RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 3 NOVEMBRE 2022

RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 3 NOVEMBRE 2022

 

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

Sono ancora tutti li

(Tina Anselmi, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2)

In: BONSANTI, Colpevoli, Chiarelettere, 2021, PAG. 7

 

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SOMMARIO

ELIMINAZIONE DEL CONTANTE, DEGLI ARTIGIANI E DEI COMMERCIANTI AL DETTAGLIO
Migranti, Germania scrive al governo Meloni: “Presti velocemente soccorso alla Humanity 1”.
Strozzare l’Italia, l’Europa ha deciso: ecco come ci costringeranno al default
LA MUSICA: STRUMENTO DI PACE E DI ARMONIA TRA I POPOLI
Guerrafondai millantatori di “pace”
Come non umiliare gli sconfitti
L’ideologia di Stoltenberg
METAFORA
Il taglio della lingua
“In Rai suggeriscono l’eutanasia per i nostri anziani”. Il dottor Stramezzi e la denuncia choc: “Perché lo fanno”
Il “sovranismo degli investimenti” di Giancarlo Giorgetti
L’inflazione, ultimo tentativo di salvataggio dello status quo?
Nuove dinamiche del ciclo economico
LE TENDENZE DEL CAPITALE NEL XXI SECOLO, TRA “STAGNAZIONE SECOLARE” E GUERRA
Powell applica un altro turbo aumento dei tassi e annuncia che non si fermerà
Banche occidentali: l’arte del furto
Amnistia per gli errori delle politiche Covid? Prima vengano accertate le responsabilità
Oltremare
“Soldi da Soros per fermare Giorgia Meloni”. L’accusa choc di Calenda: “Ecco chi ha finanziato e come”
PSICOTOPO QUINTA PUNTATA: IL PIANETA DEI TOPI UMANOIDI

 

 

 

EDITORIALE

ELIMINAZIONE DEL CONTANTE, DEGLI ARTIGIANI E DEI COMMERCIANTI AL DETTAGLIO

di Manlio Lo Presti (scrittore esperto di sistemi finanziari) 1 11 2022
Con l’apparente motivo della lotta all’evasione nel piccolo commercio, viene sostenuta la campagna sempre più feroce dell’eliminazione del contante: tutto sulla base di una tesi che si basa sul teorema, forzato e fallace, che il contante è automaticamente segno di evasione fiscale.
Si tratta di una azione ideologica e propagandistica, messa in piedi per creare colpevoli diversi da quelli reali.
Il vero scopo di questa operazione è distruggere le piccole imprese personali, gli artigiani, i negozi di quartiere, e perché sono centri di associazionismo identitario di quartiere, e perché i loro flussi devono confluire nei centri commerciali e nella grande distribuzione. Due canali dove è possibile realizzare un vasto sistema di riciclaggio, come spesso denunciato dalla Guardia di Finanza: ma questa verità è scarsamente pubblicizzata. Per questo motivo, l’evasione più vasta esiste nelle zone industriali e con sviluppata rete finanziaria che possiede idonei e sofisticate modalità di evasione e riciclaggio (cfrhttps://www.vesuviolive.it/ultime-notizie/economia/431994-evasione-fiscale-nord-diviso-sud/ su FONTE: ISTAT 2020).
A riprova di quanto appena detto, sarebbe interessante consultare le certificazioni della Camera di Commercio che, per legge, devono riportare la creazioni di società: alcune delle quali hanno lo scopo di incassare importi rivenienti dal PNRR. Società che scompaiono poco tempo dopo la ricezione dei bonifici. Interessante è leggere i nomi dei soci fondatori, che sono prestanomi di strutture pubbliche molto note. Strutture statali intermediarie che non subiscono alcun controllo preventivo, né di merito né sulla destinazione delle enormi somme ricevute (che spesso non sono quelle previste).
Dove va a finire questa titanica massa di denaro? Nessuno vuole saperlo veramente. Gli organi di controllo nazionali tacciono. La Comunità europea (l’Ue) tace. La stampa tace. Nessuno parla del denaro che scompare tra le oscure pieghe dei labirinti Blockchain e delle criptovalute: silenzio assoluto!
E si capisce perché: i colpevoli da perseguitare sono gli sporchi e criminali piccoli commercianti: ovvio. Diciamola tutta: il piccolo commercio al dettaglio costituisce un ostacolo alla globalizzazione liberista promossa dai progressisti Dem al caviale, che da lungo tempo hanno smesso di difendere il lavoro ed i diritti sociali, consegnando il Paese ai colossi multinazionali.
Ora è chiaro perché i cosiddetti progressisti vogliono l’eliminazione del contante con la scusa dell’evasione?
FONTE: https://www.lapekoranera.it/2022/11/01/eliminazione-del-contante-degli-artigiani-e-dei-commercianti-al-dettaglio/

 

 

IN EVIDENZA

Migranti, Germania scrive al governo Meloni: “Presti velocemente soccorso alla Humanity 1”.

La Farnesina: “Chiesti chiarimenti a Berlino”

Migranti, Germania scrive al governo Meloni: “Presti velocemente soccorso alla Humanity 1”. La Farnesina: “Chiesti chiarimenti a Berlino”

La lettera di Berlino resa nota dalla trasmissione Il cavallo e la torre di Rai3: “Ci sono 104 minori a bordo, Italia agisca”. La premier aveva detto: “O la Germania se ne fa carico o quella diventa una nave pirata”. La Humanity 1, insieme alla Ocean Viking e alla Geo Barents, resta in mare in attesa di un porto sicuro dopo la direttiva del ministro Piantedosi: a bordo delle tre imbarcazioni ci sono in tutto 985 naufraghi
La Germania ha chiesto al governo italiano “di prestare velocemente soccorso” ai migranti naufraghi soccorsi dalla nave ‘Humanity 1‘. È quanto si legge in una lettera di risposta di Berlino, resa nota nel corso della trasmissione Il cavallo e la torre di Rai3, alla richiesta avanzata dall’Italia di farsi carico delle persone salvati sulle navi Ong che battono bandiera tedesca e norvegese. Risale ormai a 8 giorni fa la direttiva del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che intimava alle navi umanitarie di tenersi alla larga dalla acque italiane. E la premier Giorgia Meloni ha parlato apertamente di “navi pirata“. “Se fai la spola tra le coste africane e l’Italia per traghettare migranti – ha accusato – violi apertamente il diritto del mare e la legislazione internazionale. Se poi una nave Ong batte bandiera, poniamo, tedesca, i casi sono due: o la Germania la riconosce e se ne fa carico o quella diventa una nave pirata”.Adesso arriva la dura replica del governo tedesco: “Per il governo federale – si legge – le organizzazioni civili impegnate nel salvataggio di migranti forniscono un importante contributo al salvataggio di vite umane nel Mediterraneo“. “Salvare persone in pericolo di vita è la cosa più importante”, prosegue il testo arrivato da Berlino. Che poi sottolinea: “Secondo le informazioni fornite da Sos Humanity sulla nave ‘Humanity 1’, battente bandiera tedesca, attualmente ci sono 104 minori non accompagnati. Molti di loro hanno bisogno di cure mediche”. “Abbiamo chiesto al governo italiano di prestare velocemente soccorso“, conclude la lettera.La Farnesina, d’intesa con il Ministero dell’Interno, informa di aver inviato per iscritto, con nota ufficiale, all’Ambasciata della Repubblica Federale tedesca la richiesta di avere un quadro compiuto della situazione a bordo della “Humanity 1” in vista dell’assunzione di eventuali decisioni. In particolare, è stato richiesto di conoscere al più presto informazioni di dettaglio sulle persone presenti a bordo della nave, sulle zone marine in cui ha operato la nave, se vi siano persone vulnerabili a bordo e se sia stata già avanzata richiesta di protezione internazionale.

La direttiva emanata dal Viminale riguardava una settimana fa le navi Humanity 1 e Ocean Viking. Si è aggiunta successivamente la Geo Barents e ora sono complessivamente 985 i migranti soccorsi in mare in stand by sulle tre imbarcazioni che incrociano a poche miglia dalle coste siciliane. “A bordo ci sono tanti bambini e c’è chi ha bisogno di cure immediate”, premono le Ong che hanno indirizzato molteplici richieste di un porto a Italia e Malta, tutte andate a vuoto. E il ministro Piantedosi – è il Viminale che deve assegnare il porto – ribadisce il suo ‘niet’: “Non possiamo farci carico dei migranti raccolti in mare da navi straniere che operano sistematicamente senza alcun preventivo coordinamento delle autorità”, ha ribadito oggi in un’intervista al Corriere della Sera.

Sulla Humanity 1 (bandiera tedesca) i naufraghi raccolti sono 179. La situazione a bordo si va facendo via via più difficile: ci sono oltre cento minori, il più piccolo di soli sette mesi, che stanno “soffrendo di stress psicologico. Hanno bisogno di un porto ora”, dicono dalla nave. La Ocean Viking (bandiera norvegese) ospita invece 234 migranti. Sos Mediterranee, la ong francese che la gestisce, chiede da tempo un porto, considerando che tra i salvati c’è chi è in mare da ben 12 giorni. “È un obbligo per gli Stati fornire il ‘place of safety’ alle navi che sono state impegnate in operazioni di ricerca e soccorso e che trasportano a bordo i sopravvissuti”, ricorda Nicola Stalla, coordinatore del team. Medici senza frontiere, che gestisce la Geo Barents (bandiera norvegese, 572 persone recuperate), puntualizza che il team di bordo “ha tempestivamente contattato e informato sia le autorità marittime maltesi, responsabili della zona Sar in cui si sono svolte le attività di salvataggio, che le autorità italiane”. Sulla nave ci sono oltre 60 minori, tre donne incinte e casi che richiedono un intervento immediato.

