RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 30 APRILE 2020

https://scenarieconomici.it/baldassarre-presidente-emerito-della-corte-costituzionale-la-costituzione-non-si-sospende-per-unemergenza/

RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 30 APRILE 2020

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

Parlami, che se sussurri ti sento troppo.

Carillon C.

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 Precisazioni

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SOMMARIO

Quali dati personali sono trasmessi, chi li detiene e chi se li può vendere
VERSO LA BIBBIANO GLOBALE
Il tracciamento via “app” è legge
LEGITTIMITÀ DPCM NELLA GESTIONE DELL’EMERGENZA COVID19
Mes, nella bozza spunta la “sorveglianza rafforzata” sull’Italia
BORGHI RISPONDE A CONTE: SEI DIVERSAMENTE SINCERO.
Coronavirus, Conte: “Il governo non può assicurare l’immediato ritorno alla normalità”
Cosa è davvero successo nelle terapie intensive lombarde?
Olanda, il video shock di Mark Rutte: niente soldi all’Italia
Simulazione: se la Nato attacca la Russia il Norditalia scompare in meno di 4 ore
TECNICA, COMUNITÀ, DESTINO. IN DIALOGO CON CARLO SINI
RIVEDERE I TRATTATI? IL VINCOLO ESTERNO SECONDO CAFFE’ E LA COSTITUZIONE
ANCHE REPUBBLICA SI ACCORGE CHE IL MES LIGHT NON E’ LIGHT PER NIENTE
La coperta corta delle garanzie sulla liquidità
Baldassarre: la Costituzione non si sospende per un’emergenza! E la Lega occupa il Parlamento
IL FENOMENO DELLE FAKE NEWS E I RISVOLTI LEGALI
Navi italiane traghettano migranti da Lampedusa in Sicilia: poi in bus verso Nord
GLI IMMIGRATI SBARCATI RESPINTI TUTTI IN ITALIA DALLA GERMANIA
Post-verità
ISTAT: DISOCCUPAZIONE REALE GIA’ AL 35,7 PER CENTO
Le bugie volte a sabotare la cooperazione con la Russia contro il CoVID-19
BAGNAI: CONTE NON PUÒ DIRE “AVETE STATO VOI” A PERMETTERMI DI ABUSARE DEI MIEI POTERI
Coronavirus, la Lega occupa il Parlamento per avere risposte concrete
Quanto costa hackerare il tuo pc?
DEMOGRAFIA E RIVOLUZIONI
“Quando non eravamo ancora una colonia: viaggio nel passato neanche tanto remoto”
Noi, sopravvissuti alla bomba atomica
“Queste sono case della morte”: storia del nazismo finlandese
Caro Alberto Angela, senza l’Urss gli ebrei avrebbero fatto la fine dei Maya

 

 

EDITORIALE

Quali dati personali sono trasmessi, chi li detiene e chi se li può vendere
Manlio Lo Presti – 30 aprile 2020

Nella Convocazione del Consiglio dei ministri n. 43 del 29 aprile 2020, è stato stabilito il seguente ordine del giorno:
“DECRETO-LEGGE: Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile, e disposizioni urgenti in materia di tutela dei dati personali nel tracciamento dei contatti e dei contagi da Covid-19 (PRESIDENZA- GIUSTIZIA)”
(omissis) (1)
All’articolo 6.4 dello schema di decreto-legge sui tracciamenti si evidenzia, doverosamente, CHE NON CI SARANNO VENDETTE, SANZIONI, NÉ RITORSIONI ED ESCLUSIONI SOCIALI IN CASO MANCATO CARICAMENTO DELLA RIDETTA APPLICAZIONE DI TRACCIAMENTO:


Sarà la prova dei fatti a certificare le mancate azioni di vendetta contro la popolazione “renitente”.
Comunque, nulla vieta di pensare che – in via assolutamente nascosta – qualcuno ai piani alti possa decidere di censire in senso negativo, confrontando fra loro gli elenchi di tutti gli utenti delle compagnie telefoniche operanti in Italia dedotti coloro che hanno caricato la app., tutti gli utenti senza la app progettando per costoro una serie di ritorsioni da irrogare per successivi e lenti “rilasci” di divieti striscianti (2). Oppure, la applicazione di sanzioni di massa dopo una “casuale recrudescenza di infettati, soprattutto bambini (3)” che avrebbe un impatto emotivo forte e tale da giustificare una “successiva modificazione della normativa” per motivi di necessità ed urgenza! (4)
In ordine alla conservazione dei dati raccolti, lo schema di DL evidenzia che la responsabilità è governativa, ma non evidenzia i livelli di punibilità dei trasgressori. Inoltre, non è stato messo nero su bianco il divieto di affidare la gestione dei dati privati raccolti a società private e, peggio ancora, aventi sedi fuori dall’area della comunità europea.

TUTTO CIO’ PREMESSO

Lo schema di DL non evidenzia:

1) Il dovere tassativo di pubblicare in Gazzetta Ufficiale a) il nome delle società affidatarie, la loro ubicazione UE o extra UE, b) l’elenco dei nomi degli azionisti per la prevenzione di conflitti di interesse con esponenti politici italiani;
2) Le procedure di controllo e di destinazione dei dati privati raccolti che potrebbero essere venduti a banche ed assicurazioni detentrici di fondi pensione. La massa dei dati in possesso potrebbe consentire la creazione di algoritmi di speranza di vita media rientrante nei costi di erogazione delle pensioni dai fondi sostenuti. Con il superamento di tale “soglia media” sarebbe conveniente l’eliminazione delle persone-spazzatura che “vivono troppo a lungo” (5) mediante l’esecuzione di eutanasie di massa negli ospedali a notte alta;
3) L’eventualità di cessione occulta dei dati sanitari della popolazione censita da app volontario ai colossi farmaceutici per la creazione di farmaci in linea con la profilazione sanitaria della popolazione (elenco malattie, loro ricorsività, ecc. ecc. ecc. ecc. ecc. ecc. ecc.)

Lo schema di decreto non specifica in elenco tassativo quali sono i dati caricati sulla applicazione “volontaria”, se ci sono dati sulle malattie della persona censita, fedina penale, ecc.
P.Q.M.

Sono presenti troppe zone d’ombra sui criteri di quello che si configura come un vero e proprio dossieraggio di consistenti partizioni della popolazione italiana “volontaria” e di quella “renitente” che potrebbe essere il possibile bersaglio di occulte e/o evidenti ritorsioni economiche e sociali.
STAREMO A VEDERE!

1) http://www.governo.it/it/articolo/convocazione-del-consiglio-dei-ministri-n-43/14541
https://www.mysolution.it/globalassets/_nuovomysolution/pdf/schema_decreto_intercettazioni_tracciamento_covid19_29-aprile-2020.pdf
https://www.ipsoa.it/documents/impresa/contratti-dimpresa/quotidiano/2020/04/30/decreto-giustizia-app-immuni-governo-vara-regole
2) Molto eloquente la teoria della RANA BOLLITA sulla progressiva e subdola sottrazione dei diritti civili uno per volta;
3) https://www.maurizioblondet.it/verso-la-bibbiano-globale/
4) lo stesso timore che sussiste gli avversari di un MES attualmente senza condizioni e modificabile successivamente e unilateralmente dalla Germania contro la quale nessuno avrebbe la forza necessaria per opporsi!
5) https://www.corriere.it/economia/12_aprile_11/fmi-allarme-longevita_e9458e42-83df-11e1-8bd9-25a08dbe0046.shtml ;
https://contropiano.org/news/news-economia/2016/04/13/la-ricetta-del-fmi-la-crisi-dovete-morire-077817;
https://icebergfinanza.finanza.com/2016/04/14/fmi-in-italia-la-longevita-e-un-rischio-sistemico/

 

 

IN EVIDENZA

VERSO LA BIBBIANO GLOBALE

Jacques Attali, il  20 aprile a France 24, è stato reciso: “Senza sforzo di contenimento, una persona ne può contaminare cinque o dieci.  Oggi. Con il confinamento, si pensa di essere scesi  attorno a2. Bisogna scendere sotto di 1. I tedeschi l’hanno capito e cominciano a scendere al disotto di 1. Ma per scendere al disotto di 1, bisognerà andare molto  al là di quel che si fa. Bisognerà, in tutto il paese, isolare il contaminato dalla propria famiglia. Dunque bisogna trovare i luoghi in cui mettere sia la famiglia che è contaminata., e quello che contaminato, altrove”.

E’  un programma già deciso,  la vera Fase 2. Il 30 marzo l’aveva anticipata così Michel J. Ryan, direttore esecutivo per le emergenze dell’OMS: “Attualmente, nella maggior parte delle regioni del mondo, in ragione del confinamento la maggior parte delle trasmissioni avvengono nelle famiglie. In un certo senso, la trasmissione del  virus  è stata ritirata dalle strade e confinata nelle unità familiari.  Adesso dobbiamo andare a  cercare nelle famiglie le persone che potrebbero essere malate e ritirarle, per isolarle in maniera sicura e dignitosa”.

VIDEO QUI:https://youtu.be/bmtEGNdee2Y

Dunque uno dei massimi dirigenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità   sta dando istruzioni agli Stati di organizzare visite  domiciliari casa per casa e portar via i membri delle famiglie che risultassero positivi?

Il 6 aprile, dopo due settimane  di confinamento della popolazione inglese, la  regina Elisabetta ha pronunciato un appello alla nazione in cui ha reso omaggio agli eroi della sanità  e un caldo e materno invito alle famiglie  a mantenere la speranza di giorni migliori.  Un discorso da stato di guerra.

Nella quarta parte del suo appello,la regina ha detto: “Questo mi ricorda il mio primo discorso alla radio, che ho fatto nel  1940, con mia sorella [Margaret]. Eravamo bambine e da qui, a Windsor, parlavamo a bambini che erano stati evacuati dalle loro famiglie e mandati lontano per la loro sicurezza. Oggi, ancora una volta, molti proveranno un sentimento doloroso di separazione dai loro parenti, ma sappiamo  in fondo al cuore, come allora, che  è  la cosa giusta da fare”.  

Elisabetta alludeva  al discorso –  lei aveva 14 anni  – che fece  alle migliaia di bambini e bambine separati dai genitori a Londra bombardata di  missili hitleriani  e sfollati nelle campagne,  presso famiglie  contadine. Un milione e 300 mila, si  dice, su 4  mila treni speciali. Ma anche 200  mila ragazzini del sottoproletariato londinese  dai 5 ai 15 anni  – in condizioni di povertà, denutrizione  e sporcizia così estrema che stupì le famiglie contadine inglesi  – furono spediti  in Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica e Canada con l’intento in realtà di popolare quegli angoli dell’impero che mancavano di  braccia. A mettere fine al  programma fu un  siluro tedesco che colò a picco  la City o Benares, un cargo che portava in Canada 90 ragazzini, dei quali 77 morirono.

Le false accuse alle madri nascono nel Regno Unito

Ma ancor oggi, il Regno Unito ha un’organizzazione che  sottrae i figli alle famiglie “inadeguate”  e  li mette in adozione con criteri inquietanti, che ricordano da vicino quel che si è scoperto a Bibbiano.  Anzi, è come se  “lo spirito di Bibbiano” avesse in Gran Bretagna le sue prime manifestazioni,  anzi la messa  a punto delle sue metodologie e della sua ideologia. L’ente si chiama Barnado, dal nome del missionario anglicano Thomas Barnado che, nel 1867 allestì  50  “orfanatrofi”  che riempi con i  bambini dell’Est End tolti alle famiglie   alcolizzate  o alle ragazze-madri.  Già Barnado il fondatore, trovandosi in difficoltà  economiche, vendette 18  mila bambini al Canada e all’Australia  per l’equivalente di 18 euro ciascuno.  I tribunali, che guardavano con simpatia al metodo di popolamento delle colonie, non procedettero  contro il filantropo.

La contraccezione di massa ha reso scarsissimi gli adottabili. Ma Bernado’s, ente statale,  esiste ancora e ha sviluppato un sistema completo per togliere  i  neonati a ragazze madri con motivazioni assurde e liberticide  (“rischia di rivedere il partner”, scrivono le assistenti sociali), a madri “disfunzionali” (col che intendono: letti non fatti, frigo vuoti;  quoziente intellettivo inferiore);  il “rischio di fratture emotive future”  è motivo per togliere il bambino alla neo-mamma  povera,   ossia: lo togliamo alla madre adesso  per non doverlo togliere quando è ragazzino… ; così come   il disturbo fantomatico  di Borderline Personality Disorder (BDP),  definito come “incapacità di collaborare con  gli assistenti sociali” ossia resistenza a farsi togliere il figlio.  Due pediatri, Roy Meadow e  David Southall sono stati vicinia  finire in galera: il primo aveva  teorizzato che le donne che  avevano perso il bambino  per la sidnrome di moret improvvisa del neonato, l’avevano assassinato: e per dieci ha fatto incarcerare povere donne-.  L’altro, Southall,  aveva “comprovato”  che le madri nei reparti di maternità asfissiano i loro neoanti; poi s’è scoperto che era lui sa sperimentare gli effetti della privazione d ‘ ossigeno, minacciando i genitori di “chiamare i servizi sociali” se si opponevano.  Ci sono state paralisi cerebrali nello Staffordshire, dove il pediatra ha operato. I due sono scampati per la compiacenza dei tribunali, ancora una volta.

(Vedere: Storia delle Adozioni forzate in Gran Bretagna – https://www.cairn.info/revue-journal-du-droit-des-jeunes-2013-6-page-26.htm)

Se tutto ciò vi ricorda qualcosa, dovete unire i puntini.

Sapere che la Open Society di Georges Soros ha  enunciato

La crisi del coronavirus mostra che è tempo di abolire la famiglia

Cosa ci dice la pandemia sulla famiglia nucleare e la famiglia privata?

di  Sophie Lewis   24 marzo 2020

dove si legge:

La famiglia dove “il lavoro riproduttivo è così ferramente legato al genere” (sic), alla “proprietà privata fondiaria”, alla “genitorialità patriarcale e (spesso) all’istituzione del matrimonio”,    come “può giovare alla salute?  Le persone queer e femminilizzate (trans) non sono certo al sicuro lì”.

https://www.opendemocracy.net/en/oureconomy/coronavirus-crisis-shows-its-time-abolish-family/

E  in  secondo studio, lì organizzazione di Soros spiega:

L’abolizione della famiglia non significa porre fine all’amore e alle cure. Si tratta di estenderlo a tutti

La pandemia mostra come dobbiamo ripensare le cure al di là delle strutture familiari obsolete e inadeguate e dei lavoratori precari.

Sophie Silverstein  24 aprile 2020

dove si  legge:

“La famiglia nucleare  è costruita sull’intersezione di razzismo, sessismo e omofobia .  […] Difendere la “famiglia monogama, eterosessuale, con molti figli”  non è  un atto neutrale di difesa del diritto a una casa sicura e accogliente, ma è spesso legato ad altri obiettivi politici conservatori”.

https://www.opendemocracy.net/en/oureconomy/family-abolition-isnt-about-ending-love-and-care-its-about-extending-it-to-everyone/

Allora, attenzione alla veterinaria  virologa  valorizzata dai media:

FONTE:https://www.maurizioblondet.it/verso-la-bibbiano-globale/

 

 

 

Il tracciamento via “app” è legge

Il provvedimento è stato firmato e adesso vedremo come si tradurrà in realtà

Il decreto legge che vara la “app” sul tracciamento non rassicura chi teme per la propria riservatezza. Il fatto che il titolo del provvedimento cominci con “Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni…” non è certo – almeno sotto il profilo psicologico – un incentivo ad aderire a qualsivoglia invito ad installare alcunché sul proprio smartphone.

L’obiettivo della norma è, ovviamente, condivisibile purché i principi enunciati vengano poi religiosamente rispettati in fase di attuazione e – sappiamo bene, fin troppo bene – non è cosa affatto facile.

Per “allertare le persone che siano entrate in contatto con soggetti risultati positivi al nuovo coronavirus e tutelarne la salute attraverso le previste misure di profilassi legate all’emergenza sanitaria” – come si legge nel comunicato stampa della Presidenza del Consiglio – sarà “istituita una piattaforma per il tracciamento dei contatti stretti tra i soggetti che installino, su base volontaria, un’apposita applicazione per dispositivi di telefonia mobile”.

Il termine “piattaforma” è un eufemismo che indica un sistema centrale di gestione, una infrastruttura tecnologica che riceve dati e che sulla base delle informazioni disponibili procede ad “allertare” chi è bene sia a conoscenza di un determinato rischio che riguarda direttamente lui/lei e manco tanto indirettamente la collettività.

Il provvedimento è – come si dice in gergo leguleo “sub iudice” – perché il nostro ordinamento prevede che debba essere obbligatoriamente sentito il Garante per la protezione dei dati personali ogni qualvolta una norma inneschi situazioni che possano comportare rischi elevati per i diritti e le libertà dei cittadini.

Nel frattempo, comunque, vengono stabilite le regole del gioco.

Gli utenti dovranno ricevere, prima dell’attivazione della fatidica applicazione, informazioni chiare e trasparenti al fine di raggiungere una piena consapevolezza. Dovranno, in particolare, conoscere le finalità e le operazioni di trattamento, le tecniche di “pseudonimizzazione” (ovvero di trasformazione della loro identità in “pseudonimi” o codici alfanumerici univoci che li identifichino) che saranno utilizzate e infine i tempi di conservazione dei dati.

Le finalità sono chiare, almeno quelle di massima. Le operazioni di trattamento, invece, sono ancora avvolte in una sorta di nebulosa e lo resteranno fino a quando non sarà chiaro cosa faccia davvero la “app” (occorrerà un esame critico, affidato magari a chi non è stato scelto per la sua realizzazione), come dialogheranno i telefoni con la piattaforma (parlare di sistema centrale è tabù….), cosa succederà negli elaboratori elettronici che non potranno fare a meno di raccogliere dati (altrimenti che ci stanno a fare?), quali saranno le dinamiche di comunicazione ai soggetti interessati e cosa gli si andrà a dire.

La “app” raccoglierà dati, ovvio. E’ previsto che “Per impostazione predefinita, i dati personali raccolti dall’applicazione siano esclusivamente quelli necessari ad avvisare gli utenti dell’applicazione di rientrare tra i contatti stretti di altri utenti accertati positivi al COVID- 19, nonché ad agevolare l’eventuale adozione di misure di assistenza sanitaria in favore degli stessi soggetti”.

Il tanto declamato “anonimato” defunge già nel comunicato della Presidenza quando dice esplicitamente che il trattamento sarà effettuato “sui dati di prossimità dei dispositivi, resi anonimi, oppure, ove ciò non sia possibile, pseudonimizzati”.

Lo “pseudonimo” riconduce ad un soggetto e le procedure – di “conversione” prima e di “ri-abbinamento” poi – sono il punto debole. Chi ha le chiavi per passare da un “codice” ad un soggetto reale è il possibile target di chi vuole fare lo scippo del secolo. E lo stesso detentore deve essere al di sopra di ogni sospetto e fornire garanzie certificate non solo dai soliti pezzi di carta. Non dimentichiamo che il nostro è il Paese delle “cartelle pazze” e quindi in termini di inefficienza e di disastri tecnologici non abbiamo da imparare niente da nessuno.

Tutto si impernia sulle parole della stessa Presidenza del Consiglio quando enuncia la necessità di “evitare il rischio di reidentificazione degli interessati cui si riferiscono i dati pseudonimizzati oggetto di trattamento”.

Non dimentichiamo che lo “pseudonimo” o il codice identificativo di ciascuno è inevitabile. Sennò, banalmente, chi si va ad avvisare del presunto pericolo per la salute? Cosa succede se si ripete la drammatica esperienza che hanno ripetutamente vissuto i contribuenti a causa degli errori commessi dalla SOGEI e dal Ministero delle Finanze con le non mai abbastanza deprecate “cartelle pazze”?

Si legge che i dati relativi ai contatti stretti saranno “conservati, anche nei dispositivi mobili degli utenti, per il periodo strettamente necessario al trattamento, la cui durata è stabilita dal Ministero della salute”. Un attimo. Cosa significa “anche nei dispositivi mobili degli utenti”? Vuol dire che sono anche altrove? E dove, se di sistema centrale non si fa menzione?

Mentre in altri Stati la cancellazione è conforme alla disciplina in materia di privacy, da noi “I dati sono cancellati in modo automatico alla scadenza del termine” a dispetto della ordinaria facoltà del cittadino di chiederne l’eliminazione in qualsiasi momento (Australia docet).

Consola sapere che “il mancato utilizzo dell’applicazione non comporti alcuna limitazione o conseguenza in ordine all’esercizio dei diritti fondamentali dei soggetti interessati”, ma al di là delle intenzioni programmatiche si tratterà di vedere cosa toccherà in sorte a chi verrà fermato ad un posto di blocco senza “app” o addirittura senza smarphone (sulla cui obbligatoria detenzione mai nessuno si è espresso).

