NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI 9 MAGGIO 2018

NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI 9 MAGGIO 2018

A cura di Manlio Lo Presti

http://www.dettiescritti.com/

https://www.facebook.com/Detti-e-Scritti-958631984255522/

 

Esergo

Hanno acceso le lanterne

sulle isole.

Mare di primavera.notiziario

(Masaoka Shiki, Poeta, Giappone 1867-1892)

Il grande libro degli Haiku, Castelvecchi,2010, pag. 261

 

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SOMMARIO

 

EVENTO

 

IN EVIDENZA

Quarant’anni fa la morte di Moro, la tragedia e l’enigma – SPECIALE

‘Il mio sangue ricadrà su di voi’. Rifiutati i funerali di Stato. FOTO, VIDEO E INTERVISTE

di Marco Dell’Omo 08 maggio 2018

Il nove maggio del 1978 a Roma era una giornata grigia e ventosa. L’asfalto era ancora bagnato per la pioggia caduta il giorno prima. Le pantere della polizia e le gazzelle dei carabinieri andavano e venivano per le strade, alla ricerca di qualche indizio, nella speranza di beccare una traccia che portasse al covo dei terroristi.

In quei 55 giorni nella capitale era stata fermata un’automobile ogni dieci, e una persona ogni venti era stata controllata, senza mai arrivare a nulla. Alle 12.30 di quella mattina con poco sole, il telefono squillò a casa del professor Francesco Tritto, un assistente universitario di Aldo Moro. “Pronto, chi parla?”. “Sono il dottor Nicolai” rispose una voce giovane. Ma a chiamare era il brigatista rosso Valerio Morucci, 29 anni, uno dei cervelli dell’operazione: “Lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo Moro in via Caetani. Lì c’è una R4 rossa. I primi numeri di targa sono N5”.

Era la fine annunciata di una spericolata azione terroristica durata poco meno di due mesi ma che influenzò la storia italiana per molti anni a seguire. Moro era stato ucciso poche ore prima, colpito nel petto dai proiettili sparati dagli assassini.

Da tre giorni il Paese intero aspettava quel tragico epilogo: il lugubre comunicato numero nove diffuso dalle Br il 6 maggio aveva annunciato seccamente l’imminente morte del presidente della Dc: “Concludiamo la battaglia, eseguendo la sentenza a cui Moro è stato condannato“.

Ormai nessuno credeva più alla possibilità di rivedere Moro vivo. Il Vaticano aveva segretamente raccolto una grande cifra per pagare un eventuale riscatto. Il presidente della Repubblica Giovanni Leone aveva sul tavolo le carte per concedere la grazia a un terrorista che non si era macchiato di crimini di sangue. Ma il governo presieduto da Giulio Andreotti e sostenuto dal Pci non voleva cedere ai terroristi. E così la sentenza fu eseguita.

Il 9 maggio il cadavere di Moro fu ritrovato adagiato nel bagagliaio della R4 rossa usata dai brigatisti per l’ultimo viaggio del presidente. La macchina era parcheggiata in via Caetani, a metà strada tra Piazza del Gesù, dove si trovava la sede della Democrazia, e via delle Botteghe Oscure, dov’era il quartier generale del Pci: i due partiti del compromesso storico che le Br avevano deciso di combattere imbracciando il mitra.

Aveva il vestito grigio a righe e la cravatta che indossava il giorno del suo rapimento in via Fani, dove i cinque uomini della sua scorta morirono crivellati dai colpi delle mitragliette Skorpion.

Moro non voleva soccombere, e non voleva che soccombesse la sua visione politica di sbloccare la democrazia italiana favorendo un’evoluzione socialdemocratica del Pci.

Le sue ‘lettere dal carcere’ (alla moglie Noretta, a Cossiga, a Zaccagnini, al Papa) chiedevano di trattare con i suoi sequestratori. Ma il fronte della fermezza (comunisti e democristiani) non poteva accettare che Moro parlasse all’opinione pubblica contraddicendo la linea dei partiti di governo, quel governo di unità nazionale che lui stesso aveva progettato e fatto nascere. E dunque durante la sua disperata battaglia per la vita, il presidente sequestrato dai brigatisti conobbe l’onta e il disonore di essere presentato dai suoi compagni di partito come una persona debole, fiaccato dai suoi carcerieri, che anteponeva la sua vita al bene del Paese.

Come poteva Moro aver scritto ai capi della Dc: ‘Il mio sangue ricadrà su di voi’? Eppure lo aveva fatto. Il giorno del ritrovamento del cadavere, la famiglia decise di consumare lo strappo con le istituzioni. La moglie e i figli rifiutarono i funerali di Stato e seppellirono Aldo Moro in forma privata nel cimitero di Torrita Tiberina. Lo Stato volle comunque una cerimonia solenne, che fu celebrata da Paolo VI a san Giovanni. La bara di fronte all’altare era vuota. Lo Stato non si era piegato al ricatto dei brigatisti. Le Br non avevano avuto nessuna forma di legittimazione.

Ma qualcuno poteva cantare vittoria? Quella vicenda si era conclusa con una morte (che si aggiungeva a quella degli uomini della scorta) e molti sconfitti. Lo Stato non era riuscito a trovare il covo delle Br e liberare Moro. Il compromesso storico tra Dc e Pci si sarebbe interrotto di lì a poco. Le Br sprofondarono in un delirio di incomunicabilità che le isolò completamente dal Paese. La famiglia lo aveva perso per sempre.

E da quel giorno di maggio è cresciuto sempre di più il sospetto che dietro l’uccisione del presidente della Dc ci sia stata qualche complicità inconfessabile, interna o internazionale. Questa è la morte di Aldo Moro 40 anni dopo: una tragedia che si è trasformata in un enigma che nessuno è riuscito ancora a sciogliere.

 

http://www.ansa.it/sito/notizie/speciali/editoriali/2018/05/07/quarantanni-fa-la-morte-di-moro-la-tragedia-e-lenigma-speciale_14c8cc27-8791-4add-9181-364601a78d5f.html

 

 

 

 

 

 

Guerre Stellari, Portobello, l’austerity, il terrorismo. L’Italia del caso Moro

La sera del 15 marzo Aldo Moro rimane fino alle 22 nel suo ufficio di via Savoia, a Roma. Discute con i suoi collaboratori Nicola Rana e Corrado Guerzoni. Siamo a un passo dal compimento del suo disegno politico: il nuovo governo Andreotti, monocolore Dc, riceverà l’appoggio esterno del Partito comunista. E’ la prima volta dal 1947. Ma non è detto che l’intesa regga, il giorno seguente, alla prova del voto di fiducia in aula. Tutto intorno, il Paese è inquieto. Tante sigle terroristiche, tanti omicidi politici. E l’austerity, l’inflazione (nel ‘78 è al 12,1%), la crisi economica internazionale. Il tasso di disoccupazione è del 6,6% (era del 6,4 nel 1977, sarà del 6,9 nel 1979). Un litro di latte costa quasi 400 lire, il pane 523 lire al Kg, un chilo di pasta 600 lire. Al cinema, dove un biglietto costa tra le 1000 e le 2500 lire, gli italiani vedono fantascienza e film d’autore. E in tv spopolano Raffaella Carrà ed Enzo Tortora.

Il 16 marzo 1978 a Roma le Brigate Rosse rapiscono il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, uccidendo tutti i componenti della sua scorta. A distanza di 40 anni restano tanti i dubbi e i nodi irrisolti sulla dinamica dell’agguato. La testimonianza di Luciano Infelisi, che da sostituto procuratore della Repubblica fu il primo a seguire le indagini sul caso. E quella dell’attore Francesco Pannofino: all’epoca diciannovenne, abitava in via Fani e fu tra i primi testimoni oculari. La ricostruzione di quelle ore frenetiche in cui l’Italia sotto choc cominciava a chiedersi se Moro fosse ancora vivo e dove fosse tenuto prigioniero.