FONTE: https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/11/02/migranti-la-germania-scrive-al-governo-meloni-presti-velocemente-soccorso-alla-nave-humanity-1-ci-sono-104-minori-a-bordo/6860089/

 

 

 

Strozzare l’Italia, l’Europa ha deciso: ecco come ci costringeranno al default

Strozzare l’Italia. Quelli che ci aspettano non sembrano proprio dei mesi facili. E non solo per le conseguenze del conflitto in corso tra Russia e Ucraina, con la crisi energetica sempre a tenere banco: l’inflazione nella zona euro resta alta e la Banca centrale europea ha risposto iniziando una serie ravvicinata di rialzi dei tassi di interesse che hanno portato rapidamente il costo del finanziamento dallo zero al 2%.

E le brutte notizie potrebbero anche non essere finita. Come anticipato da Il Tempo, infatti, “forte è l’ostinazione di far rientrare il carovita che, in un’intervista al quotidiano lettone Delfi, il presidente della Eurotower, Christine Lagarde, non ha lasciato scampo a chi ha pensato che la serie di rialzi fosse quanto meno rallentata scrive il Paragone.

“L’inflazione è ancora troppo elevata nell’area euro nel suo insieme, e soprattutto in Lettonia – ha osservato Lagarde – dove si è attestata al 21,8% in ottobre, ben al di sopra della media dell’area euro al 10,7%”. A causarla sono sopratutto “gli aumenti dei prezzi dell’energia e dei generi alimentari. La scorsa settimana abbiamo deciso di aumentare i nostri tassi di interesse per la terza volta consecutiva”.

L’operato Ue è finito però sotto attacco, con diversi economisti a sottolineare come l’inflazione che si vuole contrastare sia generata dai costi dell’energia e dal conflitto russo-ucraino, e dunque da fattori difficilmente controllabili dalla politica monetaria. In quel caso il rialzo dei tassi rischia di rendere più costosi i finanziamenti, scoraggiando i consumatori dagli acquisti, raffreddando i consumi e, contestualmente, riducendo gli investimenti.

La stretta monetaria voluta da Francoforte, insomma, rischia di trasformarsi in veleno più che in medicina: “Solo per guardare all’Italia, a salvare l’economia per ora è l’effetto della tenuta dei servizi, turismo in primis, che hanno contenuto i primi cali evidenti del settore agricolo e di quello primario. Ma se l’effetto tossico come detto è rallentato i primi sintomi negativi sono evidenti. Il primo è quello del rialzo dei prezzi dei mutui. Gli interessi sui fidi avevano già superato il 4% con il costo del denaro all’1,25% e, con il nuovo rialzo al 2% appena deciso dalla Banca centrale europea, è possibile immaginare che venga sforata la soglia del 5%”.

FONTE: https://raffaelepalermonews.com/strozzare-litalia-leuropa-ha-deciso-ecco-come-ci-costringeranno-al-default/

 

 

 

ARTE MUSICA TEATRO CINEMA

LA MUSICA: STRUMENTO DI PACE E DI ARMONIA TRA I POPOLI

La musica: strumento di pace e di armonia tra i popoliLa lezione dell’Associazione Chopin di Marcella Crudeli

È ben noto che molti amano realizzare componimenti in versi, ma che pochi riescono ad emergere come veri poeti, cioè persone in grado di comunicare univocamente agli altri – senza fraudolenti ermetismi – ciò che sentono, tramite un’espressione armonica percepibile come tale da tutti. Il poetare è, innanzi tutto, desiderio di scrutare nei recessi della propria anima, per farne emergere sentimenti universali come l’amore, la gioia, il dolore, la contemplazione, l’estasi, la serenità, l’ascesi spirituale. Anche dalla disperazione può scaturire la poesia, ma nel momento stesso in cui l’interiore tormento si traduce in versi, essi leniscono l’anima e diventano strumenti di cosmica condivisione. La poesia, acqua sorgiva della coscienza popolare, scorre a fianco del fiume della musica, sovente confondendovi il proprio corso per giungere al mare dell’arte universale.

L’antico legame tra musica e poesia, già presente nel mondo classico, si manifestò con maggiore intensità a partire dal Medioevo, con il fiorire di ballate, canzoni, sonetti, madrigali. Nella Firenze medicea la lirica popolare si innalzò a dignità artistica e con essa anche la musica, grazie a valenti compositori italiani e stranieri. Nel Rinascimento, a seguito dell’affermazione dell’Opera come rappresentazione musicale prevalentemente rivolta al certo aristocratico, si ebbe a Venezia una significativa innovazione, con l’accesso del popolo ai teatri.

La poesia si accosta alla musica, generatrice di tutte le arti, in quanto dipendente più dal sentimento e dall’immaginazione, che non dalla ragione, fonte dell’eloquenza prosastica. Ma è la musica a possedere intrinsecamente una più ampia ed intrinseca valenza universale rispetto alla poesia, in quanto trascende la parola e la pluralità degli idiomi, facendosi strumento di dialogo fra le genti di ogni dove e di ogni tempo, prendendo le mosse da stati d’animo, ed a sua volta suscitandone, nella prospettiva di affratellare l’umanità e di elevarne lo spirito, senza indulgere verso sonorità “trasgressive” di consolidate armonie, per puro conformismo modaiolo.

La musica si avvale di un linguaggio più immediato e meno schematizzabile, in quanto voce di un più ampio universo, comprendente anche i suoni della natura. Sant’Agostino esaltò la musica nel suo trattato omonimo, come strumento privilegiato per potere intuire la perfezione del CreatoreDante colse nel canto delle anime elette, la forma esteriore delle celesti beatitudini proprie dell’appartenenza al Paradiso. Lo stretto legame che nel Medioevo si venne ad instaurare tra le due arti, fu evidenziato da lui, che ebbe a definire la poesia “una finzione retorica versificata e posta in musica”. La possanza del linguaggio musicale fu sperimentata sia nella liturgia riformata di Lutero, che in quella cattolica post-tridentina, nel cui ambito lasciò un’impronta di vigorosa ed intensa spiritualità Pier Luigi da Palestrina, compositore di Messe, inni e litanie polifoniche.

Nei secoli XVI e XVII si sviluppò l’Opera, che in Italia ebbe centri di eccellenza a Firenze, Roma, Napoli e Venezia, nella qual ultima città tale genere musicale perse l’originaria destinazione aristocratica, rivolgendosi ad un sempre più vasto pubblico interclassista. A Napoli, divenuta il principale centro dell’Opera nel Settecento, si distinse lo Scarlatti, che influenzò Hendel Bach; ma altri compositori insigni emersero altresì nel capoluogo partenopeo, come il Paisiello, il Cimarosa, il Pergolesi, i quali divennero famosi nella c.d. “opera buffa”, i cui protagonisti furono mutuati dalla commedia dell’arte.

Nell’Ottocento la grande musica italiana si arricchì del genio brioso di Rossini, della ricca ispirazione melodica di Bellini e Donizetti, della creatività dolce ed al contempo severa di Verdi, nel qual ultimo prevalse l’elemento drammatico. In lui le passioni umane più profonde, i contrasti più laceranti, presero le forme di una musica di austera e composta bellezza, che vide alternarsi passaggi di coinvolgente passione morale e civile, con tratti di soave dolcezza elegiaca: fu musica pura, capace di trasmettere intense e galvanizzanti pulsioni patriottiche, tramite l’evocazione storico/drammatica.

Subentrò tra la seconda metà dell’Ottocento ed il Novecento, la nuova tendenza del “Verismo”, cioè dell’imitazione della realtà, che nelle note fu recepita da compositori di primo piano, quali Mascagni, Puccini, Leoncavallo, Cilea, Respighi, Giordano, per citarne solo alcuni tra i più famosi. La musica è quella che attraverso il suono – notava il Gioberti – “si apparenta con la voce e con lo spirito, quasi corda vibrata immediatamente dall’anima, ed acconcia ad estrinsecare le sue affezioni”. Musica e poesia sono – lo ribadiamo – arti sorelle, in quanto entrambe si avvalgono del ritmo, che è il moto regolato dai suoni per la prima e dalle parole per la seconda. Risulta sempre attuale l’esortazione che Verdi era solito rivolgere ai compositori esordienti, invitandoli ad essere liberi se volevano affermarsi come veri artisti, senza preoccuparsi di scrivere secondo le tendenze del momento.

“Le opere di questi giovani – osservava il maestro – sono frutto della paura. Nessuno scrive con abbandono, e quando questi giovani si mettono a scrivere, il pensiero che li predomina si è di non urtare il pubblico e di entrare nelle buone grazie dei critici”.

L’Ottocento fu l’età aurea della musica classica, giunta al massimo della sua maturità espressiva con autori del livello di Verdi, Rossini, Bellini, Donizetti, Wagner, Beethoven, Schubert, Schumann, Mendelssohn, Paganini, Liszt, Chopin, Berlioz, Čajkovskij. Il valore letterario dei libretti e delle trame che accompagnavano le note, andò tuttavia scemando con la conseguente divaricazione tra musica e poesia, che si fece più accentuata nel Novecento.

Oggi appare vieppiù necessario promuovere nei giovani l’amore per la musica e per la poesia, in quanto possono concorrere ad elevare l’animo umano verso le cose quae sunt spiritus, educandolo in tal modo alla ricerca di quell’equilibrio e di quella pace interiore che costituiscono la premessa indispensabile, a livello relazionale, per una solida e duratura pace tra le nazioni. In questo terzo millennio, altamente tecnologizzato, sempre più proteso a nuovi obiettivi di un progresso scientifico non sempre ancorato all’etica, si assiste alla vuota ed affannosa corsa verso inappaganti chimere di felicità, nel mentre torna ad avvertirsi una struggente nostalgia di un passato più attento ai valori dello spirito, il qual ultimo ci contraddistingue da tutti gli altri esseri viventi.

Si percepisce forte ed imperioso il desiderio del recupero di una perduta serenità interiore, scevra da affanni modaioli, come la prevalenza dell’apparire sull’essere, dell’avere sul dare, mentre è soltanto la condivisione solidale che può riscaldare ed appagare le menti ed i cuori – contro la povertà dell’egoismo utilitaristico – rivelando una sana e non sopita coscienza morale, che rivendica imperiosamente le sue ragioni.