Per dribblare il concetto di “sistema centrale”, che spaventa i fanatici della riservatezza e che non va d’accordo con le indicazioni comunitarie, il comunicato della PCM spiega che “la piattaforma sia realizzata esclusivamente con infrastrutture localizzate sul territorio nazionale e gestite da amministrazioni o enti pubblici o società a totale partecipazione pubblica e i programmi informatici sviluppati per la realizzazione della piattaforma siano di titolarità pubblica”. L’intendimento è encomiabile, ma sugli aspetti pratici mi permetterei di chiedere un parere a qualche contribuente il cui apparato cardiocircolatorio in passato è sopravvissuto alla ricezione di una cartella esattoriale risultata poi infondata.

Gestore pubblico sì, sicuramente. Però anche capace.

FONTE:https://www.infosec.news/2020/04/30/speciale-coronavirus/il-tracciamento-via-app-e-legge/

 

 

LEGITTIMITÀ DPCM NELLA GESTIONE DELL’EMERGENZA COVID19

In virtù delle critiche, sempre più incisive, rivolte al Governo attuale, in merito all’adozione di DPCM, emanati in occasione dell’emergenza Covid-19, credo sia opportuno fare alcune, brevissime, considerazioni con intento di imparzialità ed obiettività.

I provvedimenti dell’attuale Presidente del  Consiglio dei Ministri, sono ritenuti, da molti “opinionisti”, illegittimi, in quanto, secondo tale orientamento, assurgono ad atti aventi forza di legge emanati senza il consenso del Parlamento, che si porrebbero in contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt. 16, 17, 19, 34, 41.

La  Carta fondamentale prevede, di solito, lo strumento del decreto legge per affrontare situazioni di emergenza  e proprio tramite l’utilizzo di tale atto normativo il 26 febbraio 2020 è stato emanato il D.L. n. 6 che, rende una delega al Presidente del Consiglio per l’attuazione di una serie di misure contenitive volte a contrastare la diffusione dell’epidemia da Covid-19 e all’art. 2 si legge “ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”.

Invero, i limiti di tale delega dovevano stabilirsi  ab origine senza lasciare margini  di possibilità all’adozione di un’infinità di provvedimenti restrittivi e limitativi delle libertà fondamentali.

A parere della scrivente, quindi, già il fatto stesso che i DPCM abbiano come presupposto una legittima e regolare delega parlamentare, si pongono in  conformità alla logica di costituzionalità dal punto di vista procedurale.

Per quanto concerne la limitazione sostanziale dei diritti costituzionalmente garantiti, è necessario far riferimento al concetto di  stato di emergenza che seppur non definito, nei dettagli, dalla  Costituzione, in ogni caso, tale circostanza, giustifica una limitazione dei diritti.

Ebbene, tale statuizione è presente anche nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che prevede l’ipotesi di  stato di  emergenza; infatti, stabilisce espressamente, all’art. 15, la  possibilità di deroga in caso di emergenza e che “in caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Alta Parte contraente può adottare delle misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a condizione che tali misure non siano in conflitto con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale. La disposizione precedente non autorizza alcuna deroga all’articolo 2, salvo il caso di decesso causato da legittimi atti di guerra, e agli articoli 1, 3, 4 e 7. Ogni Alta Parte contraente che eserciti tale diritto di deroga tiene informato nel modo più completo il Segretario generale del Consiglio d’Europa sulle misure prese e sui motivi che le hanno determinate. Deve ugualmente informare il Segretario generale del Consiglio d’Europa della data in cui queste misure cessano d’essere in vigore e in cui le disposizioni della Convenzione riacquistano piena applicazione

E’ di palmare evidenza, come le misure adottate dal Governo siano giustificate dall’emergenza sanitaria che ha colpito il mondo, ed in particolare il nostro Paese, a fortiori perché è previsto un limite temporale della compressione dei diritti fondamentali autorizzati da princìpi interni nonché da Convenzioni Internazionali e, ancora, dal D.L. n°6/2020, che molti sembrano ignorare.

FONTE:http://www.salvisjuribus.it/legittimita-dpcm-nella-gestione-dellemergenza-covid19/

 

Mes, nella bozza spunta la “sorveglianza rafforzata” sull’Italia

In un breve file di una cartella e mezza, divisa in 13 paragrafi, potrebbe essere condensata ogni linea guida per il futuro di Paesi in crisi come l’Italia. A questa breve quantità ammonta la lunghezza della bozza di accordo sul Meccanismo europeo di stabilità (Mes) che il direttore tedesco del fondo salva-Stati, Klaus Regling, ha trasmesso alle cancellerie dell’Unione europea secondo quanto appreso da Repubblica.

Il board del Mes (Alberto Bellotto)

Il board del Mes (Alberto Bellotto)

A Regling, uno dei burocrati più potenti d’Europa, abbiamo riconosciuto e riconosceremo sempre l’assenza di ogni ipocrisia: dalle anticipazioni che Repubblica ha pubblicato, infatti, le linee guida del programma Pandemic Crisis Support assomigliano più al Mes che eravamo abituati a conoscere che a quello “narrato” nei vertici tra i capi di governo e i ministri delle Finanze di tutta l’Unione europea.

Nelle linee guida del Mes, infatti, spunta la questione della “sorveglianza rafforzata” da parte di Commissione europea e Banca centrale europea sui Paesi che decideranno di accedere ai prestiti del fondo. “Un richiamo alla vecchia Troika (manca l’Fmi)”, commenta Repubblica, “che in teoria potrebbe portare alla richiesta di un doloroso programma di aggiustamento macroeconomico. Tuttavia nei prossimi giorni la Commissione dovrebbe chiarire l’interpretazione di questo passaggio, neutralizzandolo: se il monitoraggio trimestrale da parte delle istituzioni Ue è inevitabile, si attende la garanzia che non porterà a condizionalità aggiuntive, cambio di scenari e tanto meno a un programma in stile Grecia. In caso contrario, il nuovo Mes nascerebbe pressoché inutile”.

La realtà dei fatti insegna che le condizionalità leggere nel ricorso al Mes esistono solo sulla carta. E Regling, negli spazi di manovra che la politica comunitaria gli ha ritagliato, non manca di sottolineare come l’idea di Mes da lui concepita somigli maggiormente a quella intesa in senso tradizionale. Certo, nelle intenzioni dei decisori, e Regling lo ribadisce, il Mes dovrebbe servire unicamente a spese sanitarie da compiere entro un anno per una quota del 2% del Pil dei richiedenti (36 miliardi di euro per l’Italia).

Ma nella realtà tutti sanno che il consolidato di norme e regolamenti comunitari non cessa di avere efficacia. Il trattato istitutivo del Mes ricorda a cosa serve il programma di sorveglianza: a valutare l’efficacia delle misure poste come condizionalità.

L’Articolo 136 del Tfue, che inserisce indirettamente il Mes nell’architettura europea, non parla di condizionalità leggere

E non cessa di avere validità anche il Regolamento 472/2013, nel quale si legge esplicitamente che l’intensità della sorveglianza economica “tenga nel debito conto la natura dell’assistenza finanziaria ricevuta, che può variare da un semplice sostegno precauzionale sulla base delle condizioni di ammissibilità fino a un programma completo di aggiustamento macroeconomico subordinato a condizioni politiche rigorose”, consentendo poi ai leader europei la facoltà di deliberare in corsa modifiche ai piani di aggiustamento strutturale.

Fonti del governo italiano hanno definito a Repubblica una “buona base negoziale” il memorandum del Mes giunto ai governi europei. Oggi tecnici e sherpa dei ministeri economici dei Paesi europei avvieranno le prime negoziazioni, destinate a culminare tra una settimana in un lungo tavolo negoziale e, nella giornata successiva, nell’Eurogruppo da cui è atteso il via libera definitivo al meccanismo. I dubbi rimangono, e sono notevoli. A Regling va il riconoscimento di non aver nascosto, nei limiti del possibile, nulla sulla reale natura del Mes. Ora sta al governo italiano valutare opportunità e rischi e pensare se valga la pena incamminarsi su questo sentiero.

FONTE:https://it.insideover.com/economia/mes-nella-bozza-spunta-la-sorveglianza-rafforzata-sullitalia.html

 

 

 

 

BORGHI RISPONDE A CONTE: SEI DIVERSAMENTE SINCERO.

La Germania ha stanziato 1000 miliardi e così ci compreranno con un tozzo di pane

30 APRILE 2020

Infuocato intervento al presidente del consiglio Conte che, alla fine, si è degnato ad intervenire alla Camera, naturalmente per elogiare il proprio operato e per annunciare un futuro mirabolante, Gli risponde Claudio Borghi Il deputato mette in luce la “Diversa sincerità” di Conte un po’ su tutto. Mentre altri paesi hanno ampiamente sovvenzionato da tempo gli imprenditori, con i tedeschi che hanno ricevuto 1000 miliardi, noi , dopo 55 giorni di crisi, nulla, per cui siamo comprabili con le briciole. Mentre avremmo avuto bisogno non dico di un Alberto da Giussano o di un Ettore Fieramosca, ma sarebbe bastato un Renzo Tramaglino, invece ci siamo trovati con Fracchia e Pinocchio.

Avremmo dovuto emettere debito e venderlo alla BCE, invece aspettiamo il MES che porta la “Sorveglianza Rafforzata”, come scritto anche nei trattati. Il MES è la  Troika. Dobbiamo girare pagina, ma completamente. Borghi Termina con un “VIVA LA DEMOCRAZIA, VIVA LA REPUBBLICA FONDATA SUL LAVORO!”

Ringraziamo Inriverente per l’appoggio tecnico.

VIDEO QUI: https://youtu.be/CrjpgQMP4uI

FONTE:https://scenarieconomici.it/borghi-risponde-a-conte-sei-diversamente-sincero-la-germania-ha-stanziato-1000-miliardi-e-cosi-ci-compreranno-con-un-tozzo-di-pane/

 

 

 

 

Nel suo intervento in aula il premier ha rivendicato la costituzionalità delle decisioni prese e ha messo in guardia le regioni da “iniziative improvvide” che rischierebbero di “compromettere in maniera irreversibile gli sforzi” sinora compiuti.

“Lo dico in maniera chiara, a costo di apparire impopolare. Il governo non può assicurare in modo immediato il ritorno alla normalità”, ha dichiarato Conte durante il suo intervento alla Camera dei Deputati.

“Non possiamo permettere che gli sforzi compiuti risultino vani per imprudenze compiute in questa fase così delicata. Qualsiasi atteggiamento ondivago, come passare dalla politica del “chiudiamo tutto” al “riapriamo tutto”, rischierebbe di compromettere in maniera irreversibile questi sforzi”, ha proseguito.

Il premier ha poi citato il rapporto del comitato tecnico-scientifico, presieduto dal professor Silvio Brusaferro, presidente del Iss, un documento “che non è segreto, stima che la riapertura totale al 4 maggio porterebbe a un rischio elevatissimo di ripresa del contagi“.

“Se il tasso R0 tornasse vicino a 1 si saturerebbero le terapie intensive entro fine anno”, ha precisato.

Il rapporto, pubblicato martedì scorso da AdnKronos, stima una saturazione delle sale di terapia intensiva in tempi rapidi, in caso di riapertura totale. Con un “liberi tutti”, secondo gli scienziati, l’indice R0 si alzerebbe a 2,25, provocando una nuova ondata dell’epidemia con un numero elevato di contagi, per cui sarebbero necessarie oltre 150 mila posti in terapia intensiva entro giugno. Attualmente ce ne sono 9.000.

Il piano del governo “persegue l’interesse generale anche con misure impopolari, non è un programma elettorale destinato a raccogliere il consenso. Dal primo giorno abbiamo avuto ben chiaro la tutela della salute”, ha ricordato Conte.

Il premier ha poi annunciato una serie di provvedimenti nel mese di maggio, come l’effettuazione di 150 mila test sierologici su un campione  selezionato dall’Istat. Verranno poi elaborate delle misure per agire tempestivamente in caso di nuovi focolai, mirate a specifici territori.

Inoltre, “se nei prossimi giorni la curva dei contagi non dovesse crescere allenteremo ulteriormente le misure assicurando l’apertura in sicurezza del commercio al dettaglio, della ristorazione, dei servizi alla persona”, ha annunciato Giuseppe Conte.

Le misure di sostegno

Il presidente del Consiglio, parlando del prossimo decreto legge sulle misure economiche, ha detto che i provvedimenti del Cura Italia verranno rafforzati e prolungati.

Le risorse destinate al lavoro e al sostegno al reddito, come cassa integrazione, indennizzi per colf e badanti, ammontano a 25 miliardi. Inoltre verrà riconosciuto un indennizzo per le province più colpite dal Covid-19.

Il rispetto della Costituzione

“Stiamo affrontando un’emergenza che non ha precedenza nella storia repubblica, siamo costretti a riconsiderare modelli di vita, a rimeditare i nostri valori, a ripensare il nostro modello di sviluppo. Sono giorni in cui è vivace il dibattito, anche critico, sulle decisioni assunte. La vivacità rileva la forza e la vitalità del nostro sistema democratico”, ha detto il premier.

Conte ha poi precisato che il governo non ha mai proceduto per via “estemporanea, improvvisata”, ma “c’è stato accurato bilanciamento di tutti gli interessi e i valori coinvolti, buona parte dei quali di rango costituzionale”. La discussione con “i membri del governo, forze di maggioranza, parti sociali ed enti territoriali” è stata “ampia” ed è avvenuta attraverso una “cabina di regia”.

“Anche il Parlamento è stato costantemente e doverosamente informato”, ha detto il presidente del Consiglio.

FONTE:https://it.sputniknews.com/politica/202004309036391-coronavirus-conte-il-governo-non-puo-assicurare-limmediato-ritorno-alla-normalita/

 

 

 

BELPAESE DA SALVARE

Cosa è davvero successo nelle terapie intensive lombarde?

Una squadra (quasi) tutta lombarda di medici afferenti ai maggiori ospedali, capitanata dal Dottor Cecconi dell’Humanitas di Rozzano, ha pubblicato su JAMA la casistica completa dei pazienti COVID-19 ricoverati nelle terapie intensive (o ICU) regionali dal 20 Febbraio al 18 Marzo 2020. L’ultima data di follow-up è stata il 25 Marzo 2020.

Il lavoro, pubblicato come Original investigation, cerca di rispondere alla domanda di quali siano le caratteristiche comuni dei pazienti affetti da quest’odioso virus e ricoverati in ICU in Lombardia.

Intorno alla Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore, che ha coordinato la rete, si è costituita la “Lombardy ICU Network”, formata da 72 ospedali.

Analizzando una serie consecutiva di 1.591 individui, i ricercatori hanno registrato i dati clinici e demografici di questi pazienti, tra cui l’insufficienza respiratoria e la mortalità. L’età media dei ricoverati era 63 anni e l’82% erano maschi. Dei 1.043 pazienti per cui questi dati erano disponibili, gli autori riportano che il 68% soffrisse di almeno una comorbidità e che il 49% soffrisse di ipertensione.

Dei 1.300 pazienti per cui erano disponibili i dati sulla respirazione, gli autori riportano che il 99% abbia sofferto di insufficienza respiratoria: l’88% ha avuto bisogno di intubazione endotracheale, l’11% di ventilazione non invasiva.

Inoltre, dall’analisi dei dati sui 1.581 pazienti di cui era disponibile il dato, risulta che la mortalità in terapia intensiva in Lombardia nel dato periodo fosse complessivamente del 26%. 920 pazienti (il 58%), alla stesura del manoscritto, erano ancora ricoverati in ICU; il 16% era stato dimesso dalla terapia intensiva verso altri reparti. I pazienti più grandi di 63 anni, rispetto ai più giovani, hanno sofferto di una mortalità più elevata: 36% contro 15%.

Abbiamo chiesto al Dott. Schiavoni del Campus Bio-Medico di Roma un parere terzo in merito.

“Come tutti gli studi osservazionali ha delle grosse limitazioni riguardo alla casistica, che correttamente vengono esposte anche dagli Autori.
Inoltre, molti casi non stati raccolti perché la gestione in Italia, ed in particolare in Lombardia, della ventilazione non invasiva è stata prevalentemente al di fuori del reparto di terapia intensiva, almeno in quest’ondata epidemica. Dunque gran parte di questi dati non è stata raccolta in questo studio.

Abbiamo dati basati prevalentemente sulla ventilazione invasiva, che all’inizio sembrava essere molto efficace, tant’è vero che veniva anche raccomandata la intubazione precoce in questo tipo di pazienti: questo sicuramente è un bias importante, non legato tanto al tipo di studio ma alla configurazione del nostro sistema sanitario e alla dimensione del problema in Lombardia.

L’altro limite, secondo me importante, è che hanno preso in considerazione la mortalità a un mese: la raccolta dei dati e veniva dal 20 febbraio al 18 marzo con un follow-up al 25 marzo.
Questo permette di screenare il tipo di decessi, nel senso che tendenzialmente i decessi precoci sono quelli dovuti alle complicanze a breve termine, quindi quelle legate più direttamente alla mortalità diretta da SARS-CoV-2 e quindi all’insufficienza respiratoria.

Il problema è che molti di questi pazienti sono molto anziani, quindi anche un 60% di pazienti ancora ricoverati distanza di un mese potrebbe dare una mortalità a tre mesi molto alta, legata soprattutto a tutte quelle complicanze dovute all’allettamento prolungato ed allo stesso ricovero in terapia intensiva di pazienti ad alto carico assistenziale che quindi, banalmente, possono sviluppare decubiti, pancreatiti, polmoniti nosocomiali o da ventilatore.
Quindi le complicanze a medio-lungo termine che possono aumentare la mortalità complessiva, in questo caso, sono state escluse: questo chiaramente dà un peso maggiore a questo 26% di mortalità a breve termine, perché vuol dire che il trattamento e la gestione di questi pazienti con intubazione orotracheale in Lombardia ha portato sicuramente ad un successo più ampio che non in altre casistiche; d’altra parte non esclude tutta una serie di casi di mortalità che potrebbero invece incorrere più a lungo termine, dato sottolineato anche dagli autori del lavoro. Sicuramente lo studio in questione rappresenta un dato che ha dei pro e dei contro. Questo non significa che in assoluto siano stati più efficienti in Lombardia, ma che certamente abbiano saputo gestire al meglio i pazienti ricoverati in terapia intensiva con tutti i problemi che questo può comportare.

Questo è un grande dato da un punto di vista della medicina italiana e, nello specifico, per la rianimazione italiana. Il dato conferma quello che molti di noi comunque già sanno, cioè che in Lombardia si trovano i più rinomati centri con le più elevate competenze per quanto riguarda la ventilazione meccanica e l’ARDS. Quindi stiamo parlando in assoluto dei più grandi centri dei centri di riferimento italiani per quanto riguarda la sperimentazione e lo studio di questo tipo di patologie.
Si potrebbe quasi dire che, al di fuori dalla Lombardia, si associano a questi centri al massimo Gemelli qui a Roma e pochi altri grandi centri universitari.

Questo conferma dunque la loro elevata esperienza nella gestione di questo tipo di patologie, ossia le insufficienze respiratorie pure di origine virale generale e non secondarie ad altre situazioni cliniche. Basti pensare che, nel corso dell’influenza H1N1, sono stati loro che hanno usato per primi l’ECMO veno-venoso in un paziente di ventinove anni.

Questo è il mio commento riguardo allo studio osservazionale. Per quanto riguarda invece gli aspetti più epidemiologici, quindi la mortalità e le co-morbidità, diciamo che credo che questi siano elementi ancora troppo “freschi”, nel senso che si sta guardando troppo alla presenza di comorbilità lievi, che in realtà potrebbero semplicemente essere collegate all’avanzare dell’età e non mi sembra si ricerchino invece possibili correlazioni con fattori sottostanti. Io non faccio l’epidemiologo, quindi più di tanto non riesco ad addentrarmi in questo discorso; però mi sembrano delle considerazioni, diciamo così, ancora troppo descrittive. Non c’è ancora un’analisi statistica accurata riguardo al campione epidemiologico. Andrebbe forse studiata meglio la correlazione tra le varie comorbidità e l’insorgenza dei quadri più gravi.

Aggiungo che, proprio per guardare meglio il dato della mortalità, sarebbe stato interessante sapere effettivamente quali erano i casi di pazienti morti per ipossia, ovvero quelli in cui la causa prevalente è stata ipossia che poi può aver scatenato qualunque altro tipo di complicanza sistemica e quali, invece, uscivano dalla polmonite da coronavirus e sono andati incontro alle complicanze di un ricovero protratto in una terapia intensiva come una sepsi o una pancreatite. Questo purtroppo non è scritto ma sarebbe molto interessante poter sviscerare il dato.

La mortalità in terapia intensiva, così come presentata dagli Autori, dice abbastanza dal punto di vista della capacità di gestione, ma non dice tutto. Sarebbe molto interessante poter sapere di più su quello che è successo nei quasi 1.600 pazienti, perché la casistica è molto ampia.

Lorenzo Schiavoni è un anestesista con un grande interesse scientifico per le ARDS e referente per le coagulopatie in terapia intensiva al Policlinico del Campus Bio-Medico di Roma, non è stato coinvolto nella stesura del lavoro pubblicato. Lo ringraziamo, anche a nome di tutta la redazione di INFOSEC.NEWS, per essersi prestato alla realizzazione di quest’articolo!

