RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 29 APRILE 2020

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RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 29 APRILE 2020

A cura di Manlio Lo Presti

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SOMMARIO

Ma esiste davvero questa pandemia ?
La pazienza è finita
Gattinoni: strage Covid solo in Italia, grazie al nostro caos
Non conta chi sarà eletto. La politica estera degli Stati Uniti continuerà verso il disastro Sionista.
ELENA DI SPARTA: ERRATA CORRIGE DI UN PASSAPORTO FEMMINISTA
App Immuni, il commissario Arcuri spiega come funziona: “operativa da maggio”
LA “STABILIZZAZIONE INSTABILE” DELLA EUROZONA E LE RISPOSTE €UROPEE
Chi ha rispettato il 3% deficit/PIL in 20 anni di euro?
“Recovery fund”, il piano che non c’è
Le svalutazioni dell’euro dal 2008 a oggi
DENUNCIA ALLA COMMISSIONE UE
COSÌ I ROM STANNO RUBANDO LE CASE AGLI ANZIANI RICOVERATI – VIDEO
Afroasiatici e italiani agli arresti domiciliari
TITOLO DI STUDIO, ERASMUS
L’istituto IHME
App, le nuove esche dolci
“L’Occidente ha una scarsissima produzione sul ruolo dell’URSS nella vittoria contro il nazismo

 

 

IN EVIDENZA

Ma esiste davvero questa pandemia ?

liberoquotidiano.it

Mentre il governo sfrutta al meglio il virus per mantenersi vivo a scapito nostro, conviene fare un analisi disincata dell’epidemia. Occorre scegliere dei dati e come riferimento possiamo partire dai 232mila decessi di media negli ultimi quattro anni tra gennaio e aprile, chiedendoci se e di quanto quest’anno li si sia superati.In Italia i decessi annuali variano tra 630 e 650mila e nel periodo invernale hanno una oscillazione che può essere anche di 20 o 25 mila in più o in meno. La questione è se quest’anno siano veramente molti di più come tutti immaginano sentendo parlare di 26 mila decessi da Coronavirus e poi anche di altri decessi non rilevati.

In Francia questo confronto che nol proponiamo è stato presentato dal prof. Didier Raoult ( QUI) )dell’Istituto di malattie infettive di Marsiglia (l’epidemiologo con un indice Hirsch massimo al mondo di 175, in base al numero di citazioni di pubblicazioni scientifiche). Raoult sostiene anche lui la tesi che, dal punto di vista della mortalità cumulativa a livello nazionale, quest’anno non c’è una situazione eccezionale, perché in Francia nel periodo invernale, quindi dicembre-marzo, il totale dei decessi di questa stagione “con Coronavirus” era 216mila contro 218mila, 224mila e 223mila negli anni precedenti.

In Italia si devono fare estrapolazioni per ottenere una stima del totale nazionale dei decessi per l’anno 2020 perché l’Istat, a differenza del servizio statistico di altri paesi come ad es. la Francia, non fornisce il dato nazionale se non dopo oltre quattro mesi. Finora nessuno lo ha fatto e si citano invece sempre delle percentuali di aumento della mortalità del 70 o 80%, che l’Istat ricava però solo da un campione di città del Nord tra marzo e inizio aprile. Questo campione Istat ora è stato allargato ad un numero maggiore di Comuni che rappresentano il 32% dei Comuni, ma scelti con il criterio della mortalità superiore alla norma del 20%.

La questione che poniamo è quanti siano i decessi quest’anno rispetto agli altri anni perché quando si sente dire che “oggi sono morte 500 persone per Coronavirus” quasi si presuppone che in un anno normale sarebbero invece morte 500 persone in meno. I dati ufficiali per i morti associati al Covid-19 vengono pubblicati tutti i giorni e la sorte dell’Italia dipende da questi numeri che appaiono ogni sera al TG.

Dato che sentiamo parlare di 26 mila decessi “da Coronavirus” e molti articoli parlano di molti altri decessi per Coronavirus non rilevati, l’impressione che l’opinione pubblica riceve è che quest’anno la mortalità sia molto in eccesso rispetto agli altri anni, quindi di almeno 26 mila morti in più o forse anche 40 mila morti in più (se fosse vero che molti non sono rilevati).

Come però anche Marina Davoli e Paola Michelozzi (che criticano un nostro precedente contributo) sono costrette a riconoscere https://www.ilsole24ore.com/art/ecco-come-e-cresciuta-mortalita-italia-i-dati-19-citta-ADGFwML “il decremento invernale, prima dell’epidemia, e l’incremento dei mesi di marzo e aprile, in qualche misura si sono compensati”, per cui il saldo da inizio anno a livello nazionale dovrebbe essere inferiore a quello dei 25 mila morti attribuiti al Covid.

Occorre tenere presente che la mortalità nella stagione invernale oscilla tra 8 e 26 mila decessi da un anno all’altro, come documentato ad esempio nello studio di W. Ricciardi ed altri (“Investigating the impact of influenza on excess mortality in all ages in Italy during recent seasons (2013/14–2016/17 seasons)”, dicembre 2019) https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1201971219303285. Nei mesi invernali si verificano oscillazioni di 20 mila decessi da un anno altro anche in un singolo mese, dovuti quasi tutti a polmoniti e la media dei morti da polmonite è di 18mila l’anno.

Da una parte allora ci sono notizie per le quali la mortalità da coronavirus sarebbe più alta perché alcuni morti da Covid avvenuti in casa non vengono rilevati, dall’altra va anche rilevato che la mortalità stagionale quest’anno in Italia (e in tutto l’Occidente in realtà) era molto più bassa della norma. Inoltre ci sono discussioni sull’attribuzione dei morti al Coronavirus in ospedale quando i pazienti hanno già diverse patologie concomitanti.

Come capire allora quale sia la situazione reale emergenza? Se i decessi in Italia da inizio anno ad oggi sono intorno a 232 mila, come sarebbe la media degli ultimi quattro anni, allora l’effetto di compensazione citato coi mesi precedenti e l’attribuzione al Covid-19 di morti per altre cause ridimensionano l’entità dell’emergenza. I dati dell’articolo sopra citato di Davoli e Michelozzi su un campione di 10 città del Nord indicano 2,624 morti “in eccesso” da inizio anno al 7 aprile. Poiché fino a marzo la mortalità era più bassa della norma in tutta Italia, come loro correttamente rilevano e poiché nel Centro Sud anche in marzo-aprile è variata meno del 10%, si può allora escludere dalla stima della variazione a livello nazionale dei morti eccessivi il Centro Sud e concentrarsi sul Nord. Quindi dovrebbe essere sufficiente estrapolare dalle 10 città maggiori del Nord campionate in cui ci sono 2,264 morti “eccessivi” da inizio anno il totale del Norditalia.

Se si fanno assunzioni in base alla % di popolazione del Nord campionata e quella restante e alla mortalità relativa delle varie province su base storica, si può stimare il totale del Nord pari a 6 volte la cifra indicata dalle due ricercatrici di 2,264 e quindi intorno a 13 mila morti “in eccesso” da inizio anno. Andrebbe stimato cosa succeda nei restanti 23 giorni di aprile se si usano i dati delle due autrici che si fermano al 7 aprile, ma dato il calo dei ricoveri in terapia intensiva, ora sui 2,100 in tutta Italia, può essere che l’effetto di mortalità “eccessiva” (rispetto alla media storica) sia ormai minimo. Quindi ci sarebbe una stima di circa 13 o forse 14 mila morti in eccesso a livello nazionale da gennaio ad aprile, rispetto ad un dato medio degli ultimi quattro anni di 232 mila morti, cioè un +7% circa in Italia quest’anno. Se poi nel resto dell’anno non si verifica un’ altra ondata di polmoniti di questo genere, rispetto alla media dei 640-650 mila decessi annuali l’incremento sarebbe inferiore al 3%.

In sintesi, sulla base dei dati riportati dalle due autrici, si ha un effetto stimabile intorno a 13-14 mila morti “in eccesso” che è un incremento del 7% circa su base stagionale (4 mesi) e di meno del 3% su base annuale in Italia.

L’effetto di compensazione tra i primi mesi a bassa mortalità e poi il picco di marzo e l’effetto dell’attribuzione al Covid di decessi con altre patologie concomitanti possono spiegare questo impatto limitato sulla mortalità complessiva in Italia. Ovviamente si può obiettare che è stato il lockdown “stile Wuhan” adottato in Italia dall’11 marzo a ridurre la mortalità e senza questo i morti avrebbero potuto essere decine di migliaia in più.

Va allora ricordato innanzitutto che in media i decessi avvengono dopo circa 20 giorni dal contagio, per cui è solo da circa l’1 o 2 aprile che (in media) si può dire che il lockdown ha avuto effetto sulla mortalità. Dal momento che i dati di cui si parla arrivano al 7 aprile sono circa 5 i giorni in cui si è sentito l’effetto.

Si può inoltre argomentare che dal 1 aprile in poi però ci sarebbero stati più morti se non fossimo stati tutti chiusi in casa dall’11 marzo. Questa diventa ovviamente una discussione più complessa perché riguarda le previsioni dei modelli epidemiologici. Le quali però finora sono state smentite in modo anche clamoroso, ad esempio per gli USA il Dott. Fauci e lo stesso Trump fino al 1 aprile parlavano di 240mila decessi in base al modello https://www.msn.com/en-us/news/politics/trump-projects-up-to-240-000-coronavirus-deaths-in-u-s-even-with-mitigation-efforts/ar-BB11ZjHu e per ora siamo a 52mila decessi e si parla di riaprire il paese entro due settimane con alcuni Stati che hanno già cominciato.

Il modello epidemiologico dell’Imperial College di Londra aveva ad esempio previsto a inizio marzo una mortalità di 2,4 milioni per gli USA senza lockdown che sembra ora ridicola se si considera poi che molti Stati USA hanno adottato un modello di chiusura “soft” che non impedisce ad esempio di uscire di casa e anche di manifestare contro il lockdown. Una verifica si potrebbe fare usando l’esempio del paese criticato (ben inteso per noi ha fatto benissimo) perché non ha chiuso nemmeno le scuole, la Svezia. Questo modello molto noto indicava per la Svezia una curva dei decessi che saliva fino a giugno mentre invece ha raggiunto il massimo e declina (se siprende ad es una media a sette giorni) da inizio aprile come in Italia. Il modello come si vede dal grafico indica una mortalità giornaliera oltre 10 volte di quella che si è verificata sinora. Ricordiamo che in Svezia la mortalità complessiva sinora è di 217 per milione di abitanti, in Italia di 430.

Questa è una discussione molto ampia, ma un accenno a quanto si siano finora rivelati errati i modelli epidemiologici va fatto, basta pensare che in Asia ci sono circa 300 milioni di persone tra Giappone, Taiwan, Corea, Singapore, Hong Kong, Malesia ecc. in cui non si è imposto di non uscire di casa e di non lavorare e la mortalità è stata di alcune migliaia di persone ed è praticamente cessata già da un mese.

Dato allora che in Italia stiamo autoinfliggendo ai cittadini, alla società e all’economia un danno paragonabile a quello di una guerra, bisogna, a nostro avviso, tenere presente che la mortalità che lo dovrebbe giustificare non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello di una guerra. L’emergenza economica farà molti più danni di quella epidemiologica. Dallo Stato terapeutico passeremo alla civiltà della carestia. Distruggere 200 o 300 miliardi di reddito annuale farà soffrire milioni di italiani che finiranno in miseria e povertà.

 

FONTE:https://paolobecchi.wordpress.com/2020/04/28/ma-esiste-davvero-questa-pandemia/

La pazienza è finita

Marcello Veneziani – La Verità 28 aprile 2020

Un pericoloso mitomane si è impadronito dell’Italia e sotto la minaccia del virus tiene in ostaggio un intero popolo, violenta la libertà e paralizza il Paese, mandandolo alla rovina, fingendo però che è tutto sotto controllo, anzi ci ammirano e ci studiano in tutto il mondo come modello. Dietro di lui si nasconde un intreccio di poteri, caste, tecnocrati e una pletora di esperti, inclusi gli scienziati che in questa pandemia hanno detto poco, tante ovvietà e pareri discordi.

Non una linea strategica emerge dalla cosiddetta fase due, grotteschi perduranti divieti, assurde restrizioni a macchia di leopardo, senza alcuna logica e buon senso: la scuola liquidata sine die, le attività produttive col freno a mano, i trasporti pubblici resi di fatto impraticabili, perché se vi può accedere solo un quinto degli utenti abituali (in altre versioni meno di un decimo), e se si deve provvedere per ogni corsa una sanificazione, significa paralizzarli. E questo, di conseguenza, paralizza il traffico, perché tanti andranno in auto sapendo che devono aspettare un tempo almeno cinque vote superiore a quello prima atteso (visto lo scaglionamento); non arriveranno mai al loro posto di lavoro o destinazione.

La follia di poter raggiungere solo le case in regione, la follia di tutto l’impianto, la paralisi di tutto, la mancanza di veri, concreti aiuti, l’annuncio continuo di cifre astratte, sempre variabili, di “potenze di fuoco” che sono solo un fuoco di Sant’Antonio delle intimità di chi li annuncia.

La follia è che tutto questo avviene col tacito consenso, o col silenzio-assenso di tutti i poteri che contano: dal Quirinale ai Partiti, dal Parlamento ai poteri istituzionali e costituzionali. La sinistra si rifugia vigliaccamente dietro l’Abusivo che si è impossessato del potere, perché così lui si prende oneri e onori, e intanto toglie di mezzo l’opposizione. I grillini trafficano in cineserie ma sono contenti di vedere tramite lui risalire i consensi che erano in caduta libera, e tramite lui esercitare ancora potere, restare al governo pur avendo dato prova della loro assoluta incapacità, autocertificata in massa.

L’assurdo di questa situazione è che tutti costoro gridavano al timore del dittatore venuto da destra, il Salvini, o il Salvameloni di turno (o anche il Renzi), e intanto lasciavano instaurare un’autocrazia mediatica che non ha precedenti, l’Uomo solo al comando e al telecomando, venuto dal nulla, con poteri pressoché illimitati di costringere la popolazione a ogni genere di schiavitù e di impedimento. Col favore dei grandi media, non solo pubblici. E la stessa cosa si ripete a livello mondiale: tutti gridano e irridono al Dittatore Trump, mentre lasciano crescere il potere e l’influenza nel mondo della vera Dittatura, quella cinese, che ha gravi responsabilità nel virus e che ora si sta espandendo nel mondo, con ogni forma (incluso il 5G) e che trova nella nostra compagnia di burattini denominata governo il suo principale asino di Troia (cavallo sarebbe troppo) per insinuarsi.

Il suddetto millantatore abusivo continua a fare one-man-show in televisione, parla per un’ora su tutte le grandi reti – Rai, Mediaset, Sette – per non dire nulla, e lasciare tutto più sotto l’autocrazia. È ormai un rito di vanità in cui l’impostore si pavoneggia (Rito Pavone), annuncia vittorie in Europa che non ha mai conseguito, preannuncia cose che non rispondono mai alla realtà e limita la sua azione ai verbi perifrastici, stiamo in procinto di, stiamo per varare, stiamo sul punto di. Si vanta di tutto, per dirla con Gioacchino Belli: “Non faccio per vantarmi ma oggi è una bellissima giornata”. E poi il mantra ossessivo di questi giorni, dal primo scienziato all’ultimo telegiornalista, “non abbassare la guardia” che va tradotto a contrario: abbassatevi i pantaloni, in ginocchio, restate fermi, in catene.