Se il provvido tormento delle nostre anime non resterà sterilmente chiuso nel rimpianto del passato, ma ci condurrà sitibondi ad abbeverarci alle perenni fonti del bello, del vero e del buono, ci ritroveremo più forti ed interiormente appagati nel trasmettere alle future generazioni un patrimonio incommensurabile di valori morali e civili, attraverso i quali si perpetuerà il nostro ricordo sub specie aeternitatis.

Avremo così lanciato “una fune verso l’infinito”, affidando a chi verrà dopo di noi un patrimonio morale che trascenderà la finitezza che il tempo ha assegnato ai nostri corpi mortali. Nell’attuale dramma della guerra scatenata dalla Russia di Putin contro l’Ucraina, qualche oasi di speranza va tratta dagli eventi concertistici cui partecipano anche degli artisti appartenenti ad entrambi i Paesi, dove il linguaggio dell’armonia universale scandito dalle note, è più forte del fragore delle bombe. La musica, nella sua universalità espressiva, è lo strumento per eccellenza se non per cambiare, almeno per migliorare il mondo, affinando la sensibilità dell’Uomo.

Questo è lo spirito con cui opera da 35 anni l’Associazione Fryderyk Chopin, fondata dalla professoressa Marcella Crudeli – già direttrice del Conservatorio di Pescara – la quale organizza dal 1990 il Concorso pianistico internazionale “Roma”. Ed è un’infaticabile formatrice di tante generazioni di giovani musicisti, che nel tempo hanno appreso non soltanto l’arte del pentagramma, ma anche attraverso scambi interculturali con i loro coetanei di ogni parte del mondo, lo spirito dell’amicizia e della fratellanza universale, al di fuori ed al di sopra di ogni barriera politica, religiosa, culturale e geografica. A fronte di ciò, le più alte istituzioni dello Stato, come la Presidenza della Repubblica, il Senato, la Camera dei deputati, la Presidenza del Consiglio, hanno costantemente significato il loro apprezzamento al concorso ricordato, conferendo premi di rappresentanza alle varie edizioni succedutesi nel tempo.

La professoressa Crudeli, è stata personalmente insignita dell’onorificenza di Grand’Ufficiale della Repubblica, in riconoscimento al suo impegno per la diffusione della musica, come strumento di crescita morale e civile, nonché di coesione internazionale tra i popoli. 80 anni di vita per nulla affatto dimostrati e 70 di carriera come musicista ed artista di fama internazionale, sono il bagaglio professionale, morale e civile della Crudeli, che rappresenta uno dei più prestigiosi “biglietti da visita” dell’Italia all’estero, quale ambasciatrice di un linguaggio di armonia universale, nel quale a tutti gli uomini di buona volontà è dato riconoscersi e reciprocamente intendersi.

FONTE: https://www.opinione.it/cultura/2022/10/29/tito-lucrezio-rizzo_marcella-crudeli-musica-grand-ufficiale-repubblica/

 

 

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

Guerrafondai millantatori di “pace”

Un sessantaduenne è stato multato per 4.000 euro a Amburgo, perché giudicato colpevole di aver viaggiato per la città, nel marzo scorso, con un foglio di dimensioni “A4” recante la lettera “Z” attaccato a un finestrino della propria vettura.

Nel procedimento, avendo l’uomo dichiarato che la “Z” è per lui semplicemente l’ultima lettera dell’alfabeto, la giudichessa (si dice così nella “sinistra” che tifa per Kiev e per la guerra?) ha dato ragione al poliziotto che a marzo aveva fermato l’uomo, decidendo che, nel contesto di allora, la “Z” simboleggiasse la guerra della Russia e che quindi l’uomo, con quel A4 al vetro dell’auto, volesse dire “Io sto con Putin”.

Ieri, la riproduzione di un post su feisbuc con questa notizia, ha provocato il pronto intervento dei campioni della “lotta alla disinformazione”, i quali hanno perentoriamente segnalato, per prima cosa, che «Il post contiene informazioni che fact-checker indipendenti hanno dichiarato essere false», e poi, di seguito, che «Il tuo post non include informazioni controllate da fact-checker indipendenti».

La ferrea logica che unisce le due segnalazioni è pari solo a quella dell’asina Balaam che parlava al suo padrone Balak. Ma, di fronte a cotanta autorevolezza…

Chi invece non abbisogna di alcuna supervisione «da fact-checker indipendenti» e si prodiga da solo a diffondere il verbo, è un articolista, (a giudicare da tutto, in odore di santità a Kiev), il cui servizio era presentato ieri con un titolo a cinque colonne sulla prima pagina de il manifesto: «Mosca millanta la “bomba sporca” di Kiev»; e lo fa, com’è ovvio a tutti i “fact-checker indipendenti”, «senza prove».

Il fact-checker indipendente, pagato però da via Bargoni, ha visionato le notizie provenienti da Mosca e ha risolutamente messo nero su bianco che, vista l’origine, non si può che decretare «essere false»; anzi, millantate, che meglio le avvicina al 346-bis del codice penale italico.

Ora, quali sono le dichiarazioni “del nemico”? In sintesi, dato che ormai i lettori ne sono a conoscenza, il Ministero della difesa della “perfida Rus” ha detto di essere in possesso di informazioni secondo cui due enti ucraini hanno ricevuto istruzioni specifiche per mettere a punto la cosiddetta “bomba sporca” e che i lavori sono allo stadio finale.

Mosca è inoltre a conoscenza di contatti tra Presidenza ucraina e esponenti britannici per il possibile ottenimento di tecnologia atta a creare armi nucleari, per le quali Kiev dispone di base produttiva e potenziale scientifico adeguati.

I siti ucraini che hanno scorte di sostanze radioattive da poter utilizzare per la “bomba sporca” sono tre centrali nucleari attive: a Južnoukrainsk (regione di Nikolaev), Netešin (regione di Khmel’nitskij) e Varaš (regione di Rovno) che hanno 9 pozze di combustibile nucleare esaurito, con circa millecinquecento tonnellate di ossido di uranio arricchito all’1,5%.

Altri componenti – decine di migliaia di elementi con uranio-238, uranio-235 e plutonio-239 – sono nella centrale di Chernobyl, pur se dismessa; lo stesso per le decine di migliaia di metri cubi di scorie radioattive del sito “Vektor”, dell’impianto chimico di Kamenskoe (la sovietica Dneprodzeržinsk), dei siti di smaltimento di scorie “Burjakovka”, “Podlesnyj”, “Rossokha”.

E c’è anche l’impianto di estrazione “Vostočnyj in cui, da due pozzi minerari su tre, si estraggono circa mille tonnellate l’anno di uranio.

Il Ministero della difesa “nemico” sottolinea anche che Kiev dispone pienamente delle basi scientifiche necessarie a creare la “millantata” bomba: l’Istituto di fisica e tecnologia di Kharkov, i cui scienziati avevano preso parte al programma nucleare sovietico, e dove operano tuttora varie strutture sperimentali, termonucleari (“Uragan”), così come l’Istituto per la ricerca nucleare dell’Accademia delle scienze di Kiev, presso il cui reattore WWR-M sono in corso ricerche con l’utilizzo di materiali altamente radioattivi.

Qui, come pure all’impianto di estrazione di Žëltye Vody (distretto di Kamenskoe, nella regione di Dnepropetrovsk) sono attesi per i prossimi giorni gli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica.

Ieri, il portavoce presidenziale russo Dmitry Peskov, ha definito «inammissibili» le reazioni occidentali al pericolo della “bomba sporca” ucraina denunciato (qualcuno vorrà dire: millantato?) da Mosca. Si tratta, ha detto Peskov, di «un approccio niente affatto serio; un approccio che definirei inammissibile, sullo sfondo del pericolo di cui parliamo… Poniamo ancora una volta l’accento sul grande pericolo che si cela dietro la realizzazione dei piani ucraini».

Il riferimento di Peskov era alle reazioni del Segretario alla difesa USA, Lloyd Austin, che respinge gli avvertimenti russi, e del Segretario di Stato, Antony Blinken, secondo il quale sarebbero “infondati” i moniti di Mosca sul possibile impiego della “bomba sporca” da parte ucraina.

Ligi, come fossero a via Solferino, al Verbo emesso da Washington, a via Bargoni hanno dunque pensato bene di proclamare che tale pericolo è “millantato” e «senza prove».

Di più: credendo forse di far dispetto al governo fascio-leghista di casa nostra – per definizione “amico e accolito di Viktor Orbán” – si sono incaricati di mettere alla berlina «la solita voce dissidente» dell’Ungheria, colpevole di «aver chiesto un cessate il fuoco immediato e colloqui di pace tra funzionari ucraini e russi il prima possibile».

Un tradimento, quello perpetrato a Budapest, con una «una capovolta mediatica che assomiglia a quelle di Mosca», che i reazionari italici si guardano però bene dal plaudire. Ma, soprattutto, una “diserzione” inconcepibile per chi, sulla scia di Vladimir Zelenskij (ieri, alla cosiddetta “Piattaforma di Crimea”, a Zagabria) pronostica che «dopo la de-occupazione dell’Ucraina, sarà la volta di Transnistria, Abkhazija e dei “territori del nord”», come i giapponesi chiamano le isole Kurili.

Non la pace, dunque, invocano gli autodefiniti “fact-checker indipendenti”, ma che l’intero “mondo libero” abbia «un’unica lingua e uniche parole»(Genesi, 11-1): quelle che incitano alla vittoria sui nemici dell’Occidente.

Requiem per un giornale.

 – © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: 

FONTE: https://contropiano.org/news/internazionale-news/2022/10/26/guerrafondai-millantatori-di-pace-0153744

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

Come non umiliare gli sconfitti

29 10 2022

Ricordiamo tutti quando Macron diceva: “la Russia non può essere umiliata”. Lasciava intendere che in una trattativa di pace bisognava riconoscerle qualcosa.

Oggi la situazione s’è capovolta: è Putin che si sta chiedendo come non umiliare la NATO quando sarà costretto a chiedere a Zelensky una resa incondizionata. Di qui la sua idea di farci comprare il gas, di cui abbiamo bisogno come il pane, attraverso il suo nuovo hub: la Turchia.