FONTE:https://www.infosec.news/2020/04/30/speciale-coronavirus/cosa-e-davvero-successo-nelle-terapie-intensive-lombarde/

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

Olanda, il video shock di Mark Rutte: niente soldi all’Italia

Che Mark Rutte fosse in prima linea nel cercare di mantenere un certo rigore nel negoziato su come finanziare l’emergenza coronavirus in Europa è cosa nota. Il video che però da alcune ore circola in rete farebbe capire come, per il primo ministro olandese, non ci sarebbero molti margini di trattativa sulla partita del Recovery Fund.

Durante un incontro con la delegazione dei netturbini, uno di questi si è avvicinato a Rutte chiedendogli “per favore, non dare soldi agli italiani e agli spagnoli”, con il primo ministro che ha risposto “ no, no me lo ricorderò ” facendo il pollice verso.

 

VIDEO QUI: https://twitter.com/i/status/1255513480842575875

Da quando è scoppiata la crisi sanitaria ed economica dovuta al coronavirus anche nel Vecchio Continente, subito l’Unione Europea si è messa a lavoro per capire come poter sostenere finanziariamente quei Paesi più colpiti.

Oltre a misure come MESSure e BEI, il grosso del pacchetto dovrebbe essere rappresentato dal Recovery Fund ma nell’ultimo Consiglio Europeo non è stato ancora raggiunto un pieno accordo sul tema.

I Paesi del Sud vorrebbero che i soldi di questi bond garantiti dal bilancio UE 2021-2027 vengano concessi come sussidi a fondo perduto, mentre quelli del Nord esigono che si tratti invece di un prestito.

A guidare il fronte degli Stati membri più oltranzisti c’è proprio l’Olanda, con Marke Rutte che come si capisce dal video appare poco convinto ad aprire alle richieste provenienti da Italia, Spagna e Francia.

FONTE:https://www.money.it/Olanda-video-Mark-Rutte-niente-soldi-Olanda

Simulazione: se la Nato attacca la Russia il Norditalia scompare in meno di 4 ore

Fino a questo momento la città di Kaliningrad è famosa per aver dato i natali al filosofo tedesco Immanuel Kant. Un recento studio dell’Università americana di Princeton, invece, affida all’oblast russo un ben più triste primato: quello di trampolino d’attacco della prima (e forse definitiva) guerra mondiale nucleare. La simulazione ipotizza un attacco nucleare russo (e te pareva!), seppure a seguito di pressioni e provocazioni militari della Nato ad oriente. A seguito di un’ipotetica iniziativa nucleare russa, fanno vedere gli specialisti di Princeton, i primi a pagarla cara sarebbero i tedeschi, i cechi ed i polacchi, che verrebbero bombardati con testate nucleari dagli aerei partiti da Kalinigrad. Primissimo obiettivo dei russi, dunque, il confine orientale della Germania con Repubblica Ceca e Polonia.

Ma è una questione di pochi minuti. A seguito dell’immediata risposta Nato contro Kaliningrad partita da Ramstein, in Germania, il secondo bersaglio dei russi in funzione antiNato avverrebbe a raggiera colpendo quasi contemporaneamente Turchia, Aviano in Fiuli Venezia Giulia e Brescia in Lombardia.

Poco dopo è la volta di Belgio e Inghilterra, la Spagna ed il sud Italia fino a coinvolgere tutte le aree d’Europa.

VIDEO QUI: https://youtu.be/2jy3JU-ORpo

Dal primo aereo partito da Kaliningrad alla distruzione di Aviano e Brescia, non passerebbero nemmeno 4 ore, stando al filmato pubblicato dall’Università di Princeton.

Come ipotizzabile da chiunque, anche la simulazione rivela che dopo gli interventi aerei in Europa partirebbero i missili ed i sommergibili dagli States. Il conflitto causerebbe la morte di 90 milioni di uomini nel giro di poche ore. Ma i primi sarebbero tedeschi, cechi, polacchi e italiani, ai quali non sarebbe dato nemmeno il tempo di raggiungere i peraltro rarissimi rifugi antinucleari. In Veneto, ad esempio, si trova il più grande rifugio antiatomico d’Europa, ma è stato dismesso nel 2010. Fu realizzato dalla Nato presso il Monte Moscal di Affi, in provincia di Verona (vedi QUI) per essere poi ceduto nel 2007 al Ministero della Difesa italiano che, con la solita lungimiranza, ha pensato bene di dismetterlo.

Detto diversamente, mentre in altre aree del pianeta, milioni di uomini potranno sopravvivere grazie alla distanza che li separa dai teatri di guerra oppure per la disponibilità pubblica e privata di rifugi antiatomici, in Italia no. In caso di guerra nucleare con la Russia gli italiani, semplicemente, scomparirebbero dalla faccia del pianeta, così come moltissimi altri milioni di europei. L’Europa, insomma, in virtù dell’inimicizia con la Russia e l’adesione alla Nato non sopravviverebbe ad un intervento atomico russo, soprattutto gli italiani, che con i tedeschi ospitano le basi militari più importanti. Andrà decisamente meglio ad africani, cinesi, sudamericani ed ai (pochi) russi che vivono in Siberia. In Europa, gli unici europei minimamente attrezzati sono gli svizzeri che fin dagli anni Sessanta, e per legge, hanno dovuto dotare ogni palazzina di nuova costruzione di un bunker antiatomico. (Svizzera: dove tutto è pronto per l’Apocalisse)

FONTE:http://micidial.it/2019/09/simulazione-se-la-nato-attacca-la-russia-il-norditalia-scompare-in-meno-di-4-ore/

 

 

 

CULTURA

TECNICA, COMUNITÀ, DESTINO. IN DIALOGO CON CARLO SINI

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Intervista a cura di Giacomo Berengo per Sovrapposizioni.

Giacomo Berengo: La tecnica è l’uomo. Dove c’è uno c’è l’altro e viceversa. In quest’ottica, che pare essere l’unica che guarda ciò chi appare, nei suoi limiti e nelle sue ricchezze, non c’è, di fatto, alcuno spazio per ogni concezione superstiziosa che voglia difendere l’uomo dalla tecnica, vedendo in quest’ultima la radice della “recente” separazione dell’uomo con il mondo cosiddetto della natura. La sfida del sapere è dunque quella di utilizzare a proprio beneficio il supporto che ora ha a disposizione, che ora può supportare tutti i saperi che l’umanità ha, fino a questo momento, raggiunto e conservato. La domanda, che può sembrare ovvia e scontata a prima vista, e che in realtà non lo è affatto è dunque la seguente: come può il sapere filosofico armonizzarsi con il supporto che ora è utile per creare comunità? Quale sapere può emergere, secondo lei, dal supporto che ora abbiamo a disposizione?

Carlo Sini: Distinguere l’uomo dalla tecnica, non vedere che l’essere umano è tale proprio in quanto “tecnico”, cioè in quanto entrato in un orizzonte e in una vicenda di vita che non è più caratterizzata soltanto dalla cosiddetta “nuda natura”, conduce certo a discorsi confusi e problematici. Questo non significa che essi non traggano motivo, però, da qualcosa di reale, da timori e disagi esistenziali che rivestono comunque un senso e quindi una importanza peculiare.

Che una specie vivente possa venir meno dipende dalla modificazione di equilibri ecologici sui quali la specie medesima non ha poteri, oltre a quelli che la natura le ha fornito, secondo il loro limite intrinseco di plasticità. Nel momento in cui l’azione della specie umana si qualifica invece per il ricorso sempre crescente all’uso strumentale, il pericolo, direi, si raddoppia: da un lato, diciamo così, i capricci della natura (le glaciazioni, i terremoti, le eruzioni ecc,); dall’altro i pericoli dello strumento stesso, che ha immesso nella vita naturale della specie “sapiens” (o che sta diventando tale) l’esteriorità al limite indecidibile del mondo cosiddetto esterno: la “materia” della protesi, appunto. C’è ben motivo di temere che lo strumento tecnico sconvolga l’equilibrio necessario dell’ambiente (la cui “regola” è sempre costituita da una complessità di azioni, reazioni e contro-azioni incalcolabile) e addirittura che si rivolga contro la vita dei suoi stessi “utilizzatori”, insegnando all’Homo Sapiens una violenza inedita e infinitamente potenziabile verso di sé. In altre parole, se vedi arrivare un carrarmato non stai tranquillo.

Oltre un certo livello di evoluzione e di pericolosità strumentale, il problema dell’uomo come animale civilizzato diventa la pace. Ricordo in proposito e molto in sintesi una vicenda a suo modo eloquente: l’impero britannico alle prese con popolazioni e tribù “selvagge” dell’estremo Oriente in perenne guerra tra loro. Bisogna educare questi selvaggi. Invio di una squadra di antropologi per studiare la situazione e far cessare l’orribile conflitto. Risultato: le tribù costantemente in guerra provocano due o tre morti l’anno (molti meno di quelli che derivano da incidenti di caccia). Per di più, il divieto ai riti e miti e costumi complicatissimi che accompagnano le attività guerresche nel corso dell’anno, e quindi il divieto della guerra continuativa stessa, produce un decadimento generale della vita collettiva, che risulta, per i “selvaggi”, destituita così di ogni regola, di ogni organizzazione etica, religiosa, economica, familiare, generazionale, sessuale, e quindi destituita di ogni senso e valore. I “selvaggi” non fanno più nulla, non lavorano, si ubriacano, degenerano, diventano aggressivi all’interno della tribù, non riconoscono più autorità alcuna, muoiono come le mosche.

Questa storia insegna che il livello “primitivo” della strumentazione tecnica degli umani non costituisce alcun rischio, come diciamo oggi, per l’ambiente. È anzi una lotta disperata, per migliaia e migliaia d’anni, condotta da una specie molto fragile per riuscire a sopravvivere su questo pianeta.

Poi gli strumenti tecnici si fanno progressivamente molto pericolosi in mano alla bellicosità degli umani e la guerra comincia a diventare, nel corso del tempo, una catastrofe inarrestabile: altro che due o tre morti. Il roussoviano buon selvaggio diviene un barbaro sterminatore. Perché?

Dico anche qui in estrema sintesi. Quando ci riferiamo allo strumento tecnico dimentichiamo regolarmente quello più importante. Esso infatti si nasconde ai nostri occhi e alle nostre orecchie proprio dietro l’uso che costantemente ne facciamo (anche qui). Parlo del discorso o, come per lo più si ama dire (in modo caratteristicamente “superstizioso”), del linguaggio.

L’ufficio del discorso (procedo con gli stivali delle sette leghe) non è affatto quello che siamo soliti credere: dire le cose, dare loro un nome (come se le cose fossero costituite da suoni della voce o tratti di inchiostro sulla carta); il suo ufficio originario o primario è invece quello di chiamare i membri del gruppo vivente (agli inizi, pare, non più di una ventina o trentina di individui in marcia nella savana) a collaborare nell’esercizio delle azioni comuni tramite l’ufficio di gesti vocali che ne scandiscono e analizzano le funzioni operative: non dire le cose come sarebbero “in sé” (questa superstizione illusionistica del linguaggio è solo una conseguenza), ma in quanto poli di interesse per l’uso collettivo. In parole povere, non i sostantivi (diremmo oggi), ma i verbi (come per esempio è illustrato dagli ideogrammi della antica scrittura cinese).

Nato dalla articolazione dell’azione comune, il discorso diviene così anche il luogo dell’auto-riconoscimento dei membri del gruppo: esso veicola e trasferisce all’interno di ognuno la funzione e il ruolo; quindi la coscienza e autocoscienza sociale dei membri del gruppo; quindi la loro intersoggettività vivente e operante; quindi la costituzione di una “storia” mitologica, magica, ritualistica, sacrificale della comunità in cammino: gli spiriti e gli Dei che ne garantirebbero le sorti, la sopravvivenza, il prestigio e la prosperità crescenti; quindi la sua bellicosità verso le altre comunità, che ne minacciano l’esistenza. Platone ha descritto perfettamente tutto ciò nella Repubblica (nel passaggio dalla società frugale delle origini alla società “infiammata” dal lusso, dal possesso, dal consumo, dalle disuguaglianze sociali tra ricchi e poveri e infine dalla necessità di mantenere un esercito per difendere il “proprio” dalla avidità degli “stranieri” e possibilmente impadronirsi dell’“altrui”: una storia che non è più finita.

Dalle Leggi di Platone a Per una pace perpetua di Kant (1795) uno dei compiti principali della filosofia è stato pertanto quello di promuovere la pace, liberando le comunità umane dalla stasis (dalla terribile guerra intestina), quindi dai distruttivi conflitti esterni, e poi per liberare ognuno dalla violenza anzitutto dentro il sé, per proiettarla poi fuori di sé (Freud aveva letto Platone).

Già Platone intuiva che non può esserci pace in una comunità se non vi è pace tra gli Stati; per Kant questo fatto è chiarissimo e lo strumento è quello (come del resto già nelle Leggi) di una nuova educazione degli esseri umani: compito precipuo della filosofia (in Occidente). Non della religione, perché l’origine delle religioni fu quello di consolidare e giustificare ogni singola comunità garantendole i propri protettori celesti, conseguentemente nel suo conflitto con gli Dei delle altre comunità. Si tratterebbe allora di immaginare una sorta di religione universale, ma questo traguardo comporterebbe o la sottomissione di tutte le credenze a una sola; o l’abolizione di ogni credenza religiosa e quindi della religione medesima. Di questo paradosso si faccia carico l’uomo religioso; io non lo sono.

Dopo questa lunghissima introduzione, e poco urbani passi da gigante, quindi con molti legittimi problemi di comprensione, penso nondimeno di essermi aperto la via per arrivare alla domanda: quale sapere (filosofico) può oggi fare uso di supporti, di quali strumenti può giovarsi per creare comunità (e quale comunità)?

Per come personalmente vedo l’esercizio filosofico, la prima cosa che mi sembra importante dire è che bisogna anzitutto liberarsi dalla superstizione dei discorsi (senza peraltro abbandonare i discorsi, evidentemente, se si tratta di “dire”). Quindi bisogna apprendere a non domandare così come si è ricordato sopra. Bisogna imparare a veder chiaro che non si tratta del sapere, non si tratta della filosofia, non si tratta della comunità, perché queste “cose” non esistono: sono da sempre l’effetto illusionistico della pratica e della funzione del discorso, questo straordinario strumento della “socialità”.

Parlando in modo metaforico, potremmo osservare che la continuità delle forme viventi (quelle che per esempio chiamiamo “specie”) esiste solo nella sua ripetizione e trasmissione attraverso la indispensabile strozzatura dei corpi viventi e attraverso le loro azioni particolari e specifiche, attive e passive (ricordo la preziosa distinzione husserliana tra Leib – corpo vivente – e Körper – corpo-cosa). Ora, il medesimo accade con la protesi esosomatica della voce, della parola e del discorso: esso transita attraverso i corpi e non si trova altrove. La sua azione però ha di mira la coordinazione in una azione comune (potemmo dire l’accomunamento: letteralmente ciò che Peirce nominava come “ciò che si è pronti a fare in comune”, Hegel: “il fare di tutti e di  ciascuno”, cioè letteralmente lo spirito hegeliano,  “l’abito” condiviso di comune risposta: se grido ‘corri’ tu corri!) e per ottenere questa coordinazione l’azione del discorso produce e promuove segni universali, parole-concetto (dirà la filosofia) e, conseguentemente, l’universale credenza nelle “cose” corrispondenti: tratto strutturalmente superstizioso del logos.

La fine del sapere metafisico, la conseguente fine delle illusioni “ontologico-naturalistiche” del senso comune e del senso comune scientifico, suggeriscono una differente “postura” entro i comuni problemi e saperi. Ognuno di noi, in quanto membro di un intreccio sterminato e inestricabile di eredità e di relazioni sistemiche, collocato in una nicchia di nicchie ereditate dall’oltreumano e dalla cultura (che ha modificato anche i corpi cosiddetti naturali), può immaginare di prendere efficacemente la parola solo all’interno della raggiunta consapevolezza di questa sua collocazione, che accade a lui, in modi molto definiti, come accade anche in tutti, nei modi loro. In questo potenziale dialogo con sé e con gli altri, e solo in esso, si possono definire gli strumenti e i supporti, uno per uno e volta per volta disponibili o immaginabili, misurandone l’efficacia, l’opportunità e la destinazione, sino a prova contraria.

Proviamo a prenderne uno e lavoriamo con buona volontà. Qui, direi, ho in sostanza suggerito di lavorare sullo strumento discorso, a partire da come io stesso penso di trovarmene fornito; cerchiamo di mettere in luce perché e a partire da che… esercizio che per tradizione e per molte altre ragioni chiamo “filosofico”. Vediamo le ragioni (le mie per me, le tue per te, ecc.): dopo tutto veniamo da Socrate. Cioè? Ecc. ecc. (Mi sono spiegato?).

GB: La “comunità mondiale” non é né comunità né mondiale. È semplicemente una locuzione composta di belle parole. Parole fondamentali. Ma in ogni caso parole organizzate foneticamente, un discorso, se vogliamo. Ma il discorso, appunto perché alfabetico, è un costrutto storicamente e territorialmente determinato: esso nasce in occidente, nell’antica Grecia solo grazie ad un certo sapere (quello filosofico appunto) ecc. Perciò unire il mondo nell’alfabetizzazione sembrerebbe non solo un enorme imposizione culturale che segnerebbe la supremazia di una cultura contro altre; ma addirittura una violenza, che vorrebbe si parli di cultura – nella sua accezione territoriale, antica, ctonia – solo nel caso della occidentale, solo per quanto riguarda la filosofia e le sue derivazioni e modificazioni. Se questo è vero: come si potrebbe allora concepire una comunità globale? Se bisogna evitare l’errore della comunicazione unicamente dialogica, quali altre strade possono condurci ad una reale comunità universale? Come creare una comunità che non sia un sopruso del discorso su tutti gli altri tratti distintivi delle altre comunità non-occidentali – che sono appunto le lingue? È immaginabile – e auspicabile – una organizzazione di questo genere?

CS: Come concepire una comunità globale che non sia un sopruso del discorso occidentale su tutte le comunità non-occidentali? Come realizzare una reale comunità universale? La lunga risposta precedente mi aiuta a rispondere ora molto più rapidamente. Anche qui è opportuna una riflessione preliminare sulla domanda. Procedo per notazioni molto sintetiche.

Così posto il problema è ovviamente irresolubile. Un discorso evidentemente occidentale chiede, in modi interamente occidentali (e come altrimenti potrebbe mai chiedere), come non essere occidentale; cioè “universale” (che è poi proprio la sua “specialità” storica, la sua nicchia non universale; ma anche il merito – diciamo da Nietzsche? – di averlo compreso in coloro che lo hanno compreso).

Il cammino verso una comunità globale non si è mosso solo per l’influenza “ideologica” dei discorsi (per esempio mitici, religiosi, filosofici, retorici, scientifici, politici); si è mosso per l’intreccio dei discorsi con la natura “oggettivante” dell’azione strumentale. Il martello si usa così e così: tratto pedagogico e tratto operativo universale. Per di più il martello mostra a tutti coloro che hanno imparato a usarlo che l’ambiente nel quale viviamo e lavoriamo (in una parola il mondo) è fatto così e così; ovvero risponde in questi modi oggettivamente universali al lavoro sociale dei martellatori: la conoscenza è in cammino. Quella della scienza moderna ne è la propaggine e la specializzazione (per ora) suprema.

Ovunque le comunità umane, differenziatesi e distanziatesi nei tempi della conquista del pianeta, si siano trovate a reincontrarsi poi (con la rivoluzione oceanica del ‘400 ecc.), si è verificata la tesi di Peirce: che gli esseri umani non possono evitare di influenzarsi reciprocamente; che gli abiti della tenacia e dell’autorità alla lunga inevitabilmente si dissolvono di fronte alla potenza degli strumenti esosomatici che promuovono la conoscenza; quindi che la verità è “pubblica”. Sono questi fatti e processi che innescano l’attuale globalizzazione, non siamo noi a promuoverla per nostra decisione. Diciamo che la forza delle pratiche di vita, delle cose e di ciò che io chiamo potere invisibile delle cose medesime e delle pratiche del lavoro sociale, promuovono noi, le nostre azioni e le nostre decisioni, per quel poco o tanto che possono influenzare l’insieme.

Il problema allora è, mi pare, quello di esibire e produrre (anzitutto a noi stessi) la visibilità e la comprensibilità del nostro modo di essere e di essere stati, come sostanziale contributo alla relazione con gli altri. Si va dalla relazione tra noi qui (è in corso, direi), alla relazione, per esempio, con uno scienziato, con un essere umano di tutt’altra lingua e cultura dalle nostre ecc. Non è il caso di studiarsi di abbandonare i nostri discorsi e le nostre verità (proposito tanto insensato quanto impossibile, anche se la sera facciamo yoga); si tratta anzitutto di ascoltare e ascoltarci e lavorare insieme a creare uno spazio di collaborazioni più ampio di quello disponibile inizialmente per ognuno. (Per esempio alcuni famosi gruppi teatrali già da tempo lo fanno.) Quella collaborazione si tratta di metterla in opera e in esercizio ai fini della cosiddetta comunità globale o universale. Non si tratta di “pensarla” in astratto ma di farla lievitare dalla messa in comune dell’esercizio (a Mechríparliamo, problematicamente, di “laboratorio”), sapendo che resterà comunque diversificata al suo interno, costantemente bisognosa di restaurazione e reinvenzione, soggetta a metamorfosi perenne, anche per gli effetti della sua stessa azione. Si tratta infine di vedere in questa “morte” continua dei nostri abiti e delle nostre credenze il più potente motore di vita e di verità. (È morta la filosofia, viva la filosofia.)