Dopo due mesi di carcerazione di massa non è più sopportabile. È necessario non dico ribellarsi, insorgere, fermarlo. Ma quantomeno osservare, sì, le precauzioni sanitarie leggendole però in una chiave compatibile con la vita che riprende, la libertà ritrovata, il buon senso. Chiedo a questo proposito che anche le forze dell’ordine non accettino di diventare esecutori di un’autocrazia irresponsabile che non sa dove ci sta portando; naviga a svista, a orecchio, random. Chiedo loro che interpretino le norme il più possibile in modo duttile, non a danno degli italiani e dei loro primari interessi vitali, e della loro libertà primaria. La stessa cosa sento di chiedere a tutti i sacerdoti, nel nome di quello che anche la Conferenza Episcopale ha denunciato: nessun autocrate può impedire così a lungo l’esercizio elementare della propria fede, le messe. Non c’è nessuna ragione di salute, nessuna maglia di forza della salute, che può impedire questa essenziale libertà, primaria per i credenti. Basterà osservare le norme, distanziamento sociale, mascherine, cautela.

È finita la fase dell’obbedienza cieca, prona e assoluta. È finita la pazienza. Occorre cominciare una ragionevole obiezione di coscienza e di libertà, pur rispettando tutte le cautele, con realismo e con tutte le norme costituzionali. Altrimenti questo viaggio verso la dittatura sanitaria (come la chiamai ormai nei primi di marzo) sarà di sola andata; la sospensione che si prolunga nel tempo rischia di farsi sistemica e perlomeno ricorrente, incombente come una minaccia periodica e un deterrente di fronte a ogni libertà. Il paese si sta sfasciando e non possiamo pensare che l’unico rimedio sia preannunciare – a due mesi dall’emergenza- il prezzo politico alle mascherine. Smascheriamo piuttosto questo dispotismo vanitoso, di uno incapace di tutto. Questo non è dispotismo illuminato, ma dispotismo allucinato. Un incubo da cui svegliarsi.

FONTE:http://www.marcelloveneziani.com/articoli/la-pazienza-e-finita/

 

 

 

BELPAESE DA SALVARE

Gattinoni: strage Covid solo in Italia, grazie al nostro caos

I tedeschi non sono più bravi di noi, e lavorano di meno. Però sono organizzati, ognuno fa la sua parte, non si parlano addosso e amano obbedire. Rispettano le regole, avvantaggiati dal fatto che le loro sono chiare. E perciò si possono permettere di più, rischiando di meno. Sul coronavirus, la Merkel ha parlato tre volte. La prima per dire che il 70% dei tedeschi si sarebbe ammalato, la seconda per chiudere il paese, la terza per riaprirlo affermando che, se la situazione peggiorerà nuovamente, farà retromarcia. Poche parole, chiare. Tutto il contrario di quanto avvenuto in Italia. Per questo, i tedeschi possono permettersi di andare al fiume a gruppi la domenica, mentre se da noi uno prende il sole senza nessuno intorno nel raggio di mezzo chilometro, il drone lo fotografa e arrivano i carabinieri per fargli la multa. L’Italia ha 500 esperti e un numero di commissioni ignoto, ma del loro lavoro non traspare nulla. Vive in un perenne talk-show. Manca perfino un’analisi della situazione che parta dai numeri. Nessuno parla di rischio sostenibile, non avendolo calcolato. In Italia siamo in troppi a non decidere? Se mettete dieci medici intorno a un malato, questo non ha speranze: muore. In un gruppo allargato, ognuno si sente in dovere di dire una cosa più intelligente di quella che ha appena ascoltato, e finisce con lo spararla grossa. Se ci sono più di cinque o sei persone a decidere, la commissione diventa inutile nel migliore dei casi, e dannosa nel più frequente, perché l’accordo lo si raggiunge sempre al livello più basso.

Abbiamo fatto bene a fare la quarantena più rigida di tutti? Se stanno tutti in casa, ci sono meno malati: ma il virus non scompare. Quando esci, te lo ritrovi: e sei daccapo, a meno che nel frattempo non si sia trovato il vaccino. Quarantena inutile? Il professor Luciano GattinoniNo, è servita a contenere il contagio e allentare la pressione sugli ospedali. È stata una prevenzione necessaria a non far collassare il sistema. Chi sta a casa però non sviluppa anticorpi, e quando esce non è più al sicuro di prima. Anzi… Perché ci sono stati più morti in Italia che in Germania? Se il paese è disorganizzato, non si può pretendere che la sua sanità sia organizzata. Io però farei un’ altra domanda: come mai si è morti così tanto, in Italia? Perché l’Italia ha ignorato l’allarme lanciato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità tre anni fa, quando il pianeta venne allertato in merito alla probabilità dell’insorgenza di un’epidemia nel breve periodo. La Germania comperò mascherine e protezioni sanitarie. Noi, per quanto mi risulta, non abbiamo tenuto in considerazione la segnalazione. D’altronde, la prevenzione non crea consenso: perché ha successo se non accade nulla. Ma come fai a rivenderti politicamente il nulla?.

La Lombardia, dove ci sono stati metà dei morti italiani, non è un’eccellenza medica? Per la terapia intensiva sicuramente. È allo stesso livello di Francia e Germania, superiore a Spagna e Regno Unito. Infatti il numero di morti che abbiamo avuto ha fatto scalpore, nel mondo della comunità scientifica. È finito sotto accusa il modello lombardo: dicono che dia troppo spazio al privato? Qualcosa non ha funzionato. Occhio alla distinzione tra pubblico e privato. Le aziende private si fanno pagare il servizio dalla Regione, e quindi sono anche un po’ pubbliche, mentre negli ospedali pubblici da anni la fanno da padrone i manager, che hanno cominciato a chiamare “aziende” le strutture sanitarie, importando una mentalità di profitto. In questo passaggio si è perso il senso della missione e si è dato via libera ai tagli, che non aiutano, perché peggiorano sia la qualità del servizio sia quella dei medici, che sono oberati di lavoro e non hanno più tempo per studiare e prepararsi. Lasciatemi aggiungere che i grandi medici si formano nel pubblico, che un tempo non era ossessionato dalle spese; poi, casomai, passano al privato. Il numero chiuso a medicina è stato un errore? Rientra nella filosofia dell’ottimizzare la sanità: slogan politico perFontana e Contegiustificare il taglio dei fondi. Un posto di terapia intensiva però non è solo un letto. Sono sette infermieri ogni due pazienti e cinque medici ogni cinque pazienti. E quando parlo di medici, mi riferisco a specialisti che sanno quello che bisogna fare. Solo così si evitano le morti.

Mancata prevenzione e tagli eccessivi: per questo siamo finiti a terra. Comunque è anche questione di metodo. Se in Germania hai dei sintomi di Covid-19 e vai all’ospedale, all’ingresso trovi un grande cartello che ti ordina di non entrare per nessuna ragione e ti invita a suonare un campanello. A quel punto esce un sanitario che ti prende in cura senza che tu metta piede nell’ospedale e decide se ricoverarti, in strutture riservate ai malati Covid-19, o mandarti a casa, dove viene ordinato al tuo medico curante di assisterti. Mi sembra che in Italia l’individuazione del virus sia appaltata al paziente, in autodiagnosi da casa, al telefono con il medico del territorio. Sempre meglio comunque di quanto avveniva nei primi tempi, quando i sinotmatici erano accolti in pronto soccorso senza percorsi differenziati. Ora si muore meno e i malati sono meno gravi. Il virus può essersi trasformato, ma noi non lo sappiamo. Certo non muta a seconda dei nostri desideri o umori. La sua forza resta la stessa. Cambia la carica virale, e chi è colpito da più molecole contagiose se la passa peggio, e può cambiare la resistenza che incontra. Ecco, non direi che è diventato meno letale, piuttosto che siamo diventati più bravi noi a curarlo. Per le prime tre settimane i medici sono andati avanti a tentoni.

Molta gente morta un mese e mezzo fa oggi si sarebbe potuta salvare? Decongestionare gli ospedali è stato fondamentale, perché meno pazienti hai, meglio li curi. E poi, certo, più conosci la malattia, più la terapia è efficace. Nei primi venti giorni i pazienti arrivavano con insufficienze respiratorie severe e veniva sparata aria nei polmoni a pressione alta. Poi si è scoperto che così la situazione peggiorava. Con il tempo abbiamo anche capito che era fondamentale che il sangue non si coagulasse, e abbiamo iniziato a usare con ottimi risultati l’eparina. E’ un percorso. La scienza procede per tentativi ed errori, e l’esperienza non è altro che l’analisi critica dei propri errori. Quindi oggi sappiamo come curare il Covid-19? No, abbiamo imparato come arginarlo meglio. Ma finché non conosceremo bene tutti i meccanismi di replicazione del virus, non troveremo mai la terapia. Terapia intensiva CovidSparirà con il caldo? Non ci resta che aspettare. Può darsi che al caldo si trovi peggio che al freddo. Fatto sta che noi nel corpo abbiamo 36-37 gradi, e lui ci sta benissimo. Quanto dovremo aspettare per il vaccino? Questo chiedetelo ai virologi. Quando parlano del loro mestiere dicono cose interessantissime. Se però si allargano e iniziano a fare gli epidemiologi, e poi i rianimatori, i tuttologi e magari anche i politici, fanno scivoloni in abbondanza, come tutti.

In Italia siamo emotivi: infatti abbiamo avuto la reazione più irrazionale e meno scientifica di tutti, al virus. Parlo della politica e della società, non della scienza. L’epidemia è dolore. Va di moda dire che ci renderà migliori? Bisognerebbe studiare la storia a quarant’anni, non alle elementari. Ci sono sempre state epidemie, sono sempre passate e l’animo umano non è mai cambiato. L’emergenza esalta gli istinti brutali. Buoni e cattivi. Poi, quando passa, tutto torna come prima. Si freme per ripartire, ma se si fosse in Germania si starebbe più tranquilli? Forse perché si riconosce alla Merkel un’autorevolezza superiore a quella che si attribuisce a Conte. Se è così, penso che si debba al fatto che la Cancelliera ha parlato meno ma ha detto di più. La comunicazione del governo italiano è stata poco chiara, quasi fosse voluto. I cittadini sono stati bombardati di norme che cambiavano di continuo e a volte si contraddicevano. Di conseguenza, in Italia ciascuno ha fatto da sé. È mancato il manico, e si è usato un tono apocalittico per essere ascoltati. Poi ci si è nascosti dietro il parere degli scienziati, solo che il virus era sconosciuto e ogni professore aveva la sua opinione. Si è creata una confusione non da poco, volendo andare dietro a tutti. Peccato che la medicina non è democratica: può essere che uno abbia ragione e il 99% torto. Cosa fare per ripartire tranquilli? Mantenere la calma e non ripetere gli errori. Osservare gli altri, anziché proporsi come modello: guardiamo cosa succede dove si è riaperto; e se il contagio lì non riparte, copiamo. E poi bisogna fare un calcolo tra il rischio epidemico e il disastro economico che la chiusura comporta.

(Luciano Gattinoni, dichiarazioni rilasciate a Pietro Senaldi per l’intervista “Perché gli italiani muoiono di coronavirus più dei tedeschi”, pubblicata da “Libero” il 28 aprile 2020. Luminare dell’anestesia e rianimazione, il professor Gattinoni lavora a Göttingen, dopo essersi allontanato cinque anni fa dal Policlinico di Milano. Anni fa, a Monza, salvò il figlio dell’allora cancelliere tedesco Helmut Kohl).

FONTE:https://www.libreidee.org/2020/04/gattinoni-strage-covid-solo-in-italia-grazie-al-nostro-caos/

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

Non conta chi sarà eletto. La politica estera degli Stati Uniti continuerà verso il disastro Sionista.

Philip Giraldi

Strategic-culture.org

Ora che il Partito Democratico sembra essere riuscito a sbarazzarsi delle uniche due voci tra i suoi candidati presidenziali che si sono di fatto allontanate dal consenso dell’establishment, Joe Biden si candiderà contro Donald Trump a novembre. Per essere chiari, Bernie Sanders e Tulsi Gabbard sono ancora in attesa, ma la soluzione è stata trovata e il Comitato Nazionale Democratico (DNC) ha fatto in modo che Sanders ricevesse il colpo di grazia il ‘Super Tuesday‘; mentre Gabbard sarebbe stato escluso dalla partecipazione a qualsiasi dibattito di fine mandato.

È opinione comune che il brusco ritiro dei candidati Amy Klobuchar e Pete Buttigieg alla vigilia del ‘Super Tuesday’ che ha preso di mira Sanders sia stato organizzato attraverso un intervento dell’ex presidente Barack Obama che ha fatto un appello a sostegno dell’ “unità del partito”, offrendo ai due un significativo quid pro quo lungo la strada se fossero stati disposti a lasciare la corsa e a dare il loro sostegno a Biden, cosa che hanno fatto doverosamente. Si dice che Klobuchar potrebbe benissimo finire come vicepresidente di Biden. Una versione alternativa è che si trattava di “un’offerta che non poteva essere rifiutata” da parte dei Clinton.

Tulsi nel frattempo è stata emarginata dopo essere stata diffamata dall’affermazione di Hillary Clinton che era una “risorsa russa” che il Cremlino aveva “curato”. Le è stato poi negato il posto che le spettava nel dibattito del 15 marzo a causa di un improvviso e inaspettato cambiamento di regole nel programma, deliberatamente concepito per escluderla. Tanti saluti alla democrazia interna del cosiddetto Partito democratico.

Ora che la scaletta per novembre sembra fissata, la discussione si è spostata su questioni politiche specifiche. La politica estera non ha avuto un ruolo importante nei dibattiti del Partito democratico, ma ci si aspetta che sia più visibile nella corsa presidenziale, in particolare alla luce di alcuni degli errori più evidenti commessi da Donald Trump e dai suoi collaboratori.

L’ultimo errore della Casa Bianca, l’attacco aereo del 3 gennaio in Iraq che ha ucciso il generale maggiore iraniano Qassem Soleimani e otto alleati iracheni, sta ancora risuonando, avendo prodotto solo la scorsa settimana un attacco su una base statunitense che ha ucciso due soldati americani e uno britannico, seguito da un bombardamento di ritorsione da parte delle forze statunitensi dirette contro la milizia irachena Kataib Hezbollah, che si dice sia sostenuta dall’Iran ma che è stata anche integrata nelle forze armate irachene. L’azione unilaterale degli Stati Uniti si sta svolgendo senza il consenso di Baghdad e nonostante il governo iracheno chieda a Washington di chiudere le sue basi e di ritirare le truppe rimanenti, che sono circa 5000.

Ironia della sorte, l’assassinio di Soleimani con le sue conseguenze è un tema che probabilmente non verrà riportato dal geniale ma confusionario Biden, dato che entrambe i principali partiti sono saldamente in balia della lobby israeliana ed è improbabile che si lamentino dell’uccisione di un alto funzionario iraniano. Né il prossimo presidente, chiunque egli sia, ribalterà la disastrosa decisione di Trump e si unirà all’accordo JCPOA del 2015 che aveva lo scopo di monitorare il programma nucleare civile dell’Iran.

