistevano già prima dell’avvento del capitalismo, ne mette a fuoco l’andamento distintivo, congiunto e compartecipe allo sviluppo del capitaleInnanzitutto ci ricorda che è per la prima volta nel «Nuovo Mondo» che razzismo e schiavitù si presentano intimamente legati, definendo quella nuova modalità di relazione che oggi chiamiamo razzismo strutturale. Gli schiavi sono prevalentemente africani e mentre le esportazioni di cotone e tabacco crescono in maniera esponenziale, l’organizzazione del lavoro finalizzata al massimo sfruttamento nelle piantagioni troverà un importante sostegno nelle idee razziste già presenti tra gli europei. Un apparato di leggi si preoccuperà di istituzionalizzare un sistema di gerarchie tra i coloni europei bianchi e gli africani neri resi schiavi (è l’invenzione della whiteness, come dispositivo di organizzazione gerarchica della società) e il nascente Stato nazionale se ne farà garante.

Spiazzando efficacemente le letture economiciste del marxismo più tradizionale, Rawick analizza una «psicodinamica del razzismo», sottolineando come gli europei vedessero in schiavi e popolazioni colonizzate «ciò che avevano paura di vedere in se stessi». Ciò che percepivamo come una brutta copia, si potrebbe dire, o abbozzo di ciò che erano invece diventati abbracciando l’etica capitalista, della democrazia, del lavoro e del puritanesimo. La nuova «civiltà europea», d’altra parte, sarà l’humus su cui prenderà forma la contrapposizione tra le «virtù civiche» degli europei bianchi e l’«inciviltà» di tutti gli altri, al fondo delle teorie del razzismo biologico. Ciò che legittima il progetto coloniale dell’Europa moderna e contemporanea e contribuisce, ancora oggi, a definire le gerarchie sociali e del lavoro che organizzazione le nostre società.

Anche la critica femminista è tornata all’accumulazione originaria, per rintracciare le origini materiali della subordinazione delle donne. In particolare, l’analisi di Silvia Federici e Leopoldina Fortunati (Il grande Calibano, 1984 e, successivamente, Federici, Calibano e la strega, 2003, e Caccia alle streghe e guerra alle donne, 2020) sulla caccia alle streghe a partire dal XV secolo, permette (anche al di là delle intenzioni delle autrici) di collocare, nella lunga transizione capitalistica, l’incubazione di una serie di trasformazioni psicologiche e del vivere sociale che preparano e rendono possibile la separazione tra produzione per il mercato e (ri)produzione per la sussistenza, che sta al fondo del modo di produzione capitalistico. In questo senso, le «recinzioni» che privano i contadini medioevali delle terre da cui traggono il proprio sostentamento e separano drasticamente i lavoratori salariati che producono merci per il mercato dalle lavoratrici non salariate che, sempre per il mercato ma gratuitamente, riproducono la merce «speciale» forza-lavoro (con un enorme incremento di plusvalore assoluto), possono essere intese come la traduzione capitalistica di rapporti patriarcali preesistenti che contribuiscono adesso a definire la nuova divisione sessuale del lavoro.

In questo lungo processo storico, la caccia alle streghe e le profonde trasformazioni ideologiche e psicologiche che implica, il terrore e la diffidenza che produce, le nuove forme di vita che impone, contribuiscono a una radicale riorganizzazione dei rapporti sociali e delle attività connesse alla riproduzione: dalle relazioni interne alla famiglia ai rapporti amicali, dalla criminalizzazione dei saperi medici e fitoterapici delle donne al controllo sul corpo, sulla sessualità e sull’intera capacità riproduttiva. Un processo fatto di infantilizzazione, stigmatizzazione sociale e persecuzione giudiziaria, finalizzato al controllo complessivo sulla riproduzione della forza-lavoro in funzione dello sviluppo del capitale. Un dispositivo che ha per secoli «naturalizzato» le donne alle attività riproduttive, separate nella sfera privata, e che oggi, al netto di questa stessa naturalizzazione e senza smantellare violenza e subordinazione, ridetermina, almeno in tendenza come già si è accennato, la relazione tra genere e capitale, con il comando capitalistico che fa proprie le caratteristiche di cura, affettività e relazionalità, di cui già la femminilizzazione del lavoro aveva evidenziato la centralità capitalistica.