GB: Allora, come ultima domanda, la vogliamo interrogare sul tema del destino. Esso è trattato nei suoi scritti con assoluta concretezza e in un modo che non può non riguardarci tutti, e, nelle nostra domanda, cercheremo di non essere da meno. Domandarsi del destino è in primo luogo domandarsi dei giovani. Domandarsi sulle prospettive di avvenire di coloro i quali, volenti o nolenti (escludiamo il suicidio per non aumentare la complessità), dovranno farsi carico della società attuale e, come dire, esserne differenza e ripetizione. Ma con la mancanza quasi totale di prospettive, di etiche comuni, di sentita collettività, come pensa che dovrebbero muoversi i nuovi arrivati?

CS: La più difficile, la più dolorosa, la più inutile. Che ha da dire un vecchio ai giovani, quanto alla loro vita e al loro destino? Posso sforzarmi di dire come io sono arrivato sin qui (aggiungerci “perché” sarebbe già troppo presuntuoso, se vale ciò che ho detto sopra); ma che cosa è “qui” per me è enormemente in difetto rispetto a quello che è “qui” per voi, salvo sotto il profilo personale della memoria.

Questo indiscutibile fatto ha in sé la sua fortuna e la sua sventura. La fortuna è presto detta: che ogni giovane oggi vede, sente, intuisce, comprende, immagina, suppone cose per me assolutamente fuori portata e a dir poco inesistenti. Dissi una volta a lezione alla Statale: non crediate che Porta Romana sia la stessa cosa per me e per voi; al più può essere un riferimento comune per darci un appuntamento.

Le cose sono infinitamente complesse, mutano di continuo, ed è impossibile che non forniscano qualche occasione per chi sta attento, non si sgomenta e sa che non è irragionevole attendersi ogni tanto una occasione. Quale? Questo, credo, è deciso in ognuno dalle sue reali passioni (“reali”, ho detto, il che si scopre col tempo). Un vecchio ti racconta delle sue, dei suoi errori e di ciò che crede di avere imparato. Per esempio ti ricorda questo detto (che mi è sempre piaciuto): una vita felice è quella che realizza nella maturità e nella vecchiaia il sogno della giovinezza.

Già ma il problema (voi in sostanza dite) è come averli, oggi, questi sogni. E qui la vecchiaia non rende però ciechi alla visione dell’aspetto terribile, sventurato dicevo sopra, della vita odierna, sia per coloro che muoiono sotto le bombe o nelle onde del mare, sia per coloro che vivono nel limbo, abbastanza repellente, della nostra società tryfosa, diceva Platone: infiammata dalla produzione e dal consumo di massa, dai messaggi massificati, dal benessere pagato col senso della vita e così via (è davvero inutile che continui, ma non è realistico pensare che in passato qui da noi fossero tutte rose e fiori).

Questa nostra società (ormai proiettata in dimensione globale) è estremamente accogliente: la scuola per tutti, l’università per tutti, uno straccio di lavoro precario per tutti, tutti insieme felicemente nei luoghi della movida (fuga dalle campagne, dai borghi, dai paesi, per stabilirsi in città, perché là non c’è più vita, non c’è più niente, e qui c’è tutto e anche di tutto). Eppure, comunque la si giri, saranno i giovani oggi, come voi infatti dite, che dovranno farsi carico della società in cammino. Però non ci sono formule vincenti, o almeno io non ne ho. Quello che so è che per me è stato importante portare con me l’immagine di coloro che avevo adottato come padri e maestri spirituali: in certi momenti difficili mi è stato di aiuto. Naturalmente la cosa vera (ho appreso col tempo) non era principalmente la virtù “magistrale” di quelle persone e di quegli incontri (che pure so che furono di grande valore di per sé). Importante fu soprattutto la mia capacità di assumerli come maestri, come modelli: questo ha reso possibile il sogno della mia giovinezza.

Dove sono però i maestri? Anche di questi c’è “penuria”, direbbe Sartre; ma attenzione: per il fine che dico, non è affatto necessario che siano viventi e oggi possediamo strumenti straordinari, mai posseduti prima, per incontrarli sul filo dei segni della memoria e delle opere; per costruire con essi la nostra comunità immaginaria e possibile. Fu per esempio così che, da adolescente, mi innamorai di Bix Beiderbecke (poi ce ne furono altri). Buona fortuna, giovani amici.

Milano, 28 Aprile 2020

Carlo Sini ha insegnato per oltre trent’anni Filosofia teoretica all’università degli studi di Milano. Accademico dei Licei, ha tenuto conferenze e seminari negli Stati Uniti, in Canada, in America latina e in vari paesi europei. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: L’uomo, la macchina, l’automa (Bollati-Boringhieri, Torino 2009); Il sapere dei segni (ivi, 2012); Dante: il suono dell’invisibile (Orthotes, 2013). L’editoriale Jaca Book sta pubblicando le Opere complete a cura di Florinda Cambria.

FONTE:https://www.sovrapposizioni.com/blog/tag/comunit%C3%A0

 

 

 

 

ECONOMIA

RIVEDERE I TRATTATI? IL VINCOLO ESTERNO SECONDO CAFFE’ E LA COSTITUZIONE

15 GIUGNO 2017  Claudio Quarantotto

  1. Nel postALLA RICERCA DELLA SOVRANITA’ PERDUTA: SALVIAMO (chirugicamente) LA COSTITUZIONE, e nell’articolato dibattito che ne è seguito, abbiamo cercato di delineare le misure di rafforzamento dell’attuale modello costituzionale di fronte allo svuotamento determinato da ogni genere di trattato economico che imponga un “vincolo esterno”: in essenza,si tratta di precisare i limiti e le procedure di verifica democratica della legittimazione e del modo di esercizio del potere negoziale di coloro che sono chiamati a trattare in nome e per conto dell’Italia.

E ciò rispetto ad ogni tipo di trattato internazionale, futuro ma anche passato e ancora in applicazione.

“Messo in sicurezza” questo presupposto imprescindibile di ogni iniziativa negoziale legittima entro il quadro dell’art.11 Cost., in un modo che rifletta, né più né meno, la reciprocità rispetto a quello che reclama (qui pp.2-3) un “contraente” come la Germania rispetto al proprio modello costituzionale, proviamo di conseguenza a ipotizzare in che modo si possano modificare i trattati europei attuali, nell’ambito di qualsiasi strategia volta a renderli sostenibili in coerenza con la tutela della sovranità democratica del lavoro delineata in Costituzione.

  1. La premessa “di sistema” dovrebbe basarsi, in teoria, sulla consapevolezza che occorracorreggere un andamento del capitalismo contemporaneoche cerca di imporre “l’ordine internazionale del mercato”, e che Basso aveva descritto in questo modo:
    … È la naturale tendenza antidemocratica del neocapitalismo che deve difendere il carattere privato dell’appropriazione del profitto in un’economia le cui dimensioni sono sempre più vaste e le cui fondamenta sempre più collettive; la contraddizione fondamentale del capitalismo giuoca qui nettamente nel senso di cercare di svuotare la collettività di qualsiasi potere decisionale con tanta maggior forza quanto più la logica delle cose spingerebbe nella direzione opposta.


Che poi questo processo antidemocratico si svolga nel senso di una vera e propria dittatura di tipo fascista, o nella forma del potere personale di tipo gollista, o nella formazione di una ristretta oligarchia di uomini d’affari, alta burocrazia civile, militare e tecnica, e leader politici, non cambia molto la sostanza delle cose: i processi in atto nei paesi occidentali sono più o meno tutti in questa direzione. 

In una società di massa, questo processo è possibile se si riesce ad ottenere l’appoggio, magari passivo, delle masse: a questo fine la depoliticizzazione, la deideologizzazione, la mistificazione della coscienza delle masse, l’alienazione concepita soprattutto come non-partecipazione, come isolamento dell’uomo dalla sua vita collettiva …” [L. BASSO, L’integrazione e il suo rovescio, in Problemi del socialismo, marzo-aprile 1965, n. 1, 47-72].

  1. Per individuare le linee fondamentali di una “revisione” dei trattati che riesca a preservare la democrazia dalle prevaricazioni dell’oligarchiacosmopolita(v. qui, p.2) del grande capitale, muoviamo dalle criticità evidenziate da Federico Caffè: l’attualità di queste indicazioni è oggi ancor maggiore, se si considera che la privazione della sovranità monetaria in cui ci colloca l’appartenenza all’eurozona, amplifica le esigenze di correzione dei problemi da lui evidenziati.

I trattati economici sono, com’è noto, ormai quasi esclusivamente volti a imporre il liberoscambismo, e utilizzano rigidi sistemi di condizionalità (derivati dal “sistema FMI”) per travolgere ogni resistenza: quello europeo è un modello particolarmente intenso in questa direzione, acutizzando l’assoggettamento dei popoli coinvolti agli effetti della c.d. globalizzazione, con tutti i problemi di democrazia evidenziati da Rodrik.

Veniamo dunque all’analisi di Caffè sul problema delle relazioni economico-commerciali internazionali, e quindi del “vincolo esterno” considerato come ricerca dell’equilibrio dei conti nazionali con l’estero, e veniamo alla sua analisi sul come ogni soluzione sia resa più ardua dall’assoggettamento alle regole di un trattato federalista europeo (considerata la originaria e immutabile ideologia, mercatista e liberista, che caratterizza da sempre questa costruzione).

4- Caffè in termini generali sul problema dell’equilibrio dei conti con l’estero (il suo è definito “intelligente pragmatismo” in un mix dosato e ragionevole di liberoscambismo e protezionismo):

“La piena occupazione e il vincolo dei conti con l’estero.

Una tipica applicazione dell’intelligente pragmatismo degli economisti che Caffè si scelse come maestri – e di altri che ebbe per compagni, come Giorgio Fuà e Sergio Steve – è rappresentata dal modo di trattare il vincolo dei conti con l’estero. Tale vincolo – imposto dalla necessità, o dall’opportunità, di non superare un certo disavanzo di parte corrente – è spesso assimilato a quello della piena occupazione: se il vincolo dei conti con l’estero non viene spontaneamente rispettato, si argomenta, bisogna intervenire con misure deflazionistiche. Ragionare in questo modo significa rinunciare a chiedersi che cosa faccia sì che, nella concreta situazione in esame, il vincolo dei conti con l’estero si incontri prima che venga raggiunta la piena occupazione, e dunque che cosa possa essere fatto per allentare il vincolo stesso.

Se la difficoltà sorge dall’insufficienza della capacità produttiva disponibile – che si traduce in un innalzamento della propensione a importare quando venga superato un certo livello di attività produttiva – è a tale insufficienza che va posto rimedio attraverso un’appropriata politica dell’offerta. Un compito, questo, che risulta fortemente facilitato dal fatto che l’insufficienza della capacità produttiva non si manifesta simultaneamente in tutta l’economia, ma assume la forma di strozzature produttive, aggredibili con interventi settoriali. Complementare, e non alternativo, al compito suddetto è quello di accrescere la capacità di esportazione.

Degli ostacoli che le strozzature frappongono alle politiche di piena occupazione erano ben consapevoli quelli che Steve ha chiamato i «keynesiani della prima generazione», fra i quali vanno compresi Michał Kalecki e gli altri autori del libro L’economia della piena occupazione, del 1944, tradotto in italiano nel 1979 con un’introduzione di Caffè.

«Se non esistono riserve di capacità o queste sono insufficienti – scrive Kalecki in questo libro – il tentativo di assicurare la piena occupazione nel breve periodo può facilmente causare delle tendenze inflazionistiche in vasti settori dell’economia, poiché la struttura della capacità produttiva non è necessariamente adeguata alla struttura della domanda […]. In un’economia nella quale l’attrezzatura produttiva è scarsa è quindi necessario un periodo di industrializzazione o ricostruzione […]. In tale periodo può essere necessario impiegare controlli non dissimili da quelli impiegati in tempo di guerra.». Un’affermazione come questa basta da sola a mostrare tutta l’inconsistenza e la superficialità dell’identificazione, che tanto spesso si è voluta fare, fra keynesismo e politiche keynesiane, basate esclusivamente sul sostegno della domanda aggregata.

Se, anziché con la politica dell’offerta, il miglioramento dei conti con l’estero viene perseguito per mezzo della deflazione, il freno che ne deriva alla formazione di capacità produttiva tenderà ad aggravare ulteriormente la situazione. «E’ un affare molto serio – ha scritto un altro keynesiano della prima generazione, Richard Kahn – se l’attività produttiva deve essere ridotta perché la produzione a pieno regime comporta un livello di importazioni che il paese non può permettersi. Ed è un affare particolarmente serio se la riduzione in esame prende largamente la forma di una riduzione degli investimenti, inclusi gli investimenti volti alla formazione della capacità produttiva capace di farci esportare più beni a prezzi più concorrenziali e di diminuire la nostra dipendenza dalle importazioni.» (11).

Se proprio occorre ridurre gli investimenti, afferma ancora Kahn, tale riduzione deve essere «altamente discriminatoria»: bisogna, cioè, tentare di «stimolare gli investimenti nelle industrie esportatrici e in quelle capaci di sostituire le importazioni, particolarmente nei settori in cui è l’attrezzatura produttiva a rappresentare la strozzatura, e di scoraggiarli in tutti gli altri settori. Le restrizioni monetarie possono, tuttavia, essere caricate di un contenuto discriminatorio solo con difficoltà ed entro limiti piuttosto ristretti.

Vi sono qui, per eccellenza, forti ragioni per ricorrere a metodi alternativi di scoraggiare gli investimenti, e particolarmente a quei metodi che operano attraverso controlli diretti» (12)…

«E’ consentito discutere di protezionismo economico?».

Se mi sono dilungato sulle idee dei «keynesiani della prima generazione» è per ricordare le radici di una posizione cui Caffè restò fedele per tutta la vita. «Nel mio giudizio – egli affermava nel 1977 – gran parte dei mali economici del presente è da attribuire al mancato impiego di ragionevoli, circoscritti e selettivi controlli diretti; il che porta ad affidare soltanto ai “prezzi di mercato” una funzione di razionamento, resa spesso iniqua da una distribuzione del reddito e della ricchezza accentuatamente sperequata» (14).

…L’accoglienza riservata a proposte anche solo blandamente protezionistiche era tuttavia tale da indurre Caffè a chiedersi, nel titolo di un suo articolo, “E’ consentito discutere di protezionismo economico?”

Certo, non era consentito discuterne pacatamente, la reazione degli avversari consistendo spesso nel rifiuto aprioristico e nella sleale (o stupida) deformazione delle proposte, quando non nell’accusa di volere l’«autarchia» (con quanto di evocativo dell’esperienza fascista questo termine inevitabilmente comportava).

Per parte sua, Caffè non smise di fare appello alla ragione. «L’accorto dosaggio tra le misure intese ad accrescere le esportazioni, mantenendole competitive, e quelle rivolte a favorire l’incremento delle produzioni sostitutive delle importazioni – leggiamo nell’articolo appena ricordato – andrebbe cercato su un piano di mutua comprensione e di reciproco rispettoColpire ogni voce di dissenso con l’addebito di tendenza all’autarchia è mera espressione di arroganza intellettuale ben poco lodevole. E’ auspicabile che a un inesistente monopolio della verità si sostituisca il proposito di tener conto delle ragioni degli altri. E ve ne sono in abbondanza» (17).

Contro la libertà di movimento dei capitali.

Un discorso a parte merita la necessità, su cui Caffè ha sempre insistito, di limitare la libertà di movimento dei capitali, particolarmente in un sistema di cambi come quello di Bretton Woods o come il Sistema monetario europeo, cioè in un sistema di cambi modificabili di tempo in tempo con determinate procedure, ma fissi, o pressoché fissi, fra una modifica e l’altra. La necessità suddetta nasce da due diverse considerazioni.

La prima è che, se i capitali sono liberi di spostarsi da una valuta all’altra, la difesa del tasso di cambio grava interamente sulla politica monetaria, impedendo a quest’ultima di tenere adeguatamente conto della situazione economica interna (o costringendola addirittura a muovere nella direzione opposta a quella che tale situazione richiederebbe). La seconda considerazione è che la manovra dei tassi di interesse è comunque di limitata efficacia di fronte a un attacco speculativo in atto; quando infatti la svalutazione di una moneta è attesa a brevissima scadenza, può risultare attraente speculare contro di essa anche in presenza di tassi d’interesse iperbolici, quali l’economia non potrebbe sopportare per più di poche settimane.

Caffè lodava spesso la saggezza dei costruttori del sistema di Bretton Woods, i quali avevano previsto la possibilità di imporre controlli sui movimenti di capitale. E ricordava con particolare approvazione quella clausola dello statuto del Fondo monetario internazionale (rimasta di fatto in vigore solo fino al 1961) che escludeva che un paese membro potesse ricorrere all’assistenza del Fondo allo scopo di fronteggiare un’ingente e prolungata fuga di capitali, e prevedeva inoltre che il paese membro potesse essere invitato ad adottare opportuni controlli, atti a impedire un tale uso dei mezzi valutari concessi (18).

Egli non ha potuto assistere al tentativo europeo di far convivere cambi fissi e totale libertà di movimento dei capitali: due termini che l’esperienza e la riflessione facevano ritenere antitetici, e che tali si sono rivelati. E non ha neppure potuto assistere al trionfo di una concezione della politica economica che rappresenta l’esatto contrario dell’intelligente pragmatismo: la concezione che suggerisce di fissare il tasso di cambio, asservire a esso la politica monetaria e attendere che l’intera realtà sociale, nella sua infinita complessità, si riassesti – non importa a quali costi – intorno a questo punto fermo. Ma non è difficile immaginare cosa ne avrebbe pensato.

Messaggi non ricevuti.

Fra le manifestazioni della vocazione sobriamente protezionistica (e accentuatamente anti-deflazionistica) di Caffè va ricordata la sua opposizione alla partecipazione dell’Italia al Mercato comune europeo nella seconda metà degli anni cinquanta (21). Non che fosse l’unico ad avanzare dubbi e perplessità al riguardo: dubbi e perplessità, com’egli stesso amava ricordare, erano anzi alquanto diffusi fra gli economisti (22).

Particolarmente degni di nota appaiono tuttavia i due pericoli che Caffè segnalava: quello del predominio economico della Germania e quello, conseguente al primo, dell’affermarsi a livello europeo di orientamenti di politica economica poco favorevoli al raggiungimento e al mantenimento nel tempo della piena occupazione. Così come non è senza significato che egli si dichiarasse favorevole alla Zona di libero scambio (proposta allora in alternativa al Mercato comune), al cui interno il peso economico della Germania avrebbe potuto essere controbilanciato da quello dell’Inghilterra e l’inclinazione deflazionistica della prima essere corretta dal prevalere nella seconda di correnti d’opinione e impostazioni di politica economica di derivazione keynesiana…

La preoccupazione che l’Europa nascesse sotto un segno deflazionistico ci rimanda alla preoccupazione per la nascita sotto lo stesso segno dell’Italia repubblicana, manifestata da Caffè in un articolo come Il mito della deflazione, pubblicato in forma anonima sulla rivista «Cronache sociali» nel 1949 (23).

Al grande equivoco del dopoguerra – la riscoperta in nome dell’antifascismo di un liberismo oltranzista – egli contrapponeva in questo notevolissimo articolo una solida formazione keynesiana, un pacato realismo e un’acuta consapevolezza che le occasioni di progresso sociale, una volta perdute, difficilmente si ripresentano…

Fra coloro che non davano segno di ricevere i suoi messaggi Caffè annoverava non solo le forze di governo, ma anche quelle di opposizione, e in particolare il Partito comunista, cui rimproverava la fede incrollabile nel primato della politica sull’economia e una cultura economica subalterna a quella dominante e impermeabile al keynesismo.

La sua critica assunse toni particolarmente accesi poco dopo la metà degli anni settanta, quando il Partito comunista, forte di poderosi successi elettorali, entrò a far parte di una vasta coalizione parlamentare che trovava il suo fragile cemento in un programma di stabilizzazione monetaria. Caffè sorrideva amaramente di quel programma e dei suoi presupposti teorici, come anche della generale approvazione con cui venivano accolte le terroristiche ingiunzioni del Fondo monetario internazionale (divenuto ormai, com’egli sottolineava, un organismo ben diverso da quello prefigurato dagli accordi di Bretton Woods).

Considerava un grave errore, da parte della sinistra, garantire il consenso a una politica deflazionistica. E parlava dei guasti economici e sociali che in questo modo si producevano e di quelli cui ci si asteneva dal porre rimedio, del dramma dei giovani senza lavoro, della disgregazione sociale del Mezzogiorno, delle speranze suscitate e destinate ad andare deluse.