Sia Trump che Biden potrebbero ragionevolmente essere descritti come sionisti, Trump in virtù delle posizioni di politica estera made-in-Israele che ha ricoperto dopo la sua elezione, e Biden con le parole e i fatti durante tutto il suo tempo in politica. Quando Biden ha incontrato Sarah Palin nel 2008 nel dibattito vice-presidenziale, lui e la Palin hanno cercato di superarsi a vicenda nell’entusiasmarsi per quanto amino lo Stato ebraico. Biden ha detto che “Sono un sionista. Non devi essere un ebreo per essere sionista” e anche, ridicolmente, “Se non ci fosse un Israele, gli Stati Uniti dovrebbero inventarne uno. Non abbandoneremo mai Israele – per il nostro interesse personale. È il miglior investimento di 3 miliardi di dollari che facciamo”. Biden è stato uno dei relatori abituali del vertice annuale dell’AIPAC a Washington.

Trump potrebbe essere descritto sia come paranoico che come narcisista, che significa che si vede circondato da nemici e che i nemici lo vogliono attaccare personalmente. Quando viene criticato, o ridicolizza la fonte o fa qualcosa di impulsivo per deviare ciò che viene detto. Ha attaccato la Siria due volte, sulla base di false affermazioni sull’uso di armi chimiche, quando si è sviluppato un consenso nei media e nel congresso sul fatto che fosse “debole” in Medio Oriente. Quegli attacchi erano crimini di guerra perché la Siria non minacciava gli Stati Uniti.

In modo analogo, Trump è tornato sui suoi passi nel ritirarsi dalla Siria quando si è imbattuto nelle critiche alla al suo piano di allontanare gli Stati Uniti dall’Afghanistan, che se dovesse svilupparsi, potrebbe facilmente essere sottoposto a una simile revisione. Trump non è proprio l’uomo che, come presidente, ha dimostrato di essere seriamente alla ricerca di una via d’uscita dalle interminabili e inutili guerre americane, a prescindere da ciò che i suoi sostenitori continuano ad affermare.

Biden è su un altro binario in quanto è un falco dell’establishment. Come capo della commissione Affari Esteri del Senato, nel 2002-2003 ha dato il via libera al piano di George W. Bush di attaccare l’Iraq. Al di là di questo, egli ha fatto il tifo per lo sforzo dei banchi del Partito democratico, contribuendo a creare un consenso sia a Washington che nei media sul fatto che Saddam Hussein era una minaccia che doveva essere affrontata. Avrebbe dovuto saperlo meglio perché era al corrente di informazioni che suggerivano che gli iracheni non erano affatto una minaccia. Non ha moderato la sua melodia sull’Iraq fino a dopo il 2005, quando l’attesa vittoria a suon di ‘slam-dunk’ si è rivelata molto incasinata.

Biden è stato certamente al corrente anche delle decisioni prese dal presidente Barack Obama, che includono la distruzione della Libia e l’uccisione di cittadini americani con un drone. Non si sa se abbia sostenuto attivamente queste politiche, ma di fatto non ne è mai stato chiamato in causa. Quello che è chiaro è che non si è opposto ad esse, un altro segno della sua volontà di assecondare l’establishment, una tendenza che senza dubbio continuerà se sarà eletto presidente.

E le reminiscenze di politica estera di Biden sono soggette a quelle che sembrano perdite di memoria o incapacità di articolazione, illustrate da tutta una serie di passi falsi durante la campagna. Più volte ha raccontato una storia del suo eroismo in Afghanistan che è una completa finzione, simile alle bugiarde affermazioni di coraggio di Hillary Clinton sotto il fuoco nemico in Bosnia.

Quindi, abbiamo un presidente che prende la politica estera sul personale in quanto i suoi primi pensieri sono “come mi fa apparire?” e un potenziale sfidante che sembra soffrire di fasi iniziali di demenza senile e che è sempre stato affidabile per sostenere la linea dell’establishment, qualunque essa sia. Anche se Trump è il più pericoloso dei due, in quanto è sia imprevedibile che irrazionale, la probabilità è che Biden sia guidato dai Clinton e dagli Obama. Per dirla in un altro modo, non importa chi sia il presidente, la probabilità che gli Stati Uniti cambino direzione per allontanarsi dal loro interventismo e dal bullismo su scala globale è praticamente inesistente. Almeno finché non finiscono i soldi. O per esprimerlo come fa un mio amico: “Non importa chi viene eletto, noi americani finiamo per avere John McCain”. Buonanotte America!

Philip Giraldi, ricercatore, è direttore esecutivo del Consiglio per l’Interesse Nazionale.

Fonte: https://www.strategic-culture.org/news/2020/03/19/a-tale-of-two-foreign-policies-the-train-wreck-abroad-is-bipartisan/

Visto su: Russia-insider.com

FONTE:https://comedonchisciotte.org/non-conta-chi-sara-eletto-la-politica-estera-degli-stati-uniti-continuera-verso-il-disastro-sionista/

 

 

 

CULTURA

ELENA DI SPARTA: ERRATA CORRIGE DI UN PASSAPORTO FEMMINISTA

Durante le nozze di Peleo Teti – futuri genitori del celebre eroe epico Achille – una mela d’oro viene fatta rotolare sulla tavola imbandita. Cessato il suo moto vorticoso, rivelerà sul proprio dorso una scritta: «alla più bella». Solo cinque sillabe, e in quelle cinque sillabe il destino di centinaia di uomini, la radice di un conflitto che si concluderà solo dieci anni dopo con la capitolazione di Troia. Divorata dalle fiamme, della città non sopravvivrà che un mostruoso scheletro di cenere e polvere, assieme a quelle parole omeriche che conferiranno al suo antico splendore e alle gesta eroiche di cui fu teatro l’immortalità.

Elena di Sparta
Natale Attanasio, Il giudizio di Paride: il pomo della discordia (1893), affresco di Palazzo Cirino, Nicosia

«La storia greca ha inizio con un crimine atroce, la distruzione di Troia. Lungi dal gloriarsene, come fanno di solito le nazioni, i greci sono stati assillati dal ricordo di quel crimine come da un rimorso. Da essa, attinsero il sentimento della miseria umana.»

Simone Weil, La rivelazione greca

E non vi è, per Simone Weil, raffigurazione della miseria umana più straziante ed esemplare di quella che permea le pagine dell’Iliade. Dolore, violenza, ferocia, tenerezza: padri che seppelliscono i figli, figli che seppelliscono i padri; giovani spose ora giovani vedove, donne un tempo sovrane, ora fatte schiave, pagano a caro prezzo l’eroismo talvolta cieco e spietato dei propri uomini. Come Ecuba, il cui lamento riecheggerà nei secoli alla vista straziante dell’uccisione del marito Priamo da parte di Pirro; della perdita dei figli, caduti uno dopo l’altro come tessere di un domino che non conosce più equilibrio né regole, se non quelle della meschinità e dell’ossimorica – o forse intrinseca? – bestialità umana.

Un rovesciamento, una peripéteia, per dirla con Aristotele. Un sovvertimento tragico che sbalza i combattenti giù da quelle bighe, che prima celebravano la gloria dei vincitori ed ora commemorano solo la miseria degli sconfitti. Questo il destino di Ettore, un Cristo senza croce né Verbo: la fiducia nell’umanità si sgretola nell’immagine dei suoi talloni trafitti e agganciati al carro che ne trascina il corpo esanime attorno alle mura di Troia, preda di un silenzio incredulo, funereo, premonitore degli orrori che ne precederanno la caduta.

Elena di Sparta
Sergey Postnikov, Addio di Ettore e Andromaca (1863), olio su tela

E tutto per colpa di una donna. Tutto per colpa di Elena.

Dolcemente rise Venere: «Lascia,
Paride, questi doni pericolosi e incerti.
Ti indicherò chi amare, e avverrà che la figlia
bellissima di Leda cada tra le tue braccia».
Così mi disse e, prescelta per la bellezza e i doni,
vincitrice riprese il cammino del cielo.

Ovidio, Heroides, vv.51-88

Il pomo della discordia lanciato da Eris reclama una padrona. Zeus decide che sarà Paride, giovane e avvenente principe troiano, a decretare la vincitrice. Persuaso dalla promessa di ricevere in dono Elena, sposa del re di Sparta Menelao e già celebre per la sua – incolpevole – bellezza, Paride sceglie Afrodite. Con l’aiuto di quest’ultima rapirà Elena da Sparta, scatenando nel marito Menelao un’ira che non avrà nulla da invidiare a quella del «Pelìde Achille» che apre il proemio: deciso a vendicarsi del ratto della moglie, chiederà al fratello Agamennone di accompagnarlo con il suo esercito a Troia. Questo, secondo il mito, il casus belli.

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Come si è potuto constatare, Elena proviene da Sparta. Volendo essere più precisi, Omero le attribuisce l’epiteto «argiva», senza però addurre ulteriori specifiche. In ogni caso, contrariamente a ciò che il senso comune tramanda, Elena non è originaria di Troia (o Ilio), città che, secondo le ricostruzioni storiche, si troverebbe nell’odierna Turchia. Ma allora perché la ricordiamo come Elena di Troia e non di Sparta?

Forse la risposta risiede nella progressiva e posteriore soppressione della connotazione geografica del termine: città da abitare ieri, modo di essere – insulto sessista – oggi. Questa spiacevole obliterazione sembrerebbe essere sintomo del più generale svilimento di cui è vittima. Rapita due volte – la prima da Teseo, la seconda da Paride -, Elena è un tipico esemplare di donna-oggetto: sballottata come un pacco-espresso da una parte all’altra del mondo antico, è bersaglio delle congetture di un servizio postale tutto al maschile, fatta ovviamente eccezione per intermediari di sesso opposto come Afrodite, prode pioniera della strumentalizzazione della bellezza femminile. Dalla presenza letteraria circostanziale, quasi velata, ma dalla colpa necessaria, Elena è un personaggio aneddotico, una «cagna» – come arriverà a definire se stessa di fronte al cognato Odisseo per bocca di Omero – capro espiatorio di un massacro decennale.

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Quello della colpa è un veleno che stilla già dall’aoristo «eilon», da cui Eschilo farebbe derivare il suo nome e dalla cui radice verbale “-el” verranno coniati i suoi tre epiteti «hélandros», «hélenas» ed «heléptolis»: rovina di navi, di uomini, di città. Nella tragedia eschilea AgamennoneElena accetta difatti di buon grado di fuggire da Sparta al fianco di Paride. Diversa è la versione di Gorgia, che nel suo Encomio di Elena ci restituisce una fanciulla incolpevole poiché vittima di due forze impossibili da fronteggiare: il volere divino della sopracitata Afrodite e quella persuasiva di Paride.

Per non parlare del «giuramento di Tindaro». Perché, se il contesto storico di riferimento non ci consente di stupirci del fatto che Elena sia obbligata uno a sposarsi e due a scegliere tra una schiera di baldi giovani, stupisce invece che il padre Tindaro costringa tutti quanti i pretendenti a giurare di prestare eventualmente soccorso al prescelto in caso di sua necessità. A richiedere la tutela della propria salvaguardia non è Elena: il «giuramento di Tindaro» non è frutto del capriccio di una sposa fin troppo consapevole della propria bellezza e dei pericoli ad essa connessi, ma di un padre che consegna l’incolumità – e in senso lato la libertà – della figlia ai suoi pretendenti, vincolandoli nelle trame di un voto infrangibile. Elena persuasa da Paride. Elena rapita da Paride. Elena salvata dal marito, dai suoi corteggiatori, dagli acheiElena perennemente oggetto delle pretese di qualcun altro, eppure colpevole. Elena di Troia e non di Sparta: sul suo passaporto la macchia di una colpa bugiarda, di una menzogna che, indisturbata, cavalca i secoli facendone, come tramanda Eschilo, una «donna dai molti uomini», la madre, la matrice (matrix, l’«utero») di tutte le libertine del domani.

Elena quindi, stando a queste interpretazioni, sarebbe niente meno che un fantoccio di carne dalle fila manipolate dalla discrezionalità divina, un essere privo anche di quell’ultima briciola di volontà cosciente sopravvissuta alla misoginia della grecità antica.

Complice di questa stucchevole e sempiterna imbecillità decisionale, frutto altresì di quella demenziale equazione secondo cui ciò che si aggiunge in bellezza va di rimando sottratto in intelletto, Elena è sempre raggirata o persuasa da qualcuno. Come ci ricorda la filosofa Maura GancitanoElena non può essere responsabile (perché di fatto non decide) di ciò che fa, ma è sempre colpevole di ciò che le accade. Non è responsabile delle pulsioni che gli altri uomini, come Paride, nutrono nei suoi confronti. Eppure ne è colpevole. Non vi ricorda niente? Un certo «se l’è cercata», cifra retorica peculiare dell’imperante cultura dello stupro, ad esempio?

Non si capisce perché, insomma, non si possa quanto meno tenere in considerazione che ciò che le accade – o anche solo parte di esso, perché in un orizzonte cosmologico quale quello greco non è mai possibile prescindere totalmente dal concorso divino – sia frutto di una sua scelta. La scelta, magari, di abbandonare un matrimonio infelice e di fuggire con Paride.

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La verità è che ciò che sul passaporto di Elena si presenta banalmente come un’errata corrige mancata ha in realtà un significato ed una valenza specificamente politica. Elena ha continuato a provenire da Troia e non da Sparta perché si è voluto identificarla con la propria colpa: quella di aver rigettato il paradigma costituito di donna fedele per seguire, forse, l’istinto.

Ricordare che Elena viene da Sparta e non da Troia non costituisce dunque solo un tributo ad una verità storico-letteraria per lungo tempo, e strategicamente, sommessa. Significa prendere atto che ciò che secondo gli schemi dell’Avanti Cristo era sinonimo di libertinaggio lo è anche qui, oggi, nel XXI secolo. Significa riconoscere che la società in cui vive Elena è solo una trasposizione mitica dello scacchiere contemporaneo, ma non diversamente appestato da uno schematismo patriarcale striato dalle sfumature di un sessismo sempre più spietato, arrogante e becero, su cui si gioca la partita concreta di coloro che a fronte delle proprie giuste, inoppugnabili rivendicazioni, vengono tacciate con disprezzo di essere sue figlie, o, più direttamente, figlie di quella Ilio che vorrebbe bugiardamente dargli i natali.

Elena di Sparta
Elena in Troy, di Wolfgang Petersen (2004)

La verità è che forse Elena si fa portavoce di due insegnamenti ancora oggi considerati fin troppo pericolosi: il primo, non considerarsi – e non lasciare mai che si possa venire considerate – proprietà di qualcun altro; il secondo, che non c’è colpa nel trovare il coraggio di abbandonare ciò che non si ama per seguire ciò che si sente. E in ciò è insita la ragione per cui quando noi donne abbiamo il coraggio di farlo, di rivendicare il diritto di scegliere della nostra vita, del nostro corpo, del nostro modo di gestirlo, abitarlo, donarlo o negarlo sbeffeggiando e rigettando le aspettative costituite, veniamo spesso tacciate di un delirio d’onnipotenza illegittimo, fuori luogo, o persino accusate di star ingaggiando una lotta contro i mulini a vento di una disparità di genere immaginaria, quasi proiettiva di un nostro connaturato e frustrante senso d’inferiorità. Come se non solo nascessimo inferiori, ma avessimo addirittura la presunzione di lamentarcene, ricercando nelle dinamiche storiche e socio-economiche il capro espiatorio della nostra fatale sciagura. Per non parlare di chi lo scotto di questa lotta, di questo dissenso, lo paga a prezzo dell’umiliazione, della violenza o – come ci suggerisce l’agghiacciante diffusione del termine “femminicidio” nei nostri spazi di informazione – della vita.