 

La mappa del rapimento

Alle 8.55 del 16 marzo Aldo Moro, insieme alla scorta, parte da casa. Sette minuti dopo, l’agguato tra via Fani e via Stresa. Quattro agenti della scorta muoiono subito, un quinto poco dopo, in ospedale. Inizia così il sequestro. I brigatisti in fuga con l’ostaggio riescono ad attraversare la città e cambiano auto ben due volte prima di portare l’allora presidente della Democrazia Cristiana nell’appartamento usato come prigione. L’animazione sulla mappa mostra il percorso dall’abitazione di Moro al luogo dell’agguato, e poi tra le strade di Roma fino a via Montalcini, ricostruendo così le tappe del sequestro.

 

18 marzo

Le Br diffondono il Comunicato n.1 e la prima foto di Moro prigioniero.

19 marzo

Papa Paolo VI lancia il primo appello per la liberazione di Moro.

21 marzo

Il governo vara il decreto con le norme antiterrorismo d’emergenza. La pena per i sequestri di persona è 30 anni, ergastolo in caso di morte del rapito.

 

23 marzo

Il ministro dell’Interno Francesco Cossiga assume il ruolo di coordinatore di tutte le forze di Polizia. Il Pci comunica la sua posizione ufficiale: opposizione a ogni trattativa tra Stato e Br.

Dopo il rapimento, stando ai racconti dei brigatisti, Moro viene portato in via Montalcini. La sua cella è un vano costruito all’interno di un appartamento che dall’esterno non deve destare sospetti. Con Ezio Mauro entriamo in Corte d’Assise a Roma, dove sono custoditi gli originali del Comunicato n.1 delle Br e la prima foto di Moro prigioniero. Ma perché i terroristi hanno scelto proprio lui? La risposta dell’ex brigatista Adriana Faranda. Le analisi di Giovanni Moro, sociologo e figlio dello statista, e di Nicola Rana, stretto collaboratore del presidente Dc.

25 marzo

Le Br fanno trovare in varie città il Comunicato n.2: “è in corso l’interrogatorio di Aldo Moro”.

29 marzo

Prime lettere di Moro: alla moglie Eleonora, al collaboratore Nicola Rana, al ministro dell’Interno Francesco Cossiga (“mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato”). Comunicato n.3 delle Br.

30 marzo

La Dc sceglie ufficialmente la linea della fermezza: nessuna trattativa.

Le Br cominciano il “processo” al prigioniero nella cella di via Montalcini. E Moro scrive le prime tre lettere dalla prigionia (sono in tutto 97 quelle conosciute). Ezio Mauro entra con lo studioso Michele Di Sivo nell’Archivio di Stato, dove sono custoditi molti originali degli scritti dello statista dal carcere. “Io mi trovo – scrive Moro al ministro degli Interni Francesco Cossiga – sotto un dominio pieno e incontrollato, sottoposto ad un processo popolare che può essere opportunamente graduato, con il rischio di essere indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa”. Propone subito il tema della trattativa, dello scambio di ostaggi, come unica via d’uscita. Una lettera che Moro voleva mantenere riservata ma che i brigatisti diffondono, come racconta Adriana Faranda.

2 Aprile

Durante una cena in provincia di Bologna un gruppo di amici (tra i quali Romano Prodi) fa una seduta spiritica dalla quale emergere la “rivelazione” che Moro sarebbe prigioniero a “Gradoli”. Secondo appello di Paolo VI durante l’Angelus.

4 Aprile

Comunicato n.4 delle Br con la “Risoluzione della direzione strategica delle Br” e nuova lettera di Moro al segretario della Dc Benigno Zaccagnini.

5 Aprile

Lettera di Moro alla moglie: le spiega come adoperarsi per uno scambio di detenuti.

6 aprile

La famiglia Moro si dissocia dalla linea della fermezza adottata dalla Dc

Aldo Moro scrive al segretario della Democrazia Cristiana Benigno Zaccagnini e con maggior forza propone uno scambio di ostaggi con i brigatisti. Si alzano i toni mentre continuano le indagini. Il mondo politico cerca di rispondere alla sfida Br ma tutto rimane misterioso, a partire dal luogo dove Moro è tenuto prigioniero. A dare un’indicazione arriva persino una seduta spiritica: spunta il nome di “Gradoli”. Con le testimonianze di Nicola Rana, nel ‘78 capo della segreteria di Moro, e Giuseppe Pisanu, nel ‘78 capo della segreteria di Zaccagnini

10 aprile

Comunicato n. 5 delle Br.

15 aprile

Comunicato n. 6: Moro viene condannato a morte.

17 aprile

Si allarga il fronte per la trattativa. Iniziative di molti intellettuali, Amnesty International. Primo appello del segretario generale dell’Onu Kurt Waldheim.

L’Italia si divide tra le ragioni della fermezza e quelle della trattativa con i terroristi che tengono prigioniero Aldo Moro. “Vivevo un’angoscia comune a tanti, sapevamo uscendo la mattina che poteva toccare anche a noi” ricorda Giorgio Napolitano, nel ’78 membro della segreteria del Pci, e Giuseppe Pisanu, all’epoca capo della segreteria di Zaccagnini, racconta l'”atroce dilemma” di fronte al quale si trovava il partito. Claudio Signorile, allora vicesegretario del Psi, spiega su cosa si basava l’iniziativa socialista: “Amnistia per un brigatista non coinvolto in fatti di sangue”. L’altro dibattito di quei giorni riguarda la veridicità delle lettere di Moro: è davvero lui? Intanto, un mese dopo il sequestro, arriva il sesto comunicato Br: il “processo” è terminato con la condanna a morte. Sembra la parola definitiva, non lo è ancora.

18 aprile

Diffusione del falso comunicato 7. Viene scoperta la base Br di via Gradoli a Roma.

19 aprile

Il quotidiano “Lotta Continua” pubblica un appello a favore della trattativa, firmato da intellettuali cattolici e laici.

20 aprile

Le Br inviano il vero comunicato numero 7 con la foto di Moro che tiene in mano una copia di Repubblica del 19 aprile. Propongono uno scambio di prigionieri: la Dc ha 48 ore di tempo per accettare. Intanto i brigatisti continuano a sparare: uccidono il maresciallo Francesco Di Cataldo a Milano.

Il comunicato numero 7 delle Br annuncia la morte di Aldo Moro (“mediante suicidio”). Il cadavere del presidente Dc, è scritto nel volantino, si trova nel lago della Duchessa, al confine tra Lazio e Abruzzo. Una grande operazione di ricerca delle forze dell’ordine non porta ad alcun risultato: quel comunicato infatti è un falso. Non è stato scritto dalle Br ma, si scoprirà, da un falsario in contatto con la Banda della Magliana. Perché? Intanto viene finalmente scoperto, in modo rocambolesco, il covo romano di via Gradoli. Ma ancora una volta i suoi inquilini, Mario Moretti e Barbara Balzerani, sfuggono alla cattura. Arriverà il vero comunicato numero 7, e sarà un ultimatum.

22 aprile

Scade l’ultimatum. Appello di papa Paolo VI alle Br: “Vi prego in ginocchio, liberate Moro, senza condizioni”. Secondo appello di Kurt Waldheim, segretario generale dell’Onu.

24 aprile

Le Br diffondono il comunicato numero 8 con i nomi dei 13 detenuti per i quali vogliono la scarcerazione in cambio della liberazione dell’ostaggio. Moro chiede funerali senza autorità dello Stato né uomini di partito.

30 aprile

La famiglia Moro rivolge un ultimo appello con una lettera aperta alla Dc. Telefonata di Moretti a casa Moro: “Solo un intervento diretto, immediato, chiarificatore e preciso di Zaccagnini può modificare la situazione”.

È in corso il tentativo di contatto con i brigatisti avviato dal Partito Socialista. Lo racconta Lanfranco Pace, ex dirigente di Potere Operaio negli anni ’70, che con Franco Piperno incontra più volte Valerio Morucci e Adriana Faranda in pieno centro a Roma. Quando tutto sembra deciso, Mario Moretti tenta un’ultima carta e chiama la famiglia Moro dalla stazione Termini di Roma.

1 maggio

Centinaia di migliaia di persone nelle piazze contro il terrorismo.