La sinistra, soleva ripetere, cadeva in un errore simile a quello commesso nell’immediato dopoguerra, quando aveva preso parte a governi di coalizione caratterizzati sul piano economico in senso conservatore; con il risultato di consentire alle classi dominanti di rafforzarsi fino al punto di poter fare a meno di dividere con le sinistre il governo del paese.

5- Caffè, in particolare, sul “vincolo esterno” dei trattati ormai in applicazione e sulle evidenti storture che si erano già determinate proprio in fase applicativa.

“Se sono esatte le notizie riferite dalla stampa circa le “sollecitazioni” con le quali la Comunità economica europea avrebbe accompagnato l’accettazione del provvedimento italiano di un deposito provvisorio infruttifero, nella misura del 30%, su determinate importazioni o acquisti divaluta estera per specificati scopi, ci si trova di fronte a un comportamento che attesta con chiarezza come la cooperazione comunitaria si sia trasformata in esplicito rapporto di vassallaggio. 

Una espressione di indignazione morale di fronte a questo stato di cose lascerà del tutto indifferenti le autorità politiche del nostro paese, alle quali è verosimilmente da riferire l’origine prima di quelle “sollecitazioni”. 

Ma è bene che i giovani i quali seguono queste note e le considerano quasi una continuazione del colloquio nell’aula universitaria siano consapevoli che condizionamenti del genere venivano, in un passato alquanto remoto, imposti ad alcuni paesi (come l’Egitto, la Turchia, la Cina) in momenti in cui non erano in grado di far fronte agli impegni del loro indebitamento verso l’estero. 

Questi condizionamenti venivano designati come regime delle “capitolazioni” e la parola rende abbastanza bene l’idea.
Ma, prescindendo dagli aspetti etico-politici, sono quelli di carattere strettamente tecnico che vanno contestati punto per punto. 

In primo luogo (sono cose che giova ripetere) i trattati comunitari prevedono, in caso di comprovate difficoltà della bilancia dei pagamenti, “clausole di salvaguardia” che possono condurre anche alla temporanea reintroduzione di quote o contingenti alle importazioni

I paesi membri, vale a dire nel caso che ne ricorresse la necessità, potrebbero imporre misure restrittive più severe di quelle che si concretano con l’adozione di sovradazi, o l’imposizione di un deposito infruttifero 

Può essere discutibile se sia stato opportuno, a suo tempo, accettare provvedimenti restrittivi più blandi, ma non previsti dalle disposizioni comunitarie

In tesi generale, sembra preferibile attenersi alle carte statutarie, anziché tollerare prassi difformi (alle quali, in altre circostanze, hanno fatto ricorso anche paesi diversi dal nostro). 

Ma l’importante è di tenere presente che i paesi membri hanno “diritto” di far appello alle clausole di salvaguardia e che le autorità comunitarie avrebbero soltanto titolo a verificare se ricorrano o meno gli estremi che ne giustificano l’applicazione.
Detto questo, non si intende contestare alle autorità comunitarie di valutare i fattori di difficoltà della bilancia dei pagamenti italiana e di esprimere le loro raccomandazioni. Stupisce, tuttavia, che queste raccomandazioni siano la replica puntuale di interventi molto controversi nel dibattito economico che si svolge nel nostro paese (dalla “soluzione” del problema della scala mobile, al contenimento del disavanzo pubblico, dal “divorzio” tra il Tesoro e l’Istituto di emissione, alla predisposizione della copertura a fronte di nuove spese pubbliche, alla realizzazione di un accordo tra le parti sociali). Ancora una volta lasciando da parte i risvolti politici di simili raccomandazioni, vi è una tale sensazione di stantio, di ripetitivo, di carenza di originalità da lasciare perplessi sulle capacità di ispirazione di organi che hanno l’arduo compito di tracciare il disegno dell’armonizzazione delle politiche comunitarie.”

  1. Questo insieme di notazioni di Caffè, relative all’opportunità e alle modalità di adesione ad un’organizzazione internazionale che instauri un’area di libero scambio in Europa, ci porta a evidenziare alcuniaspetti “correttivi” di immediata priorità, resi ancor più attuali dalla vigenza della moneta unica.

Le linee di un riforma dei trattati sono dunque conseguenziali ai problemi evidenziati:

  1. a)evitare la rigida fissazione dei cambi internamente all’area(a fortiori, scartando la soluzione di una moneta unica), per non rendere la politica monetaria quella “variabile indipendente”, dal costo in termini di occupazione, che il mantenimento del cambio impone, deprimendo la domanda interna e, di conseguenza, gli investimenti e la capacità produttiva. Ogni Paese-membro deve poter svolgere la sua politica monetaria avendo di mira le esigenze di autonomo finanziamento delle proprie politiche volte al raggiungimento della piena occupazione, potendo contare sulla rispettiva Banca centrale come ente ausiliario e strumentale di tali politiche, secondo le rispettive previsioni costituzionali “fondamentali”.
  2. b)evitare un regime di indiscriminata libertà di movimento dei capitali interni all’area di libero scambio, cioè limitando all’aspetto daziario-doganale e dell’imposizione sul valore aggiunto (nel paese di effettivo acquisto dei beni e servizi scambiati), il regime essenziale dell’area.
  3. c)prevedere clausole che consentano, in caso di persistenti squilibri commerciali e di crescente indebitamento di uno Stato-membro con l’estero, l’adozione di misure che consistano, sul lato della domanda, in controlli e contingentamenti dei settori merceologici in cui siano ravvisate delle “strozzature“, cioè la persistente incapacità del settore nazionale interessato di produrre a prezzi competitivi e il crescente e irreversibile aggravamento della situazione di importazione, laddove tale strozzatura riguardi beni fortemente incidenti, per il loro valore aggiunto, sui conti nazionali.A ciò, sul lato dell’offerta, si devono poter accompagnare politiche pubbliche di investimento diretto e/o di incentivazione all’investimento, che evitino lo strutturarsi del modello squilibrato (e gerarchico) di specializzazione che si verifica in virtù del principio dei vantaggi comparati (qui, p.2).
  4. d)nella realtà applicativa, – come mostra il riferimento di Caffè al “regime della capitolazioni” e alle “sollecitazioni” che si sono accompagnate,de facto, già nella vigenza del trattato del 1957, alla “accettazione di provvedimenti restrittivi più blandi” rispetto a quelli normativamente previsti dalle “clausole di salvaguardia”-, ciò significa l’attenta calibratura delle norme che consentono gli interventi correttivi, in modo che siano lasciati alla autodeterminazione degli Stati in caso di squilibrio dei conti con l’estero, nonché in modo che eventuali organi “comunitari” abbiano un limitato potere di riscontro e “presa d’atto”, non esteso ad accentrare in termini discrezionali la decisione su tali politiche di “riequilibrio” (ed al fine di imporre pesanti “condizionalità” deflazionistiche).
  5. e) ciò implica anche che il regime dei “divieti di aiuto di Stato”, quale previsto dall’attuale trattato,sia sostanzialmente superato, chiarendo delle ampie e ragionevoli ipotesi di deroga, in un complesso di formulazioni che non si prestino, come le attuali, a disapplicazioni e discriminazioni incomprensibili e, spesso, tese a favorire il più “furbo” e il più forte.
  1. Naturalmente, non occorrerebbe ancora ribadire che le due linee di “uscita dalla crisi” qui suggerite, – cioè precisare, già in sede costituzionale, i limiti di legittimazione e dei modi di esercizio del potere di negoziare i trattati economici, nonché aderire a contenuti coerenti con tali limiti costituzionali – sono tra loro non separabili: la prima è il presupposto necessario della seconda. Non si può permettere, la già provata società italiana, (cioè il popolo detentore della sovranità), di correre ulteriori rischi per il proprio benessere e la propria democrazia, e di ritrovarsi, nuovamente, di fronte alfatto compiutodi negoziati il cui contenuto, nell’epoca del diritto internazionale privatizzato, sia lasciato a forze democraticamente incontrollabili.

Pubblicato da Quarantotto 14:00

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24 commenti:

  1. Anonimo 16 giugno 2017 00:23
  2. Caffè e l’Europa ma anche specificamente Caffè e l’euro.Nel suo manuale (Lezioni di politica economica, a cura di N. Acocella, Bollati Boringhieri, Torino, 1990) mette in guardia per ben tre volte contro l’ipotesi di una moneta unica europea. Eccovele:pagg. 110-11: “Il difficile cammino della integrazione europea viene reso più arduo sia dalla pretesa di anticipare gli eventi, prima che se ne siano stabilite le basi (ad esempio ‘la moneta europea’); sia dalla pretesa di non tener conto delle fasi congiunturali avverse, come se la Comunità fosse stata configurata soltanto in vista di periodi favorevoli.”;pagg. 298-99: parlando del gold standard: “In esso coesistevano varie e distinte monete (sterlina, dollaro, marco, franco ecc.), ma, attraverso il vincolo dei cambi fissi e sin quando fossero rispettate le “regole del gioco” necessarie per il buon funzionamento del gold standard (le regole, cioè, elencate a p. 294), si può dire che sostanzialmente la situazione era molto analoga a quella che comportasse l’esistenza di una moneta unica. Le singole economie nazionali dovevano adattarsi alle esigenze di uno standard monetario internazionale: questo assicurava la stabilità dei cambi; ma non la stabilità dei prezzi interni dei singoli paesi che dovevano adattarsi, come si è visto, per assicurare il riequilibrio delle bilance dei pagamenti.
    La stabilità dei cambi favoriva lo sviluppo degli scambi e degli investimenti internazionali; ma imponeva questo vincolo di adattabilità delle economie interne, adattabilità che molto di frequente si realizzava attraverso la disoccupazione e in genere la più o meno prolungata sottoutilizzazione delle risorse disponibili. E opportuno non perderlo di vista oggi che (in mutate condizioni) si prospettano possibilità di una “moneta unica” nell’ambito di aree integrate.
    ”;

    pag. 344: “Rispetto a questi problemi costituiscono ’’risposte fatue” quelle fornite dal moltiplicarsi di progetti di pretese soluzioni che sembrano non tener conto degli insegnamenti della storia (dalle proposte per la creazione di una “moneta europea”, alla possibilità che dovrebbe essere concessa ai cittadini di economie ritardatane di effettuare investimenti in valuta estera, all’attrattiva che continua a esercitare il ritorno al sistema aureo). Il carattere “fatuo” delle risposte non vuol dire, peraltro, che esse non siano rappresentative di giudizi di valore e di interessi sezionali chiaramente individuabili. A monte dei problemi tecnici considerati nel presente capitolo vi è una crisi irrisolta delle politiche economiche: la riaffermazione di un liberismo economico che spesso confonde la valorizzazione dell’iniziativa individuale con la salvaguardia a oltranza di posizioni privilegiate; l’offuscarsi della concezione di Stato garante del benessere sociale, che spesso si tende a valutare alla stregua di uno Stato acriticamente assistenziale (Caffè, 1982), la tendenza a riabilitare il mercato, trascurandone le inefficienze (vedi p. 50).”.

    Insomma, anche Caffè era fra “quelli che ce l’avevano detto”. Ovviamente, direi.

FONTE: https://orizzonte48.blogspot.com/2017/06/rivedere-i-trattati-il-vincolo-esterno.html?m=0

 

ANCHE REPUBBLICA SI ACCORGE CHE IL MES LIGHT NON E’ LIGHT PER NIENTE

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Dopo settimane in cui su Scenari vari autori continuano ad affermare che il MES, in qualsiasi forma , sia condizionale, cioè sottoponga l’Italia ad uno stretto controllo europeo, dopo che tre giorni fa abbiamo pubblicato, grazie al Sen. Bagnai un estratto di queste condizioni, anche Repubblica si rende conto che il MES “Light”, quello Sanitario, è CONDIZIONALE,

Prima di tutto il tasso di finanziamento è, come dice il giornale , solo leggermente inferiore a quello dei BTP; con la differenza che i BTP acquistati  dalla BCE e quindi girati alla Banca d’Italia sono a costo zero. Però il contratto che il tedesco Reigling ha “Preparato” per l’Italia prevede una serie di fregature, riportate a questo punto anche da Repubblica, che sono estremamente stringenti per l’Italia:

  • prima di tutto si richiederà l’applicazione del Fiscal Compact, quindi del cosiddetto “Two Pact” la parte più restrittiva dello stesso, come notato SETTIMANE FA da Luciano Barra Caracciolo;
  • viene  quindi richiesta una “Sorveglianza rafforzata” da parte del MES e della BCE.

Manca solo il FMI ed abbiamo la Troika al completo. A questo punto, dopo che lo ha capito anche Repubblica, rimangono solo PD, M5s e Forza Italia. Non lo capiscono solo perchè hanno tradito gli interessi degli italiani.

FONTE:https://scenarieconomici.it/anche-repubblica-si-accorge-che-il-mes-light-non-e-light-per-nie/

 

 

FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI

La coperta corta delle garanzie sulla liquidità

Il decreto liquidità del governo Conte inizia già a essere depotenziato: tra carenza di coperture, difficoltà negli stanziamenti diretti e garanzie cautelative la potenza di fuoco della manovra che stanzia, sulla carta, oltre 200 miliardi per coprire i prestiti alle imprese in una prima fase ne vedrà mobilitati una porzione ridotta.

Banca d’Italia ha espresso le sue più profonde perplessità sulla misura per bocca di Paolo Angelini, capo del dipartimento vigilanza bancaria e finanziaria della Banca d’Italia, che rispondendo a un quesito mosso dal senatore Andrea De Bertoldi, capogruppo di Fratelli d’Italia, nel corso di un’audizione alla commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema finanziario ha sottolineato le criticità evidenziate da Via Nazionale. Secondo Angelini, riporta Italia Oggi, la leva finanziaria che l’esecutivo ha messo in campo non è adatta a soddisfare un previsto fabbisogno di almeno 200 miliardi di euro: “Il miliardo di euro messo dal decreto a copertura degli interventi della Sace spa e del fondo di garanzia pmi, a cui si affianca un ulteriore miliardo preesistente in dotazione alla Sace, sono molto lontani dal coprire il plafond necessario per erogare la mole di finanziamenti” prevista dal decreto.

Il fabbisogno di prestiti stimato dalla Banca d’Italia è, a detta di Angelini, pari a 50 miliardi di euro per il periodo marzo-luglio 2020: la copertura pubblica è oggigiorno ben al di là dal garantirlo. Anche un’impresa performante e ben strutturata come Sace non può fare miracoli. La controllata della Cdp, che darà le garanzie per le imprese più grandi, è stata incaricata di gestire “Garanzia Italia”, il processo di copertura e assicurazione di finanziamenti e prestiti per un ammontare massimo di 200 miliardi di euro. Per le professionalità di cui dispone e per la sua esperienza come agenzia di credito all’export  Sace può arrivare a una leva notevole, circa venti a uno: in questo caso, dato il miliardo di dotazione, ciò significa che le aziende impegnate a esportare i propri prodotti potranno chieder garanzie fino a 20 miliardi alla partecipata di Cdp.

Il totale fa poco più di 25 miliardi di euro: in termini assoluti non una massa di risorse indifferente, ma di fronte alla marea montante della crisi economica le necessità reali sono molte di più. Parliamo di un ottavo dei 200 miliardi inizialmente annunciati e un sedicesimo dei 400 miliardi di euro che Conte prefissava come obiettivo finale. Servirebbe, come minimo, aumentare di una decina di miliardi le dotazioni di Sace per garantire, in linea teorica, il pieno assolvimento delle tabelle di marcia operative del gruppo. Al prezzo più che probabile di destabilizzare l’architettura operativa di un’azienda abituata a lavorare in maniera eccellente, ma su scala molto più bassa.

Quel che emerge, insomma, è una gran confusione. Se i calcoli di Banca d’Italia sono veri, il decreto liquidità ben presto potrebbe esser sorpassato dalla realtà dei fatti, da una mole di richieste per prestiti doppia rispetto alle capacità operativa. Svelando il trucco contabile di un’operazione a indebitamento prossimo allo zero e dall’incisività tutta da dimostrare.

FONTE:https://it.insideover.com/economia/la-coperta-corta-delle-garanzie-sulla-liquidita.html

 

 

 

GIUSTIZIA E NORME

Baldassarre: la Costituzione non si sospende per un’emergenza! E la Lega occupa il Parlamento

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VIDEO QUI: https://youtu.be/i3S8OUyV304 

Nel frattempo la Lega ha deciso di presidiare il Parlamento, per costringere il governo a dare risposte ai cittadini chiusi in casa, anche di notte :

FONTE:https://scenarieconomici.it/baldassarre-presidente-emerito-della-corte-costituzionale-la-costituzione-non-si-sospende-per-unemergenza/

 

 

 

 

IL FENOMENO DELLE FAKE NEWS E I RISVOLTI LEGALI

Cosa sono le Fake News? Ormai ognuno di noi ha sentito almeno una volta il termine “Fake News”, e prima di esaminare insieme le conseguenze giuridiche gravanti per coloro che le creano e le riportano, è opportuno rivedere l’etimologia di tale termine. Il termine inglese Fake News, letteralmente in italiano notizie false o quelle che noi chiamiamo comunemente “bufale”, fa riferimento ad articoli contenenti annunci fasulli, ingannevoli o contorti con lo scopo di disinformare o creare scandalo attraverso i mezzi di informazione.

Le notizie false e inventate sono sempre esistite, ma in un tempo attuale , dove Internet e i Social Network costituiscono i principali, se non quasi, gli unici canali di informazione e comunicazione con persone di ogni parte del mondo, divulgarle è diventato al quanto semplice.

Perchè la loro diffusioneLe motivazioni che spingono gli autori a diffondere notizie false, sono varie. Una prima motivazione, è sicuramente di carattere economico,  semplicemente, il lettore rapito dal titolo accattivante su temi scottanti , clicca  per leggere il contenuto della notizia  e quel clic genera traffico nel sito che ospita la notizia falsa, traffico di un sito che il più delle volte è monetizzato. Molti clic infatti significano molte visualizzazioni, una vera manna per gli sponsor che decidono di investire in pubblicità in quel sito.

Possono essere diffuse per altri motivi ancora, per pilotare l’opinione pubblica su questioni di carattere sociale o politico o per sferrare veri attacchi personali.

Sono quindi molteplici gli effetti negativi generati dalla divulgazione di fake news, dalla disinformazione, all’ingannevolezza e ancora a condurre il lettore in una condizione di perenne dubbio su ciò che legge, di non saper distinguere il falso dal vero.

Risvolti legali. Gli autori di fake news, non sono consapevoli forse che con la loro condotta, rischiano di essere chiamati a rispondere per la violazione di alcuni reati civili o penali, ovvero:

– Abuso della credulità popolare, art. 661 c.p.: “Chiunque, pubblicamente, cerca con qualsiasi impostura, anche gratuitamente, di abusare della credulità popolare è soggetto, se dal fatto può derivare un turbamento dell’ordine pubblico, alla sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 15.000.”  Per la configurabilità del reato sono necessari sia l’impostura, ossia un atteggiamento malizioso diretto ad ingannare e diretto allo scopo, sia l’abuso della credulità popolare, vale a dire l’approfittamento della corritività delle persone a prestare fede a fatti immaginari, derivante da mancanza di cultura, scarsa intelligenza, soggezione o inclinazione superstiziosa.

– Offesa della reputazione altrui, comma 3 art. 595 c.p.: “Se l’offesa è recata col mezzo della stampa [57-58bis] o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico [2699], la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.

Inoltre La Cass. pen. con la sentenza  n. 4873/2017 ha stabilito che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone e tuttavia non può dirsi posta in essere “col mezzo della stampa”, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso la sussistenza anche dell’aggravante di cui all’art. 13 della legge n. 47 del 1948).

– Concorrenza sleale, art. 2598 c.c.: compie atti di concorrenza sleale chiunque: (omissis) 2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinare il discredito o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente;  3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda “.

A sostegno, con la sentenza n. 22042 del 31 ottobre 2016, la Prima Sezione della Corte Suprema di Cassazione ha fissato dei punti di chiarezza circa il contenzioso avviato da una catena di supermercati gestiti da una grande cooperativa contro il patron di una concorrente catena di supermercati che aveva scritto un libro discusso per i suoi contenuti.

Tra i denunciati anche la casa editrice nonché un economista ed un giornalista, questi ultimi presunti colpevoli di averne redatto la prefazione e la postfazione. I giudici della Suprema Corte hanno stabilito che la diffusione di informazioni che arrecano discredito e pregiudizio ad un’azienda concorrente rientra pienamente nel legittimo esercizio del diritto di critica e non costituisce di per sé un atto di concorrenza sleale per denigrazione, qualora tali informazioni siano conformi al vero e non siano un mero strumento di offese ed invettive nei confronti del concorrente.