Non sinonimo di libertinaggio, ma di libertà. Di autonomia, di rivendicazione, di dissenso. Ogni volta che sentirete geo-localizzare una donna a Troia, dunque, ricordate di avere di fronte una donna libera. Una donna che lotta affinché, un domani, anche ciascuna di voi lo sia. E alla cui lotta inevitabilmente prendere parte.


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Sara Campisi
23 anni. La mia vita è un pendolo che oscilla tra la Filosofia e la perdita di diottrie.

FONTE:https://www.frammentirivista.it/elena-di-sparta-errata-corrige-di-un-passaporto-femminista/

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

Il commissario per l’emergenza coronavirus Domenico Arcuri ha spiegato la funzionalità dell’App Immuni, la cui operatività scatterà a maggio.

Durante la conferenza stampa tenutasi questa mattina il commissario all’emergenza Covid-19 Domenico Arcuri ha fatto il punto sulle attività in corso in vista della Fase 2. Tra i temi trattati durante il suo intervento, il commissario ha parlato dell’App Immuni e delle sue funzionalità, affermando che l’applicazione sarà operativa a maggio con le prime funzionalità relative al bluetooth per il contact-tracing, per poi essere implementata con le ulteriori funzionalità in tempi brevi.

Come funzionerà l’App Immuni

L’App Immuni sarà scaricabile liberamente, senza nessun obbligo ed è costituita da due parti:

  • la prima funzione è un sistema di tracciamento contatti che usa la tecnologia Bluetooth, che rileva la vicinanza degli smartphone a distanza di un metro, classificando e salvando codici identificativi anonimi degli altri dispositivi. I dati, caricati in cloud, vengono elaborati dal server che calcola il rischio di esposizione al virus per ogni codice identificativo anonimo salvato generando una lista di utenti a rischio e inviando loro una notifica chiedendo eventualmente all’utente di autoisolarsi o chiamare i servizi di emergenza.
  • La seconda funzione di Immuni sarà quella di creare una scheda clinica, una sorta di questionario nel quale oltre all’età, sesso, presenza di malattie pregresse e assunzione di farmaci, bisogna inserire ogni giorni eventuali sintomi o novità sullo stato di salute.

“L’App per il contact tracing farà scattare l’alert quando ad esempio il signor Rossi avrà avuto un contatto stretto per più di 15 minuti con una persona positiva. L’App per il contact tracing farà scattare l’alert quando ad esempio il signor Rossi avrà avuto un contatto stretto per più di 15 minuti con una persona positiva” ha spiegato il commissario Domenico Arcuri riguardo l’App Immuni.

Collegamento tra App e tamponi

Arcuri ha anche ribadito l’importanza del legame tampone-app per garantire il necessario livello di accuratezza nel contact-tracing:

“Gli scienziati ci dicono che il tempo minimo certo per essere a rischio di contagio sia 15 minuti. La App sarà collegata ai tamponi, noi ne abbiamo distribuiti 2,5 milioni fino a ieri, ne abbiamo eseguiti 1,7 milioni e debbo immaginare che le regioni abbiano in magazzino almeno 800mila tamponi, continueremo con una massiccia distribuzione per essere certi che ce ne sia sempre una quantità sufficiente” ha concluso Arcuri.

L’App Immuni è stata approvata dal Governo come metodo per poter individuare e contrastare ulteriormente la diffusione del Covid-19, nonostante ci possano essere dubbi riguardo la sua efficacia. In precedenza il Copasir ha chiesto un’audizione per i ministri della Salute, Roberto Speranza, dell’Innovazione, Paola Pisano, generale Gennaro Vecchione e di Roberto Baldoni, vicedirettore per la cybersicurezza del Dis in merito all’App Immuni.

FONTE:https://it.sputniknews.com/italia/202004289025557-app-immuni-il-commissario-arcuri-spiega-come-funziona-operativa-da-maggio/

 

 

 