3 maggio

Il governo ribadisce il no a qualsiasi trattativa.

4 maggio

La Dc annuncia per il 9 maggio una riunione della direzione per convocare il Consiglio nazionale, come richiesto da Moro.

5 maggio

Comunicato numero 9 delle Br: “Concludiamo la battaglia eseguendo la sentenza a cui Moro è stato condannato”.

L’esecutivo Br comunica: Moro deve essere ucciso. Il condannato, consapevole della situazione di stallo sia a livello internazionale che nazionale, scrive le lettere d’addio ai familiari. I brigatisti scelgono le armi e chi deve sparare. L’intervista a Giovanni Moro, figlio dello statista: “Un sistema politico, un Governo, possono decidere di non decidere. In questo caso non è stata intavolata una trattativa e non si è scoperto dove era tenuto prigioniero l’ostaggio per cercare di liberarlo”. Con la testimonianza di Gennaro Acquaviva, nel ’78 capo della segreteria di Bettino Craxi: “La Digos ci disse: non c’è niente da fare, è tutto finito”.

9 maggio

Moro viene trovato morto in via Caetani. La famiglia chiede che sia rispettata la sua volontà: nessun funerale di Stato, nessuna cerimonia.

Nel cuore di Roma, tra le sedi del partito della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista, i brigatisti lasciano la Renault 4 con il corpo di Aldo Moro. Ezio Mauro torna in via Caetani con il generale Antonio Cornacchia, che nel 1978 era il comandante del nucleo investigativo dei Carabinieri e per primo aprì il bagagliaio della R4. Con le testimonianze di Giovanni Moro, Nicola Rana e l’audio della telefonata con cui Valerio Morucci comunica al professor Franco Tritto, assistente universitario e amico della famiglia Moro, l’avvenuta esecuzione.

http://lab.gruppoespresso.it/repubblica/2018/cronaca/aldo-moro/via-caetani

 

 

 

Zingales: la crisi Ue era premeditata

phastidio.netMario Seminerio 20 dicembre 2012

Intervista di Luigi Zingales al sito tagli.me. Tutta da leggere, ma qui ci concentriamo sulla prima domanda, per fatto personale. Ci sono pure le note a margine del vostro titolare. Il mondo continuerà ad essere un posto molto complesso, comunque.

Professor Zingales, Mario Seminerio dice che la crisi dell’Euro è colpa della Germania. Essa ha creato un deficit tra importazioni ed esportazioni, e, secondo Seminerio, senza trasferimenti interni all’Ue non si esce dalla crisi: vero o falso?

«C’è del vero, sicuramente. Ma seguitemi nel ragionamento: a livello mondiale le partite dei pagamenti sono a zero, non avendo ancora inventato l’interscambio galattico. Ora, faccia finta che al mondo vi siano solo due continenti, l’Europa e l’America: se uno è in deficit, l’altro è in surplus. Quindi, chiaramente c’è un’identità contabile: a valle di questa identità contabile ci sono però incentivi e politiche diverse»

La somma è certamente zero, e allo scambio intergalattico forse credevano solo quanti sostenevano a spada tratta le ragioni tedesche. Ma tra blocchi commerciali esiste un elemento di riequilibrio chiamato cambio, ricordate? In Ue non c’è nulla di simile, e la “svalutazione interna”, fatta di deflazione, è la via migliore per la povertà.

«La Germania esporta più di noi perché si sono impegnati molto più di noi, e sarebbe sciocco andare a penalizzare chi ha messo in atto politiche più giuste»

Questa è una lettura vagamente morale e moralistica della storia. Ci può stare, la condividiamo pure. Ma in economia (visto che siamo tutti interdipendenti) spesso ciò che è moralmente “giusto” e premiante produce brutte cose, chiamate squilibri, il cui accumulo porta fatalmente a qualche rottura molto spiacevole.

«La teoria economica dice questo: in un’area valutaria in cui non c’è mobilità, non ci sono trasferimenti e per di più avviene uno shock, si ha un collasso. L’aspetto criminale dei fondatori dell’Euro è che tutto questo lo sapevano, e non solo non han fatto nulla, ma anzi l’hanno fatto apposta: la crisi dell’Euro di oggi era inevitabile. Dire che è colpa degli Stati Uniti è una balla: è vero che è stata quella la causa scatenante, ma la crisi era inevitabile. Non fosse successo il patatrac negli Usa sarebbe successo altro. Era una scelta premeditata: “Nel momento di crisi, ci uniremo di più”, si pensava. Abbiamo buttato il cuore oltre l’ostacolo, solo che il corpo è rimasto di qua»

Questa è una grande verità, nessun altro commento. 

«Ora dobbiamo evitare gli incentivi sbagliati: se noi mutualizziamo il debito, premiamo chi si è comportato male e tassiamo chi si è comportato bene. Non è un bell’esempio»

E’ vero: se lo chiamano moral hazard, un motivo ci sarà. Ma se questa “mutualizzazione” fosse il punto di arrivo di un percorso difficile, lungo, doloroso, eppure controllato (anche democraticamente, attraverso il cambiamento delle istituzioni europee) in cui ogni forma di free riding viene mondata, continueremmo ad argomentare a questo modo? Il Tennessee “sussidiato” dal New Jersey è cosa così moralmente ripugnante?

«Io propongo un sussidio di disoccupazione europeo, con controlli incrociati (un tedesco controlla i greci, un greco i francesi e così via) e pagato con fondi comuni: basta sussidi solo per le banche. Ovviamente parlo di un sussidio organizzato in maniera giusta, che incentivi un ritorno sul mondo del lavoro, un sussidio destinato ai Paesi più in difficoltà – come guarda caso era la stessa Germania, 7 anni fa. È un provvedimento popolare, è economicamente giusto e servirebbe a sgessare le relazioni tra i Paesi»

E noi pure, attendiamo con ansia quel giorno, ma dovreste saperlo, ormai. E comunque, si chiama trasferimento, in caso non lo aveste notato. 

«Non capisco perché non lo attuino»

Semplice: perché non viviamo nel migliore dei mondi possibili e perché le barriere nazionali contano ancora moltissimo. Gli incentivi contano.

Leggete anche il resto dell’intervista, però. E’ tempo speso bene.

https://phastidio.net/2012/12/20/zingales-la-crisi-ue-era-premeditata/

 

 

 

Le tre scimmiette

È proprio vero che il Sistema è ormai riuscito nel suo intento: quello di far votare le masse contro i propri interessi.

Redazione 7 maggio 2018megachip.info

di Giulietto Chiesa

 

Una minaccia incombe: il debito pubblico. Ma quanti sanno come è fatto? Siamo davvero così spendaccioni? Una cifra, tanto per sbalordirci. Nel 2017, l’anno scorso,  i derivati sono costati all’Italia 5,4 miliardi. Il mucchio dei 2300 miliardi di euro che “dovremmo restituire” a non si sa chi, s’ingrossa. E non è perché abbiamo speso troppo e male. Noi non c’entriamo. Potevamo starcene in un’isola in mezzo al mare, oppure nel deserto, senza bene neppure un bicchiere d’acqua. E sarebbe aumentato lo stesso.

 

Niente male: una manovrina. Ma, negli ultimi undici anni, i derivati ci hanno provocato una perdita di oltre 40 miliardi. Che è entrata a fare parte dello stesso mucchio che adesso la coatta Bonino, insieme al simpaticissimo Cottarelli (vuoi vedere che ce lo ritroviamo ministro nel primo governicchio tecnico che ci capiterà d’incontrare?), ci dicono che dobbiamo ripagare.

 

E fosse finita qui! Non lo è. Il salasso continuerà perché il valore dei contratti che il Tesoro ha firmato con le banche è “negativo” per altri 31 miliardi di euro di “potenziali perdite future”. Che si aggiungeranno al mucchio. Sembra un delirio e lo è. Infatti. Il Tesoro  temeva una rialzo dei tassi e si è “assicurato” comprando derivati. Il rialzo non c’è stato, ma l’assicurazione la devi pagare comunque. Qualcuno ha commesso degli errori. Chi? Non saprei. Sembra che qualche straccio sia in volo, cioè sotto processo della Corte dei Conti, accusato per “danno erariale”. Ma quando finirà il processo non lo sa nessuno. Ci vorranno anni. E, alla fine saranno assolti perché l’uomo, come si sa, è fallibile.