FONTE:http://www.salvisjuribus.it/il-fenomeno-delle-fake-news-e-i-risvolti-legali/

 

 

 

IMMIGRAZIONI

Navi italiane traghettano migranti da Lampedusa in Sicilia: poi in bus verso Nord

 

 

 

GLI IMMIGRATI SBARCATI RESPINTI TUTTI IN ITALIA DALLA GERMANIA

FONTE:https://voxnews.info/2020/04/30/gli-immigrati-sbarcati-respinti-tutti-in-italia-dalla-germania/

 

 

 

 

LA LINGUA SALVATA

Post-verità

post-verità s. f. Argomentazione, caratterizzata da un forte appello all’emotività, che basandosi su credenze diffuse e non su fatti verificati tende a essere accettata come veritiera, influenzando l’opinione pubblica.  Sarà verità sovversiva, dice Letta, e invece siamo tuttora immersi in quella che è stata chiamata – da quando Bush iniziò la guerra in Iraq – l’era della post-verità: degli eufemismi che imbelliscono i fatti, dei vocaboli contrari a quel che intendono. (Barbara Spinelli, Repubblica, 1° maggio 2013, p. 1, Prima pagina) • La terza notizia interessante è che la scelta del termine post-truth era stata compiuta già prima che i risultati delle elezioni americane fossero noti. È proprio la recente campagna elettorale statunitense a offrirci una collezione di elementi tale da restituire una vivida idea di quel che significa vivere ai tempi della post-verità. (Annamaria Testa, Internazionale.it, 22 novembre 2016, Opinioni) • [tit.] Post-verità? Nuova Inquisizione! (Beppegrillo.it, 30 dicembre 2016) • C’è un dibattito in corso nel Paese delle balle di Stato, quello di Ustica e del caso Moro per capirci, che ha del surreale. Fior di intellettuali, giornalisti, politici, magistrati e salumieri, con l’aiuto della suocera, discutono sul fatto che l’Italia sarebbe entrata nell’era della post-verità. (Tommaso Cerno, Espresso, 8 gennaio 2017, p. 9, Editoriale) • Vattimo, anche se nessuno lo dice, è il vero inventore, a livello di cultura mediatica, della post-verità. […] Solo che, ecco una bella differenza con gli attuali “utilizzatori finali” del termine, Vattimo dava un valore positivo e non negativo al fenomeno: abbandonare la verità, ovvero riconvertirla sotto forma retorica, era per lui un processo di emancipazione, liberazione, affrancamento da quei dispositivi di morte che erano in ultima analisi le “forme della verità” ereditate dalla grande tradizione della metafisica occidentale. (Corrado Ocone, Huffington Post, 9 gennaio 2017, Post).
Derivato dal s. f. verità con l’aggiunta del prefisso post-, sul modello dell’ingl. Post-Truth (in ingl. loc. agg.le, di solito riferita a politics ‘politica’), attestato per la prima volta nel 1992, secondo gli Oxford Dictionaries, in un articolo del drammaturgo serbo-americano Steve Tesich, comparso nella rivista «The Nation».

FONTE:http://ww

w.treccani.it/vocabolario/post-verita_res-65be68bc-89ea-11e8-a7cb-00271042e8d9_%28Neologismi%29/

 

 

 

LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI

ISTAT: DISOCCUPAZIONE REALE GIA’ AL 35,7 PER CENTO

Disoccupazione, a marzo scesa all’8,4%
A marzo, il tasso di disoccupazione è sceso all’8,4%, in calo di 0,9 punti su febbraio. Lo comunica l’Istat, sottolineando come sia cresciuta l’inattività e calata lievemente l’occupazione.

Nel primo mese di chiusura per l’emergenza Covid-19 sono diminuite dell’11,1% le persone in cerca di lavoro e aumentati
gli inattivi: +0,8% con tasso al 35,7%.

Disoccupati in diminuzione perché i disoccupati non cercano lavoro. Dove lo cerchi se sono tutti chiusi? I disoccupati reali sono gli inattivi.

FONTE:https://voxnews.info/2020/04/30/istat-disoccupazione-reale-gia-al-357-per-cento/

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

Le bugie volte a sabotare la cooperazione con la Russia contro il CoVID-19

John Helmer, Mosca, 7 aprile 2020

Alla fine della scorsa settimana i 193 Stati membri dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite (UNGA) concordavano all’unanimità una dichiarazione di “solidarietà ai Paesi in lotta alla pandemia” ed anche concordavano all’unanimità che “non c’è posto per alcuna forma di discriminazione, razzismo e xenofobia nella risposta alla pandemia”. Coll’opposizione esplicita di Ucraina, Georgia, Stati Uniti, Regno Unito e Unione europea, le Nazioni Unite non concordavano “sul rifiuto delle guerre commerciali e il ricorso a sanzioni unilaterali adottate in elusione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per garantire accesso urgente a cibo e medicine, oltre a contrastare la speculazione finanziaria su i beni essenziali “. Questo diceva una risoluzione redatta dalla Russia. Così il mondo decise che la guerra è un servizio essenziale e dovrebbe continuare senza blocco, quarantena, distanziamento sociale, lavaggio delle mani o restrizioni di alcun tipo. Il 23 marzo, il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres inviava una lettera all’ONU dichiarante “siamo forti solo col sistema sanitario più debole nel nostro mondo interconnesso”. Guterres “esortava inoltre i leader del G-20 a impegnarsi a vietare tariffe, contingenti o misure non tariffarie e ad eliminare le restrizioni al commercio transfrontaliero che incidono sul dispiegamento di attrezzature mediche, medicinali e altri beni essenziali per combattere l’epidemia. E incoraggio la rinuncia alle sanzioni imposte ai Paesi per garantire l’accesso a cibo, forniture sanitarie essenziali e supporto medico contro il COVID-19. Questo è il momento della solidarietà, non dell’esclusione”. In un appello parallelo ma separato, Guterres chiese “il cessate il fuoco globale immediato in tutto il mondo. È tempo di bloccare i conflitti armati e concentrarsi sulla vera lotta delle nostre vite. Alle parti in guerra dico: ritiratevi dalle ostilità. Mettete da parte sfiducia ed animosità. Silenziate i fucili; fermare l’artiglieria; ponete fine agli attacchi aerei. Questo è cruciale”.
Nella settimana seguente alle Nazioni Unite, a New York, il piano di risoluzione russo sostenne le misure di Guterres; Stati Uniti, Regno Unito ed UE si mobilitarono per bloccarne qualsiasi menzione nel voto finale. In base alla regola speciale dell’unanimità attualmente in vigore presso l’Assemblea Generale, non vi fu alcun voto ufficiale perché c’erano abbastanza obiezioni da impedire l’unanimità. La stampa di New York City affermò che la risoluzione russa era co-sponsorizzata da Repubblica Centrafricana, Cuba, Nicaragua e Venezuela. La missione russa presso le Nazioni Unite annunciò che c’erano altri 24 Stati per un totale di 28. La posizione della Cina sul progetto di risoluzione russo non fu riportata. Ma la lingua della risoluzione russa colpiva esplicitamente la propaganda anti-cinese spacciata dalla stampa nordamericana. “La nostra bozza contiene anche importanti disposizioni sull’accettabilità delle stigmatizzazioni di Stati, popoli e individui sulla pandemia e la necessità di far circolare solo informazioni affidabili e basate sulla scienza”. Anche il testo del progetto russo non fu pubblicato dal Ministero degli Esteri russo. Al contrario, emise una dichiarazione preliminare il 23 marzo. “In vista della diffusione mondiale dell’epidemia di coronavirus COVID-19”, il ministero dichiarò che “sollecita tutte le parti nei conflitti armati regionali a fermare immediatamente le ostilità, garantire un cessate il fuoco e introdurre una pausa umanitaria… Partiamo dal presupposto che questi sviluppi potrebbero portare a un disastro umanitario globale, dato che la maggior parte delle persone negli attuali focolai non ha accesso a medicinali e assistenza medica qualificata. Di particolare preoccupazione sono le situazioni in Afghanistan, Iraq, Yemen, Libia e Siria, nonché nei territori palestinesi, compresa la Striscia di Gaza. Notiamo separatamente i rischi associati al possibile deterioramento della situazione epidemiologica nei Paesi africani, dove esiste uno scontro armato persistente. Le località con campi per rifugiati e sfollati interni sono particolarmente vulnerabili. Il nostro appello è principalmente rivolto alle nazioni che usano illegalmente la forza militare al di fuori dei loro confini nazionali. Notiamo in particolare che le condizioni attuali non offrono alcuna giustificazione a misure unilaterali coercitive, comprese le restrizioni economiche, che sono un grave ostacolo agli sforzi delle autorità per proteggere la salute delle loro popolazioni”. Un comunicato stampa della missione russa delle Nazioni Unite, a seguito degli eventi del 2 aprile, dichiarò: “il nostro documento non è stato adottato per consenso. Ucraina, Georgia, Regno Unito, Stati Uniti e UE l’hanno impedito. Ci rammarichiamo che un gruppetto di Stati che difende la politica basata sulle sanzioni non abbia risposto all’appello del segretario generale delle Nazioni Unite e si sia rifiutato di mettere da parte approcci e interessi politicizzati. Di conseguenza, sarà molto più difficile dare una risposta globale e solidale alla minaccia della nuova pandemia. Un gran numero di persone, in primo luogo nei Paesi in via di sviluppo, potrebbero esserne colpito. Saremmo molto interessati a sentire e vedere per iscritto ragionamenti e argomenti per bloccare il nostro progetto di Dichiarazione da parte di UE, USA e Regno Unito. Saremo disposti e felici di risparmiare ed esentare Ucraina e Georgia da questo esercizio, poiché i loro argomenti, come sempre sprezzanti e politicizzati, non avranno alcun valore nella comprensione della maggior parte degli Stati membri”.
Per difendere l’esenzione della guerra dal fermare la pandemia di Covid-19, i media anglo-americani continuano a promuovere la narrativa della colpevolezza russa nell’abbattimento del MH17 nel luglio 2014, fabbricata dai governi di Stati Uniti e Paesi Bassi che ora impancano un processo ad Amsterdam; e il complotto per assassinare Sergej e Julija Skripal nel marzo 2018. Per una copertura completa del processo farsa sull’MH17, leggasi questo. Per la vera storia stgli Skripal e la loro prigionia nel Regno Unito, iniziate con questo libro. Questa settimana in Canada, Gorilla Radio presentava due dirette sui casi MH17 e Skripal, inserendole nel contesto della crisi del Covid-19. Per informazioni su come la Russia affronta il Covid-19 in modo diverso dai governi europeo e nordamericano, leggasi questo. Chris Cook pone le domande. Ascoltate l’intervista trasmessa qui tra il minuto 1:20 e le 27:00. A questo link è possibile ascoltare una trasmissione di un’ora sull’approccio russo al Covid-19. Gorilla Radio viene trasmesso ogni giovedì su CFUV 101.9 FM dall’Università di Victoria, British Columbia, Canada. La stazione radio può essere ascoltata qui. Le trascrizioni di Gorilla Radio sono anche pubblicate dalla Pacific Free Press e sul blog. Per l’archivio della trasmissione di Chris Cook, fare clic per aprire.

FONTE:http://aurorasito.altervista.org/?p=11573

 

 

POLITICA

BAGNAI: CONTE NON PUÒ DIRE “AVETE STATO VOI” A PERMETTERMI DI ABUSARE DEI MIEI POTERI

30 APRILE 2020

Alberto Bagnai interviene al Senato e confuta la “Difesa” legale di Conte. Il presidente del consiglio, messo in croce ormai da ogni presidente, attuale e precedente, della Corte Costituzionale con l’accusa di aver abusato del proprio potere con i Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, si è difeso affermando che il Decreto del 6 marzo, convertito a larga maggioranza dalle Camere gli dà quel diritto. In realtà Bagnai fa notare come quel decreto era stato votato per una chiusura limitata, quella della Zona Rossa di Codogno, non per comandare l’Italia in modo semi dittatoriale. Il potere fu dato per un uso limitato, non per abusarne.

VIDEO QUI: https://youtu.be/PGr3AG4va_s

FONTE:https://scenarieconomici.it/bagnai-conte-non-puo-dire-avete-stato-voi-a-permettermi-di-abusa-dei-miei-poteri/

I parlamentari leghisti hanno trascorso la notte fra i banchi di Camera e Senato per protestare contro i provvedimenti del governo e per la riapertura delle attività economiche. Salvini: “Siamo la voce degli italiani”.

Settantaquattro parlamentari leghisti hanno occupato le aule di Camera e Senato per protestare contro i provvedimenti del governo e l’apertura graduale che inizierà dal 4 maggio. Chiedono delle “risposte concrete” dal governo, sui dispositivi di protezione per la fase 2, sui provvedimenti di sostegno alle imprese e sulle casse integrazione che ancora molti lavoratori non hanno percepito.

​”Siamo la vostra voce”, ha detto Matteo Salvini da Palazzo Madama. “Tanti di voi ci hanno chiesto di rimanere in Parlamento fino a che dal governo non arriveranno risposte concrete agli italiani”. Le risposte che il leader leghista pone al governo riguardano la disponibilità di dispositivi sanitari, “soldi veri a commercianti e imprenditori, certezze per le famiglie coi figli a casa e le scuole chiuse, sospensione vera dei mutui, sostegno per affitti e bollette”. Si chiedono anche chiarimenti riguardo la scarcerazione dei boss mafiosi.

“Gli Italiani si sono dimostrati anche in emergenza un grande Popolo, adesso meritano fiducia e protezione. Noi ci siamo, stanotte fateci compagnia a distanza.#TorniamoLiberi”, ha scritto Salvini in un tweet.

​Il deputato Luca Toccalin, in un video pubblicato questa mattina sui social, ha annunciato che il primo maggio, festa dei Lavoratori, la Lega presenterà un piano per la ripartenza che riguarderà dei provvedimenti a sostegno di partite Iva e impresa.

La Lega ha dichiarato che l’occupazione durerà ad oltranza.

FONTE:https://it.sputniknews.com/politica/202004309032972-coronavirus-la-lega-occupa-il-parlamento-per-avere-risposte-concrete/

 

 

SCIENZE TECNOLOGIE

Quanto costa hackerare il tuo pc?

Un rapporto sui market del darknet mostra che bastano davvero pochi soldi per attaccare un computer, senza particolari competenze

Nell’immaginario collettivo i crimini informatici sono opera di persone molto esperte e qualificate. Se davvero fosse così (e spesso lo è) l’azione dei pirati del web presenterebbe un’imponente barriera all’ingresso, superabile solo dopo anni di studio e approfondimento della materia. Una ricerca condotta da CyberNews.com sembra ribaltare questa assunzione comunemente accettata, mostrando un forte processo di democratizzazione dell’uso degli strumenti di pirateria informatica.

Lo studio è stato finalizzato alla ricerca sul Darknet di forum per la compravendita di trojan, ransomware e simili, ovvero gli strumenti che comunemente usano i cybercriminali per bucare i sistemi di protezione dei computer domestici, aziendali e dei datacenter. I parametri scelti per l’indagine sono stati la difficoltà nel reperire simili strumenti ed il prezzo di vendita.

Nel rapporto si legge che quanto è stato trovato ha di gran lunga superato le aspettative, portando a concludere che non serve avere specifiche conoscenze tecniche né avere un budget da super ricchi per entrare nel mondo del crimine informatico.

Gli strumenti messi a disposizione sono davvero tanti e vari: si va dai trojan crittografati, che consentono di eludere gli antivirus più all’avanguardia, ai ransomware fatti su misura come una camicia sartoriale. Tutto è corredato da materiale che spiega per filo e per segno come si utilizza ciò che si è acquistato e, qualora qualcosa non fosse chiaro, si può ricorrere al “contact center” per le richieste di aiuto.

I prezzi analizzati in 10 diversi mercati del lato oscuro del web, come si accennava in precedenza, sono davvero convenienti. Con un esborso di soli 50-100 dollari, beninteso in Bitcoin, si può iniziare a operare con oggetti di buona qualità corredati da servizi che includono aggiornamenti futuri, proprio come se fosse un normale programma scaricato in rete.

Accanto alle soluzioni per i principianti, non meno pericolose delle altre ma certamente meno sofisticate, ce ne sono un mare di qualità superiore fatti da hacker famosi alla stregua dei migliori youtubers della scena internazionale. Questi hanno bacheche a cui è possibile accedere solo su invito, dietro presentazione di un membro già presente nel gruppo e sono accessibili solo tramite TOR.

Lo studio riporta che strumenti molto potenti, che danno agli hacker la possibilità di prendere il controllo di tutto il sistema di qualcuno, sono in vendita per un massimo di 1.000 dollari mentre i malware che includono bot modulari e trojan bancari, vanno da 400 a 5.000 dollari a seconda della raffinatezza del pacchetto. Le manie di grandezza dei market del crimine informatico, come quelle dei propri clienti, inoltre non sembrano avere confini, infatti sono a disposizione potenti trojan o ransomware acquistabili come abbonamenti di tv a pagamento.

I cybercriminali più apprezzati sembrano essere gli asiatici, anche se per ovvi motivi è difficile individuare chi ci sia davvero dietro la loro evanescente identità digitale. Facendo forza sulla debolezza legislativa in materia di repressione dei crimini informatici operati verso l’estero, gli hacker orientali trovano il terreno migliore per mettere in atto i loro propositi.

Rubare password, cookie, storia, dati della carta di credito, sessioni di chat e immagini da webcam non è dunque questione di abilità tecnica, ma di mera capacità di ricerca di quegli strumenti nell’oceano di internet e, se queste sono le facilitazioni disponibili, non bisogna essere certo esperti sub per immergervisi.

Lina Bernotaityte, direttrice di CyberNews.com, ha affermato in una recente intervista che gli utenti, oltre ad avere un buon anti-malware installato, possono difendersi con un’azione ancora più semplice: pensare prima di fare click. La maggior parte delle intrusioni infatti avviene con campagne di phishing e-mail o attraverso la visita di siti poco raccomandabili, quindi sta a noi scegliere se essere facili prede di questi loschi figuri o perdere qualche secondo in più quando dobbiamo fare click su qualcosa.

FONTE:https://www.infosec.news/2020/04/30/news/sicurezza-digitale/quanto-costa-hackerare-il-tuo-pc/

 

DEMOGRAFIA E RIVOLUZIONI

I primi mesi di convivenza con il 2020 risultano, per la maggior parte della popolazione mondiale, già molto complicati da affrontare. Tra tutti i problemi causati da questa iniziale conoscenza con il nuovo decennio, spicca sicuramente la diffusione del SARS-CoV-2, il virus che causa l’attuale pandemia di coronavirus provocando la conseguente malattia, conosciuta come Corona Virus Disease 2019 (COVID-19), anno in cui si è manifestata per la prima volta. L’evoluzione di tale pandemia è una reale minaccia nei confronti del nostro sistema sanitario ed economico, ma non è la sola sfida che il giovane anno in corso ha deciso di proporci. La sfida a cui mi riferisco è quella lanciata dalla demografia, più precisamente dalla variabile demografica della fecondità, al nostro sistema economico, che denominerò d’ora in avanti Economia di Crescita.

L’anno venturo si presenta, come sempre, a braccetto con il resoconto dei 365 giorni appena conclusi; l’11 febbraio infatti sono stati pubblicati i principali indici statistici italiani relativi al 2019 da parte dell’Istat. Come ho scritto prima, la variabile su cui mi voglio focalizzare è la fecondità, variabile che indica in particolare il numero medio di figli per donna, oltre che l’età media al parto. I dati recentemente resi pubblici ci dicono che nel 2019 il numero medio di figli per donna in Italia ha raggiunto il valore di 1,29.[1]

Nel 1968 era circa 2,5.

Possiamo osservare una corrispondenza anche in ottica europea, secondo i dati Eurostat nello stesso intervallo di tempo si è passati dal valore di 2,6 a quello di 1,6.[2] Questo trend sorprendentemente si prospetta altresì a livello globale. La Population Division dell’Onu, con la nota titolata “The end of high fertility is near” afferma che anche i paesi in via di sviluppo stanno attraversando una fase di transizione caratterizzata dal declino dei livelli di fertilità. Si prevede che entro il 2030 il 67% della popolazione mondiale vivrà in paesi con una fecondità che non raggiunge la soglia di sostituzione dei 2,1 figli per donna; nel 2010 era soltanto il 46 per cento.[3] Non bisogna essere esperti demografi per accorgersi di quanto i ritmi di incremento della popolazione mondiale vadano decadendo.

Alcuni studiosi, tra cui i colossi Wolfgang Lutz e Joergen Randers, ritengono che la popolazione umana si stabilizzerà a 8 miliardi attorno al 2040 e poi inizierà a calare. Un rapporto di Deutsche Bank stima invece un picco a 8,5 miliardi nel 2055 con un successivo calo a 8 miliardi entro la fine del secolo. Sono stime molto al ribasso rispetto a quella proposta dalle Nazioni Unite nel 2015, che immaginava un picco tra i 9.5 e i 13 miliardi, intorno al 2100.[4]

Le valutazioni così scostanti a distanza di pochi anni sono giustificate del legame a doppio filo tra demografia ed economia, legame che porta ad entrambe una certa dose di incertezza. Ma è proprio sul rapporto tra la storia della fertilità e quella dell’Economia di Crescita che voglio spingere questa riflessione. Uso il termine Economia di Crescita per definire la struttura economico-sociale umana, basata sul progresso e sulla fiducia nell’avvenire, che vide la luce circa 13.000 anni fa, come naturale effetto della Rivoluzione Agricola, ed è tutt’ora in vita. Consapevole delle critiche che potrebbero essere fatte a tale definizione, ho scelto comunque di utilizzarla per evidenziare la continuità storica dei processi economico-sociali che ritengo ad oggi minacciati nella loro sopravvivenza.