ECONOMIA

LA “STABILIZZAZIONE INSTABILE” DELLA EUROZONA E LE RISPOSTE €UROPEE

OBBLIGHI DI RESTITUZIONE E LA TRAPPOLA DELLA DISOCCUPAZIONE PERMANENTE

1. Abbiamo visto, nel capitolo precedente della “saga” della pseudo-mobilitazione wanna-be solidaristica dell’€uropa, che, essendo invece espressamente vietati sia la solidarietà fiscale (art.125 TFUE) che il bail-out degli Stati da parte della Banca centrale (art.123 TFUE), gli Stati aderenti all’eurozona possono solo rivolgersi al finanziamento sul mercato e a condizioni di mercato non privilegiate (art.124 TFUE), cioè rigorosamente adeguate al profilo di rischio-Paese. Locuzione che, rispetto al metodo di finanziamento degli Stati sul mercato, cioè l’emissione di titoli di debito pubblico in forma di securities, implica la duplice valutazione:
a) ordinaria e principale: cioè quella relativa alla capacità di restituzione degli interessi promessi fino alla scadenza del titolo;
b) straordinaria e “eventuale”: quella della capacità di restituire, sempre alla scadenza, la sorte capitale presa in prestito.
Ulteriore chiarimento (che, per molti, non è inutile ribadire): in condizioni istituzionali “normali”, cioè NON proprie dell’eurozona – caratterizzata dal divieto di intervento della BCE in ogni forma diretta, sia come prestatore di ultima istanza al collocamento “primario” dei titoli, sia come vero e proprio “tesoriere” che monetizzi il fabbisogno dello Stato interessato -, la valutazione della capacità di restituzione degli interessi è interconnessa con quella di restituzione del capitale.
Infatti, la banca centrale (nazionale), fornisce, quale istituto dotato del potere illimitato di emissione della valuta in cui sono denominati i titoli statali, una garanzia implicita sulla restituzione del capitale (purché appunto in tale valuta); inoltre ciò, come corollario logico (il più contiene il meno), tende a fondare una capacità di intervento preventivo in forma di acquisto dei titoli, tale da contenere anche il livello degli interessi.
2. Ovviamente, questo potere di emissione illimitata della valuta nazionale, non esclude un diverso profilo (sempre in condizioni istituzionali “normali”): e cioè che invece esistano dei limiti alla garanzia  e cioè che sia essa stessa, (e non già la facoltà di emissione), ad essere limitata in circostanze peculiari (ma non inconsuete, specialmente se l’assetto istituzionale dell’economia internazionale è orientato alla libera circolazione dei capitali). E ciò si verifica;
i) quando i titoli di debito emessi dallo Stato sono denominati in valuta estera (es; in dollari) rispetto a cui la banca centrale nazionale non ha potere di emissione;
ii) quando lo Stato interessato (nel senso di ordinamento socio-economico complessivo e non di Stato-apparato con la sua specifica e diversa contabilità) presenta un saldo settoriale della contabilità nazionale, verso l’estero, non episodicamente negativo e, ancor di più, quando lo Stato medesimo registri una posizione patrimoniale netta sull’estero, altrettanto negativa.
Questi due dati contabili dell’economia reale e finanziaria di uno Stato, determinano che esista una serie di obbligazioni attive e di diritti di pagamento, a favore di soggetti esteri, che sono denominati (cioè “estinguibili”) nella valuta estera di tali soggetti creditori; valuta estera di cui i soggetti debitori nazionali – e, inevitabilmente, nella gestione dei pagamenti relativi-, il sistema bancario nazionale, non dispongono (se non per via di riserve accumulate a seguito di precedenti esportazioni nette e di altri accrediti di valuta estera accettata come mezzo di pagamento internazionale).
Le esaminate esigenze di pagamento verso l’estero, in valuta estera, si convertono:
iia) (in linea generale) in un eccesso di offerta della valuta nazionale, quindi della moneta che viene appunto “offerta” in conversione (per il pagamento) nella valuta dei Paesi creditori (che viene invece “domandata”); e questo determina una svalutazione della moneta nazionale, che porta ad un appesantimento del debito (privato, commercial-finanziario) a carico dei debitori nazionali, fino al punto che questi divengono progressivamente incapaci di far fronte ai pagamenti (di quanto importato o di quanto preso in prestito dal sistema finanziario estero per pagare le importazioni).
In tal caso, il sistema bancario nazionale diventa, da una parte, debitore insolvente del sistema bancario estero, dall’altro, creditore verso i soggetti nazionali importatori e/o finanziati dall’estero; ma creditore di soggetti nazionali, a loro volta, inabilitati a restituire ed in misura crescente.
iib) La conseguenza di ciò è che lo Stato la cui posizione netta sull’estero negativa implica (per il suo livello eccessivo e durevole) questa difficoltà dei privati, (cioè commerciale e finanziaria) di restituzione dei debiti commerciali contratti con l’estero nonché di fronteggiare il deflusso dei capitali investiti in strumenti finanziari o con “logica” finanziaria (si considera un “livello di guardia” di tale situazione una posizione patrimoniale sull’estero negativa superiore al 27-30% del PIL), deve intervenire con la spesa pubblica per rifinanziare il proprio sistema bancario e finanziario in generale (sistema oberato di restituzioni in valuta estera, e quindi in grave difficoltà nei pagamenti verso l’estero, cioè che consolida forti passività pregresse, e, al contempo, diviene creditore di soggetti nazionali in sofferenza, cioè subendo la svalutazione dei propri attivi).
Ma tale Stato può fare ciò solo emettendo nuovo debito in una valuta che, contemporaneamente, è soggetta a una crescente svalutazione (in quanto è in sovraofferta sul mercato valutario).
Da ciò deriva, com’è intuitivo, che, a fronte dell’aspettativa di costante e crescente svalutazione della valuta nazionale, lo Stato si trovi, nel finanziare il suo “tentativo” di salvataggio e, quindi, nel collocare i suoi titoli, a dover corrispondere  interessi crescenti ai mercati finanziari sottoscrittori, cioè una remunerazione capace di coprire il rischio di svalutazione del cambio durante tutto il tempo di durata del titolo.
iic) Non solo: in un processo circolare, la svalutazione così innescata determina, nei mercati finanziari, l’aspettativa di un crescente rischio di cambio. La stessa svalutazione in sè induce, a sua volta, una crescente esigenza di intervento fiscale di salvataggio, bancario e dei settori indebitati con l’estero (attraverso la partecipazione al capitale o il prestito provenienti dagli investitori finanziari esteri, che tendono a rientrare dei propri diritti di credito): questo deflusso di capitali determina il fenomeno per cui si rafforzerà l’aspettativa della emissione di quantità sempre più elevate di titoli da collocare sul mercato e con un rischio di cambio sempre più elevato.
Per questo motivo, come abbiamo visto a suo tempo, si ritiene che lo spread, verificabile in termini generali rispetto a qualsiasi Stato che voglia finanziarsi sul mercato finanziario internazionale, dipenda prevalentemente dalla posizione patrimoniale netta sull’estero (e in misura minore, ma non irrilevante, dalle prospettive di crescita del Paese).
iic-bis) Vale la pena di aprire una finestra di approfondimento sul punto perché ci tornerà utile a comprendere l’intera problema dell’eurozona e del suo approccio all’attuale crisi economica da pandemia.
Com’è noto, la crisi finanziaria di solvibilità verso l’estero di uno Stato viene (tendenzialmente) risolta, nell’ambito dell’attuale assetto economico-monetario internazionale, dall’intervento del Fondo monetario internazionale.
Un articolo del 21 aprile sul Financial Times, dal titolo “IMF Belt tightening appeals are wrong way to manage the crisis” riassume il quadro della questione, cioè l’impostazione normalmente seguita dal FMI, e ne indica i limiti nel fronteggiare l’attuale crisi (l’autore, David Lubin, è il direttore del settore “mercati emergenti” a Citigroup).
Si evidenzia come il FMI, nelle circostanze (di crisi finanziaria di uno Stato) ordinarie, si configuri come “prestatore di ultima istanza” per gli Stati. Ruolo che dentro l’eurozona è grosso modo attribuito all’ESM; intanto rammentiamolo.
Lubin sottolinea che il finanziamento predisposto di recente dal Fondo (per 100 miliardi di dollari) per consentire sospensioni e sgravi dei pagamenti in restituzione (al Fondo stesso quale creditore delle linee di liquidità già erogate) da parte dei paesi più poveri, è “inerte” a causa dell’idea di “condizionalità” insita nei rapporti tra il Fondo stesso e i paesi “beneficiari”. Questa condizionalità implica che il credito sia concesso in cambio di uno “stringere la cinghia” a carico del paese destinatario. Sostanzialmente si impone che il governo di tale paese riduca fortemente la sua spesa pubblica. La condizionalità persegue tre obiettivi:
1) stabilizzare il peso del debito pubblico per assicurare che le “risorse” rese disponibili dal Fondo non vadano sprecate (e già questo concetto implica che la spesa pubblica, normalmente corrispondente al reddito privato dei cittadini che ne sono destinatari, sia un “costo”; ma lo è solo dal punto di vista di un creditore esterno preoccupato principalmente della restituzione e conscio del fatto che quel reddito, in precedenza, era eccessivamente rivolto a consumare/acquistare beni prodotti all’estero e non entro il paese interessato);
2) limitare il fabbisogno di valuta estera dell’intera economia di quel paese, e la cui mancanza ha spinto il relativo governo, per l’appunto, a ricercare l’assistenza del FMI (e questo indica che l’austerità fiscale imposta come “condizionalità” mira essenzialmente a correggere il deficit con l’estero mediante compressione della domanda interna);
3) garantire che il FMI sia ripagato.
E qui la spiegazione di Lubin diventa interessantissima, proprio per definire la ragione giustificatrice della condizionalità legata agli strumenti di credito variamente escogitati per l’eurozona e far capire perché tale condizionalità debba essere immancabile. Ed infatti, poiché il Fondo non riceve in garanzia (della restituzione) alcun collaterale “fisico” dal paese “assistito”, lo “stringere la cinghia” (cioè la virtù di una rigorosa austerità fiscale imposta dall’esterno), agirebbe come una “sorta di collaterale”. Vale a dire, “aiuta a massimizzare la probabilità che il Fondo non soffra perdite nel proprio portafoglio di prestiti, perdite che avrebbero conseguenze negative sul suo ruolo all’interno del sistema monetario internazionale”.
Lubin aggiunge poi che la prosecuzione di tale approccio in questa fase è completamente “inappropriato”: data la tipologia della crisi di liquidità determinata dalla pandemia, cioè, i vari “paesi sono colpiti non perché abbiano indugiato in un eccesso di spesa pubblica irresposanbile che abbia portato a una carenza di valuta estera” per ripagare le importazioni (e quindi, in definitiva, il livello di reddito) che non si potevano permettere. Pertanto “appare quasi grottesco che il Fondo chieda ai paesi finanziati di tagliare la spesa pubblica in un momento in cui, come non mai, una magigore spesa è necessaria per impedire alle persone di morire o di cadere in una trappola permanente di disoccupazione“.
Oggi, secondo lo stesso Lubin, la soluzione alla crisi consiglia che il FMI proceda alla concessione di “unconditional liquidity” (liquidità priva di ogni condizione). E questo, come sappiamo, riguarda strettamente anche il genere discussioni e di soluzioni che vengono svolte tra gli Stati appartenenti all’eurozona.
Insomma, volendo trovare delle sintetiche proposizioni riduzionistiche dell’essenza del ragionamento di Lubin:
– il Fondo presta, in definitiva, ed impone un obbligo di restituzione immancabile e non temperabileproprio perché il prestito è l’occasione per garantire tale restituzione mediante delle condizionalità che obblighino a ristrutturare l’economia, e in particolare l’azione dello Stato “assistito”, riducendo la spesa pubblica per ridurre il reddito e quindi le importazioni (cioè le esigenze di pagamento in valuta estera che il Paese aveva incautamente contratto);
– la “trappola della disoccupazione permanente” (ed anche il peggioramento della qualità della vita sociale, in termini di salute, aspettative di vita, livelli di assistenza sanitaria, servizi sociali e pubbliche prestazioni in generale) derivante dall’imposizione di queste condizionalità a garanzie dell’integrale restituzione, è accettabile in condizioni “ordinarie”: ma risulterebbe moralmente sconsigliata se una crisi di liquidità fosse “non imputabile” alla colpa (non altrimenti emendabile) dell’aver vissuto al di sopra delle proprie possibilità.
Ebbene, come vedremo – ma come stanno evidenziando molti dei maggiori economisti e commentatori al mondo, tra cui De Grauwe , Wolf e Munchau -, nei negoziati relativi alla “risposta” dell’eurozona alla crisi economia da pandemia, sta prevalendo l’impostazione tedesca, e dei suoi alleati, per cui ogni assistenza di liquidità agli Stati debba passare essenzialmente per dei prestiti, con l’integrale obbligo di restituzione, che sia garantito da espresse o, comunque, necessariamente implicite forme di condizionalità.
Lungi dal concepirsi un rifornimento di  unconditional liquidity, in cui la prima caratteristica essenziale sia l’assenza dell’obbligo di restituzione in sé (cioè di ciò che può essere garantito SOLO attraverso le condizionalità fiscali-austere), queste risposte tendono tutte, complessivamente, ad aggravare la situazione debitoria degli Stati dell’eurozona, aggiungendo all’indebitamento sui mercati quello con i vari “prestatori” Ue, ancor più pesante per la sua condizionalità fiscale, più intensa e onerosa di quella che chiederebbero i mercati prestatori (almeno, com’è evidente, finché duri il sostegno della BCE con gli acquisti di titoli del debito pubblico).
iii) Dunque, all’interno dell’eurozona, la medesima situazione sopra esaminata, cioè quella relativa ai riflessi della posizione patrimoniale netta negativa sul costo del finanziamento statale sul mercato finanziario, presenta della caratteristiche peculiari.
E dunque: mentre per quanto riguarda le passività commerciali (e finanziarie più in generale) verso il complesso dei paesi esterni all’eurozona, la situazione è (tendenzialmente) quella riassunta al punto iia) precedente), le esigenze di pagamento (commerciale e finanziario) verso quella componente dei creditori esteri che va individuata nella atipica (in realtà “ambigua”) figura degli Stati appartenenti all’eurozona, portano a un fenomeno simile ma con delle peculiarità istituzionali, cioè dovute alle regole dei trattati, se vogliamo, persino peggiorative rispetto alla situazione ordinaria.
iiia) In sostanza, (l’esempio più eloquente di quanto stiamo per illustrare è quello della Grecia), il debito “esterno”, – commerciale o consistente nell’obbligo di restituzione del capitale o del prestito erogati dall’investitore/operatore finanziario estero-, corrispondente a una posizione patrimoniale netta fortemente negativa verso Stati dell’eurozona (es; Germania e Francia; e ci sarebbe sempre da chiedersi, a monte, perché una tale situazione possa risultare così frequente e vistosa dentro l’eurozona…), comporta che i debitori commerciali nazionali, e le banche nazionali di cui i primi si servono, non abbiano la liquidità in euro per poter pagare.
L’eccesso di importazioni e di contrazione di finanziamenti con operatori commerciali e finanziari di altri paesi dell’eurozona, ha portato ad un deflusso di euro per pagamenti; ovvero, prima ad un afflusso creditizio eccessivo al quale il creditore estero, paese dell’eurozona, può poi decidere di por fine chiedendo inoltre la restituzione di quanto in precedenza prestato: c.d. sudden stop, in cui si pone in dubbio la capacità di restituzione del “paese debitore” (in euro e da parte del creditore altrettanto in euro).
Come sappiamo, in questa situazione interna all’eurozona, si verifica una singolare operazione di deresponsabilizzazione ex parte creditoris nell’erogazione del finanziamento al debitore: si imputa tutto il “moral hazard” al debitore (che sostanzialmente, sarebbe un incosciente che vive allegramente “al di sopra delle sue possibilità” ovvero un “insolvente fraudolento”).
iiib) Lo Stato di appartenenza dei debitori non dispone, ovviamente, di una propria banca centrale che possa emettere euro con cui rifornire il sistema bancario nazionale al fine di rimborsare i creditori. E, d’altra parte, è anche intuitivo che non sarebbe logico che la Germania dovesse accettare in pagamento una valuta, sia pure denominata “euro”, emessa a discrezione da un altro Stato, non per le esigenze di liquidità comuni e indifferenziate dell’intera eurozona, ma emessa solo per garantire l’adempimento debitorio commerciale della Grecia e, per di più, senza incorrere in svalutazione.
Ma il gestore dell’equilibrata distribuzione della liquidità in euro tra i vari paesi aderenti, cioè la BCE attraverso il sistema dei pagamenti denominato Target-2, (che, a sua volta pone numerosi problemi, di cui abbiamo molto parlato), come sappiamo è soggetto al divieto di finanziamento diretto degli Stati e quindi la BCE, e la stessa moneta, devono risultare “neutrali” rispetto alla dinamica fiscale degli Stati, cioè alle condizioni di (non eccesso di) offerta di titoli da finanziare, come pure rispetto alla spontanea domanda di titoli da parte dei mercati finanziari.
iiic) L’equilibrata distribuzione della liquidità in euro tra i paesi dell’eurozona, in effetti, dovrebbe dipendere, secondo il sistema complessivo delle regole europee, dal libero mercato, dei capitali e di merci e servizi: cioè dall’efficiente allocazione delle risorse derivante dalla forte competizione (commerciale, così come nel contendersi la domanda dei mercati finanziari) tra gli Stati, che li dovrebbe indirizzare a costanti politiche di allineamento dell’inflazione su quella del paese più competitivo (casualmente, la Germania) e quindi dovrebbe condurre tutti a ricercare l’attivo, o quantomeno, l’equilibrio di lungo periodo dei conti correnti commerciali con gli altri paesi dell’eurozona.
la stabilità dell’inflazione – o meglio, della spinta deflattiva competitiva: cfr. art.3, par.3 del TUE, norma fondamentale del paradigma socio-economico dei trattati -, viene imposta attraverso la “disciplina di bilancio”, cioè tramite il rispetto di rigorosi parametri fiscali, tra cui il tendenziale pareggio di bilancio, in cui l’effetto (molto teoricamente) perseguito è l’azzeramento costante delle differenze di competitività tra Paesi e, se necessario, del deficit commerciale con l’estero, attraverso la continua sferza della compressione della domanda interna e del livello di occupazione e quindi salariale.
iiid) Il principale, se non unico, compito di governance sia degli Stati dell’eurozona che delle istituzioni Ue che li coordinano (Commissione e BCE, in particolare) è quello di ottenere questo effetto complessivo riducendo la spesa pubblica e inasprendo la pressione fiscale (operazione che Draghi stesso ha chiamato “internal devaluation v. qui, p.1“). E tutto questo assomiglia terribilmente, come sistema “a regime” e preventivo (cioè a prescindere dal verificarsi attuale di una crisi entro l’eurozona), al meccanismo derivante dalle condizionalità imposte dal FMI “in occasione” del prestito di cui pretende l’immancabile restituzione.
Dunque, lo Stato del paese debitore con l’estero (nell’eurozona) si ritrova:
a) privo del sostegno e della garanzia della banca centrale nel finanziarsi per poter fornire liquidità al sistema bancario ed economico nazionale;
b) con un sistema bancario fortemente indebitato con l’estero, ma in euro “escussi” da sistemi bancari di altri paesi dell’eurozona, e perciò incapacitato a creare moneta creditizia e a sostenere lo stesso debito pubblico emesso dallo Stato.
In sostanza, lo Stato dell’eurozona che sia debitore commerciale e finanziario (cioè, per la precisione, i cui cittadini siano complessivamente debitori a titolo privato) di altri Stati dell’eurozona, (cioè di operatori commerciali e finanziari privati di tali Stati), si troverà a dover comunque soccorrere il proprio sistema bancario, in difficoltà nel ripagare i sistemi bancari esteri (sia pure in euro).
iiie) Ed infatti,  – rammentando che è precluso ogni trasferimento interstatale all’interno dell’eurozona, da parte di un’inesistente autorità fiscale federale, in virtù dell’art.125 TFUE – un debito commerciale e finanziario tra paesi dell’eurozona è ripagabile solo se il paese debitore si procuri la provvista in euro o attraverso il continuo, quanto improbabile, rinnovo delle linee di credito da parte del sistema bancario del paese creditore (soluzione che, divenuta “eccessiva” si converte nel suo opposto, il sudden stop, cioè nella richiesta di rientro del credito già concesso e nella cessazione dell’erogazione di ulteriori linee), oppure attraverso l’intervento dello Stato che fornisca la liquidità al proprio sistema bancario facendosela, a sua volta, prestare dal mercato.
Finché conservi l’accesso al mercato…
iiif) Ed ecco allora quello che accade, o “rischia” di accadere, ai nostri giorni, e notevolmente acuito dalla crisi economica determinata dal lock-down conseguente all’emergenza del covid-19:  a seguito della mancata, ovvero delimitata e temporanea, garanzia della BCE (cioè di una garanzia che non sia piena e illimitata) e dell’applicazione (in prospettiva, ed in quanto non definitivamente rimessa in discussione)da parte della Commissione dei suoi poteri coercitivi circa il rispetto dei parametri fiscali(potenzialmente sempre attuali, per quanto ora solo transitoriamente sospesi eche, come abbiamo visto, servono principalmente a garantire l’allineamento competitivo e quindi a prevenire e ad aggiustare l’indebitamento commerciale con l’estero), i mercati a un certo punto percepiscono l’insostenibilità socio-economica del paradigma dell’eurozona, per uno Stato che abbia intrapreso l’aggiustamento dei conti con l’estero e, correlativamente, della propria posizione patrimoniale netta sull’estero.
Questo Stato dedito all’aggiustamento, infatti, avrà deflazionato, attraverso un’incessante austerità fiscale, in misura tale da aver compresso la domanda interna fino al punto da falcidiare la propria base produttiva, il proprio sistema infrastrutturale pubblico e, in generale, la propria capacità di un ritorno equilibrato alla crescita (potendo solo puntare sulla crescita export-led e sull’esigenza di non ripetere una crisi della bilancia dei pagamenti all’interno dell’eurozona).
iiig) I mercati sconteranno (com’è accaduto in particolare a partire dal 2018, in cui si sono assommati tale tensione politica interna e la crisi del paradigma export-led per il segnalato “incepparsi” della globalizzazione convertitasi in neo-stagnazione secolare) la tensione insopportabile tra la necessità sociale di tale Stato di intervenire a sostegno della propria crescita e occupazione, e quella di completare la svalutazione interna per l’intero allineamento competitivo necessario, così come richiesto dalle prescrizioni continue e martellanti della sorveglianza di bilancio della Commissione Ue. In un clima di sospetto politico reciproco parossistico, la Commissione e la BCE tenderanno a stigmatizzare ogni scostamento, non concordato e comunque sgradito, da questo paradigma, e, all’interno del paese “attenzionato”, l’opposizione sociale, e poi politica, a questa imposizione eteronoma di indirizzo politico-fiscale, tenderà ad aumentare.
iiih) In definitiva, ormai, dopo anni e  anni di aggiustamenti fiscali e internal devaluation (sempre ritenuti insufficienti nonostante la tensione sociale crescente e la povertà dilagante in paesi un tempo prosperi), i mercati prezzano con lo spread le probabilità che un Paese valuti la (oggettiva) convenienza di uscire dall’eurozona e, quindi, di arrivare a una ridenominazione del debito pubblico nella nuova valuta nazionale, che adotterebbe come conseguenza.
Siccome poi la tollerabilità di questa situazione dipende dal livello di intervento della BCE nell’acquistare i titoli del debito pubblico di questo paese, e di dare perciò un “minimo” di sollievo fiscale della situazione economica (grazie al contenimento dell’onere degli interessi), l’altra faccia del suddetto primo parametro di apprezzamento dello spread (cioè le probabilità di €xit) è il grado discrezionale di propensione (in definitiva “politica”) della BCE ad intervenire in modo consistente e durevole sui titoli di un certo Stato (specialmente l’Italia, com’è noto, ma non solo, nell’attuale situazione (sul punto, v. qui, p.3)
3. Ora, almeno a partire dall’inizio del programma di acquisti da parte della BCE, nel 2015 (e quindi anche delle banche centrali nazionali, parte del SEBC, coinvolte nel programma di acquisto), – e, tralasciando per semplicità il problema, non certo trascurabile, della contraddittoria simultanea introduzione dell’Unione bancaria (qui, pp. 3-4) -, il sollievo fiscale minimo formalmente perseguibile, e solo come effetto collaterale, ritenuto tollerabile (dalla stessa Corte Ue con sentenza dell’11 dicembre 2018), di una misura di politica monetaria, sollievo consistente nel contenimento dell’onere degli interessi, si è rivelato non essere sufficiente e ha portato, in modo crescente, per quanto surrettizio (in quanto elusivo del divieto di bail-out e di solidarietà fiscale contenuto nel “solito” art.125 TFUE e nel divieto di finanziamento diretto e in monetizzazione, di cui all’art.123 TFUE), alla trasformazione dello strumento degli “acquisti” in una para-monetizzazione. Una para-monetizzazione, appunto, lasciata alla ampissima discrezionalità de facto della BCE (cioè elusiva degli articoli citati) e come tale instabile e revocabile ad nutum.
Si verifica perciò una situazione di stabilizzazione instabile, in cui il mantenimento del debito pubblico acquistato da parte della BCE all’interno del suo bilancio, con il tacito (ma revocabile) impegno a reimpiegare i titoli scaduti in acquisti di nuovi titoli dello stesso Paese beneficiario, costituisce, allo stesso tempo, un incentivo a mantenere l’appartenenza all’eurozona e, in funzione della sua potenziale ed imminente insufficienza e/o, peggio, dell’immanente retrattabilità legale di tale impegno, (ad effetti disastrosi sostanzialmente costrittivi ad un default sul nostro debito pubblico), anche a considerare invece l’uscita da essa.
4. Ma l’Italia non è la Grecia, si dice.
E non è soltanto perché l’Italia “is too big too fail” (aspetto che non pare affatto spaventare i falchi tedeschi, olandesi e austriaci, nel considerare le risposte “comuni” alla crisi economica, e intrinsecamente, di potenziale liquidità e finanziabilità sul mercato che potrebbe riaffacciarsi nell’eurozona).
Lo squilibrio commerciale all’interno dell’eurozona, infatti, è stato dall’Italia corretto abbondantemente; in termini più ampi, la nostra posizione patrimoniale netta sull’estero, dal punto di caduta negativo del settembre 2011, è risalita fino all’attuale azzeramento; almeno stando al sotto riportato grafico tratto dal Bollettino del 20 aprile 2020 di Bankitalia e riferito al 31 dicembre 2019.
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5. Ma questa avvenuta correzione non basta alla German-dominance che soprassiede all’applicazione delle regole dell’eurozona; ci dicono: “i conti con l’estero sono stati aggiustati ma non la competitività”, cioè abbiamo avuto un’insufficienza della svalutazione interna ai fini dell’allineamento alle dinamiche salariali dei paesi virtuosi dell’eurozona.
Ma si tratta di un’accusa strumentale, come stiamo per vedere. Ed è agganciata essenzialmente all’ammontare del nostro debito pubblico rispetto al PIL: un problema che, una volta che si sia privi di debito con l’estero, e quindi di esigenze di aumento dell’intervento statale allo scopo di soccorrere il settore bancario e quelli comunque soggetti al controllo degli investitori finanziari esteri in ritirata, risulta di natura puramente istituzionale, cioè artificiale.
L’alto debito pubblico in rapporto al PIL è tale, e cioè l’Italia non riesce a correggere anche questo aspetto, perché le regole applicate ai paesi appartenenti all’area euro, – come quelle del tetto del 60% e del pareggio di bilancio, così come quelle (sul ruolo della BCE) del divieto di bail-out degli Stati e della monetizzazione -, in origine escogitate in correlazione alla summa degli obiettivi dell’eurozona codificati nel citato art.3, par.3, del TUEcioè finalizzate a mantenere la stabilità dei prezzi (e l’Italia registra da almeno 7 anni un’inflazione inferiore a quella della Germania e comunque alla media dell’eurozona) e la capacità di esportare (e l’Italia è da circa 7 anni in attivo nel saldo delle partite correnti), sono ormai applicate in termini puramente ideologici e moralistici (e certamente contrari al principio lavoristico e di intervento attivo dello Stato per garantire la piena occupazione, che sono i fondamenti della nostra Costituzione).
In pratica, tra fiscal compact, calcolo correlato dell’output-gap, riforme deflattive del lavoro imposte dai Country Report, tagli strutturali alla spesa corrente (tranne accorgersi degli effetti durante un’emergenza sanitaria), queste regole fiscali dell’eurozona hanno impedito all’Italia di crescere.
6. Lo shock della crisi del debito pubblico, impostaci nel 2011-2013 con la “cura Monti”, e successivamente l’Unione bancaria, hanno indotto gli italiani a esportare i capitali e a immobilizzare il risparmio sulla base delle attese di crescenti limitazioni fiscali del reddito e pertanto sull’esigenza difensiva di poter far fronte a nuove tasse o a spese private derivanti dal taglio delle prestazioni pubbliche.
Investire in Italia, e dunque convertire lo stock nazionale di risparmio in capitale produttivo è impedito dal continuo consolidamento fiscale e dalla carenza di aspettative di crescita della domanda interna; un sistema economico affidato soltanto alla crescita export-led comprime l’inflazione e quindi i salari e investe all’estero il (pur cospicuo) surplus realizzato.
La crescita ristagna intorno allo zero, e anche deficit pubblici minimi, rispetto a tale ristagno, implicano una traiettoria del rapporto debito/PIL in crescita.
7. Di questo aspetto rende conto persino Standard & Poor’s nel Report di venerdì 24 aprile che ha confermato ai titoli italiani il rating bbb. Citiamo testualmente da un’attenta lettura che commenta i passi salienti di tale Report:
– “gli attuali assetti dell’Eurozona non sono ottimali”. Sì, certo, Bce “is backstopping”, sta sostenendo il Btp. Ma ciò vale per qualunque Paese del mondo. Inoltre Bce è incapace di raggiungere “l’obiettivo di inflazione (…) Tra oggi e il 2022, prevediamo che l’inflazione in Italia rimarrà significativamente al di sotto dell’obiettivo del 2 per cento circa della Bce”. In una parola, l’Eurozona genera uno “svantaggio rispetto alle aree monetarie più antiche come gli Usa e la Gran Bretagna e, per l’Italia, “comporta una perdita di flessibilità monetaria quando le tendenze della competitività divergono da quelle degli altri grandi membri dell’Eurozona”.
Meglio guardare altrove.
E non si fa gran fatica, perché il concetto è scritto chiaro: “L’economia diversificata e ricca, il credito netto sull’estero ed il debito privato più basso del G7”.
Cominciamo dal fondo: “I livelli del debito privato italiano sono i più bassi, sia nel G7 che nell’Europa occidentale. Alla fine del 2019, il debito di famiglie e società non finanziarie sommava al 110 per cento del Pil contro il 114 in Germania, il 150 in Spagna e il 250 nei Paesi Bassi”, “i livelli di debito privato (famiglie più imprese) sono i più bassi nel G7 e i più bassi dell’Europa avanzata”. Non basta? “Incluso il debito del settore finanziario, i livelli complessivi del debito privato in Italia sono diminuiti di 48 punti di Pil, addirittura più del debito pubblico, che è aumentato (27 punti), dall’inizio della crisi finanziaria globale”.
Al punto che, “uno dei motivi della bassa crescita dell’Italia è la propensione del settore privato a risparmiare piuttosto che a spendere” (!). Non le mitiche “mancate riforme strutturali”, non “la burocrazia”… ma il risparmio. Per meglio dire, il disindebitamento: gli italiani sono stati troppo bravi a pagare i propri debiti, perciò non crescono (!!). Qualcuno lo spieghi a Cottarelli.
Risaliamo. “L’Italia è un creditore esterno netto. Il surplus delle partite correnti è l’ottavo in ordine di grandezza al mondo”. Non solo, “prevediamo che la posizione netta del creditore esterno in Italia continuerà ad aumentare nel prossimo decennio”, perché il coronavirus porta con sé un calo dell’export ma pure dell’import, sicché “l’Italia continuerà a gestire un avanzo delle partite correnti di circa il 2,6 per cento del Pil rispetto al 3 per cento dell’anno scorso”.
Il tutto, grazie alla sua economia diversificata e ricca: “Dopo la Germania, l’Italia è l’economia più aperta del G7, con esportazioni pari al 32 per cento del Pil italiano. L’Italia rimane il settimo maggiore esportatore al mondo ed è un’economia diversificata e ricca, senza una singola categoria di esportazione superiore al 4,5 per cento del totale”.
Morale: “Riteniamo che livelli di debito pubblico ancora più elevati possano essere sostenibili in economie come quella italiana”. Nonostante gli attuali assetti dell’Eurozona non siano ottimali e nonostante il perenne fallimento di Bce a raggiungere un pur miserando obiettivo di inflazione.
A very Italian Dilemma. Risolto il mistero: il mercato compra ancora Btp, perché emessi da uno Stato seduto sul debito privato più basso del G7, su nessun debito estero netto.-
8. Le risposte €uropee alla congiuntura drammatica determinata dal coronavirus sono quelle della rigida applicazione di queste regole avverse alla crescita, e quindi, per l’Italia, nonostante i fondamentali sani,  l’ancora elevato stock di risparmio e l’assenza di significativo debito con l’estero, sono sempre le solite. E sono quelle che implicano
a) che l’Italia, bisognosa di liquidità per far ripartire la propria economica come qualsiasi altro paese al mondo colpito dalla pandemia, debba indebitarsi sul presupposto di un incerto e potenzialmente precluso accesso al mercato;
b) che gli “strumenti” apprestati per i paesi dell’eurozona siano dunque quelli, pro-ciclici rispetto ad un’acuta (e incolpevole) fase recessiva, del ricorso al credito privilegiato e condizionale apprestato da istituzioni e fondi vari propri (principalmente) dell’eurozona; la liquidità può forse arrivare, se arriverà in misura sufficiente, se tale indebitamento risulterà “disciplinante”, cioè più costoso dello stesso ricorso al mercato;
c) che sia il risibile volume di prestiti assumibile a proprio carico dallo Stato con il SURE (previa prestazione di garanzie); che sia il prestito cofinanziato e previamente garantito dallo Stato stesso, e grottescamente “moltiplicato” dalla BEI per l’effettuazione degli investimenti delle imprese; che sia l’accesso all’ESM pretesamente privo di condizionalità (contro l’evidenza di ogni regolazione dell’azione del fondo risultante dall’art.136, par.3 del TFUE, dal trattato stesso, dalla sue linee applicative e persino dalla chiara enunciazione della bozza di disciplina delle linee di credito ECCL previste dall’Europgruppo quali “emergenziali”); che sia, infine, il vagheggiato Recovery Fundche, innescato sul bilancio Ue, porterà a un volume risibile di raccolta rispetto alle esigenze economiche in gioco nell’intera Ue, ma con la previa contribuzione in un corrispondente ammontare di “garanzie” (equivalenti all’emissione di debito pubblico) da parte dello Stato italiano, e la successiva devoluzione della quota di tributi vecchi e nuovi a favore dell’Unione; avremo sempre l’assunzione di debito, soggetto a condizionalità fiscali e macroeconomiche (per quanto non le si voglia scorgere), e l’obbligo, alle più varie e comunque ancora indeterminate scadenze, di restituzione di interessi e sorte capitale.
8.1. E in assenza di una sufficiente garanzia (illimitata) della BCE a sostegno del ricorso al finanziamento dello Stato sul mercato, nonché a fronte delle conseguenze delle varie e convergenti condizionalità macroeconomiche che verrebbero assunte, tale restituzione appare, in una concreta prospettiva dei prossimi anni, un vero calvario di lacrime e sangue: la restituzione del debito aggiuntivo che l’€uropa di offre come salvezza sarà da effettuare senza avere l’accesso al mercato.
E cioè ricorrendo all’estrazione di valore dalla (fiscalmente) esausta economia italiana, mediante tagli ulteriori di spesa pubblica e aumenti del prelievo fiscale.
Quest’ultimo soprattutto: perché la recessione e i fallimenti e le insolvenze che da essa incombono, porteranno ad una crisi bancaria che potrà essere prevenuta solo mediante una massiccia patrimoniale sulla ricchezza. A questa evenienza si perverrebbe comunque mediante l’imposizione della ristrutturazione del nostro debito pubblico: evenienza, a sua volta, equivalente a un default bancario generalizzato e a un bail-in di massa sui depositanti. Quelli che ancora non avranno portato all’estero i propri risparmi, investendoli in strumenti esteri non soggetti al bail-in o alla ristrutturazione dei nostri titoli del debito pubblico.
Una follia collettiva di cui i nostri decidenti non paiono accorgersi.
FONTE:https://orizzonte48.blogspot.com/2020/04/la-stabilizzazione-instabile.html?m=1