 

Ma chi era il Ministro del Tesoro undici anni fa? E chi era il capo del Governo? E chi stava a dirigere la Banca d’Italia? Le tre scimmiette? No. Le risposte si trovano su Wikipedia, che è piena di imprecisioni, ma questi dati te li fornisce ancora. Quelli qui elencati sotto processo non finiranno di sicuro. Il fatto è che, nel frattempo, la Banca Centrale Europea ci aveva regalato una cifra più o meno simile, mediante il cosiddetto quantitative easing. Che è un modo per comprare titoli di stato decotti con denaro “fiat”, creato dal nulla.

 

Ecco: la BCE ci ha aiutato a diminuire un pochino il costo del debito pubblico, e chi si è preso questo “alleggerimento”? Le banche d’investimento internazionali, cioè il “Mercato”. Quello stesso Mercato al quale dovremmo restituire il debito pubblico. Quello stesso Mercato che determina i voti delle compagnie di rating (perché le possiede).

 

Insomma, una “partita di giro”, che in vari modi trasforma ogni mossa in un debito.  Tanto più che questi “contratti”, cioè le assicurazioni tramite derivati, sono scritti proprio dalle stesse Banche che compongono il Mercato. Ve lo immaginate un misero direttore di dipartimento del Ministero del Tesoro italiano che si siede al tavolo di fronte a un emissario della Goldman Sachs? Classico esempio di asimmetria. Prova a dire di no. Arriverebbero i fulmini dall’alto. Chi se la sente? Meglio, per esempio, accettare un invito per una crociera nel Mar dei Caraibi, di quelle di lusso.

 

È così che si fanno certi “errori”. Alla fine del 2015 l’ammontare di titoli sovrani su cui il Tesoro aveva sottoscritto derivati era pari a 153,8 miliardi di euro. Decisioni, come abbiamo visto, che si sono rivelate “sbagliate”. Ma forse non erano “sbagliate”. Molto probabilmente erano “concordate”, più o meno come avviene in una normale rapina, in cui il cassiere consegna il denaro guardando fisso, con una certa, comprensibile apprensione, la canna della pistola puntata sul suo naso.

 

Più o meno come concedere, con suprema innocenza, alla Banca che ti assicura, la clausola  della “estinzione anticipata”. Ovvio che, avendola scritta essa stessa, la clausola, poi la Banca pretende che venga esaudita. Un piccolo esempio: tra la fine del 2001 e l’inizio del 2013 il Tesoro italiano ha pagato 3,1 miliardi di euro alla Morgan Stanley, applicando la clausola. La faccenda finì sui giornali. Appunto: finì. Ecco,  per concludere, gran parte del nostro “debito pubblico”, è fatto di queste cosette.

 

E, a questo punto, dare un’occhiata a quello che dicono e fanno i “vincitori” delle ultime elezioni politiche è essenziale, per capire cosa faranno (o non faranno). Di Maio che dice? Si è già quasi dimenticato il reddito di cittadinanza. E, quando Fico diventa presidente della Camera dei deputati, cosa dice? “Mi impegnerò a ridurre la spesa della politica. Quanto vale? 350 milioni, massimo 500 milioni l’anno. E non pronuncia una parola, né lui, né Di Maio, sul debito pubblico e su come s’ingrandisce, e perché. Cioè guardano la pagliuzza e non vedono la trave. O forse non la vogliono vedere.

 

Ma non sono gli unici ad avere difetti della vista politica. Prendiamo l’altro, Matteo Salvini, anche lui “vincitore”, che è andato al voto del 4 marzo con la proposta della flat tax. Tutti uguali di fronte al fisco. Lasciamo stare la percentuale, che è fluttuante a seconda del talk-show televisivo in cui è stata pronunciata. Quali effetti avrà? Non occorre guardare nella sfera di cristallo. Basta leggere il Financial Times riferito agli Stati Uniti. Che, analizzando gli effetti della flat tax, introdotta da Donald Trump,  riferisce che in soli tre mesi 30 miliardi di dollari sono andati alle tre o quattro banche d’investimento principali. Un diluvio benedetto per i super-ricchi, una ulteriore spoliazione per i poveri.

 

Si può immaginare che la flat-tax italiana produrrà qualche cosa di diverso? È proprio vero che il Sistema è ormai riuscito nel suo intento: quello di far votare le masse contro i propri interessi. Naturalmente la spiegazione c’è: basta che non sappiano chi sono coloro per i quali votano.

http://megachip.globalist.it/politica-e-beni-comuni/articolo/2018/05/07/le-tre-scimmiette-2023868.html

 

 

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

La classe sociale non fa il bullo

07.05.18

Marco Leonardi e Marco Paccagnella

Vero che gli episodi di bullismo sono meno frequenti nei licei rispetto agli altri indirizzi di studi. È quanto si ricava dalla lettura dell’indagine Invalsi. Ma non sembra dipendere dalla classe sociale di provenienza degli studenti.

Atti di bullismo per tipo di scuola

Qualche giorno fa, Michele Serra ha rinverdito il dibattito sulle classi sociali e su come si perpetuano tra generazioni. Due i punti principali del suo articolo: 1) la scuola italiana è stratificata: i figli di genitori ricchi e istruiti vanno al liceo, gli altri frequentano gli istituti tecnici e professionali; 2) di conseguenza, in questi ultimi c’è più bullismo che nei licei.

Ma che cosa dicono in proposito i dati? Sui social network molti hanno fatto notare che secondo l’indagine Istat nel 2014 il 54,5 per cento degli studenti liceali si era dichiarato vittima di atti di bullismo, contro il 50 per cento circa degli studenti negli istituti tecnici e professionali.
Informazioni più precise possono essere tratte dall’indagine Invalsi sull’anno scolastico 2014-2015. Questi dati coprono l’intera popolazione degli studenti che frequentano la seconda superiore (mentre l’indagine Istat è campionaria e riferita a ragazzi fra gli 11 e i 17 anni di età). Soprattutto, il questionario Invalsi chiede ai ragazzi non solo se sono stati vittime di atti di bullismo, ma anche se ne sono stati autori. E permette di differenziare gli atti di bullismo a seconda della loro gravità.
Se accorpiamo tutti i fenomeni di bullismo (prendere in giro, insultare, escludere e picchiare) non ci sono differenze legate all’origine sociale: i ragazzi con almeno un genitore laureato hanno probabilità di essere “vittime” e di essere “bulli” simili a quelle dei ragazzi con entrambi i genitori senza laurea. Per contro, sia le vittime sia i bulli sono più diffusi fra gli studenti degli istituti tecnici e professionali che fra gli studenti liceali. Un simile quadro appare anche quando ci concentriamo sugli episodi di bullismo più gravi (picchiare ed essere picchiati), benché in questo caso emerga una leggera prevalenza di bulli (picchiatori) tra i figli di genitori non laureati (13 per cento contro il 10 per cento dei figli di genitori laureati).

Michele Serra ha dunque probabilmente ragione nell’affermare che gli episodi di bullismo sono meno frequenti nei licei rispetto agli altri indirizzi di studi, ma non sembra esserci evidenza che questo sia dovuto alla classe sociale di provenienza, misurata dal grado di istruzione dei genitori.