Per giustificare questa mia ipotesi ho bisogno di fare una brevissima panoramica della storia dell’uomo. Sappiamo che per più di due milioni di anni gli uomini si sono nutriti raccogliendo piante cresciute spontaneamente e cacciando animali selvatici, fin quando decisero, volontariamente, di dedicarsi completamente a coltivare ed allevare un esiguo numero di cereali e animali. Questa rivoluzione, che chiamiamo Rivoluzione Agricola, aumentò indubbiamente la quantità di cibo disponibile, ma ciò non rese affatto l’esistenza più comoda. Una dieta basata sulla coltivazione di pochi cereali era carente di vitamine ed era troppo scarsa per i bisogni di un animale onnivoro come l’uomo; inoltre, in seguito alla strutturazione dei primi villaggi, aumentò decisamente il numero dei conflitti a causa delle riserve accumulate di cibo, bottino difficile da resistere per i nemici.

Sicuramente la vita nei primi insediamenti portò all’uomo alcuni benefici immediati, come la protezione dalle intemperie e dagli attacchi degli animali feroci, ma per il singolo gli svantaggi superavano i vantaggi. Quale fu allora la conseguenza per meritarsi il battesimo di rivoluzione? Individualmente il cambiamento fu pressoché impercettibile, ma per la specie il privilegio fu evidente: disporre di più cibo per unità di territorio permise di moltiplicarsi in maniera esponenziale.[5] Gli umani, come molti mammiferi, posseggono meccanismi ormonali e genetici che contribuiscono al controllo della procreazione, nei periodi più grami la fertilità diminuisce, allo stesso modo nei periodi di abbondanza essa aumenta.

Con l’incremento delle provviste di cibo, cominciò conseguentemente a crescere la popolazione, ma le bocche in più da sfamare esaurivano in fretta le scorte di cibo; occorreva coltivare altri campi. Si comprese che lavorando più duramente i raccolti sarebbero stati più abbondanti, e creare scorte per superare i periodi di magra voleva dire favorire la vita delle generazioni future. I primi agricoltori che compirono questo sforzo mentale si privarono così di alcuni piaceri immediati, confidando nel fatto che, grazie al loro oneroso sacrificio nei campi, le risorse disponibili in futuro sarebbero state esponenzialmente maggiori.

In questo modo nacque il sistema basato sulla crescita, colonna portante, come si evince dal nome, di quella che chiamo Economia di Crescita. Per gran parte del corso della storia tuttavia la crescita economica era data quasi unicamente dalla crescita demografica, la produzione pro-capite di fatto rimaneva tendenzialmente la stessa. Solo 500 anni fa, con lo sbocciare di un’altra importante rivoluzione, la Rivoluzione Scientifica, ha inizio la seconda fase dell’Economia di Crescita. Caratteristica principale di questa seconda fase fu la comparsa del concetto di progresso; quest’ultimo a sua volta originò un sistema basato sulla rappresentanza di beni immaginari, che ancora non esistono, attraverso una particolare forma di denaro, il “credito”.[6] Invero chiunque creda nel progresso crederà, allo stesso modo, che le invenzioni future possano incrementare, con quasi totale certezza, le risorse, la produzione e, conseguentemente, la ricchezza. Questa fede nella capacità intellettuale e inventiva umana sta alla base della critica più illustre alle teorie malthusiane, quella di Ralph Waldo Emerson, che recitava:

«Malthus, affermando che le bocche si moltiplicano geometricamente e il cibo solo aritmeticamente, dimenticò che la mente umana era anch’essa un fattore nell’economia politica, e che i crescenti bisogni della società sarebbero stati soddisfatti da un crescente potere di invenzione».[7]

La fiducia nel futuro passò in modo così facile da essere un semplice stimolo per il lavoro, e quindi per la crescita economica e demografica, ad essere il vero e proprio motore di tale crescita, diventando materialmente merce di scambio alternativa e complementare al denaro. Il credito ci consente di costruire il presente a spese del futuro, esso si fonda infatti sul presupposto che le nostre risorse future saranno maggiori rispetto a quelle presenti e grazie a questa peculiare caratteristica permise un incremento esponenziale della crescita economica.

Il binomio progresso-credito continua ad essere il principale autore della storia contemporanea, anche se alle volte non ama il lieto fine; ricordo che la crisi economia del 2008 è scoppiata a seguito di una cattiva gestione del credito per mutui subprime, cioè prestiti ad alto rischio finanziario da parte degli istituti di credito in favore di clienti a forte rischio. Un altro esempio di mala gestione del credito è evidenziato dall’incremento spropositato del conseguente debito studentesco negli Stati Uniti, quintuplicato di dimensioni dal 2004 ha raggiunto la cifra di 1.5 trilioni di dollari[8], superando così il debito pubblico di gran parte degli stati del mondo e attestandosi come uno dei punti cardine su cui fare leva nelle prossime elezioni presidenziali.

Concludendo l’excursus storico e tenendo alla mente, come accennavo prima, il fatto che l’essere umano possiede meccanismi inconsci di controllo sulla procreazione, possiamo affermare che la tendenza a mettere al mondo meno figli possa essere indotta dalla consapevolezza che ad oggi ci troviamo nell’epoca materiale più ricca della storia ma, contemporaneamente, in quella con la prospettiva di un futuro sempre più instabile ed imprevedibile.

Inizia allora, forse, a tremare la fiducia nel progresso, e questo potrebbe giustificare i dati riportati in principio dalle principali agenzie di analisi statistiche. Le teorie malthusiane vengono in questo modo contrastate non da un aumento, come prospettava Emerson, della capacità di invenzione umana, ma da un naturale rallentamento demografico destinato a raggiungere la stabilità entro la fine del secolo.

La fiducia utopica nel futuro, intesa come ideologia del progresso, è stata ampiamente analizzata dalla scienza politica nell’ambito dello studio delle ideologie. Otto Brunner per esempio affermava che le tre maggiori ideologie a lui contemporanee: liberali, socialiste e conservatrici, sono in realtà una forma di utopia perché fondamentalmente legate all’idea di progresso.[9] Un pensiero ancora più illuminante, dal mio punto di vista, è quello di Gianfranco Miglio. Miglio, nella sua visione pessimista delle ideologie, definiva l’ideologia del progresso come la marcia che tiene insieme tutte le altre realtà, al fine di legittimare l’esistente e negare così la realtà politica effettiva.[10]

Questi giudizi in apparenza catastrofici, che fino ad ora sono stati considerati semplici costrutti teorici che difficilmente si sarebbero visti riflessi nella realtà, iniziano ad allarmare una vasta porzione dell’opinione pubblica. Di fatto, nei paesi con sistemi di welfare molto sviluppati ed onerosi, a seguito dell’evidente calo della natalità, le élite politiche, preoccupate di non riuscire ad equilibrare il numero sempre maggiore di popolazione in età di pensionamento con un numero sufficiente di nuovi lavoratori, tentano di stimolare i cittadini a pareggiare la bilancia, spingendoli a mettere alla luce più figli attraverso riforme economiche e sociali volte a favorire le famiglie più numerose.

Simili riforme, spesso inefficaci, evidenziano l’instabilità di un Welfare State basato su una struttura piramidale, via via più pericolante con il passare del tempo e, in prospettiva, sempre più somigliante ad un grosso sistema Ponzi. La difficoltà nella gestione di tali strutture è giustificata anche dalla dipendenza da parte dello Stato nei confronti di alcuni indici ideati per misurare la salute economica nazionale, ma che ormai riflettono una realtà distorta. Primo in classifica risulta il PIL, quella cifra che rappresenta il valore dei beni e servizi prodotti in un determinato lasso di tempo e in un determinato spazio, tendenzialmente calcolato all’interno dei confini di uno Stato durante un anno solare, in base al quale si continuano a decidere politiche, spese, tagli ed investimenti. L’incremento del PIL continua troppo spesso ad essere associato al benessere della popolazione, quando è chiaro che è ormai soltanto uno dell’insieme vastissimo di indici che vanno considerati; di questo però ci aveva già avvertiti, nel suo primo rapporto al Congresso degli Stati Uniti nel 1934, Simon Kuznets, Nobel per l’economia nel 1971 e inventore dello stesso indice.[11]

Troppo spesso viene ancora utilizzato l’ossimoro della crescita sostenibile, quando è evidente che il sistema basato sulla crescita dovrà inevitabilmente essere abbandonato, per essere poi completamente sostituito da qualcosa di radicalmente diverso, un nuovo sistema basato sul mantenimento delle risorse e quindi sulla sostenibilità di lungo periodo.Si staglia all’orizzonte un’unica opportunità da cogliere: realizzare l’inesorabilità di questo mutamento ed adattarsi gradualmente a livello globale per renderlo il meno doloroso possibile.

Se l’uomo fosse infatti inconsciamente riuscito ad evadere il giogo della crescita, principiando una possibile Rivoluzione Demografica, questa si rivelerebbe potenzialmente essere la prima concreta minaccia alla sopravvivenza di quella che ho definito Economia di Crescita, mettendo fine ad un processo iniziato, grazie a un’altra rivoluzione, più di 10.000 anni fa. Marx affermava, agli albori del 1848, che la caduta del sistema produttivo capitalista potesse essere raggiunta soltanto attraverso il rovesciamento violento di tutto l’ordinamento sociale finora esistente, attraverso, cioè, una rivoluzione.[12]

Forse, aveva ragione

 

NOTE:

[1] Istat, Indicatori Demografici anno 2019, 11 Febbraio 2020. Reperibile al link: https://www.istat.it/it/archivio/238454

 [2] Eurostat, Demographic Statistics. Reperibile al link: https://data.worldbank.org/indicator/SP.DYN.TFRT.IN?locations=EU

 [3] United Nations Departement of Economic and Social Affairs, Population Division, October 2017, No. 2017/3. Reperibile al link: https://population.un.org/wpp/Publications/Files/PopFacts_2017-3_The-end-of-high-fertility.pdf

 [4] E. Commelli, Quanti saremo sulla Terra?, Il Sole 24 Ore, 14 Marzo 2019. Reperibile al link: https://www.ilsole24ore.com/art/quanti-saremo-terra-l-onu-11-miliardi-2100-demografi-critici-massimo-9-miliardi–ABUUy5dB

[5] Y.N. Harari, Sapiens, tr. It. G. Bernardi, Bompiani 2014, pp. 105-131

[6]  ivi, pp. 379-414

[7] T.D. Birch, The Economic Thought of Ralph Waldo Emerson, The New England Quarterly, 1995

[8] The Economist, Leaders, Getting the Maths Rights, 20 Febbraio 2020. Reperibile al link: https://www.economist.com/leaders/2020/02/20/how-the-next-president-should-fix-americas-student-loan-problem

 [9] O. Brunner, Die Zeitalter der Ideologien. Anfang und Ende, 1954, tr. it. P. Schiera, Milano 2000, pp. 217-240

[10] G. Miglio, Lezioni di politica vol. I., Bologna, Il Mulino 2011, pp. 345-346.

[11] S. Kuznets, National Income 1929-32, 1934

[12] K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Londra, 21 Febbraio 1848

FONTE:https://www.sovrapposizioni.com/blog/demografia-capitalismo-e-rivoluzioni

 

 

 

STORIA

“Quando non eravamo ancora una colonia: viaggio nel passato neanche tanto remoto”

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In questi giorni di arresti domiciliari, causa covid-19, mi sono posto una domanda: come avrebbe affrontato l’emergenza l’Italia degli anni “70?

Ho cercato di darmi una risposta tralasciando l’aspetto sanitario, poiché il progresso della medicina in mezzo secolo ha dell’incredibile. Pertanto, mi limiterò a considerare solamente i risvolti economici del problema.

Più precisamente mi chiedo: cosa avrebbero fatto i governanti dell’epoca per rilanciare l’economia, dopo circa due mesi di paralisi quasi totale di tutte le attività produttive?

E’ giusto il caso di ricordare che negli anni “70 la nostra nazione aveva il tasso di crescita economica tra i più elevati di tutto l’occidente e questo crescita si avviò sin dal lontano 1948.

E, camminando nel tempo, come un novello Marty McFly, approdo nel 1979 anno particolarmente emblematico di quel periodo. Infatti, il 4 luglio 1979, il Governo Andreotti decise di mandare la nostra nave ammiraglia, la Vittorio Veneto, assieme all’incrociatore Andrea Doria ed alla nave appoggio Stromboli nel Mar Cinese, per salvare i profughi che scappavano dal Vietnam del Sud, caduto sotto il controllo del regime comunista di Hanoi. Due incrociatori formidabili per armamento e dimensioni che venivano inviati nel Golfo del Siam, salpando da Taranto, per salvare la vita di quelli che vennero appellati “ boat people”.
Non c’erano le odierne ONG, purtroppo o per fortuna, ma tanti poveri cristi veramente scappavano dalla guerra e dalla morte certa e non erano migranti economici.

Comunque, fummo l’unico paese occidentale ad avere pietosa sensibilità verso quegli esseri umani. Anche allora come oggi tutti in Europa parlavano, straparlavano, ma nessuno faceva niente e tanti sventurati perivano in mare di stenti o perché vittime dei pirati locali.

L’Italia, con quella missione umanitaria, salvò quasi mille persone, delle quali circa duecento erano bambini. Le navi, al ritorno in patria, avevano percorso più di 5000 miglia e perlustrato una zona di 250.000 km2. Di più non poterono fare. Questo è un comportamento da nazione sovrana, un atto di grande umanità, che ci rese orgogliosi di essere italiani, poiché né la Francia, né la Gran Bretagna, né gli USA avevano osato tanto.

Pensate che oggi sarebbe possibile una simile impresa?

Con i tagli al bilancio della difesa, nessuna nave di quelle dimensioni potrebbe lasciare il porto di Taranto. Qualora ne uscisse qualcuna in mare aperto, tutte le altre unità dovrebbero restare attraccate alle banchine per mancanza di carburante. In ogni caso, anche permettendolo il carburante, dovremmo prima accertarci di cosa ne pensasse l’U.E., rispettare il semestre europeo, quindi il commissario europeo per la gestione delle crisi ed infine chiedere l’intervento di auguri, aruspici e vaticini per sapere come i mercati internazionali interpreterebbero l’impresa. Lo spread scenderebbe o salirebbe? Chissà! In buona sostanza, oggi il Parlamento italiano non conta più un c***o ( mi sia consentito il francesismo di maniera) e con esso il popolo sovrano che lo ha eletto.

Posta così la cosa, desta anche una certa ilarità, ma invece deve farci riflettere profondamente sullo stato di sudditanza in cui siamo lentamente ed inesorabilmente precipitati. Attualmente siamo diventati un popolo affetto da dipendenza cognitiva e da occupazione delle coscienze, ormai dimentico del suo glorioso passato, senza più progetti, senza più ambizioni, intento solamente ad arrivare a fine mese.

Ma torniamo all’aspetto economico. Nel 1979, se si fosse ravvisata la necessità di dare impulso alla domanda interna, modo elegante per dire che bisognava dare soldi alle famiglie ed alle imprese, il Ministro del Tesoro avrebbe fatto acquistare alla Banca d’Italia titoli del debito pubblico. Gli interessi di collocamento dei titoli sarebbero stati stabiliti dallo stesso Ministro con proprio decreto. Acquisita poi la liquidità necessaria con questa operazione, che in macroeconomia si chiama monetizzazione del debito, tale liquidità sarebbe stata immessa nell’economia reale mediante la spesa pubblica: pagamento di salari, stipendi, commesse e appalti. Lo spread? Semplicemente non esisteva e non poteva esistere, poiché i titoli di debito erano definiti in valuta italiana e non straniera e nessuno stato che si indebita con la propria valuta può fallire. Ma vi è di più. La Banca centrale, ovverosia la Banca d’Italia, apparteneva veramente allo stato italiano, poiché le banche, che detenevano le sue quote, erano proprietà dell’IRI e quindi dello stato e quindi del popolo italiano. Altro che Q.E. ( alleggerimento quantitativo) della BCE, meccanismo perverso che porta soldi solamente alle banche ed alla finanza speculativa e non certo all’economia reale, quella contenuta nel “confine della produzione”, secondo Adam Smith!

Ovviamente il Governo del tempo avrebbe potuto fare anche un’altra scelta, quale quella di emettere biglietti di stato, come la famosa 500 lire di carta. In questo caso l’emissione di biglietti di stato, essendo moneta positiva, avrebbe avuto sul bilancio italiano l’effetto di un aumento delle entrate e quindi di una diminuzione del debito pubblico. Agli scettici conviene ricordare che il corso legale di una moneta è conferito dallo stato, che la ritiene unico strumento possibile per pagare tasse, imposte e tributi, e non certo dalla Banca Centrale. Essendo moneta fiat, era il lavoro degli italiani che dava valore a quei biglietti e non viceversa, come avviene oggi che è la moneta a dar valore al lavoro, essendo quest’ultimo divenuto una merce.

Queste “antiche possibilità” per i marginalisti nostrani, per i monetaristi de “no antri”, per gli “eurofili ortodossi” equivalgono a blasfemie. Per costoro quelli erano tempi bui: c’era l’inflazione al 15%, ma la disoccupazione era al di sotto del 6%. Ora marciamo verso il sole dell’avvenire, siamo tornati alla mitica età dell’oro e latte e miele sgorgano dappertutto, per cui l’inflazione non arriva al 2%, eppure la disoccupazione è al 13%. Misteri della curva di Phillips, valla a capì…!!!

Allora, con la nostra liretta avevamo la piena occupazione, mandavamo satelliti nello spazio dopo Russia e USA, per primi al mondo costruivamo centrali nucleari per uso civile e la nostra flotta partiva per salvare profughi nel Mar Cinese; oggi con il grande euro ed inflazione bassa o nulla, crollano i ponti, le infrastrutture costruite nei lontani anni ‘70 sono in decadenza, siamo diventati gli accattoni d’Europa e non siamo in grado di salvare neanche noi stessi.

Questa è la terribile differenza tra il 1979 ed oggi: allora eravamo uno stato sovrano ed avevamo una libertà di scelta, oggi per seguire un progetto distopico, pieno di aporie e che non ci porta da nessuna parte, siamo una colonia in balia degli interessi stranieri.

A quando un italico “ tea party”!

FONTE:https://scenarieconomici.it/quando-non-eravamo-ancora-una-colonia-viaggio-nel-passato-neanche-tanto-remoto-di-r-salomone-megna/

 

 

 

 

Noi, sopravvissuti alla bomba atomica
RACCONTI DELL’ERA ATOMICAPARTE 3
Testo Pierpaolo Mittica
Video Alessandro TeseiPierpaolo Mittica
Foto Alessandro Tesei

Hiroshima è un nome che non si dimentica. Un nome entrato nella storia a causa di uno degli eventi più tragici che l’umanità abbia mai vissuto: l’uso di un ordigno nucleare contro la popolazione civile. Il 6 agosto 1945 gli Stati Uniti, per cercare di piegare la resistenza del Giappone e porre fine alla seconda guerra mondiale, decisero di utilizzare la prima bomba atomica, soprannominata “little boy”, e sviluppata nei laboratori di Los Alamos. La scelta dell’obiettivo ricadde sulla città di Hiroshima, situata a sud del Giappone e con una popolazione di 255mila abitanti.

Lui quel giorno c’era. Il 6 agosto 1945 Kunihiko Bonkohara era a Hiroshima, dove viveva insieme alla sua famiglia. Quel giorno sua madre e sua sorella non tornarono a casa perché furono inghiottite dall’esplosione. “All’epoca avevo cinque anni. Vivevamo in quattro in famiglia: mio padre, mia madre e mia sorella più grande”, ricorda Kunihiko Bonkohara. “Abitavamo a due chilometri dal centro della città. Quel giorno di agosto, prima delle otto di mattina, mia sorella era andata alla scuola superiore, e mia madre andò in centro. All’improvviso arrivò una luce accecante.

VIDEO QUI: https://youtu.be/ebyIpkRDbAc

Mio padre subito mi spinse sotto la scrivania e mi coprì con il suo corpo. In quel momento ci avvolse il tuono di una esplosione e, a seguire, un vento fortissimo. La casa tremava, le finestre e la porta furono distrutte. Tutti i mobili caddero per terra, il tetto volò via. Quando la polvere si depositò, mio padre si alzò e mi tirò fuori da sotto gli oggetti che ricoprivano la scrivania. Vedevo la schiena di mio padre che sanguinava tantissimo e diventava rossa.