I 1.500 miliardi di euro promessi dall’Unione Europea non arriveranno mai. Il progetto non è stato mai discusso e i paesi del Nord sono pronti a bocciarlo. Le speranze di Conte e del suo governo si basano su un assegno di carta straccia. Per scoprirlo basta attendere il Consiglio Europeo del 6 maggio.

L’unica soluzione è l’Europa. Continuano a ripetercelo. Nel frattempo in Italia i morti sono più di 25mila mentre in Europa superano quota 100mila. E le previsioni economiche sono perfettamente in linea con quest’ecatombe. Il Fondo Monetario Internazionale annuncia un crollo del prodotto interno lordo dell’Italia superiore al 9 per cento. Per la ricca Germania di circa il 7%. In tutto questo l’Unione Europea non ha ancora mosso un dito. Né sganciato un centesimo. Da due mesi assistiamo solo a vuote discussioni scandite da richiami al rigore affidati ora alla Commissione Europea, ora alla Germania, ora ad un’ Olanda cane da guardia dell’austerità cara ai paesi del Nord. Per questo l’euro-ottimismo tornato a diffondersi dopo il Consiglio Europeo di giovedì scorso è assolutamente infondato.

Ancor più paradossale è la giravolta di un Giuseppe Conte trasformatosi in meno di 24 ore da grande nemico del Mes in appassionato sostenitore del fantomatico fondo europeo meglio conosciuto come “recovery fund”. A sentir il Presidente del Consiglio si tratta di “un fondo per la ripresa con titoli comuni europei che andrà a finanziare tutti i Paesi più colpiti”.Ma quel fondo non esiste. Non è stato discusso dai 27 capi di stato, non è stato votato e soprattutto non è stato progettato. L’unico segnale di una sua improbabile esistenza è il comunicato finale del Consiglio Europeo in cui il presidente Charles Michel accenna ad “fondo abbastanza grande da far fronte all’entità della crisi e rivolto ai settori e alle aree geografiche dell’Europa più colpiti”. Ma siamo davanti ad un evidente “flatus vocis”. L’unica decisione concreta dell’ultimo Consiglio Europeo è stata il via libera al pacchetto da 500 miliardi, disponibile dal primo giugno, basato sul Mes sanitario a condizionalità attenuata, sul piano Sure per la cassa integrazione e sui prestiti tra i 160 e i 200 miliardi della Bei (Banca europea di investimenti”).

Per l’Italia quel piano contiene più insidie che benefici. I 35 miliardi del cosiddetto “Mes leggero” se da una parte non prevedono, in apparenza, condizioni capaci di farci finire sotto l’egida della troika dall’altra appaiono in larga parte inutili. Sono infatti utilizzabili solo sul fronte sanitario e solo per far fronte ad emergenze determinate dalla pandemia. Sarebbero stati preziosi un mese fa, al culmine del contagio. Rischiano di rivelarsi carta straccia dopo il primo giugno quando la crisi degli ospedali sarà in gran parte passata. E minacciano di condannarci alle forche caudine previste dal vecchio Mes se li utilizzeremo al di fuori dell’ambito sanitario.

Sure e Bei sono invece assolutamente inadeguati perché la quota parte destinata all’Italia è insufficiente ad attenuare la crisi. Dunque l’unica speranza concreta è il “recovery fund”. Peccato che nessuno ne conosca l’entità. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen a volte ipotizza di metter sul tavolo 320 miliardi, altre volte parla addirittura di 1500 miliardi. Sono cifre da capogiro, ma anche da previsioni del lotto. Previsioni che si basano più sui desiderata dei singoli paesi che su calcoli effettivi. E così, mentre i governi di Spagna e Italia premono per l’opzione da 1500 miliardi, i paesi del nord spingono per cifre assai più contenute. Cifre probabilmente non superiori ai 360 miliardi ipotizzati inizialmente ed assolutamente inadeguate a garantire il salvataggio dell’economia italiana.

L’incertezza peggiore riguarda le modalità di stanziamento. Conte s’illude, o meglio ci fa credere, che l’Unione sia pronta ad emettere obbligazioni fino a 1500 miliardi di euro da girare poi ai singoli stati sotto forma si sovvenzioni a fondo perduto. In pratica dei prestiti che non dovremo rimborsare, ma su cui non smetteremo mai di pagare interessi. Una modalità che Austria, Finlandia, Olanda e Svezia non hanno nessuna intenzione di sottoscrivere. Nella visione frugale e rigorosamente anti italiana dei paesi del nord – probabilmente condivisa dalla Germania di Angela Merkel – quei soldi possono venir dati solo a prestito. E dopo aver fissato modi e termini del rientro. Se trovare un compromesso tradebito perpetuo e semplici prestiti appare un’impresa impossibile ancor più difficile è capire dove trovare i fondi per un’operazione di quel tipo.

La von der Leyen fa capire che per superare la boa dei mille miliardi bisognerà attingere al budget europeo. Gli stati membri dovranno dunque raddoppiare i contributi al bilancio Ue arrivando a versare fino al due per cento del prodotto interno lordo invece dell’attuale 1 per cento circa. Anche questa è una presa in giro. L’Italia per farsi aiutare dovrebbe versare 28 miliardi al posto dei 14 girati fin qui a Bruxelles. E anche su questo fronte lo scoglio insormontabile è quello nordico. Già contrari all’esiguo incremento di spesa necessario per far fronte al buco creatosi con l’uscita della Gran Bretagna i frugali paesi nordici non sembrano disposti a raddoppiare i contribuiti per salvare un’Italia e una Spagna considerate delle inaffidabili cicale.