Tabella 1

 

Bio dell’autore

Marco Leonardi È professore ordinario di economia politica al dipartimento di economia, management e metodi quantitativi dell’Università Statale di Milano. Phd. in economia alla London School of Economics, è stato visiting scholar presso il Massachussetts Institute of Technology di Boston e l’Università di Berkeley. I suoi principali interessi scientifici riguardano l’economia del lavoro e in particolare temi legati a disoccupazione, disuguaglianza e redistribuzione.
Marco Paccagnella Analista presso l’Ocse, Direttorato per l’Istruzione e le Competenze. In precedenza ha lavorato come Economista presso la Banca d’Italia, da cui è attualmente in aspettativa. Ha conseguito un Master in Economics presso la London School of Economics e un PhD in Economics presso l’Università Bocconi. I suoi interessi di ricerca riguardano l’economia del lavoro e dell’istruzione. https://sites.google.com/site/marcopaccagnella/

 

http://www.lavoce.info/archives/52905/la-classe-sociale-non-fa-il-bullo/

 

 

 

 

BELPAESE DA SALVARE

Oltre 250mila italiani emigrano all’estero, quasi quanti nel Dopoguerra

mobile.ilsole24ore.com – Andrea Carli –

Giambattista Vico parlava di corsi e ricorsi storici. Con questa formula il filosofo napoletano sintetizzava la capacità di certe situazioni di ripetersi nella vita degli essere umani. Il Dossier Statistico Immigrazione 2017 elaborato dal centro studi e ricerche Idos e Confronti registra una …

Giambattista Vico parlava di corsi e ricorsi storici. Con questa formula il filosofo napoletano sintetizzava la capacità di certe situazioni di ripetersi nella vita degli essere umani. Il Dossier Statistico Immigrazione 2017 elaborato dal centro studi e ricerche Idos e Confronti registra una di queste situazioni: oggi gli emigrati italiani sono tanti quanti erano nell’immediato dopoguerra. In numero, oltre 250.000 l’anno. Corsi e ricorsi della storia, appunto.

Prima il calo poi la crisi del 2008 e l’inversione di tendenza
L’emigrazione degli italiani all’estero, dopo gli intensi movimenti degli anni ’50 e ’60, è andato ridimensionandosi negli anni ’70 e fortemente riducendosi nei tre decenni successivi, fino a collocarsi al di sotto delle 40.000 unità annue. Invece, a partire dalla crisi del 2008 e specialmente nell’ultimo triennio, le partenze hanno ripreso vigore e hanno raggiunto gli elevati livelli postbellici, quando erano poco meno di 300.000 l’anno gli italiani in uscita.

Oltre 114mila persone sono andate all’estero nel 2015
Sotto l’impatto dell’ultima crisi economica, che l’Italia fa ancora fatica a superare, i trasferimenti all’estero hanno raggiunto le 102.000 unità nel 2015 e le 114.000 unità nel 2016, mentre i rientri si attestano sui 30.000 casi l’anno.

La fuga dei cervelli
A emigrare – sottolinea il report – sono sempre più persone giovani con un livello di istruzione superiore. Tra gli italiani con più di 25 anni, registrati nel 2002 in uscita per l’estero, il 51% aveva la licenza media, il 37,1% il diploma e l’11,9% la laurea ma già nel 2013 l’Istat ha riscontrato una modifica radicale dei livelli di istruzione tra le persone in uscita: il 34,6% con la licenza media, il 34,8% con il diploma e il 30,0% con la laurea, per cui si può stimare che nel 2016, su 114.000 italiani emigrati, siano 39.000 i diplomati e 34.000 i laureati.

Germania e Regno Unito le mete preferite
Le destinazioni europee più ricorrenti sono la Germania e la Gran Bretagna; quindi, a seguire, l’Austria, il Belgio, la Francia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e la Svizzera (in Europa dove si indirizzano circa i tre quarti delle uscite) mentre, oltreoceano, l’Argentina, il Brasile, il Canada, gli Stati Uniti e il Venezuela.

L’investimento (perso) da parte dello Stato
Ogni italiano che emigra rappresenta un investimento per il paese (oltre che per la famiglia): 90.000 euro un diplomato, 158.000 o 170.000 un laureato (rispettivamente laurea triennale o magistrale) e 228.000 un dottore di ricerca, come risulta da una ricerca congiunta condotta nel 2016 da Idos e dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” sulla base di dati Ocse.

I flussi effettivi sono ancora più elevati
A rendere ancora più allarmante il quadro tratteggiato da questo dossier è un’uteriore considerazione: i flussi effettivi sono ben più elevati rispetto a quelli registrati dalle anagrafi comunali, come risulta dagli archivi statistici dei paesi di destinazione, specialmente della Germania e della Gran Bretagna (un passaggio obbligato per chi voglia inserirsi in loco e provvedere alla registrazioni di un contratto, alla copertura previdenziale, all’acquisizione della residenza e così via).

Il centro studi: i dati Istat vanno aumentati di 2,5 volte
Il centro studi spiega che rispetto ai dati dello Statistisches Bundesamt tedesco e del registro previdenziale britannico (National Insurance Number), le cancellazioni anagrafiche rilevate in Italia rappresentano appena un terzo degli italiani effettivamente iscritti. Pertanto, i dati dell’Istat sui trasferimenti all’estero dovrebbero essere aumentati almeno di 2,5 volte e di conseguenza nel 2016 si passerebbe da 114.000 cancellazioni a 285.000 trasferimenti all’estero, un livello pari ai flussi dell’immediato dopoguerra e a quelli di fine Ottocento. Peraltro, si legge ancora nel dossier statistico, non va dimenticato che nella stessa Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero il numero dei nuovi registrati nel 2016 (225.663) è più alto rispetto ai dati Istat. Naturalmente, andrebbe effettuata una maggiorazione anche del numero degli espatriati ufficialmente nel 2008-2016, senz’altro superiore ai casi registrati (624.000).

L’Ocse: Italia ottava in classifica
Il problema dei tanti italiani che abbandonano l’Italia è stato segnalato qualche giorno fa anche dall’Ocse. Nell’ultimo report sui migranti l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici ha fatto presente che l’Italia è tornata a essere ai primi posti mondiali come Paese d’origine degli immigrati. Secondo l’Ocse, la Penisola è ottava nella graduatoria mondiale dei Paesi di provenienza di nuovi immigrati. Al primo posto c’è la Cina, davanti a Siria, Romania, Polonia e India. L’Italia è subito dopo il Messico e davanti a Viet Nam e Afghanistan, con un aumento degli emigrati dalla media di 87mila nel decennio 2005-14 a 154mila nel 2014 e a 171mila nel 2015, pari al 2,5% degli afflussi nell’Ocse. In 10 anni l’Italia è “salita” di 5 posti nel ranking di quanti lasciano il proprio Paese per cercare migliori fortune altrove.

 

http://mobile.ilsole24ore.com/solemobile/main/art/notizie/2017-07-06/oltre-250000-italiani-emigrano-all-estero-erano-300000-dopoguerra-094053.shtml?uuid=AEuX6nsB&refresh_ce=1

 

 

 

 

 

CULTURA

Gödel e Heisenberg, i principi del dubbio

Dialoghi Matematici

 

dom 13 mag | 11:00 | Sala Petrassi

La dimostrazione di Kurt Gödel del 1930 per cui, in una teoria matematica soddisfacente certe condizioni minime è possibile costruire una proposizione sintatticamente corretta che non può essere né dimostrata né confutata all’interno della teoria, con la conseguenza che la coerenza della teoria non è dimostrabile nella teoria stessa, insieme al principio d’indeterminazione enunciato dal fisico tedesco Werner Heisenberg nel 1927, che stabilisce dei limiti per la conoscenza della posizione o della velocità di una particella sub atomica, rappresentano due cardini del pensiero non solo per lo sviluppo delle rispettive discipline, matematiche e fisiche, ma per la ricerca epistemologica e la filosofia della scienza del XX° secolo, e non solo di quello. Forse anche a misura di tale rilevanza, molti sono stati i fraintendimenti e le fughe metaforiche sulle quali si può oggi riflettere sedatis motibus. Senza dimenticare che gli assunti teorici della “interpretazione di Copenhagen” hanno ispirato uno degli spettacoli teatrali di maggior successo degli ultimi venti anni.