Mosca infatti teme che la NATO, pur di non ammettere la propria sconfitta, voglia fare ricorso al nucleare. La NATO non può diventare come la Germania che, dopo aver scatenato e perso la prima guerra mondiale, subì una pesante umiliazione da parte dei suoi avversari, da cui poi cercò di riscattarsi facendo nascere il nazismo.

Nessun Paese occidentale potrà sedere al tavolo delle trattative, perché nessuno ha dichiarato guerra in maniera esplicita alla Russia. L’Ucraina non fa parte della NATO e non potrà mai chiedere di aderirvi. E l’ONU non può scatenare un conflitto mondiale: non è nelle sue finalità, né avrebbe il consenso unanime del Consiglio di sicurezza né una maggioranza qualificata all’Assemblea generale. La narrativa putiniana, secondo cui va superata l’egemonia unipolare dell’occidente neocolonialista, è stata definitivamente acquisita dalla maggioranza dei Paesi africani, sudamericani, asiatici e mediorientali.

Praticamente l’obiettivo occidentale d’isolare la Russia s’è ritorto contro lo stesso occidente: in una guerra mondiale saremmo noi ad avere la peggio. Molti Paesi scalpitano come i cavalli alla partenza del palio di Siena, in attesa che il mossiere abbassi il canape e permetta loro di raggiungere l’Ucraina per dar man forte all’esercito del generale Surovikin.

Putin ha capito l’efficacia dei suoi messaggi, ma ora si chiede come farci uscire da questo conflitto senza indurci a decisioni scriteriate. Sembra di assistere a un rapporto psicopatologico tra un analista e un paziente che soffre di megalomania. Come si curano i complessi di superiorità quando il paziente ha così tante armi che potrebbe uccidere lo stesso analista? È meglio far terra bruciata attorno a lui, diminuendo il consenso di cui gode da parte di altri irresponsabili come lui (ci riferiamo anzitutto agli europei), oppure è meglio immobilizzarlo con una camicia di forza, attendendo che i suoi sostenitori si smarchino progressivamente?

Una soluzione la offre la fiaba dello Schiaccianoci, non quella complicata di Hoffmann, ma quella adattata ai bambini piccoli, che si vede su YouTube. Quando appare il re dei topi, che guida un esercito di roditori, lo Schiaccianoci, per salvare la bambina, l’affronta in battaglia con un esercito di altri soldatini. Ma siccome i topi son troppo forti, lo Schiaccianoci ordina la ritirata. Proprio in quel momento però la bambina (che rappresenta il popolo) si toglie una scarpa e la lancia contro il re dei topi. Quando gli altri topi vedono che il loro capo è stato colpito, si ritirano in buon ordine.

Da notare che anche questa fiaba è stata bannata in occidente, perché musicata da Pëtr Il’ič Čajkovskij, noto compositore russo subumano.

FONTE: https://www.multipolare.it/2022/10/29/come-non-umiliare-gli-sconfitti/

L’ideologia di Stoltenberg

25 10 2022

Sarebbe interessante che qualcuno esaminasse nel dettaglio il linguaggio del segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, perché è quanto di più russofobo e guerrafondaio si possa pensare. Tra un po’ scadrà il suo mandato e verrà sostituito da uno che probabilmente sarà peggio di lui, in quanto la NATO non può più permettersi di perdere un’altra guerra come quella in Afghanistan. Lui andrà a dirigere la Banca centrale norvegese, che possiede quote rilevanti in Gazprom e Lukoil, per cui sarà costretto o a cambiare narrativa (per i soldi si fa questo e altro) o a vendere sottocosto gli asset della Banca.

Ma qual è l’ideologia bellicista con cui ha gestito l’Alleanza nel corso di questi mesi di guerra russo-ucraina?

Anzitutto lui dà per scontato che la Russia sia uno Stato da sconfiggere militarmente, poiché lo ritiene troppo pericoloso per gli interessi egemonici dell’occidente. Quando lui parla di “occidente”, intende anzitutto gli USA e solo in subordine la UE, che è tenuta a fare quel che dice la NATO, in cui chi comanda sono chiaramente gli USA, che spendono nelle forze armate più di tutti gli altri alleati messi insieme.

Lui ritiene del tutto normale che per sconfiggere la Russia, la NATO cerchi di circondarla completamente con le proprie basi militari, che all’occorrenza verranno naturalmente dotate di testate atomiche. È escluso infatti che un Paese nucleare possa essere sconfitto con armi convenzionali. Stoltenberg è un uomo di vedute così limitate che non ha mai capito che gli USA han vinto la guerra fredda semplicemente sul piano economico, senza neppure sparare un colpo. E ora non vuole ammettere che per la stessa ragione gli USA perderanno questa nuova guerra (al momento ancora per procura), poiché il loro capitalismo, preferendo di gran lunga la finanza speculativa all’economia produttiva, è finito in un labirinto di Cnosso, da cui non riesce a uscire, se non appunto trovando continuamente nuovi nemici da combattere. In tal senso non aspettiamoci troppo dalle elezioni di midterm.

Stoltenberg non si è mai preoccupato di smentire il fatto che la NATO abbia sostenuto l’Ucraina con attrezzature e addestramento militari per molti anni prima dello scoppio dell’attuale conflitto. Come se fosse del tutto normale che la NATO consideri un Paese come un proprio partner pur non appartenendo all’Alleanza. È come se dicesse: “Nel passato abbiamo speso molto per gli ucraini in funzione antirussa; ora non possiamo buttar via i nostri soldi, lasciandoli soli ad affrontare un nemico più forte di loro”.

Stoltenberg non accetta assolutamente il diritto dei popoli all’autodeterminazione (per es. parla sempre di annessione illegale della Crimea da parte della Russia), in quanto ha più volte detto che la NATO non tollera alcun attacco alla sovranità alleata o all’integrità territoriale. Cioè la NATO può occupare o bombardare o installare proprie basi nei territori altrui, ma non permette che ciò avvenga nei Paesi membri dell’Alleanza. Quindi in pratica se la Catalogna volesse staccarsi dalla Spagna o la Scozia dagli inglesi, la NATO aiuterebbe Madrid e Londra a bombardarli.

Tutte le volte che parla di Ucraina, Svezia, Finlandia e Georgia, li considera sempre come “stretti partner”, pur essendo questi Paesi soltanto degli osservatori nelle sessioni della NATO. Lo dice perché gruppi di militari di questi Paesi hanno partecipato ad operazioni belliche condotte dalla NATO. Ma una cosa di questo genere non è normale. È come se dicesse: “Nella NATO non possiamo farvi entrare perché potreste avere dei problemi con la Russia, ma vi offriamo lo stesso la possibilità di esercitarvi in vari teatri di guerra, perché il giorno che decidessimo di attaccare la Russia, questa esperienza vi potrà tornare comodo”.

La NATO ha approfittato della guerra in corso per convincere tutti gli alleati a investire almeno il 2% del PIL nella difesa. Come se ad essere “minacciata” dalla Russia non fosse soltanto l’Ucraina ma anche tutta l’Europa. Come gli è venuta in mente un’idea così bislacca? È semplice: gliel’hanno suggerita gli americani, che han bisogno di vendere le loro armi agli europei. Ecco cosa vuol dire essere un “servo”.

Quanto poi alle sue dichiarazioni di non impiegare forze NATO in Ucraina per non allargare il conflitto tra NATO e Russia, ha mentito spudoratamente dall’inizio della guerra ad oggi. Inutile perdere tempo a commentarle. Anzi di recente è stata schierata in Romania, ai confini dell’Ucraina, la 101ma divisione aviotrasportata, 4.700 “aquile urlanti”, l’unità principale per le offensive degli USA.

*

Quando Stoltenberg afferma che l’Ucraina è una nazione sovrana e indipendente, per cui ha il diritto di scegliere se aderire alla NATO o meno, e che spetta ai 30 alleati decidere se accettare tale candidatura, non alla Russia, sembra che faccia finta di non sapere quali sono le regole del gioco.

Supponiamo che in Messico, Guatemala, Nicaragua, Cuba… la Russia installasse varie basi militari, dotate di tutta la strumentazione necessaria per difendere efficacemente quei Paesi e, in caso di necessità, per attaccare direttamente gli USA con armi nucleari, cosa direbbe il soldatino Stoltenberg?

Possibile che non sappia che gli Stati han bisogno di sicurezza e soprattutto di impegni a non usare mai per primi le armi atomiche. Se gli Stati confinanti a un Paese militarmente nuclearizzato, decidono espressamente di rinunciare all’atomica, possono esigere che anche lo Stato confinante faccia lo stesso. È il disarmo reciproco che crea fiducia.

Stoltenberg invece, che ragiona solo in termini di rapporti di forza, è convinto che quanto più si arma l’Ucraina, tanto più i russi saranno indotti alla trattativa. Ovvero, ciò che può ottenere sul tavolo dei negoziati è strettamente legato alla situazione sul campo di battaglia. Lo stesso pensano tutti gli statisti occidentali, senza rendersi conto che un atteggiamento del genere potrebbe anche comportare il passaggio dall’uso delle armi convenzionali a quelle nucleari. O, in ogni caso, a una completa distruzione del Paese più debole, come sta avvenendo in questi giorni, in cui i russi hanno iniziato a bombardare le centrali che danno luce, gas e acqua.

Il generale Tricarico ha sottolineato che “Stoltenberg è solamente autorizzato a guidare le consultazioni, quindi lui può parlare solamente quando è autorizzato a farlo da tutti i Paesi membri. Invece ha sempre straparlato, ha sempre buttato benzina sul fuoco, è sempre stato il ventriloquo di qualcun altro”.

Il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, ha detto addirittura che “l’Italia e i governi non possono più essere un’appendice della NATO, una segreteria distaccata del suo generale Jens Stoltenberg che, per quello che mi riguarda, sta dando prove di grande ottusità politica”. Su YouTube ha addirittura detto che lo considera “un analfabeta di ritorno” e che “con questi tangheri rimpiango Kissinger”.

Come al solito esagera nel rimpiangere il guerrafondaio Kissinger.