Differenze e contrapposizioni sono insomma abissali e non diverse da quelle che hanno impedito la nascita dei cosiddetti “eurobond”. Con queste premesse è inutile illudersi che i partner europei trovino un’intesa prima del Consiglio Europeo fissato per il 6 maggio. Quel giorno diventerà evidente il bluff di Conte e del governo giallo-rosso. Pur di restare in sella non hanno esitato a bleffare esibendo un assegno da 1500 miliardi. Un assegno che tra poco più di una settimana sarà semplice carta straccia.

FONTE:https://it.sputniknews.com/opinioni/202004279017048-recovery-fund-il-piano-che-non-ce/

 

 

 

FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI

Le svalutazioni dell’euro dal 2008 a oggi

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Sentiamo spesso in televisione che l’euro ci avrebbe salvato dalla svalutazione (?) e allora la narrazione mainstream ci ha costruito una narrazione per cui l’euro ci salva mentre tornare alla “liretta” sarebbe un disastro.

Non starò a ripetere il terrorismo mediatico, che conosciamo tutti a grandi linee (inflazione alle stelle, crollo del PIL, raddoppio della benzina, perdita del potere d’acquisto ecc…)

Spesso chi sostiene queste “tesi”, sono persone che ignorano, o fanno finta di non sapere, questi semplici fatti.

1) Le oscillazioni monetarie sono la normalità, avvengono tutti i giorni (tranne weekend e festivi)

2) Le oscillazioni monetarie sono bilaterali: se c’è una moneta che si svaluta c’è simmetricamente l’altra moneta che si rivaluta (e viceversa)

3) Le oscillazioni di una moneta possono avere andamenti diversi fra le diverse monete (svalutare su A e contemporanemente rivalutare su B)

4) Anche l’euro guadagna o perde valore nei confronti delle altre valute mondiali.

Mi riallaccio all’ultimo punto, anche perché – ascoltando in TV i sostenitori dell’euro – l’euro in questi anni sarebbe stato immune da questo fenomeno, ma ovviamente non è così.

Attraverso il servizio tassi di cambio della Banca d’Italia, analizzeremo l’andamento dell’euro nei confronti delle principali valute mondiali.

Prendiamo le quotazioni di: dollaro USAsterlinafranco svizzeroyuan (la moneta cinese), yen giapponese e dollaro canadese.

Segue tabella con le medie annue dal 2008 al 2019. Vediamo come si è comportata la moneta unica l’indomani del crollo della Lehman Brothers.

Il valore di 1€ in X valuta estera, un aumento dell’indice significa rivalutazione dell’euro, viceversa una svalutazione dell’euro.

Per comodità ho approssimato alla seconda cifra decimale, la tabella si legge così, vediamo un paio di esempi:

– nel 2008 un euro acquistava 1,47 dollari USA, mentre nel 2009 valeva 1,39$ dunque l’euro si è svalutato

– nel 2015 un euro valeva 0,73 sterline dopo un anno lo stesso euro acquistava 0,82£ dunque l’euro si è rivalutato

Bene chiarito come funziona la tabella, facciamo 100 il valore del 2008 e vediamo l’evoluzione del tasso di cambio rispetto alle 6 valute prese in esame

Altro esempio: nel 2008 un euro valeva 152 Yen, nel 2012 lo stesso euro 102.

Eseguiamo una semplice proporzione

152 : 100 = 102 : X

Con X che vale 67, dunque l’euro si era svalutato del 33% (avete mai letto titoli del tipo “Yen in caduta libera”?)

Con questi semplici passaggi calcoliamo tutti gli anni per tutte le monete prese in considerazione.

Ecco i risultati da cui è stato ricavato il grafico di prima.

LA SVALUTAZIONE DEL 2015

Nell’arco di tempo considerato, dal 2014 al 2015 si nota un crollo dell’euro su tutte e 6 le valute prese in esame

Se nel 2014 avevamo 1€ = 1,33$ l’anno dopo lo stesso euro valeva 1,11 dollari americani. Di quanto di è svalutato l’euro?

(1,33 – 1,11) / 1,33 = 0,165 che in percentuale diventa il 16,5%

Vale a dire una svalutazione del 16,5% rispetto all’anno precedente.

E sapete come titolavano i giornali di 5 anni fa?

Per esempio l’Huffington Post (foto sopra) celebrava così la svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro: l’export mette il turbo, più turisti dall’America, benzina in calo, costi di importazione compensati dalle maggiori vendite all’estero.

Perché benzina in calo? Per la diminuzione del costo del greggio che tuttoggi rimane al minimo storico. Argomentazioni simili venivano riportata anche su “L’espresso“.

Niente cavallette come vedete…

GLI ANDAMENTI DEL 2019

Ecco com’erano le quotazioni rispetto al 2008, alla fine del passato anno

– L’euro ha perso il 23,88% sul dollaro USA

– L’euro ha guadagnato il 10,23% rispetto alla sterlina

– L’euro si è svalutato del 29,92% sul franco svizzero

– L’euro ha perso il 24,34% rispetto al yuan

– L’euro si è svalutato del 19,97% sullo yen

– L’euro ha perso il 4,74% rispetto al dollaro canadese

UN FOCUS SUL FRANCO SVIZZERO

In questo esame vince a mani basse la moneta elvetica. Il franco svizzero è da sempre un bene rifugio, specie in caso di crisi.

Dopo la crisi del 2008 il franco svizzero era molto richiesto, questo ha causato il continuo apprezzamento del franco (e simmetricamente la svalutazione dell’euro).

Nel 2011 la banca centrale svizzera reputava pericoloso un così forte apprezzamento del franco sull’euro. Dal settembre 2011 al gennaio 2015 la banca nazionale svizzera aveva attuato una misura chiamata “cambio minimo

Ecco in cosa consisteva, è stato spiegato dalla BNS in un video in italiano caricato sul loro canale YouTube. Segue la trascrizione dal minuto 10:00 al minuto 11:31

VIDEO QUI: https://youtu.be/2Yycm2XsDfc

« Come già avvenuto in precedenza, in tempi di grande incertezza, il Franco Svizzero (CHF) diventa una valuta ricercata.

Il Franco si è fortemente apprezzato raggiungendo valori record rispetto all’Euro e al Dollaro USA: il drastico apprezzamento del Franco rischiava di causare gravi danni all’economia svizzera.

In tali circostanze critiche la Banca Nazionale di acquistare valuta estera in grande quantità per frenare l’apprezzamento. Nel settembre 2011 ha persino introdotto – temporaneamente – un tasso di cambio minimo rispetto all’Euro.

Philipp M. Hildebrand (Presidente della Direzione generale della BNS) il 6 settembre 2011 ha detto: “A partire da questo momento non tollererà un cambio euro-franco sotto 1,20”.

Grazie alla soglia minima di cambio, la Banca Nazionale ha potuto arrestare l’apprezzamento del Franco.

Il cambio minimo è rimasto in vigore per oltre 3 anni, durante i quali l’economia svizzera si è ristabilita ed è tornata la fiducia nel Dollaro USA.

Verso la fine del 2014 è divenuto sempre più evidente che l’euro si sarebbe nettamente indebolito rispetto a tutte le altre principali valute.

Ciò faceva prevedere che il mantenimento del cambio minimo avrebbe comportato continui e ingenti acquisti di valuta estera. Di fronte a tali circostanze, nel gennaio 2015, la Banca Nazionale ha abolito il cambio minimo rispetto all’euro. »

Per quelli che “il problema è la casta e non l’euro”, la Svizzera non è un paese sospettabile di avere casta, cricca, corruzione eppure la loro banca centrale – in un video ufficiale – ammette tranquillamente che ritrovarsi con una moneta sopravvaluta avrebbe mandato l’economia elvetica a gambe all’aria!

E sapete che cosa è successo quando, nel gennaio 2015, la BNS ha abbandonato il cambio minimo? Ecco qui un breve riassunto di 2 minuti.

VIDEO QUI: https://youtu.be/2slGLDbNuik

CONCLUSIONI

Come avete visto, snche le monete come vedete seguono la legge della domanda e dell’offerta, il caso del franco prima citato penso sia lampante.

Se c’è richiesta del franco quindi il suo valore cresce, salvo – come avete visto – interventi dell’autorità monetaria nella direzione voluta, in questo caso quello di impedire, temporaneamente, una rivalutazione nei confronti dell’euro (che poi ci fu lo stesso).

Facciamo un altro esempio che in molti già conoscono

FONTE: Banca d’Italia – rapporto annuale sul 1992 (pag 325)

Fino al settembre 1992, nel sistema monetario europeo, la Banca d’Italia interveniva per evitare la svalutazione della lira sul marco tedesco attraverso la dilapazione delle sue riserve valutarie (48 miliardi di dollari…). Della crisi dello SME ne ho ampiampente parlato in un precedente articolo.

Se oggi tornassimo alla lira partiamo da una situazione in cui, da anni, la bilancia commerciale è complessivamente in attivo (fonte Istat).

Dunque non è affatto scontata una svalutazione della nostra nuova lira: negli ultimi anni con Stati Uniti, Regno Unito e Svizzera abbiamo una posizione di esportatori netti (foto sotto). In assenza di interventi dell’autorità monetaria, la tendenza della nuova lira su dollaro USA, sterlina e franco svizzero seguirà la via della rivalutazione.

FONTE: elaborazione su dati MISE – Tabelle 5A e 5B

Verosimile invece una svalutazione sulla moneta cinese, al semplice scopo di riequilibrare i conti con l’estero.

Come avete visto su alcuni paesi dell’eurozona siamo in surplus (Francia e Spagna) con altri in deficit commerciale (Germania, Paesi Bassi e Belgio), bisognerebbe quindi vedere la posizione complessiva di tutti i restanti 18 paesi dell’area euro (saldo Germania + Saldo francia ecc) per capire se serve o meno una svalutazione sull’euro.

Pertanto se domani dovessimo uscire dall’euro, e l’euro non crolla ma perde solo un membro, una possibile svalutazione della nuova lira sul vecchio conio unionista sarà solo un bene per la nostra economia (dopo oltre 20 anni di cambio fisso con i nostri competitor).

FONTEMinistero dello Sviluppo Economico – Tabella 8B

Per chi non lo sapesse le principali importazioni dai paesi dell’eurozona sono i prodotti finiti, in particolare le automobili tedesche e francesi. E in assoluto le automobili sono la principale voce di importazione del nostro paese, sempre parlando del 2016-2017-2018, molto più che del petrolio greggio, pensate!

Chiusa parentesi, torniamo a parlare dell’euro: delle notevoli svalutazioni dell’euro (20-30%) che ci sono state in questi anni, nessuno si è accorto di nulla… o avete visto carriole di euro al confine con la Svizzera?

Infine in questo momento il Regno Unito, che al contrario di noi è un paese importatore netto, si ritrova con una sterlina più debole di circa il 10% sull’euro: vi risulta che gli inglesi si siano impoveriti del 10%? Che hanno l’inflazione al 10%? Che il PIL sia crollato del 10%? Ovviamente no.

Se siete arrivati fino a questo punto avrete capito che le dinamiche dei cambi hanno ben poco effetto sulle vite quotidiane, salvo fare ogni giorno la spesa a New York o a Pechino.

E che una svalutazione della nuova lira nei confronti dell’euro deve preoccupare solo per chi lavora per gli importatori, in particolare le case automobilistiche tedesche…

FONTE:https://scenarieconomici.it/le-svalutazioni-delleuro-dal-2008-a-oggi/

 

 

 

GIUSTIZIA E NORME

DENUNCIA ALLA COMMISSIONE UE

Augusto Sinagra – 27 04 2020
Il mio Studio legale ha inviato alla Commissione europea a Bruxelles una richiesta di procedura di infrazione contro lo Stato italiano per illegittimità della ratifica del Trattato MES in quanto violativa proprio del Trattato di Lisbona e contraria ai principi fondamentali e alle finalità della stessa Unione europea.
Si riporta di seguito la parte introduttiva della richiesta.
“ALLA COMMISSIONE DELL’UNIONE EUROPEA
SEGRETARIATO GENERALE
B-1049 Bruxelles (anticipata a mezzo pec: SG-PLAINTES@ec.europa.eu)
ISTANZA DI PROCEDURA DI INFRAZIONE EX ART. 258 TFUE
Con il presente atto si denuncia lo Stato italiano che all’esito della ratifica del Trattato istitutivo del Meccanismo Europea di Stabilità ha violato (e viola) gli artt. 2, 3, comma 3, 4, comma 3, 48, comma 6, tue, oltre che per violazione degli artt. 145 ss. TFUE e 151 ss. TFUE, artt. 1, 31, 33, 34 e 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Denuncianti: prof. Avv. Augusto Sinagra, Prof. Avv. Anna Lucia Valvo, entrambi con Studio a Roma (Italia) in Viale Gorizia, 14, 00198. Telefoni: 0039 06 8412353; 0039 06 8848151: Mail: studio@sinagrasabatinisanci.it; annaluciavalvo@gmail.com; pec: augustosinagra@ordineavvocatiroma.org.
Cittadinanza: italiana
Normativa violata: quella prima indicata”.
Chi volesse copia dell’intero documento (circa 6 pagine) comunichi il suo indirizzo di posta elettronica.
Chiunque potrà aggiungere la sua sottoscrizione e inviarlo alla Commissione europea a Bruxelles via e mail.
Il mio Studio legale è, come si vede, impegnato in tutti i modi a contrastare la attuale deriva democratica in danno dello Stato sociale, dei lavoratori e delle imprese medie e piccole ormai in piena disperazione economica.

https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=2529112204071514&id=100009182787667

 

 

 

IMMIGRAZIONI

COSÌ I ROM STANNO RUBANDO LE CASE AGLI ANZIANI RICOVERATI – VIDEO

VIDEO QUI: https://vod02.msf.cdn.mediaset.net/farmunica/2020/04/593850_171c2e32c02965/171c2e32c02965-19_0.mp4?_=1
FONTE:https://voxnews.info/2020/04/29/cosi-i-rom-stanno-rubando-le-case-agli-anziani-ricoverati-video/

Afroasiatici e italiani agli arresti domiciliari

Paolo Sensini – 28 24 2020

Se avessero utilizzato un centesimo delle forze, della tecnologia e l’enorme determinazione che hanno dispiegato per bloccare dei cittadini intenti a fare la spesa oltre i 200 metri da casa, oggi il problema dell’immigrazione non esisterebbe.

Azzerato sul nascere! Ora chiunque si rende conto che quando lo Stato vuole davvero affrontare un problema e risolverlo può agire in tempi rapidissimi. Figuratevi bloccare dei clandestini in mare e rispedirli nel porto da cui provengono.

Un lavoro elementare, ma che per anni e anni sono riusciti a nascondere facendo credere al grosso dell’opinione pubblica che era un’operazione «impossibile» e «disumana». Quindi, con altrettanta facilità, si può arguire che volevano che le cose andassero esattamente così.

Riempire l’Italia di allogeni afroasiatici, che è quanto stanno continuando a fare anche in questi giorni di arresti domiciliari dell’intera popolazione italiana.

Perché come dicevano i latini: «Tutto ciò che non è vietato è consentito».

FONTE:https://www.facebook.com/photo.php?fbid=2571064559819900&set=a.1387036151556086&type=3

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

TITOLO DI STUDIO, ERASMUS

Decaduta, ma non abbandonata. Federica Mogherini, non più capessa della diplomazia UE, diventa rettore del Collège de Bruges, chiamato l’istituto di alta amministrazione della Unione.