 

Claudio Bartocci
Edoardo Boncinelli
Gabriele Lolli

con la partecipazione di
Massimo Popolizio
introduce e modera
Pino Donghi

dom 13 mag | 11:00 | Sala Petrassi

https://www.auditorium.com/evento/godel_heisenberg_principi_dubbio-17751.html

 

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO DISINFORMAZIONE

Regeni, il 15 maggio pm di Roma al Cairo per recupero delle immagini della metro

 

I magistrati italiani le avevano chieste fin dai giorni successivi al 3 febbraio, giorno in cui il ricercatore di Fiumicello venne trovato morto. Gli inquirenti egiziani non hanno mai consegnato nulla. Il nuovo accordo è stato raggiunto nel corso di un colloquio telefonico tra il procuratore generale del Cairo, Nabeel Sadek, e il procuratore capo di piazzale Clodio Giuseppe Pignatone

 

di F. Q. | 7 maggio 2018

 

L’Italia le chiede dal 2016, dai giorni immediatamente successivi al ritrovamento del cadavere. Le autorità del Cairo finora non hanno voluto consegnarle. Ora l’attesa potrebbe essere finita. Il 15 maggio nella capitale egiziana inizieranno, alla presenza dei magistrati della Procura di Roma, le operazioni di recupero delle registrazioni delle videocamere di sorveglianza della metropolitana cairota nell’ambito dell’inchiesta sul sequestro e omicidio di Giulio Regeni. Lo rende noto un comunicato congiunto di piazzale Clodio e della Procura Generale della Repubblica Araba d’Egitto.

Sono una delle grandi zone d’ombra dell’inchiesta condotta dai magistrati egiziani. Finora le immagini registrate dalle videocamere di sorveglianza e dei negozi nella zona di Dokki, nelle 2 stazioni della metropolitana che Giulio avrebbe dovuto utilizzare la sera della scomparsa (El Bohooth, a 250 metri, da casa e Mohamed Naguib, nei pressi di piazza Tahir) e nella zona del ritrovamento del corpo non sono usciti dalle stanze dei pm cairoti. Gli investigatori italiani le avevano chieste fin dai giorni successivi al 3 febbraio, giorno in cui il ricercatore di Fiumicello venne trovato morto lungo la superstrada che collega la capitale ad Alessandria d’Egitto. Dal Cairo non è mai arrivato nulla.

Il nuovo accordo è stato raggiunto nel corso di un colloquio telefonico avvenuto ieri tra il procuratore generale del Cairo, Nabeel Sadek, e il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, durante il quale si è fatto il punto sugli sviluppi delle indagini “al fine di pervenire a risultati definitivi sull’uccisione del ricercatore”.

– “La delegazione italiana, guidata dal sostituto procuratore Sergio Colaiocco – si legge nella nota – sarà composta da esperti tecnici italiani che assisteranno alle operazioni di recupero” delle immagini”. Nel corso del colloquio telefonico “il procuratore Sadek ha voluto rappresentare a Pignatone che, al termine dell’attività dei tecnici, una copia di quanto recuperato sarà consegnata alla Procura di Roma”. “L’auspicio comune e che detta attività – prosegue la nota congiunta – permetta di fare passi avanti decisivi verso la verità dei fatti e l’individuazione dei colpevoli”.

Il Procuratore Generale egiziano ha, poi, riferito, sempre nello stessa telefonata, delle attività investigative che la magistratura del Cairo sta compiendo sulla base dell’informativa italiana consegnatale a dicembre scorso, i cui esiti saranno oggetto di un nuovo incontro tra i due uffici che avverrà entro la fine del mese di giugno. “I due uffici hanno, infine, rinnovato il loro impegno a continuare la collaborazione giudiziaria in modo sempre più stretto anche grazie al ruolo svolto dagli ambasciatori egiziano e italiano”, conclude la nota.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/05/07/regeni-il-15-maggio-pm-di-roma-al-cairo-per-recupero-delle-immagini-della-metro/4338905/

 

 

 

ECONOMIA

Gli USA hanno imposto nuove sanzioni contro la Rosoboronexport

08.05.2018

 

Gli Stati Uniti hanno imposto nuove sanzioni contro la Rosoboronexport, riferiscono i media citando la raccolta dei documenti ufficiali dal registro federale USA.

Si osserva che la decisione di intervenire è stata presa il 30 aprile, la data di scadenza è di due anni.

E’ stato sottolineato che le sanzioni sono collegate alla “violazione della legislazione nazionale USA di non proliferazione nucleare contro l’Iran, Corea del Nord e Siria”.

Il 6 aprile il ministero del Tesoro USA ha annunciato l’introduzione di sanzioni contro la Russia, sotto la cui azione, in particolare, sono cadute 14 società, tra cui la Rosoboronexport.

https://it.sputniknews.com/mondo/201805085980328-usa-sanzioni-rosoboronexport-ministero-tesoro-documenti/

 

 

 

FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI

Le banche italiane? Stanno meglio, non benissimo

08.05.18

Angelo Baglioni

Nell’ultimo anno, lo stato di salute delle banche italiane è migliorato. Ma i punti deboli non mancano: crediti deteriorati, titoli pubblici, redditività. Ce lo dice un rapporto della Banca d’Italia. E anche il confronto internazionale lo conferma.

Rapporto della Banca d’Italia

Dopo un periodo turbolento, segnato dai salvataggi di alcune banche (Monte Paschi Siena, due popolari venete, tre casse romagnole) e dal polverone sollevato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta, può essere utile domandarsi: come sta il sistema bancario italiano? È più solido? Nel provare a rispondere, ci viene in aiuto il Rapporto sulla stabilità finanziaria, pubblicato dalla Banca d’Italia alla fine di aprile. Il rapporto sottolinea i progressi fatti dalle banche italiane sul fronte della solidità: incremento del patrimonio, cessione di “sofferenze” (prestiti a soggetti insolventi), riduzione della esposizione al rischio sovrano (titoli pubblici domestici). La Banca d’Italia non nasconde i punti di debolezza delle banche nostrane: la redditività ancora bassa; ma soprattutto le forti differenze tra un istituto e l’altro, ragion per cui i dati medi possono nascondere il permanere di situazioni critiche. Ai numeri del rapporto occorre tuttavia aggiungere qualche informazione relativa al confronto internazionale: è da qui che arrivano le notizie più sgradevoli.

Punti di forza: patrimonio e liquidità

Le banche italiane hanno proseguito nello sforzo di aumentare la loro base patrimoniale, attraverso diversi aumenti di capitale. Nel 2017 il rapporto tra il capitale di migliore qualità e l’attivo ponderato per il rischio (Cet1 ratio) è mediamente aumentato, collocandosi a fine anno al 13,8 per cento e riducendo il divario rispetto alle concorrenti europee. Forse ancora più importante è il fatto che il rapporto tra capitale e attivo non ponderato per il rischio (leverage ratio) è superiore alla media europea (6 per cento contro 5,5 per cento): questo è un indicatore più trasparente e meno manipolabile del Cet1 ratio.

Sul fronte della liquidità la situazione appare tranquilla. L’espansione dei depositi assicura una fonte di finanziamento stabile alle nostre banche. L’indicatore di liquidità (liquidity coverage ratio) è ampiamente superiore al minimo previsto dalle regole prudenziali: 171 per cento contro 100 per cento.

Punti di debolezza: Npl, titoli pubblici, redditività

Le banche italiane hanno ereditato dalla crisi economica degli scorsi anni una mole di prestiti deteriorati (non performing loans – Npl) che ha rappresentato la maggiore fonte di preoccupazione per tutto il sistema e ha generato alcuni dissesti. Nel corso del 2017, le operazioni di cessione hanno consentito di alleggerire il fardello di ben 40 miliardi e altre sono state avviate quest’anno. Ciò non toglie che i crediti deteriorati lordi siano ancora 285 miliardi, pari al 14,5 per cento dei crediti verso la clientela. Va detto che il dato si dimezza se si tengono in conto le svalutazioni già fatte nei bilanci bancari: i crediti deteriorati netti sono pari al 7,5 per cento del totale. Tuttavia, si tratta di un dato medio: la Banca d’Italia sottolinea che nasconde forti differenze tra le banche, alcune delle quali presentano valori ben più alti. Ma quello che più ci penalizza è il confronto internazionale: qui ci viene in aiuto un Rapporto della Commissione UE, dal quale risulta che il rapporto tra crediti deteriorati e totali, nel nostro paese, è ancora il triplo della media europea. Il divario rappresenta un tallone d’Achille formidabile per l’Italia nelle trattative internazionali, relative alle regole prudenziali e al completamento della Unione bancaria.