Nelle mie braccia e nelle mie gambe c’erano conficcati vetri ovunque. Subito dopo con mio padre ci recammo al fiume Teman per lavarci. In quel momento la città di Hiroshima era avvolta dalle fiamme, il fumo aumentava e il cielo diventava nero. E dal cielo iniziò a cadere una pioggia nera. Iniziai a vedere tante persone vagare tra le macerie con le braccia piegate, con i capelli e la pelle bruciati. I loro volti erano arrossati, quasi diventati neri. Indimenticabile la vista del fiume dal ponte ‘Aisho’ i cadaveri portati via dalle onde giacevano… Non so come dire, se esistesse una parola…direi…l’inferno…”.

La mattina dopo il padre di Kunihiko Bonkohara andò a cercare la moglie e la figlia tra le macerie della città spazzata via dall’onda d’urto della bomba, rovesciando i cadaveri bruciati che trovava per strada. Non le trovò mai. Purtroppo la sorella e la mamma di Kunihiko Bonkohara fanno parte di quelle 80 mila persone che la bomba di Hiroshima si portò via all’istante. Kunihiko Bonkohara è sopravvissuto alla bomba atomica di Hiroshima ed è uno di quei pochi “hibakusha”, letteralmente “coloro che sono stati colpiti dal bombardamento”, ancora vivi e che possono raccontare quei tragici momenti.

Rsaybaev Koksubai Umurtaevich ha visto e sentito centinaia di esplosioni. “Ovunque volgessi lo sguardo, ovunque girassi gli occhi potevo scorgere i funghi generati dalle detonazioni”, ci racconta Rsaybaev Koksubai Umurtaevich, sprofondato nel suo divano. “Di questi ordigni terrificanti la gente ha cominciato ad accusare la situazione, ad ammalarsi, a svegliarsi ogni giorno con gli occhi rossi come dopo notti trascorse insonni…

Uno stato d’animo che influiva sulla vita delle persone. Un’arma mostruosa puntata sul nostro popolo, che ha generato un disastro nei confronti di tutte le popolazioni residenti nella regione di Semipalatinsk: tutti esposti a questa terribile contaminazione. Questo era il modo in cui venivano condotti i test sperimentali, ogni anno sempre più intensi, ogni anno sempre più forti. Dopo il 1956 le esplosioni si sono talmente intensificate da ricoprire l’intero territorio di polvere bianca, persino il grano ne era completamente cosparso.

Erano esplosioni di diverso tipo, quasi delle ondate. Capitava, a volte, che non ci trovassimo in casa e fossimo costretti a trovare riparo da qualche parte, magari di là dal fiume, finché non ci davano il segnale di via libera. Le finestre di tantissime case esplodevano, la gente era esasperata e un odore terribile pervadeva le strade del Paese. La contaminazione ha colpito tutti. Basta visitare il cimitero accanto per rendersene conto. Quando mi sono trasferito qui non ospitava neppure una tomba, e il camposanto più vicino, peraltro di piccole dimensioni, si trovava a 14 chilometri di distanza.

Eppure guardate adesso… Il fatto più significativo è che si tratta soprattutto di giovani, tutti coloro che abbiamo perso nell’ultimo anno non avevano più di quarant’anni.

 

FONTE:https://it.insideover.com/reportage/societa/racconti-dellera-atomica/noi-sopravvissuti-alla-bomba-atomica.html

“Queste sono case della morte”: storia del nazismo finlandese

Stalker Zone, 21 aprile 2020

“Anche i bambini di sette o otto anni sono imprigionati in una cella per il fatto che loro, affamati e pigati, camminano in città e chiedono pane… Nel tentativo di scappare, tre prigionieri… sono stati picchiati a morte…”, questa la testimonianza di prigionieri in un campo di concentramento, nel 1942. E non è un campo tedesco, ma finlandese. RIA Novosti, nell’ambito del progetto “Senza uno statuto di limitazioni”, pubblica le prove dei crimini di guerra dei fascisti finlandesi commessi contro inermi cittadini sovietici, declassificati dall’amministrazione regionale dell’FSB di Karelija e trasmessi all’Archivio Nazionale della Karelija.

Nazismo alla finlandese
Un quarto della popolazione della Karelija negli anni della Grande Guerra Patriottica finì nei campi di concentramento finlandesi, dove i prigionieri erano considerati “schiavi senza diritti”, così il maresciallo Carl Gustaf Mannerheim parlava di russi, careliani, tatari e altri abitanti locali. I lavori forzati e la fame uccisero migliaia di persone e i territori occupati furono sotto un regime nazista. “A differenza dei finlandesi, careliani e vepsiani, a ogni russo viene ordinato di indossare una benda rossa sulla manica sinistra. Lui e gente di altre nazionalità, tatari, georgiani e altri, ricevono metà del cibo”, dice un’altra citazione dagli archivi declassificati. Nella repubblica socialista sovietica karelo-finlandese occupata nel 1941-1944, i finlandesi costruirono 14 campi di concentramento (sei a Petrozavodsk). Nell’aprile 1942 c’erano circa 24000 persone, il 30% della popolazione. Questi erano principalmente slavi e oltre il 90%- russi, bielorussi e ucraini. Gli storici stimano che circa 50000 persone finirono nei campi.

Il dottore colpì, il malato morì
“Il campo introdusse la disciplina della frusta, per le minime violazioni del regime i prigionieri del campo venivano picchiati con bastoni e manganelli”, testimonia Egor Petrovich Egorov, fuggito dalla detenzione nel maggio 1942. “Britkin, detenuto nel campo, fu inviato alla stazione di disboscamento di Kutizhmu, dove si ammalò e andò dal medico per chiedere aiuto, ma invece di aiutarlo, questo dottore picchiò Britkin. Il paziente fu rimandato al campo di concentramento, dove morì una settimana dopo. Ivan Ivanov fu picchiato all’incoscienza dallo stesso medico”, recita la testimonianza di un altro prigioniero, l’insegnante Pavel Filippovich Jakimets. Dà i nomi dei torturatori: comandante del campo di concentramento n. 2 a Petrozavodsk Valentin Miks e la guardia Pauli. Circa un terzo dei prigionieri morì di fame. Secondo gli esperti della Carelia, i finlandesi uccisero persone inermi, creando artificialmente la fame e non fornendo assistenza medica. Consideravano careli, ingermani, vepsiani, estoni e mordoviani “popoli affini”. Il resto, principalmente russi, popolazioni “non nazionali”. “I finlandesi bianchi [valkoiset] misero donne insieme a bambini e vecchi in case apposite alla periferia della città e circondate da filo spinato. Queste erano le case della morte. In tutti i campi c’era fame e tifo”, ricorda un residente di Petrozavodsk.

Se si aiutava il governo sovietico, c’era la pena di morte
Le persone venivano gettate nei campi al minimo pretesto, prima di tutto, per il sospetto di simpatizzare col potere sovietico. Quindi, i documenti descrivono la storia della famiglia Babushkin del villaggio di Ustreka, mandata dietro il filo spinato semplicemente per una voce secondo cui avrebbero aiutato i partigiani, anche se, secondo le prove degli altri abitanti del villaggio, non fu così. Durante l’interrogatorio Pelageja Stepanova Barantseva riferì di essere stata mandata nel campo nel novembre 1942 per il fatto che suo marito comandava un’unità partigiana, “che venne a casa nostra dandogli rifugio”. Chi combatteva gli occupanti fu ucciso, in conformità con una direttiva diretta di Mannerheim dal suo “Appello alla popolazione careliana”. “La minima assistenza fornita alle truppe sovietiche dai civili è considerata spionaggio e le loro azioni armate … – attacchi per rapina. Tutte le persone colpevoli in entrambi i casi sono punibili con la morte”, si legge in un estratto del certificato archivistico coll’allegato della traduzione dello stesso ” Appello” di Mannerheim. La direttiva fu rigorosamente attuata, seguita dal tenente colonnello Väino Kotilainen che, secondo gli storici, e non fu mai processato per i suoi crimini. Ci sono molti esempi negli articoli declassificati. I nazisti finlandesi affrontarono comunisti e Komsomol con particolare crudeltà. Così, nel distretto di Zaonezhskij, il segretario dell’organizzazione Komsomol e la sua vice del consiglio del villaggio di Kuzarandskij, Tatijana Mukhina, che aveva solo 20 anni, furono brutalmente torturati. Raccontano altri abitanti del villaggio: “Molte volte picchiarono Mukhina durante gli interrogatori, dopo di che la gettarono nella cella frigorifera della scuola, che fungeva da cella di detenzione prima del processo… Durante un interrogatorio, la compagno Mukhina si staccò dalle mani dei finlandesi bianchi per scappare, ma quando fu un strada fu presa dai soldati finlandesi e gettata di nuovo in cella. Qui le furono sparati diversi colpi e Tanja Mukhina fu uccisa”.

Bastonate con spranghe
Campo di Kolvasozerskij. Intere famiglie furono gettate qui e i bambini furono tolti alle madri. Le persone furono arrestate al minimo pretesto possibile. Pertanto, Nikolaj Ivanovich Alekseev fu catturato per aver parlato dell’imminente ritorno dell’Armata Rossa e del ripristino delle fattorie collettive. Fjodor Ivanovich Boglayev cercò di fuggire dagli occupanti. “Nell’agosto 1941, i finlandesi occuparono il villaggio, andai nella foresta a 15 chilometri di distanza, ma fui arrestato dalle truppe finlandesi e riportato indietro”, ricordava. Quando fu interrogato, fu “picchiato con spranghe” .

Nomi dei traditori
Tra i prigionieri c’erano anche informatori che cercavano di le informazioni di cui i nazisti avevano bisogno. Ekaterina Nikolaevna Vlasova affermò che costoro godevano di “fiducia e privilegi”. In particolare, un certo Stepan Timofeev “seguiva i campi e riferiva al quartier generale o conversava con le sentinelle su tali casi. Successivamente, l’atteggiamento dell’organizzazione del campo nei confronti delle persone riportate da Timofeev cambiava”. Successivamente partì volontariamente per la Finlandia. Secondo le memorie di Ekaterina Nikolaevna, una certa Dora Tarasova si presentò: “Come radiooperatrice partigiana, fu catturata, dide tutti i segreti a lei noti, per cui fu rilasciata e inviata a certo corsi, secondo me, per spie”. Lo spionaggio di Tarasova fu segnalato da molti altri ex-prigionieri del campo.

Picchiato per il pane
Le condizioni erano ancora più severe nel campo di Svjatnavolok. Le guardie costrinsero i prigionieri a svolgere compiti ridicoli e li picchiavano. L’ex-prigioniero Gerasim Leontievich Pushko dichiarò: “La prima volta il comandante Kashras mi picchiò perché non mi rasai. La seconda volta fui picchiato da Sergej Pavel Antonovich, un russo che era il capo del campo nel 1942. Pensò che avrei ricevuto del cibo per la seconda volta. E la terza volta fui picchiato da Saprin, un finlandese, per aver chiesto se potevo ottenere altri prodotti alimentari con una tessera di razionamento”. Aleksandra Ivanovna Ponomarjova ricordò che nell’estate 1943 davanti ai suoi occhi “il finlandese Yury Pavlo picchiò Kashin e Parfenov per il fatto che mentre scaricavano l’auto nascosero del cibo”. Erano, ovviamente, malnutriti: un po’ di pane e un piatto di stufato di “varia immondizia”. Il prigioniero Krasilnikov del campo di concentramento n. 5 di Petrozavodsk, dove erano detenute circa 7000 persone, affermò che “a tutti furono dati 300 grammi di farina con additivo in legno e 50 grammi di salsiccia sottile per tre giorni”. Contò almeno 2000 morti, li vide coi suoi occhi, perché portò i corpi in una fossa comune nel cimitero della città. Il pane, ovviamente, mancava, e alcuni andarono nel villaggio vicino per prenderlo, per cui furono bastonati di fronte all’intero campo. Tajsija Petrovna Petrushin fu “picchiata con un bastone così tanto che non potè lavorare per due giorni”. Ekaterina Nikolaevna Petrova ricordò che nell’inverno 1942 uno dei prigionieri uscì per il pane. Come punizione per questa “cattiva condotta”, i finlandesi costrinsero tutte le donne a radersi la testa.

Il loro obiettivo era la Grande Finlandia
Alla domanda che cosa sapevano gli ex-prigionieri del campo delle atrocità delle autorità finlandesi, risposero in modo diverso e il quadro generale si forma solo quando si studiano tutti i documenti archivistici. Dietro ogni riga c’è una vita umana. “È quasi un genocidio deliberato della popolazione civile. Inoltre, si trattava dell’attuazione da parte del comando finlandese della politica razziale volta alla distruzione dei russi. La popolazione “non nazionale” fu mandata nei campi di lavoro, che per molti si rivelarono campi di sterminio, per intere famiglie, compresi i bambini. Ciò fu confermato in modo eloquente dai dati personali contenuti nei documenti d’archivio”, spiegava a RIA Novosti la Decana della Facoltà di Affari archivistici dell’Istituto storico e archivistico dell’Università statale russa per le discipline umanistiche, candidata a scienze storiche ed esperto del progetto “Senza uno statuto di limitazioni”. Elena Malysheva. I finlandesi monitorarono rigorosamente la purezza etnica e i tentativi di violarla furono puniti. La testimonianza di Adam Stanislavovich Bobrovich è caratteristica: “Avvennero pestaggi, soprattutto contro le ragazze per convivenza con i finlandesi. Astapovich, Tyler (tedesco) e un’altra, Zina, non ricordo nome e patronimico dell’ultima”. I campi finlandesi per i russi facevano parte di un grande piano per creare lo Stato etnicamente puro della Grande Finlandia, come affermato dal maresciallo Mannerheim. Anche prima dell’inizio dell’offensiva, firmò l’ordine n.132. Il quarto paragrafo recitava: “Detenete la popolazione russa e mandateli nei campi di concentramento”. “I nomi degli autori zelanti di questo ordine non sono un segreto. Furono nominati nella testimonianza dei prigionieri dei campi finlandesi che riuscirono a sopravvivere. La memoria umana può essere cancellata “, affermò Malysheva. “ma i documenti archivistici hanno conservato questi nomi, il che significa che i crimini “senza uno statuto di limitazioni” non sono spersonalizzati”. Gli occupanti finlandesi, a differenza degli occupanti tedeschi, non fucilarono in massa, e quindi per molti anni i loro crimini rimasero all’ombra delle atrocità del fascismo tedesco, dicono gli storici. I nazisti finlandesi affamarono e sottoposero a condizioni di vita insopportabili, duro lavoro e costante persecuzione nei campi. Ciò è ricordato anche da ex-prigionieri dei campi finlandesi ancora vivi. Secondo la direttiva del maresciallo Mannerheim, russi, ucraini, tatari e molti altri “abitanti non nazionali” della Karelija furono intenzionalmente e silenziosamente sterminati. La particolarità del regime occupante finlandese decide l’approccio all’esposizione dei crimini di guerra. I nuovi documenti declassificati lo consentono sulla base di testimonianze di massa e dettagliate dei testimoni oculari, ed altre prove documentali ora pubblicate.

FONTE:http://aurorasito.altervista.org/?p=11764

 

 

 

Caro Alberto Angela, senza l’Urss gli ebrei avrebbero fatto la fine dei Maya

Sabato sera su Rai Uno Alberto Angela ha vinto la sfida dello share registrando 3,6 milioni di spettatori. Un enorme successo di pubblico per una trasmissione (Ulysse) che parla di storia. E questa non può che essere una buona notizia perchè dimostra – e per l’ennesima volta – che gli argomenti storici interessano tantissimo e possono anche sperare nel pubblico di prima serata.

Quel che non si può sopportare, invece, è la stucchevole retorica che i media stanno pompando attorno alle trasmissioni dei due Angela, che non affrontano mai i contentuti proposti tramite dialettica e contraddittorio tra storici o tra scienziati. in sostanza, si tratta delle stesse lezioni di scuola superiore, con al più, l’ausilio di qualche filmato. Piuttosto di niente meglio piuttosto, verrebbe da dire. Ma…

Il “vecchio” Piero da anni ci fa vedere una scienza positivistica, che non sbaglia mai e che fa solo del gran bene, quando le cronache mostrano invece una incredibile varietà sulle questioni scientifiche, con feroci diatribe tra scienziati, colpi di scena e disastri ambientali, processi e condanne, fallimenti economici e interessi finanziari. Il “giovane” Alberto, dal canto suo, propone in prevalenza temi umanistici (quelli scientifici sono già occupati dall’ottuagenario genitore) in modo totalmente descrittivo. Nella puntata di sabato Angela junior  ha dirottato persino l’attenzione sulla propaganda geopolitica attuale, fornendo informazioni discutibili, se non proprio false, sul ruolo dell’Unione Sovietica in occasione del conflitto, lasciando intendere agli spettatori più sprovveduti una complicità dei vertici russi nell’Olocausto.

Che la russofobia sia di moda non è certo una novità, ma sulla storia occorre essere intransigenti e prentendere spiegazioni circostanziate delle informazioni riportate. Secondo Alberto Angela, infatti, il Presidente dell’allora Unione Sovietica, all’alba della Seconda Guerra Mondiale ed in occasione dell’accordo Ribbentrop-Molotov, consegnò ai nazisti gli ebrei perchè facessero la fine che tutti sappiamo.

Invece, senza l’intervento sovietico oggi probabilmente l’Europa orientale sarebbe guidata dai successori di Adolf Hitler e dunque gli ebrei non esisterebbero nemmeno più. Ma per capirci qualcosa, andiamo con ordine.

VIDEO QUI: https://youtu.be/5vr16NnHjUQ

IL PATTO RUSSOTEDESCO. Le responsabilità dell’Unione Sovietica in occasione del Secondo Conflitto ci sono, ma non sono superiori a quelle di altri paesi, come l’Inghilterra, ad esempio. La nazione maggiormente responsabile fu la Germania che cercava di espandersi, soprattutto a est. Il famigerato patto Molotov-Ribbbentrop  impegnava i contraenti (Urss e Germania) «a non aggredirsi reciprocamente, a non appoggiare potenze terze in azioni offensive e a non entrare in coalizioni rivolte contro uno di essi». Sfido chiunque a trovare in quei documenti un riferimento alla consegna di ebrei da parte dei sovietici. Gi storici parlano anche di un protocollo segreto tra le due nazioni che prevedeva la spartizione dei paesi baltici in sfere d’influenza, ma questo protocollo va visto alla luce di quanto successo prima: Lenin aveva rinunciato a territori che da tempo immemore erano sotto il controllo russo per gestire le complicate vicende interne postrivoluzionarie. La Polonia era già stata spartita una clamorosa  volta nel 1795 ed era scomparsa dalle carte geografiche come nazione. Dunque, il patto Ribbentrop-Molotov non rappresenta un atto malvagio unico nella storia, come tendenziosamente fa credere Alberto Angela, ma, soprattutto, la questione ebraica c’entra con il patto come c’entra con i cattolici, i luterani, i calvinisti e gli avventisti del settimo giorno. Hilter voleva prendere la Polonia per il corridoio di Danzica, espandarsi ad est per cercare lo “spazio vitale” per il Reich e  per allontanare il comunismo. Dall’altra parte della barricata, Stalin voleva riprendere l’impero russo che fu degli Zar anche per favorire i tantissimi russi che vivevano fuori dall’Unione delle Repubbliche Sovietiche, e per fare ciò occorreva controllare i paesi baltici. Tutte le altre considerazioni – pur interessanti e sempre degne di ascolto – puzzano di ideologia e strumentalizzazione politica bipartisan.

Se, invece, proprio proprio non si vuole fare a meno di considerare la questione ebraica in relazione all’attacco alla Polonia, bè allora occorre riconoscere che accadde esattamente l’opposto di quanto riportato da Alberto Angela nella sua trasmissione. Secondo una documentata ricerca storiografica firmata da Mordechai Altschuler, decine di migliaia di ebrei polacchi riuscirono a fuggire in URSS trovando scampo dalla repressione nazista. Nelle zone occupate dai tedeschi, infatti, gli ebrei venivano costantemente umiliati, le case saccheggiate e le donne uccise se si rifiutavano di consegnare beni personali come gli anelli di matrimonio.

Gli ebrei polacchi furono costretti a indossare una banda bianca con una stella di David, o un distintivo o una patch gialla; a Varsavia furono espulsi dalle mense e obbligati ad eseguire lavori forzati.

Ben presto, dunque, gli ebrei ormai consapevoli del trattamento loro riservato dai tedeschi occupanti cercarono rifugio in Bielorussia ed Ucraina e le testimonianze dirette di questa esperienza – precedente la soluzione finale dei campi di sterminio – sono numerose e raccolte nel saggio di Alschuler intitolato “The Distress of Jews in the Soviet Union in the Wake of the Molotov-Ribbentrop Pact” e facilmente reperibile online.

Troppo spesso la propaganda atlantista dominante da noi tende a far credere che Berlino sia stata liberata dagli americani e che al campo di concentramento di Aushwitz siano arrivati i carri armati statunitensi (ricordate il carro armato ne “la vita è bella” di Roberto Benigni?), mentre in realtà furono i sovietici in entrambi le occasioni a fungere da liberatori ed a lasciare sul campo 23 milioni di vittime tra cittadini e militari per raggiungere questo risultato.

FONTE:http://micidial.it/2018/10/caro-alberto-angela-senza-lurss-gli-ebrei-avrebbero-fatto-la-fine-dei-maya/

 

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