FONTE: https://www.multipolare.it/2022/10/25/lideologia-di-stoltenberg/

 

 

 

CULTURA

METAFORA
Francesca Sifola Scrittrice 31 10 2022
Quel giorno non riusciva proprio a lasciarsi catturare dal cielo. Eppure, in genere, sapeva bene come fare a trattenerlo dentro di sé. Bastava uno sguardo verso la sua Bellezza e ogni cosa spariva in quella dimensione “altra” di cui la sua immagine d’intenso blu era testimone insieme agli astri che ne riempivano lo spazio.
Ma oggi no, oggi aveva lo sguardo verso il basso, verso la terra scura e scomposta, scossa come dopo un’alluvione in cui la materia si impasta attaccando lo spazio tranquillo e pulito della natura. Forse, oggi, per tornare con lo sguardo verso l’alto avrebbe dovuto pescare proprio nel torbido senza snobismi, avrebbe dovuto chinare la testa verso il basso. E così fece. Dopo qualche ora ne uscì esausta, aveva alzato il coperchio e Pandora ne era uscita trionfante galleggiando nel suo dolore. Ma ora, finalmente sapeva che rompendo il vaso il cielo era tornato a dire la sua dentro di lei.
FONTE: https://www.facebook.com/francesca.sifola/posts/pfbid09LWuJgYz1y7JfjhRJinJqp6HewLkNHC9ys1MBUMRkkF1m8Qo3Dvg8qFSkgUzcJMsl 

Il taglio della lingua

di Pierluigi Fagan

Il concetto moderno di progresso nacque nella seconda metà dell’Ottocento (Spencer) e quindi era l’istantanea del solo andamento della società britannica nel momento della Rivoluzione industriale poi generalizzato come perno dell’immagine di mondo occidentale generale.

Unitamente all’ignoranza degli studi storici, l’idea di progresso ha retroproiettato una falsa immagine del Medioevo. Il Medioevo è diventato un blocco storico buio, da cui poi si emancipò la modernità ovviamente a guida prevalentemente anglosassone. Va però ricordato che il “peggio del Medioevo” non si verificò all’inizio o a metà dei suoi mille anni, ma alla fine.

L’Inquisizione, ad esempio, fu istituzione precoce (1184), ma la maggioranza degli storici ritiene che per lungo tempo, fino al ‘300 inoltrato, sanzionava in vario modo ma con un uso molto raro delle punizioni corporali (tra cui il taglio della lingua) e della tortura. Da lì in poi, l’Inquisizione diventa centrale e sempre più violenta e repressiva. Quella spagnola nasce nel 1478, la portoghese nel 1536, quella romana contro i protestanti è del 1542.

Letta la faccenda in termini sistemici, si può dire che il sistema culturale medioevale con al centro la Chiesa, si chiude e si irrigidisce internamente quanto più perde controllo esterno. Del resto, chiudersi, rinchiudersi, corazzarsi è strategia di difesa biologica contro minacce esterne ritenute vitali.

Abbiamo quindi la falsa convinzione che il procedere del tempo porti progresso e una dinamica storica che mostra, al contrario, che il procedere del tempo porta regresso. In realtà tali idee sono inconsistenti in entrambi i casi perché non c’è alcuna dinamica propria collegata al tempo, dipende dal sistema che osserviamo nelle sue condizioni di contesto.

Veniamo così alla patria del liberalismo moderno, l’Inghilterra (detta Inghilterra e non Gran Bretagna o Regno Unito), dove il nuovo primo ministro indo-miliardario (dove cioè la classificazione economica di ceto sopravanza quella etnica), ha promesso di chiudere tutti e trenta gli Istituti Confucio inseriti nel complesso universitario dell’isola. Cosa già promessa dalla fugace Truss. Secondo Sunak, la Cina è oggi: “la più grande minaccia per il Regno Unito e la sicurezza e la prosperità del mondo in questo secolo” e gli istituti di cultura cinese sono l’avamposto della subdola penetrazione di lobbisti cinesi che vogliono traviare il tempio delle libertà moderne ed occidentali.

Gli istituti Confucio erano 530 nel mondo al 2019, al pari del British Council ed i vari istituti Dante, Cervantes, Goethe, diffondono conoscenza sulla propria lingua, il cinese. Chi scrive ha frequentato per tre anni quello dell’Università di Roma conseguendo i rudimenti di quella impegnativa lingua che è poi base per comprendere la relativa cultura di riferimento. In due lezioni settimana per nove mesi per tre anni, non mi è mai capitato di ascoltare nulla sulla Cina contemporanea, solo caratteri, grammatica, scrittura, lettura, pronuncia. La pronuncia è fondamentale ed impegnativa poiché il set di componenti base della lingua è limitato ma poi moltiplicato usando quattro diversi accenti per cui capita che il semplice “ma” possa significare: cavallo, mamma, insultare o tessuto di canapa. Per cui se non fate attenzione può capitare vi esca, anche con una certa aria soddisfatta, un “ieri ho montato tua madre”, invece che “ieri ho montato il tuo cavallo”.

Negli ultimi tempi, in US, Danimarca e Svezia hanno cominciato a chiudere questi avamposti della cultura sinica, dicendo che “cercano di modificare l’immagine di Pechino agli occhi del mondo”. Subdoli cinesi, noi invece propaghiamo i nostri istituti culturali di lingua nazionale per organizzare forum critici sui nostri Paesi, non c’è reciprocità.

Il taglio della lingua è il presupposto per impedire l’interrelazione tra immagini di mondo ed impedire i processi di formazione di una immagine di mondo mischiata in comune è il presupposto per non intendersi, non intendersi è il presupposto per confliggere.

La “società aperta” alza i muri e tagli ai ponti. Vuol dire che si sente debole. Viepiù procederà in questa sindrome da sistema alle fasi terminali che si rinchiude ostinatamente per preservare la sua coerenza interna, tanto più perderà attinenza esterna. Chiudersi porta ad irrigidirsi ed infatti siamo in piena società delle scomuniche.

Il Maestro diceva “Studiare senza pensare è futile, pensare senza studiare è pericoloso” (2.14 t:Leys).

Così oggi veniamo invitati a studiare STEM (Scienza, Tecnologia, Economia, Matematica) senza pensare e pensiamo al Mondo senza studiarlo. Che triste “finale di partita” (Beckett).

FONTE: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/24148-pierluigi-fagan-il-taglio-della-lingua.html

 

 

 

 

DIRITTI UMANI

“In Rai suggeriscono l’eutanasia per i nostri anziani”. Il dottor Stramezzi e la denuncia choc: “Perché lo fanno” (il VIDEO)

Gabriele Angelini 2 11 2022

“Questa è la trasmissione ReStart (1) che ho visto questa notte all’1.45 del 1° novembre 2022 mentre stavo cambiando la flebo a mia mamma e casualmente c’era la televisione accesa nella camera e ho sentito questa dichiarazione assurda”. Inizia così, con queste parole, il video-denuncia del dottor Andrea Stramezzi pubblicato sul suo profilo Twitter. Stramezzi, già in prima linea per la verità nella battaglia su Covid e vaccini, ha sollevato un’altra questione molto importante. Quella degli anziani. Scrive infatti il dottore nel post: “Un tempo si parlava di tutelare i nostri vecchi e la loro memoria storica. Coloro che hanno lottato per la nostra Libertà e hanno costruito la Nazione. Sulla Rai un boiardo di Stato suggerisce l’eutanasia per 800mila anziani troppo costosi per i servizi sociali. Gates concorda”. Ma cosa si dice nella puntata di ReStart? Le dichiarazioni sono di Roberto Bernabei. La domanda della conduttrice Annalisa Bruchi è: “Ci siamo dimenticati dei nostri vecchi? Cioè persone che non possono rimanere a casa, che hanno tantissime patologie e le Rsa rischiano di chiudere…”. A quel punto si sente la risposta di Bernabei.

Il geriatra Andrea Bernabei

Stramezzi continua a riprendere il video dal suo smartphone. E arriva la considerazione choc.

Lo ripetiamo: sulla Rai. “Non possono rimanere a casa. Signori: in Italia oggi ci sono 805mila ultranovantenni. Di questi quasi 600mila sono donne. Ultranovantenni, la cui metà sono dementi. I letti nelle Rsa in Italia sono 315mila. Fatevi due conti: vista la denatalità, queste donne sole e dementi possono solo che aumentare. Il rischio di eutanasia è quello che pavento fortissimo ed è veramente complicato sostenere questi costi e cercare queste povere di Rsa a livello migliore”.

Il commento di Stramezzi è: “Il rischio eutanasia sta già avvenendo in Italia”

NOTA DI DETTIESCRITTTI: Dichiarazione di Bernabei visionabile ed ascoltabile al punto 1.10.31 del filmato di Raiplay: https://www.raiplay.it/video/2022/10/Re-Start-ac7f944e-97d1-40b5-9d1d-436b5ae8610d.html 

FONTE: https://www.ilparagone.it/attualita/stramezzi-rai-eutanasia-800mila-anziani/

 

 

 

ECONOMIA

Il “sovranismo degli investimenti” di Giancarlo Giorgetti

 Fabio Conditi 

“Incentivare un approccio più dinamico e consapevole alla gestione del risparmio, canalizzandolo nel nostro paese verso impieghi produttivi e sostenibili” è ciò che ha affermato Giancarlo Giorgetti nella sua prima uscita pubblica per la giornata mondiale del risparmio, dopo essere diventato il nuovo Ministro dell’Economia e delle Finanze del Governo di Giorgia Meloni.

Gianni Trovati sul Sole 24 Ore e anche Fabio Savelli sul Corriere della Sera, lo hanno definito una sorta di “sovranismo degli investimenti”, che potrebbe convogliare nell’economia reale nazionale una parte consistente del risparmio che oggi viene investito prevalentemente all’estero.

“Incentivare un approccio più dinamico e consapevole alla gestione del risparmio, canalizzandolo nel nostro paese verso impieghi produttivi e sostenibili” è ciò che ha affermato Giancarlo Giorgetti nella sua prima uscita pubblica per la giornata mondiale del risparmio, dopo essere diventato il nuovo Ministro dell’Economia e delle Finanze del Governo di Giorgia Meloni.