Differenze, composizione, antagonismo

Tornare al rapporto che lega razza e genere alla nascita e sviluppo del capitalismo, benché qui solo accennato in modo schematico e tutt’altro che esaustivo, permette di portare in primo piano il carattere strutturale (e non necessario) di razzismo e subordinazione di genere nel processo del capitale. Tuttavia, questo resta solo un primo ineludibile esercizio per un discorso e una pratica politica femminista e antirazzista all’altezza delle sfide del presente. Se guardiamo alle trasformazioni avviate dal capitalismo contemporaneo e ritorniamo agli esempi richiamati in apertura, occorrerà anche interrogare, insieme alla produzione di differenze e gerarchie, lo spazio in cui oggi le differenze del capitale, sono composte insieme, riconosciute e finanche promosse per la valorizzazione capitalistica. Senza smettere di produrre differenze, il capitalismo contemporaneo ha messo al lavoro la razza e il genere per definire un’idea più complessa ed eterogenea di società. Una società ordinatamente composta dentro un orizzonte standard, accettato e compatibile, del vivere sociale; uno spazio di riconoscimento tutto interno alla logica del capitale. Non solo, dunque, il capitalismo include razza e genere riorganizzando in modo differenziale le gerarchie sociali (più in alto i più «buoni» o più «integrati», più in basso gli altri). Sempre più appare interessato ad assumerle, farle proprie per ricondurle alla logica della sua valorizzazione. Le addomestica, potremmo dire, le «normalizza». Le astrae del contesto materiale per celare le gerarchie e i privilegi che definiscono e neutralizzarne la carica antagonista e sovversiva.

Dopo aver dunque inquadrato la valorizzazione capitalistica di razza e genere dentro processi di differenziazione (per gerarchie) occorre adesso guardare anche al processo inverso che si da come composizione o (ri)assemblaggio delle differenze in un orizzonte di compatibilità capitalistica. In questo senso, le questioni di razza e genere a cui oggi il capitale presta crescente attenzione, sono sempre più intese nei termini della produzione culturale o del riconoscimento identitario, quando non immediatamente tradotte nella logica del comando del capitale. Un modo di intendere la razza e il genere che non guarda alle condizioni materiali di vita dei soggetti e perde di vista le gerarchie sociali e del lavoro. Piuttosto, tale spazio di composizione – o (ri)assemblaggio – va oggi assunto come il campo di battaglia della lotta femminista e antirazzista: tra la composizione delle differenze come riconoscimento interno alla logica del capitale da una parte, e la loro composizione politica conflittuale oltre le gerarchie di razza e genere, dall’altra.

Da Marx, e soprattutto dalle lotte sociali, sappiamo che il processo del capitale, è aperto e ambivalente, storicamente determinato dai rapporti antagonisti tra le forze in campo. Dove il capitalismo definisce gerarchie (che, come si diceva, possono essere stabilite nei termini della differenziazione o della composizione) per organizzare la società al fine di una più efficace estrazione di pluslavoro, è possibile ugualmente definire lo spazio di un processo di composizione politica antagonista che intende invece smantellarle. Non si tratta però di un automatismo o di un processo lineare. Al contrario, la possibilità dell’antagonismo al capitale è sempre la posta in palio dei processi. In questa prospettiva, la lotta alla subordinazione razziale e di genere per mettere efficacemente in discussione la funzione capitalistica delle differenze, per smantellare davvero le gerarchie che organizzano le nostre società, deve dotarsi di nuove lenti e nuovi strumenti. Non basterà spiazzare con un’analisi materialista pur indispensabile, le letture soggettiviste di razzismo e subordinazione di genere che hanno a lungo condizionato il dibattito in Italia. Dovrà anche saper complicare il modo in cui guarda alle differenze del capitale. Non solo, dunque, leggere la costruzione di differenze e processi di inclusione differenziale all’interno delle gerarchie sociali e produttive, ma anche, e con crescente urgenza, guardare alla composizione capitalistica delle differenze, tutta interna e compatibile alla logica gerarchica dell’organizzazione del capitale.

Ciò di cui abbiamo oggi soprattutto bisogno è uno sguardo capace di spiazzare il piano della mera rivendicazione dei diritti, sempre interno alla razionalità del capitale, di andare oltre rivendicazioni culturaliste e/o identitarie che si giocano sul piano del riconoscimento capitalistico, per assumere il punto di vista materiale e situato dei soggetti. Per costruire percorsi conflittuali e di lotta che a partire delle condizioni materiali di vita puntino a smantellare l’organizzazione gerarchica della società. In questo senso, si tratta di portare la pratica teorica lì dove il capitale vorrebbe non guardassimo, dove stende la cortina fumogena delle rivendicazioni culturiste e identitarie che celano le condizioni materiali di vita dei soggetti. Lì dove la razza e il genere non sono un simulacro o il feticcio della cattiva coscienza razzista e sessista della «civiltà europea» ma definiscono i rapporti conflittuali di classe al fondo del dominio e dello sfruttamento capitalistico contemporaneo.

FONTE: https://sinistrainrete.info/teoria/20068-anna-curcio-le-differenze-del-capitale-razza-genere-antagonismo-compatibilita.html

 

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