Un altro punto dolente delle nostre banche è la loro esposizione al cosiddetto “rischio sovrano”, derivante dalla detenzione di titoli pubblici domestici. Il rapporto della Banca d’Italia ci dà una notizia confortante: l’ammontare complessivo di questi titoli si è ridotto al di sotto dei 300 miliardi, pari all’8,5 per cento del totale attivo del sistema (il picco raggiunto tre anni fa era oltre i 400 miliardi, superiore al 10 per cento del totale attivo). Tuttavia, usando i dati della Bce è possibile calcolare che il sistema bancario italiano è tuttora quello che, tra i paesi della zona euro, ha la maggiore concentrazione del rischio verso il Tesoro nazionale: più che doppia rispetto alla media europea (3,5 per cento). Anche su questo fronte, il nostro paese è quello più esposto ai contraccolpi di eventuali misure restrittive, di cui si sta discutendo in Europa, che potrebbero introdurre limiti al portafoglio-titoli o imporre requisiti di capitale aggiuntivi per la detenzione di titoli pubblici.
Ma il principale fattore di rischio, per la Banca d’Italia, è la bassa redditività delle nostre banche. Pur con i miglioramenti fatti nel 2017, grazie alle minori rettifiche su crediti deteriorati e alle commissioni sul risparmio gestito, il return on equity (Roe) resta inferiore al costo del capitale di rischio: 7 per cento contro 9 per cento. Sotto questo profilo, però, non stiamo peggio degli altri. Anzi, le banche che hanno i risultati meno favorevoli nel confronto internazionale (almeno per quanto riguarda gli istituti quotati in borsa) sono quelle tedesche: magra consolazione.

 

Bio dell’autore

Angelo Baglioni Insegna Economia Politica presso l’Università Cattolica di Milano, Facoltà di Scienze Bancarie, Finanziarie e Assicurative. Ha recentemente insegnato anche al Master in Economia e Banca presso la Facoltà di Economia R.M.Goodwin dell’Università di Siena. E’ membro del Comitato direttivo e scientifico del Laboratorio di Analisi Monetaria (Università Cattolica di Milano e Associazione per lo Sviluppo degli Studi di Banca e Borsa). Dal 1988 al 1997 è stato economista presso l’Ufficio Studi della Banca Commerciale Italiana (ora Intesa Sanpaolo), come responsabile della Sezione Intermediari Finanziari. I suoi interessi di ricerca si collocano nell’area dell’economia monetaria e finanziaria. Ha scritto libri e articoli pubblicati su riviste internazionali. E’ laureato in Università Bocconi e ha conseguito il Master in Economics presso la University of Pennsylvania. Redattore de lavoce.info.

http://www.lavoce.info/archives/52897/come-stanno-le-banche-italiane-meglio-ma-non-benissimo/

 

 

 

Banche online, 5 arrestati per frode informatica: “Finte pec per ottenere le credenziali dei clienti e svuotare i conti”

di F. Q. | 8 maggio 2018

Menti della banda Giuseppe Cesare Tricarico e il fratello Davide, entrambi ai domiciliari. Su richiesta dei pm il gip ha disposto il sequestro preventivo di 1,2 milioni di euro agli indagati. Tra i sistemi per rubare soldi alle vittime c’era anche quello di simulare l’esistenza di un addebito automatico a loro carico

Era Giuseppe Cesare Tricarico, calabrese agli arresti domiciliari, la mente della banda di cyber criminali scoperta dai carabinieri di Messina che hanno arrestato 5 persone per truffa informatica ai danni dei correntisti di alcune banche online. Tra gli indagati anche il fratello Davide, pure lui ai domiciliari per un’inchiesta analoga della procura di Reggio Calabria. Su richiesta dei pm il gip ha disposto anche il sequestro preventivo di 1,2 milioni di euro trovati nei conti correnti degli indagati. Repubblica riporta che tra i truffati ci sono clienti di Banca Mediolanum, Banca Fineco, CheBanca!, Ing Bank, Iw Bank e Barclays Bank.

Secondo gli investigatori la banda – gli altri arrestati sono Nicola Ameduri, Nicodemo Porporino e Antonio Cancelli – riuscivano a modificare, sui siti internet istituzionali, gli indirizzi di posta elettronica certificata (p.e.c.) degli istituti di credito e li sostituivano con quelli di analoghe caselle di posta certificata con nomi simili alle originali, attivate su provider specializzati e intestate a soggetti ignari o inesistenti. Quando ricevevano la mail del cliente che credeva di contattare la propria banca per chiedere operazioni come chiusura o apertura di conti correnti, inducevano le vittime a fornire le credenziali di accesso e i codici operativi dei conti che utilizzavano per sottrarre somme di denaro. I soldi rubati venivano ‘ripuliti’ attraverso una sequenza di bonifici su una serie di conti correnti aperti fraudolentemente e, in taluni casi, intestati alle stesse vittime. Se le disponibilità sui conti erano scarse, azzeravano il saldo attraverso acquisti su siti di e-commerce, facendosi recapitare i beni a indirizzi di comodo nei comuni di residenza.

Fra i sistemi per rubare soldi alle vittime c’era anche quello di simulare l’esistenza di un Sdd a loro carico. Sdd è l’acronimo di Sepa Direct Debit, lo strumento per l’addebito automatico che si usa per esempio per pagare le bollette. In soli pochi mesi di indagine è stato documentato un giro di Sdd messi all’incasso, 124 in un solo giorno per un controvalore di quasi 200mila euro. Stando a quanto ricostruito dagli investigatori Tricarico, sempre utilizzando le false identità, arruolava inconsapevoli collaboratori a cui affidava il compito di processare i mandati Sdd facendo loro credere di essere il responsabile di un’agenzia di recupero credito.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/05/08/banche-online-5-arrestati-per-frode-informatica-finte-pec-per-ottenere-le-credenziali-dei-clienti-e-svuotare-i-conti/4342099/

 

 

 

LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI

Deliveroo estende la copertura assicurativa per i rider: “Rimborso a chi non può lavorare dopo un incidente”

8 maggio 2018

I fattorini riceveranno “fino al 75% delle entrate medie giornaliere” per un massimo di 30 giorni. Garantiti poi fino a 7.500 euro di spese mediche, 2mila di spese dentistiche e 50 euro per ogni notte in ospedale. Il collettivo Deliverance Strike Raiders: “Risultato delle nostre proteste ma è anche un’operazione di marketing. Ora siano informati tutti i lavoratori”

“Dopo la lunga onda di proteste che ha coinvolto tutte le piattaforme delle consegne del cibo, e in maniera particolare Deliveroo, in giro per l’Europa, qualcosa si muove”. Così il collettivo milanese Deliveroo Strike Raiders commenta la notizia arrivata a una settimana dallo sciopero del Primo maggio: la piattaforma che fa capo all’omonimo gruppo inglese estende la copertura assicurativa per i fattorini impegnandosi a garantire massimali più elevati nonché un rimborso “fino al 75% delle entrate medie giornaliere” in caso di inattività temporanea del rider a seguito di sinistro”, per un massimo di 30 giorni, a prescindere dal veicolo utilizzato per le consegne. Fino a oggi era prevista solo l’assicurazione in caso di infortuni e danni a terzi durante l’attività.

La nuova polizza coprirà tutti i 35mila rider presenti nei 12 Paesi dove opera la piattaforma nelle ore in cui sono “loggati” e nell’ora successiva al log-off, “tutelando così anche il rientro verso casa”, e garantirà fino a 7.500 euro di spese mediche, 50 euro per ogni notte trascorsa in ospedale (fino a 60 giorni) e fino a 2mila euro di spese dentistiche. Saranno inoltre coperti eventuali “danni provvisori o permanenti a seguito di incidenti (udito, vista, parola o attività motoria anche parziale)”. Rientra, infine, nel pacchetto anche la copertura per eventuali danni verso terzi, con un aumento del massimale fino a 5 milioni di euro, e la responsabilità civile per tutti i ciclisti, i motociclisti non alla guida (essendo durante la guida già dotati di RCA obbligatoria per legge) e i rider che consegnano a piedi.