Gianni Trovati sul Sole 24 Ore e anche Fabio Savelli sul Corriere della Sera, lo hanno definito una sorta di “sovranismo degli investimenti”, che potrebbe convogliare nell’economia reale nazionale una parte consistente del risparmio che oggi viene investito prevalentemente all’estero.

Giorgetti ha anche ricordato che nell’Assemblea costituente, con l’approvazione dell’emendamento Zerbi all’articolo 47 della Costituzione, fu inserito il verbo “incoraggia” accanto al verbo “tutela” e fu data alla parola risparmio l’accezione più ampia, aggiungendo la formula “in tutte le sue forme”.

Per questo motivo, ha proseguito, “Oggi in questo tempo di incertezze, per rendere effettivo il dettato costituzionale, dobbiamo incoraggiare il risparmio e destinarlo, anche attraverso nuovi strumenti, al sostegno dei processi di transizione (quali quella digitale e green) e, allo stesso tempo, tutelarlo dai rischi connessi all’inflazione”.

Questo è un tema cruciale.

Servono nuovi strumenti per tutelare ed incoraggiare il risparmio degli italiani in tutte le sue forme, ma anche fare in modo di renderlo maggiormente produttivo, canalizzandolo verso gli investimenti nell’economia reale nazionale.

Oggi, infatti, la ricchezza finanziaria degli italiani, più di 5000 miliardi di euro, viene impiegata principalmente nelle seguenti modalità:

  • 1600 miliardi di euro sono lasciati nei depositi bancari infruttiferi, dove scontano una progressiva perdita del potere d’acquisto, sono sempre a rischio bail-in e non si traducono in alcuna forma di sostegno all’economia reale e produttiva;
  • 3200 miliardi di euro sono investiti in azioni, fondi comuni e polizze assicurative, con prodotti finanziari più o meno rischiosi, ma sempre più sofisticati e personalizzati, che però finiscono col dirottare gli investimenti prevalentemente sui mercati globali;
  • solo 200 miliardi di euro sono investiti dai risparmiatori italiani nell’acquisto diretto di titoli dello Stato, perché poco interessati a Btp con media-lunga scadenza, soggetti ad ampie oscillazioni del prezzo, che rischiano di far perdere anche una parte del capitale, se venduti prima della scadenza per necessità.

In un articolo precedente, abbiamo cercato di individuare un nuovo strumento innovativo e tecnologico, il conto di risparmio, che permette non solo di tutelare ed incoraggiare il risparmio degli italiani, ma anche di canalizzare queste risorse finanziarie verso maggiori investimenti nell’economia reale nazionale.

https://www.nicolaporro.it/governo-meloni-ecco-come-evitare-lausterity/

Lo Stato dovrebbe aprire un conto di risparmio gratuito presso il Tesoro, a tutti i cittadini e le imprese residenti in Italia, dove il semplice deposito di una somma di denaro equivale ad aver acquistato un titolo di stato dematerializzato, cioè elettronico, che però non fluttua sui mercati finanziari e quindi ha un valore stabile e garantito nel tempo.

I conti di risparmio sono in pratica molto simili ai “buoni fruttiferi postali rimborsabili”, con la differenza che sono anche cedibili, essendo possibili pagamenti tra conti di risparmio. Le banche private potranno gestirli in remoto per conto dei clienti, in cambio di provvigioni e commissioni, come avviene oggi per la gestione dei conti titoli.

In pratica si tratta di una forma di finanziamento alternativa all’emissione di Btp o di altri titoli di stato, ma più vicina alle reali esigenze dei risparmiatori italiani, perché sono garantiti dallo Stato e non soggetti al bail-in, hanno un buon rendimento non soggetto a tassazione, difendono il potere d’acquisto del deposito e possono anche essere utilizzati come strumento di pagamento, senza la necessità di disinvestire.

Il conto di risparmio sarebbe quindi, un nuovo strumento di investimento sicuro, stabile, fruttifero e cedibile, in grado di attenuare i fenomeni inflattivi ed al contempo, di garantire stabilità nella gestione del debito sovrano e soprattutto, in grado di produrre effetti benefici per l’economia del nostro paese.

Nel suo discorso alla Camera  Meloni aveva dichiarato che “Il risparmio privato delle famiglie italiane ha superato la soglia dei 5000 miliardi di euro ed in un clima di fiducia potrebbe sostenere gli investimenti nell’economia reale”.

L’Italia ha una ricchezza finanziaria tra le più alte al mondo, se solo il 10%, pari a 500 miliardi di euro, fosse investita nei conti di risparmio anziché in titoli finanziari collocati nei mercati, non solo avremmo tutelato ed incoraggiato il risparmio degli italiani, ma avremmo anche trasformato una parte consistente del nostro debito pubblico in nuovi investimenti per il rilancio dell’economia reale e produttiva nel Paese.

Paolo Becchi e Fabio Conditi.

FONTE: https://scenarieconomici.it/il-sovranismo-degli-investimenti-di-giancarlo-giorgetti/

 

 

L’inflazione, ultimo tentativo di salvataggio dello status quo?

R. F. e B. A.

[Accouchement difficile  Épisode 4: L’inflation, ultime tentative de sauvetage du statu quo?, http://www.hicsalta-communisation.com/, aprile 2022]

testataiflazUn anno fa (aprile 2021), concludevamo il terzo episodio della nostra serie sulla crisi da Covid1 con delle proiezioni sui possibili scenari dell’ulteriore sviluppo di quella crisi. Uno di questi scenari era il «ritorno dell’inflazione». E così scrivevamo:

«Se è troppo forte, essa [l’inflazione, nda] rimetterà in causa gli equilibri dello status quo e innescherà una massiccia devalorizzazione di capitale reale e fittizio.»

Oggi il ritorno dell’inflazione non è più in dubbio, anche se la discussione è aperta sulla sua durata. In questo episodio, si tratterà non solo di analizzarne le cause profonde, ma anche di coglierne le implicazioni, soprattutto dal punto di vista della massiccia devalorizzazione (e della concomitante crisi sociale) che abbiamo prospettato. L’inflazione attuale può condurre a uno scongelamento/aggravamento della crisi, contrariando la traiettoria di uscita dalla recessione? Può essere portatrice di una forte ripresa delle lotte sul posto di lavoro, unico possibile innesco della grande ristrutturazione di cui il capitale sembra oggi così bisognoso? Queste sono le domande a cui cercheremo di rispondere sulla base degli elementi strutturali che, al di là dei fattori più immediati e superficiali, sono all’origine dell’inflazione attuale: la brutale caduta del saggio di profitto e la crisi della perequazione distorta del medesimo.

 

1 – Messa a punto concettuale

La prima cosa da chiarire è che lo status quo evocato nel titolo si riferisce esclusivamente all’attuale formula dello sfruttamento del lavoro, basata sulla predominanza del plusvalore assoluto.

Per un altro verso, sappiamo bene che la società capitalista è in continua evoluzione. Ma sosteniamo che se l’accumulazione del capitale deve ritrovare il suo vigore perduto (intorno al 2008), è necessaria una profonda ristrutturazione, a cominciare dalle modalità di sfruttamento del lavoro.

Detto questo, occorre definire le variabili che prenderemo in considerazione e/o commenteremo. È necessario innanzitutto introdurre una distinzione tra inflazione, aumento dei prezzi alla produzione e aumento dei prezzi in generale. La nozione di inflazione dovrebbe esprimere l’aumento generale dei prezzi, in contrapposizione all’aumento dei prezzi di un settore o di un prodotto, e questo sia per i prezzi alla produzione che per i prezzi al consumo. Ma l’indicatore associato, il tasso d’inflazione, è più spesso identificato con l’indice di variazione dei prezzi al consumo. Si tratta di un abuso linguistico talmente diffuso che è impossibile sottrarvisi. Pertanto, quando parliamo di aumento o diminuzione del tasso d’inflazione, usiamo questo termine nell’accezione abituale, distinguendolo dall’aumento dei prezzi alla produzione. Quando parliamo invece di aumento o di diminuzione dei prezzi (senza altra indicazione), ci riferiamo al livello generale dei prezzi al consumo e alla produzione.

Il tasso d’inflazione può essere calcolato in diversi modi: se si tratta di una media ponderata, il risultato del calcolo può variare a seconda del peso specifico attribuito a ciascuna componente del paniere dei prezzi (alimentazione, energia, alloggio etc.). Inoltre, nel caso dei 27 paesi dell’UE (e di qualche altro), viene effettuata un’armonizzazione dei tassi nazionali per rendere l’inflazione comparabile tra i diversi paesi dell’area. Gli economisti distinguono anche l’indice di variazione dei prezzi al consumo dall’inflazione soggiacente (cioè calcolata al netto di energia e generi alimentari). I banchieri centrali elaborano le loro politiche monetarie sulla base di quest’ultima, sostenendo che i prezzi dell’energia e dei prodotti alimentari sono troppo volatili. Naturalmente nessuno di questi metodi di calcolo è innocente. Ma nessuna «manipolazione» delle cifre può far sparire un aumento dei prezzi significativo e relativamente duraturo. Quanto all’aumento dei prezzi alla produzione, se non è effimero, esso deve prima o poi riflettersi nei prezzi al consumo. Per questo motivo l’indice dei prezzi alla produzione è considerato un indicatore anticipato dell’inflazione. È noto che l’aumento del prezzo dell’energia e/o delle materie prime è spesso all’origine di un simile aumento, poiché ha un impatto su tutte le branche della produzione, sia della sezione I che della sezione II (produzione di mezzi di produzione e produzione di mezzi di sussistenza). Infine, qualunque sia la variabile o il metodo di calcolo, un aumento generale dei prezzi equivale sempre a un deprezzamento della moneta.