Senza dottorato né ricerche accademiche da esibire nel suo curriculum scientifico. Ma vedete quanto serve aver fatto l’Erasmus.

14 mila euro mensili.

“Pur in piena crisi, i conflitti d’interesse e il clientelismo continuano come prima nelle istituzioni europee”; commenta l’eurodeputata del Rassemblement National Julie Lechanteux.

FONTE:https://www.maurizioblondet.it/titolo-di-studio-erasmus/

 

L’istituto IHME

Lisa Stanton – 18 04 2020

Sin da gennaio, l’OMS ha delegato l’Istituto IHME per le metriche e la valutazione della salute sulla pandemia di COVID19. Nel corso dei mesi, molti ricercatori asiatici ed USA lamentavano che esso forniva valutazioni, proiezioni e statistiche gravemente errate, per cui l’IHME ha rivisto più volte il modello, da ultimo il 13/04. Nonostante le previsioni sulle risorse ospedaliere siano state ridotte di decine di migliaia di posti letto e quelle sulla durata dell’epidemia di tre mesi, tuttavia il modello non è riuscito a descrivere correttamente l’utilizzo delle risorse ospedaliere, nè individuare l’indice di contagio 1 (un positivo, un contagiato).
Specie le proiezioni fuorvianti che pretendevano di paralizzare l’economia USA (in 15 giorni 17 milioni di disoccupati) hanno allarmato gli studiosi di statistica, i quali si sono messi al lavoro ed hanno accertato come neppure il nuovo modello IHME era utile perchè non riusciva nemmeno a riprodurre il passato recente. Gli accademici in carriera, che operano con molti modelli statistici, non ne avevano mai riscontrato uno con un margine d’errore così ampio persino su un evento passato e nonostante le molteplici modifiche apportate.
E’ emerso che il modello COVID19 dell’OMS utilizzato nel mondo intero è errato ed inutile, costruito per aggravare lo stato emergenziale, in modo che le proiezioni terrorizzino il pubblico e causino panico tra i politici, con l’obiettivo di provocare una crisi dell’economia mondiale e convincere 4 miliardi di persone a rinunciare alle libertà civili.
L’OMS ed il CDC (CENTRO PER LA PREVENZIONE E IL CONTROLLO DELLE MALATTIE) non godevano di grande prestigio in USA, così hanno pensato di mostrare una pandemia grave per esser presi sul serio. L’IHME è un esempio di un fenomeno noto ne Lascienza: quando un Istituto di ricerca indipendente riceve una sovvenzione di 279.000.000 di $ dalla Gates Foundation, proliferano dati farlocchi.
Ora negli USA la situazione sta evolvendo rapidamente in meglio.
Il chirurgo generale Jerome Adams ha spiegato in un’intervista che la Task Force istituita contro il Coronavirus ha scaricato il modello di contagio predittivo di Gates/CDC/OMS e sta lavorando sui dati reali. Da essi emerge che alcune aziende riapriranno già a maggio, altre a giugno, in contrasto con le tesi del dottor Fauci (presidente del CDC) e dei Gates che nel loro tour mediatico avevano minacciato la serrata delle aziende per un anno, sin quando i Governi non avessero usato i loro vaccini.
Per Adams “il popolo americano deve sapere che in realtà disponiamo di dati e li stiamo monitorando”. Prima di questo approccio, la Task force lavorava coi “modelli preventivi” creati dall’IHME per l’OMS ed il CDC, dove il controllo del Dr. Fauci era stato già criticato in passato per il fine di lucro nel gestire una serie di malattie, dall’HIV all’H1NI.
Sui modelli gonfiati e “fondati sulla paura” è stata stimata la morte di milioni di persone nel mondo e centinaia di migliaia in USA mentre molti esperti li definivano una “risposta gravemente sproporzionata”. I dati in tempo reale mostrano un numero di morti molto più basso in USA, essendo il metodo in grado di tracciare più accuratamente ciò che accadrà negli USA sulla base di dati raccolti in California o New York.
“Stiamo seguendo questi dati ogni giorno e li stiamo fornendo alle comunità locali in modo che possano prendere decisioni informate su quando e dove riaprire”, ha affermato Adams.
Tempi duri per l’OMS (cui sia Trump che Boris Johnson hanno sospeso i contributi per decine di milioni) e per Bill Gates, che credeva d’avere il mondo in tasca. Mentre il dr. Fauci non ha resistito alle polemiche e si è arreso: dopo aver chiesto pubblicamente scusa al Presidente, ha ammesso che la situazione è sfuggita di mano per sua responsabilità…
Trump, magnanimo, gli ha rinnovato la fiducia.

FONTE:https://www.facebook.com/lisa.stanton111/posts/3133111036707151

 

 

 

 

SCIENZE TECNOLOGIE

App, le nuove esche dolci

E’ pregno di condivisibili preoccupazioni il messaggio in bottiglia di Marco Dotti, docente di “Professioni dell’editoria” al Corso di Laurea Magistrale in Comunicazione Professionale dei Media dell’Università di Pavia. Giornalista professionista, si occupa di etica delle nuove professioni e del digitale, con particolare attenzione alle questioni aperte dallo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale (AI). Il suo ultimo libro è “Finis Europae. Welfare, neonazionalismo, corpi intermedi digitali” (Roma, 2017).

Carissimi amici di Infosec.news,

nel suo “messaggio nella bottiglia”, Adriano de Rosa vi scriveva dal futuro. Io, ahimé, ahinoi, vi scrivo dal passato.

Ho letto con attenzione l’analisi del Direttore Umberto Rapetto su “Bending Spoons e il pedometro gratuiti da 2 euro a settimana“. Subito mi sono tornate in mente vecchie questioni, mai risolte, che come tutte le questioni irrisolte prima o dopo presentano il proprio conto. Parlo di un problema che il Direttore conosce bene e meglio di tanti altri: l’azzardo e le sue “problematiche” tecnologiche, istituzionali, e di “appalto” (o meglio: di concessione),

Problematiche che diventano di sicurezza sistemica (e, va da sé, nazionale), soprattutto se viste dal lato delle “app gratuite” e del mondo tutt’altro che dorato dei “casual games”, I giochini che da un lato succhiano dati, dall’altro sembrano diventati il traino per catturare nuove prede attirandole con esche dolci.

Il tutto proprio mentre la mega-macchina dell’azzardo hard, quello delle bische legalizzate, che le sue prede le alletta in tante forme, app incluse, e le profila in tanti modi (succhiando dati e rivendendoli, perché del maiale il macellaio non getta proprio niente) riprende la sua corsa e ci riporta terribilmente al passato. Un passato di cui, ammettiamolo, conosciamo ben poco.

Così come del futuro conosceremo poco, se poggerà su aziende che incorporano nella loro architettura, ancor prima che nei loro algoritmi, oscurissime black box. Business is business, certo. Ma la sicurezza nazionale e la salute pubblica non possono essere ridotte così.

«Spero di sbagliarmi, ma vorrei tanto che la trasparenza della documentazione contrattuale e tecnica mi aiutasse a comprendere di aver preso una cantonata», scrive Rapetto nel suo pezzo. Credo che la chiave sia tutta lì. Credo che – tornando al passato – è proprio questa trasparenza che dovremmo chiedere alle istituzioni. Per capire, ad esempio, quali società progettino e quali fondi di investimento ne tirino le fila.

Altrimenti, possiamo già dirgli addio, al futuro.

Spero anch’io di sbagliarmi. Con stima.

FONTE:https://www.infosec.news/2020/04/29/un-messaggio-in-bottiglia/app-le-nuove-esche-dolci/

 

 

 

STORIA

Il prossimo 9 maggio ricorre il 75° anniversario della fine della Grande Guerra Patriottica (la Seconda Guerra Mondiale) che costò la vita a 26,6 milioni di sovietici, morti nella difesa del Paese dall’invasione dei nazifascisti.

La celebrazione del Giorno della Vittoria sia negli ex-paesi dell’URSS che in Russia ha una enorme capacità unificante ed è storicamente connessa, prima di tutto, alla memoria di persone che diedero le loro vite per la pacifica esistenza delle generazioni moderne.

Però nell’Occidente il ruolo decisivo dell’Unione Sovietica nella vittoria contro il nazifascismo purtroppo viene molto spesso svalutato e dimenticato. Ultimo “attacco” è accaduto nel 2019, quando il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che ha sostanzialmente equiparato sul piano storico il nazismo al comunismo.

Cosa è il V-Day in Russia? E perché l’Occidente dovrebbe onorare questo giorno? Per spiegarlo e soprattutto per evitare ulteriori distorsioni Sputnik Italia ha raggiunto Enrico Vigna, il saggista, l’autore del libro “Grande guerra patriottica. Nella storia e nei suoi valori più profondi e significativi. Il “9 maggio” e il “Reggimento degli Immortali”.

– Dott. Vigna, i combattimenti sul fronte orientale tra il 1941 e il 1945 avevano costituito la vicenda più decisiva della Seconda Guerra Mondiale, determinando la storia del mondo per il successivo mezzo secolo. Però ci sono pochissimi libri pubblicati in Occidente che parlano del ruolo dell’URSS nella sconfitta sul nazifascismo e troppi tentativi di distorcere la storia della Grande Guerra Patriotica. Quale potrebbe essere la spiegazione?

– Nel mio libro sulla Grande Guerra Patriottica si possono trovare molte risposte a questa domanda. L’Occidente ha una scarsissima produzione su questo aspetto storico, principalmente per una banalissima ragione: avrebbe dovuto far conoscere come si svolsero realmente le dinamiche storiche dell’aggressione nazifascista all’URSS e quindi svelare le terribili responsabilità, di fatto una complicità con cui permisero l’aggressione. Questo avrebbe potuto danneggiare le simpatie verso il “liberatore” USA e di conseguenza tutte le politiche subalterne e assoggettate all’atlantismo di questi ultimi 75 anni, dei paesi occidentali e dell’Italia in particolare. Nel mio libro cito il vicepresidente USA di allora, Harry S. Truman, che il 24 giugno 1941 sul New York Times, il giorno dopo l’invasione nazifascista dell’URSS, disse: “…Se vedremo che la Russia sta vincendo, dovremo aiutare la Germania, se vedremo che la Germania sta vincendo, dovremo aiutare la Russia, lasciando, in questo modo, che si ammazzino a vicenda nella maggior misura possibile…”. 

– I soldati dell’Armata Rossa, fuggiti dalla prigionia, hanno combattuto con i partigiani italiani per liberare l’Italia dal regime nazista di Hitler e dal fascismo di Mussolini. Che ricordi ha l’Italia oggi di questi soldati? Commemora il loro contributo militare?

– Sì sono stati circa 5000 e mi pare oltre 400 sono caduti in combattimento. Fino alla caduta dell’URSS era curata la memoria di essi, oggi molto meno, ma non sono dimenticati, vi è ancora una parte di italiani che cercano di mantenerne vivo il ricordo di eroi caduti non per la difesa della propria terra e patria, ma per aiutare un altro popolo, quello italiano, a liberarsi dal nazifascismo Penso che ciò, sia il senso più profondo che un uomo possa avere della fratellanza e della solidarietà.

– L’Occidente non capisce nemmeno bene il Giorno della Vittoria. Il 75° anniversario della fine della Grande Guerra Patriottica potrebbe diventare un’occasione per spiegare agli italiani e ai cittadini europei, perché il 9 maggio è così importante…?

– Penso che sia difficile in Italia, per una serie di motivi storici e culturali, oltreché di errori della sinistra italiana, che non è possibile esporre qui, far comprendere fino in fondo cosa rappresenti per i popoli dell’est Europa, e russi in particolare, cosa sia stata e cosa significa il Giorno della Vittoria. Una coesione politica, militare, emozionale, culturale e anche spirituale, che hanno forgiato una unità rara e invincibile militarmente, che ha sconfitto la più grande macchina militare fino ad allora espressa nella storia dell’umanità. Una epopea di massa, dove tutti indistintamente hanno contributo, dagli inabili al combattimento fino ai ragazzini, ai Padri ortodossi. Il ruolo fondamentale sia materiale che spirituale delle donne sovietiche, imprescindibili eroine, un baluardo della Resistenza al nemico e di sostegno interno, nella società e nelle famiglie devastate alla guerra. E fu tutto questo a salvare e liberare veramente l’Europa.

Come disse il generale statunitense G. Marshall alla fine della guerra: “…grazie all’eroica resistenza del popolo sovietico e dell’Armata Rossa. Senza di essa la guerra avrebbe raggiunto il continente americano…”. O come riconobbe il generale francese C. De Gaulle: “…i francesi sanno cosa ha fatto per loro la Russia sovietica e sanno che proprio la Russia sovietica giocò il ruolo principale nella loro liberazione…”.

– Quest’anno la tradizionale parata del V-Day doveva avere su tutto il territorio dell’ex Unione Sovietica un valore particolare ma l’emergenza coronavirus purtroppo impedisce qualsiasi manifestazione pubblica. Come Lei si immaginava questa festa nel 2020?

– Come ogni anno una magnifica e intensa, come emozioni e gioia, celebrazione, in più con l’anniversario dei 75 anni. Una vera e sentita festa di popolo, al cui interno ci possono essere mille differenziazioni, ma il 9 maggio si è un solo popolo, unito e accomunato dal sentimento più bello per un essere umano, quello della fede nella propria libertà e della propria patria, al di sopra di tutto. Con il motto tramandato da allora: NESSUNO DIMENTICA. NESSUNO È DIMENTICATO.

– Per i russi in tutto il mondo il momento della coesione nazionale assoluta sicuramente è il corteo del “Reggimento degli Immortali”. Cosa pensa di questa iniziativa che, con i tempi che corrano, potrebbe svolgersi online?

– Nell’animo e nella coscienza del popolo russo e dei popoli slavi, il “Reggimento degli Immortali” è diventato una tradizione popolare all’interno della Giornata della Vittoria. Una rimembranza che intende giustamente trasmettere alle nuove generazioni la memoria storica di ciò che è stata la Grande Guerra Patriottica. Radicare un sentimento profondo e mantenerlo vivo soprattutto verso i giovani e legarlo ad essi come continuità, con nonni, bisnonni, padri, familiari che hanno lotta e dato la loro vita per difendere la patria dall’aggressore nazifascista. Una marcia emozionante che forse sarà fatta in forme online, ma che perderà sicuramente una componente emozionale, ma, in attesa di tempi migliori, avrà lo stesso un significato. Come ha detto il presidente Putin negli scorsi anni: “Noi viviamo grazie a loro. NON dimenticatelo MAI”.

– La pandemia molti chiamano “la terza guerra mondiale”. Durante questo conflitto contro un nemico “invisibile” la Russia ha mostrato ancora una volta la sua vicinanza all’Italia e ha mandato degli aiuti importanti per combattere la pandemia. Questo gesto verrà ricordato coll’andar di tempo? 

– È una risposta per me difficile da dare, perché il mio modesto parere è che questo splendido e significativo gesto, resterà solo nella coscienza e nella memoria di una parte più sensibile e cosciente della popolazione italiana. Io, che sono parte di chi non dimentica e ricorda, voglio approfittare per dare un pubblico e sentito “SPASIBO” alla Russia per questo atto di generosità e solidarietà concreta.

FONTE:https://it.sputniknews.com/intervista/202004289021691-loccidenteha-una-scarsissima-produzione-sul-ruolo-dellurss-nella-vittoria-contro-il-nazismo/

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App, le nuove esche dolci