Secondo il collettivo milanese questo è il risultato della recente “ondata di proteste, da ultimo il primo maggio in Italia con mobilitazioni sulle piazze di Milano, Torino e Bologna”, ma si tratta di “un’evidente operazione di marketing per sbaragliare la concorrenza“. Infatti con questa operazione “Deliveroo prova a posizionarsi sul mercato come azienda che ha più a cuore la sicurezza dei suoi fattorini, dopo che per mesi è stata identificata per essere la società con l’atteggiamento più spregiudicato, perché partendo da condizioni accettabili rispetto alle altre, disponeva un graduale piano di peggioramento delle condizioni a tutti i suoi lavoratori, basti pensare all’imposizione del cottimo, scenario già visto in diversi paesi, di cui l’Italia rimane l’ultimo baluardo”. La notizie dunque viene accolta “con favore”, ma “prendiamo con le pinze il dato, soprattutto perché non siamo ingenui: stipulare un accordo migliore non significa che esso venga applicato”, avverte Deliveroo Strike Raiders. Che chiede ora “un’informativa dettagliata sull’assicurazione, come comunicazione interna a tutti lavoratori, in modo che ogni fattorino possa usufruirne senza imbarazzi e impedimenti, sapendo nello specifico cosa gli spetta e cosa no”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/05/08/deliveroo-il-gruppo-estende-la-copertura-assicurativa-per-i-rider-rimborso-anche-in-caso-di-inattivita-temporanea/4341893/

 

 

STORIA

Dopo 150 anni di menzogne la Banca d’Italia conferma: l’Unità d’Italia ha creato il sottosviluppo del Mezzogiorno.

www.ondadelsud.it

di  Michele Loglisci e Francesco Schiraldi *

Il processo di verità storica che da tempo sta squarciando il muro di oblìo eretto a difesa di una mistificata interpretazione delle vicende unitarie e post unitarie della nostra nazione, ha trovato nuovo e solidissimo impulso per merito di una pubblicazione scientifica edita da un’istituzione dall’indiscussa affidabilità quale la Banca d’Italia. Se fino ad oggi si è potuto confutare, su basi storiografiche peraltro tutte da verificare, quanto asserito da chi, carte alla mano, mira a dimostrare come il presunto processo unitario si sia risolto nei fatti in una feroce e avvilente colonizzazione del Mezzogiorno, oggi scende in campo la Banca d’Italia, con il suo indiscusso prestigio, a sancire, sulla base di incontestabili analisi e dati statistici, la verità di fatti troppo a lungo vergognosamente manipolati.

Ebbene, a contraddire definitivamente un’ideologia mistificatrice della realtà di episodi che hanno costretto il Mezzogiorno ad una immeritata situazione d’inferiorità, irrompono con l’autorevolezza che gli deriva dalla reputazione di studiosi il Prof. Stefano Fenoaltea, docente di Economia Applicata all’Università di Tor Vergata (Roma), insieme al collega Carlo Ciccarelli, Dottore di Ricerca in Teoria economica ed Istituzioni nella stessa Università.

Nel loro accuratissimo saggio, il cui alto valore scientifico ha meritato per i due economisti l’onore della pubblicazione da parte della Banca d’Italia, gli studiosi dell’Università di Tor Vergata hanno non solo reso manifesto, potremmo dire, ma bensì confermato come all’origine dell’attuale sottosviluppo del Sud ci sia una bugiarda unificazione nazionale. Sin dalle prime pagine del loro lavoro di ricerca, apparso peraltro solo in lingua inglese nei “Quaderni di Storia Economica di Bankitalia”, n. 4, luglio 2010 (domanda: perché non in italiano e con adeguato resoconto pubblico?), Stefano Fenoaltea e Carlo Ciccarelli affermano così esplicitamente: “L’arretratezza industriale del Sud, evidente già all’inizio della prima guerra mondiale non è un’eredità dell’Italia pre-unitaria» (Through the Magnifying Glass: Provincial Aspects of industrial Growth in Post-Unification Italy, pag.22).

A scrupoloso fondamento del loro studio, corredato da minuziose tabelle statistiche, gli economisti di Tor Vergata prendono in esame i censimenti ufficiali del neonato Stato italiano, precisamente negli anni 1871, 1881, 1901 e 1911. La disponibilità di una notevole massa di dati nazionali e regionali ha offerto l’opportunità a Fenoaltea e Ciccarelli di comprendere a fondo, come sostanzia loro ricerca,  lo sviluppo dell’Italia nei primi decenni dopo l’unificazione. Orbene, il meticoloso lavoro eseguito aggiunge, ai dati già disponibili, un’analisi dei dati disaggregati relativi alla produzione industriale in 69 province tra il 1871 e il 1911, determinando gli studiosi a svelare che: «Il loro esame disaggregato rafforza le principali ipotesi revisioniste suggerite dai dati regionali». Più eloquente di così…e, si sottolinea ancora, qui sono i numeri che parlano esplicitamente!

La tabelle pubblicate da Fenoaltea e Ciccarelli mostrano che nel 1871 il tasso di industrializzazione del Piemonte era del l’1.13%, quello della Lombardia 1.37%, quello della Liguria 1.48%. Da evidenziare come, a questo punto, fossero già trascorsi dieci anni di smantellamento dell’apparato industriale dell’ex Regno delle Due Sicilie, con il ridimensionamento di importanti stabilimenti come le officine metallurgiche di Pietrarsa, a Portici (Napoli) (oltre 1000 addetti prima dell’unificazione ridotti a 100 nel 1875), nonché quelle di Mongiana in Calabria (950 addetti nel 1850 ridotti a poche decine di guardiani nel 1873): ebbene, nonostante l’opera devastatrice dei presunti liberatori scesi dal Settentrione, l’indice di industrializzazione della Campania era ancora dello 1.01%, con Napoli, nel dato provinciale, all’1.44% e quindi più di Torino che era solo all’1.41%.

L’indice di industrializzazione della Sicilia era allo 0.98%, quindi agli stessi livelli del Veneto che era al 0.99%, la Puglia era allo 0.78% con la provincia di Foggia allo 0.82%: molto più di province lombarde come Sondrio, allo 0.56%, e vicinissima ai livelli di industrializzazione dell’Emilia, lo 0.85%. La Calabria era allo 0.69%, con la provincia di Catanzaro allo 0.78% e perciò allo stesso livello di Reggio Emilia e più di Piacenza, che era allo 0.76%, ma anche di Ferrara allo 0.74%.

Il tasso di industrializzazione della Basilicata era allo 0.67%, un indice che per quanto a prima vista basso era comunque più alto di aree liguri come Porto Maurizio che era allo 0.61%. L’Abruzzo era invece allo 0.58%, con L’Aquila a 0.63%.

Detto questo, appare drammatico come, quarant’anni dopo, nel 1911, l’indice di industrializzazione del Piemonte fosse salito all’1.30% mentre quello della Campania era sceso a 0.93%, con Napoli all’1.32%. La Lombardia era arrivata all’1.67%, la Liguria all’1.62%, mentre la Sicilia era crollata allo 0.65%, la Puglia allo 0.62%, la Calabria allo 0.58%, la Basilicata allo 0.51%.

Questo resoconto piuttosto tragico ma fondato su incontrovertibili riscontri scientifici, perché i numeri si possono occultare ma se resi noti non possono certamente ingannare, rende chiaro come la Banca d’Italia, pubblicando il qualificato studio di Stefano Fenoaltea e Carlo Ciccarelli, abbia certificato ufficialmente con la sua autorevolezza come l’arretratezza industriale del Sud non sia un’eredità dell’Italia pre-unitaria ma bensì un sottosviluppo voluto da una unificazione nazionale strumentalizzata in modo scellerato ai danni del Mezzogiorno.

http://www.ondadelsud.it/?p=1879

 

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