 

2 – L’inflazione domata

2.1 – Excursus storico: la Grande Moderazione e la sua crisi

Negli ultimi trent’anni, e fino alla crisi innescata dall’epidemia di Covid-19, la tendenza predominante nelle aree centrali dell’accumulazione è stata quella ad una relativa stabilità dei prezzi. La crisi del fordismo, negli anni Settanta, si era manifestata in forma inflazionistica, con picchi del 15% negli Stati Uniti e del 25% in Gran Bretagna e in Italia, tra il 1974 e il 1976. La causa era almeno duplice. Da un lato, il settore petrolifero esigeva una quota maggiore del plusvalore prodotto a livello mondiale2. Dall’altro, i monopoli e gli oligopoli nazionali dell’epoca trasferivano gli aumenti salariali nei prezzi finali. La cosiddetta «spirale prezzi-salari», tuttavia, non era all’origine dell’inflazione: era piuttosto la causa del suo mantenimento. Di norma, infatti, gli aumenti salariali intervengono dopo l’aumento dei prezzi delle merci e non lo compensano al 100%.

Per uscire da quella crisi, i decisori economici e politici dovettero introdurre delle politiche anti- inflazionistiche, forma concreta dell’offensiva padronale nella maggior parte dei paesi avanzati. Queste politiche furono attuate a diversi livelli:

  • in primo luogo, si concretizzarono in una restrizione della creazione monetaria. Negli Stati Uniti, il Volcker Shock (1980) portò i tassi di interesse a livelli molto alti (fino al 20%), provocando recessione, disoccupazione e ristrutturazioni aziendali, oltre che austerità budgetaria3. Anche l’esigenza di «indipendenza» delle banche centrali e il conseguente divieto (1988, nel caso della la Fed) di finanziare il debito pubblico acquistando titoli di Stato sul mercato primario, rientrano in questo quadro;
  • in secondo luogo, fu imposta la moderazione salariale, in particolare attraverso l’apparizione di una disoccupazione strutturale, la promozione della precarietà del lavoro e l’abolizione di tutti i meccanismi di indicizzazione dei salari all’inflazione laddove erano stati adottati;
  • in terzo luogo, per rendere la moderazione salariale sostenibile nel lungo periodo, fu necessario abbassare i prezzi di almeno una parte del paniere di sussistenza dei lavoratori, ad esempio smantellando i monopoli nazionali e delocalizzando parte della produzione nei paesi in via di sviluppo (la «soluzione cinese»).

In breve, queste ricette anti-inflazionistiche si dimostrarono efficaci, in particolare nel corso degli anni Novanta e fino ai primi anni Duemila – periodo passato alla storia come quello della Grande Moderazione, secondo l’espressione resa popolare da Ben Bernanke. Tuttavia, dopo la crisi del 2008, questo insieme di misure si è rivelato inadeguato a risolvere i nuovi problemi emersi in seguito a quella svolta storica. In primo luogo, è lo spettro della deflazione – cioè dell’inflazione negativa – che ha iniziato ad assillare le economie dei paesi centrali, soprattutto a causa della stagnazione dell’attività economica e dei consumi seguita alla crisi. Inoltre, per evitare il collasso dei mercati finanziari e consentire agli Stati di indebitarsi, le banche centrali (prima la Fed, poi la BCE) hanno dovuto ridurre fortemente i loro rispettivi tassi d’interesse ed effettuare acquisti massicci di titoli di Stato che i mercati finanziari valutavano a prezzi troppo bassi e tassi di interesse troppo alti (fino al 35% per il bond greco a 10 anni nel gennaio-febbraio 2012, rispetto al 2,8% attuale4). Ciò equivale a una politica monetaria espansiva (cfr. gli Episodi 2 3). In terzo luogo, i salari nei paesi destinatari delle delocalizzazioni sono aumentati, anche se in misura limitata e non necessariamente ovunque. Cosicché solo la moderazione salariale nei paesi avanzati è rimasta intatta. Perché? Proprio a causa della deflazione strisciante, in virtù del suo effetto depressivo sui conflitti di lavoro, poiché anche in condizioni di crisi economica, alta disoccupazione etc., la deflazione compensa la pressione al ribasso sui salari. Torneremo su questo punto più avanti (cfr. § 3.4).

2.2 – La crisi da Covid

Una sorta di crollo deflazionistico si è infine materializzata in un gran numero di paesi centrali nel marzo-aprile 2020, quando i prezzi del petrolio e dell’energia in generale sono sprofondati a causa della forte contrazione della domanda (blocco parziale della produzione) – prima in Cina, poi in Occidente – e i consumi sono diminuiti bruscamente a causa dei lockdown e delle altre misure sanitarie anti-Covid.

Per fornire qualche cifra, il tasso d’inflazione su base annua negli Stati Uniti è sceso dal 2,5% di gennaio 2020 allo 0,3% di aprile 2020; in Giappone è sceso dallo 0,7% allo 0,4% nello stesso periodo; anche in Cina, dove il tasso d’inflazione è generalmente più alto, è sceso dal 5,4% di gennaio al 3,3% di aprile. Nell’Eurozona, considerata nel suo complesso, l’inflazione è scesa dall’1,4% allo 0,4% nello stesso periodo, e nei Paesi dell’Europa meridionale è addirittura scesa in territorio negativo: 0,0% in Italia, -0,2% in Portogallo, -0,7% in Spagna, -1,4% in Grecia.

Da allora, però, si è messo in moto un processo inverso. In altre parole, la crisi da Covid e la successiva ripresa della produzione hanno creato le condizioni per una fiammata inflazionistica. È ciò che vedremo ora.

 

3 – L’inflazione di ritorno

3.1 – La fiammata inflazionistica

Negli Stati Uniti, dove il fenomeno è più marcato, il tasso d’inflazione annuo è passato dallo 0,1% di maggio 2020 al 6,2% di ottobre 2021 e al 6,8% di dicembre 2021. Questi alti tassi di inflazione includono una componente di recupero dell’attività economica persa nel 2020. Calcolati su un periodo di due anni, i valori sono più bassi (rispettivamente 3,8% e 4,2%). Tuttavia, nell’ottobre 2021, i prezzi al consumo dell’energia, secondo i dati ufficiali, erano aumentati del 30% rispetto all’ottobre 2020, i prezzi delle auto usate del 26% nello stesso periodo, quelli dei prodotti alimentari del 5% etc. In breve, la maggior parte delle voci di spesa delle famiglie era chiaramente in aumento. Tale aumento è proseguito nei mesi successivi. Nel febbraio 2022, il tasso d’inflazione annuale negli Stati Uniti era del 7,9%, con un aumento del +0,8% rispetto al mese precedente.

Gli sviluppi economici nell’area-euro seguono solo in parte quelli degli Stati Uniti, e solo con un certo ritardo. La ripresa economica successiva al marzo-aprile 2020 è stata più debole nell’UE rispetto agli Stati Uniti, in parte perché il sostegno diretto dello Stato all’economia reale è stato meno massiccio (cfr. gli Episodi 1 3). Questo e altri fattori hanno probabilmente contribuito a mitigare l’impennata dell’inflazione nel contesto europeo. Ciò non toglie che l’inflazione sia un dato reale. Il tasso d’inflazione annuo armonizzato (IAPC) per i 27 Paesi dell’UE è passato dallo 0,3% di dicembre 2020 al 4,9% di dicembre 2021. Sempre nel dicembre 2021, il tasso d’inflazione annuo in Germania era del 5,7%; nei paesi manifatturieri dell’Europa orientale (Visegrad) era più alto ancora: 8% in Polonia, 7,4% in Ungheria etc. Anche in Spagna, il dato percentuale era piuttosto alto (circa il 5%). Al contrario, negli altri Paesi del cosiddetto Club Med era più basso: 4,2% in Italia, 3,8% in Francia, 4,4% in Grecia, 2,8% in Portogallo (dati Eurostat). Le implicazioni di queste disparità verranno discusse più oltre (cfr. § 4.2).

3.2 – Limpennata dei prezzi alla produzione

Questo aumento generalizzato del tasso d’inflazione è principalmente il risultato di un aumento di gran lunga superiore dei prezzi alla produzione. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il grafico sottostante mostra che, dopo i minimi della crisi da Covid, i prezzi alla produzione sono aumentati molto più rapidamente di quelli al consumo (rispettivamente +36% e +11% tra aprile 2020 e febbraio 2022).

Grafico 1: Indici dei prezzi al consumo e alla produzione negli USA (novembre 2019  gennaio 2022)

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Ma il fenomeno è ancora più impressionante nei Paesi dell’UE. La tabella sottostante mostra l’indice dei prezzi alla produzione (IPP) su base annua per una serie di Paesi europei (UE e non UE, area euro e non euro).

Paese

Aumento IPP (12/2021)

Norvegia

56,60%

Spagna

33,10%

Russia

29,20%

Italia

22,10%

Portogallo

21,90%

Germania

19,20%

Svezia

18,10%

Polonia

13,20%

Regno Unito

9,10%

Per completezza, aggiungiamo che i prezzi alla produzione dei principali paesi industrializzati non occidentali, come Cina (+12,9 %), Giappone (+9,0 %) e Corea del Sud (+9,6 %), hanno seguito un andamento certo meno spettacolare, ma simile.

Nella lettura di questi dati, occorre tenere presente che i prezzi alla produzione sono soggetti a variazioni più violente rispetto ai prezzi al consumo. Tuttavia, i dati mostrano che l’aumento dei prezzi alla produzione si è trasmesso solo molto parzialmente ai prezzi al consumo. Ciò suggerisce che molti capitalisti, soprattutto nella sezione II, cercano o sono costretti a mantenere i prezzi bassi. Ciò significa anche che c’è ancora spazio per un aumento del tasso d’inflazione.

3.3 – I fattori dell’aumento dei prezzi

3.3.1– La disarticolazione delle catene del valore globalizzate

La crisi da Covid ha portato a una forte disorganizzazione e riorganizzazione delle catene del valore internazionali, un processo ancora in corso e che sta causando una relativa penuria su alcuni mercati. Un esempio spettacolare si è verificato all’inizio di novembre 2021, con 77 navi container in attesa di essere scaricate fuori dai porti di Los Angeles e Long Beach5. La congestione del traffico marittimo globale ha portato a un aumento del costo del trasporto marittimo. Tale aumento è proseguito ininterrottamente fino all’ottobre 2021. Solo dopo questa data, i costi del trasporto sono tornati a livelli medi.

Un altro esempio è quello dei semiconduttori, la cui produzione è fortemente concentrata dal punto di vista geografico. Taiwan ne detiene il 75,7% per quanto riguarda la fonditura, il 56,7% per l’imballaggio e i test, e il 19,3% per la progettazione. L’azienda produttrice più importante è la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company. Attualmente, molti impianti automobilistici in tutto il mondo operano a capacità ridotta, o addirittura sono fermi, a causa della carenza di questi semiconduttori. Inoltre, fattori congiunturali hanno esacerbato il movimento dei prezzi. Nel caso di Taiwan, si tratta della peggiore siccità degli ultimi cinquant’anni, che limita la capacità produttiva. Un impianto di semiconduttori ha bisogno di un quantitativo d’acqua compreso tra i 2 e i 9 milioni di galloni al giorno (1 gallone = poco meno di 4 litri), ma a Taiwan, a causa della la siccità, l’acqua disponibile in loco non è sufficiente a garantire normali volumi di produzione6.

Si potrebbe continuare con altri esempi. Ciò che conta, tuttavia, è apprezzare l’entità dello sconvolgimento che la crisi da Covid ha causato nelle catene di approvvigionamento. In un testo recente, François Chesnais ha utilizzato un indice del FMI «costruito intervistando i responsabili degli acquisti delle aziende, ai quali viene chiesto se i tempi di consegna sono in media più lunghi, più rapidi o invariati rispetto al mese precedente»7. Riproduciamo qui il grafico. L’aumento dei tempi di consegna è chiaramente visibile.

Grafico 2: Variazione dei tempi di consegna alle aziende negli Stati Uniti e nell’UE (20102021)

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Nella loro nota, gli economisti del FMI osservano che in un contesto di colli di bottiglia e ritardi nelle consegne «i fornitori hanno generalmente un maggiore potere di determinazione dei prezzi, ciò che conduce a prezzi più elevati»8. Un’analisi di questo tipo spiega solo in minima parte l’aumento dei

prezzi a cui stiamo assistendo, e soprattutto affronta le disparità di pricing power come fossero delle semplici distorsioni congiunturali. Ma queste disparità sono notevoli e profondamente radicate. Ciò ci riporta al problema dell’energia.

3.3.2 – L’aumento dei prezzi dei combustibili e dell’energia

In questo caso, l’aumento iniziale ha riguardato essenzialmente il petrolio e il gas, e il secondo ancor più del primo. L’aumento del prezzo del carbone è dovuto al fatto che la richiesta di questo combustibile è cresciuta di pari passo con l’aumento del prezzo del gas e del petrolio. L’aumento del prezzo dell’elettricità è a sua volta una conseguenza dell’aumento dei prezzi dei principali combustibili.

Per quanto riguarda il petrolio, si tratta dunque di un problema di mercato (domanda superiore all’offerta) o di mancanza di concorrenza (prezzi di monopolio)? Alcuni commentatori hanno sottolineato che dalla guerra dei prezzi del 2014-2016, si è registrato un calo degli investimenti, che ha reso l’offerta meno flessibile in rapporto a eventuali impennate della domanda. Si potrebbe anche aggiungere che nell’aprile 2020, per stabilizzare il calo dei prezzi sul mercato spot, l’OPEC+ aveva raggiunto un accordo per un taglio della produzione record, di 9,7 milioni di barili al giorno (- 10% della domanda globale del 2019). Tutto questo basta a spiegare l’aumento dei prezzi che si è verificato a partire dall’autunno 2020? Nel grafico sottostante, che appiattisce le oscillazioni più congiunturali, i divari tra domanda e offerta non sembrano molto significativi. Ciò suggerisce che un accidente di mercato è stato utilizzato per far salire i prezzi e mantenerli a livelli storicamente elevati.

Grafico 3: offerta e domanda mondiali di petrolio greggio (20072021)

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Come ha scritto Adam Tooze, «l’attuale impennata del prezzo del petrolio è il risultato di una decisione politica deliberata dell’OPEC e della Russia di strozzare la produzione e far salire i prezzi. I produttori vogliono prelevare maggiori profitti per ripristinare il flusso di cassa e ricompensare gli investitori per la pazienza dimostrata dopo lo shock del 2014»9. È probabile che le compagnie petrolifere di ogni tipo siano d’accordo con questa politica dell’OPEC+, visti i profitti record che stanno realizzando in questo momento. In breve, stiamo assistendo a un brusco aumento della rendita petrolifera e i grandi operatori, in particolare, se la spartiscono a spese degli altri capitalisti e delle altre classi. Inoltre, secondo i suoi documenti ufficiali, l’OPEC+ prevede di tornare al livello di produzione precedente al suddetto accordo di riduzione nel settembre 2022, ma alcuni analisti hanno dimostrato che l’attuale aumento della produzione è almeno di tre volte inferiore a quello che sarebbe necessario per rispettare questa scadenza10.

Per quanto riguarda il mercato del gas, nell’autunno del 2021 diversi commentatori hanno ventilato l’ipotesi secondo la quale Gazprom (in maniera più o meno teleguidata dallo Stato russo) avrebbe aumentato i prezzi per mettere sotto pressione il mercato europeo e accelerare l’avvio del gasdotto Nord Stream 2. Nel frattempo, lo scoppio della guerra in Ucraina ha rimescolato le carte. Non analizzeremo qui i dettagli di questo conflitto. Tuttavia, si può supporre che lo Stato russo vi si stesse preparando da qualche tempo, e che la decisione di Gazprom di razionare il mercato spot non possa essere completamente separata da questa preparazione. Ora, l’ondata di sanzioni e di annunci ostili suggeriscono l’intenzione dei paesi dell’UE, o meglio della Commissione europea, di recidere le interdipendenze energetiche con la Russia piuttosto che rafforzarle. Ammesso che ciò trovi una conferma nei fatti – cosa tutt’altro che certa – ci vorranno anni prima che i clienti europei di Gazprom possano fare a meno del suo gas, tanto più che i rigassificatori di GNL in UE stanno già lavorando al massimo della loro capacità.

In ogni caso, l’aumento dei prezzi spot di petrolio, gas e carbone ha portato a un aumento dei prezzi dell’elettricità all’ingrosso, e ciò ben prima della guerra in Ucraina. In Germania – dove il gas pesa solo per il 15% della produzione energetica nazionale, mentre il carbone (lignite e carbon fossile insieme) ne rappresenta circa il 30% (dati del 2019) – i prezzi dell’elettricità sono quadruplicati (dati di ottobre 2021). Lo stesso vale per la Francia, anche se il 75% della sua produzione di elettricità proviene dal nucleare. In effetti, le norme europee sul mercato dell’energia stabiliscono che sia il produttore con il costo marginale più elevato a fissare il prezzo di mercato – mercato che comprende tutte le fonti energetiche.

In definitiva, se è chiaro che l’aumento dei prezzi dei combustibili e dell’energia si ripercuote su tutti i settori dell’economia, la velocità con cui ciò è avvenuto appare problematica. La maggior parte delle forniture di combustibili (60-65% per il petrolio) non dipende dai prezzi del mercato spot, ma da contratti a lungo termine. Naturalmente, i prezzi spot e i prezzi dei contratti a lungo termine non sono indipendenti gli uni dagli altri. Tuttavia, in particolare negli Stati Uniti, i prezzi di alcuni settori industriali sono talvolta aumentati in maniera assai precoce rispetto all’aumento dei prezzi dei combustibili e dell’energia, senza alcun legame evidente con una qualunque penuria. Questo è stato il caso, ad esempio, di Procter & Gamble, così come di Coca Cola e Pepsi, da tempo sospettate di avere un’intesa sui prezzi. Questo dimostra quanto la formazione dei prezzi in settori importanti del capitalismo americano sia lontana dall’essere «trasparente»11.

3.4  Inflazione e lotte salariali: la cosiddetta spirale prezzi-salari

Se consideriamo i dati relativi alle ore scioperate negli Stati Uniti, in Francia o in Germania nel decennio precedente la crisi del 2008 e nel decennio successivo, notiamo che il loro numero è diminuito dopo la svolta della crisi. Naturalmente, la lotta di classe sul posto di lavoro non scompare mai completamente, ma ci sono condizioni che la favoriscono (tra cui l’inflazione) e condizioni che la deprimono (tra cui la deflazione). Il «costo del lavoro» non si adegua automaticamente all’aumento del prezzo dei beni che servono a (ri)produrlo, a maggior ragione in assenza di meccanismi di indicizzazione automatica dei salari all’inflazione, aboliti in virtù della moderazione salariale di cui si è detto. Questo spiega l’aumento delle lotte sul posto di lavoro a cui abbiamo assistito, a partire dall’autunno scorso, negli Stati Uniti.

Esemplare è qui lo sciopero di oltre 10.000 lavoratori della John Deere, impiegati in diversi stabilimenti situati principalmente in Iowa e Illinois. John Deere è un’azienda produttrice di trattori, che non aveva visto grandi mobilitazioni da almeno trent’anni. Nell’ottobre 2021, tuttavia, i «suoi» lavoratori sono scesi in sciopero, riuscendo a strappare un aumento salariale del 10% per l’anno in corso, oltre ad ulteriori adeguamenti al costo della vita, attraverso una lotta «dura» che si è prolungata per circa un mese e mezzo, e dopo che due proposte di accordo tra l’azienda e il sindacato erano state respinte dai lavoratori. Ma John Deere è solo un caso tra i tanti. Citiamo, tra gli altri, lo sciopero nelle fabbriche della Kellog’s, il marchio di cereali per la prima colazione, che ha coinvolto circa 1.000 lavoratori per oltre due mesi, con picchetti davanti ai cancelli della fabbrica. Lo sciopero ha portato a un aumento dei salari del 3%. Un aspetto interessante di questo sciopero è che i lavoratori in lotta, principalmente dipendenti a tempo indeterminato, chiedevano tra l’altro l’eliminazione del sistema contrattuale differenziato praticato dalla direzione, che prevedeva un nucleo di lavoratori assunti a tempo indeterminato e coperti da un contratto negoziato col sindacato, e un bacino di lavoratori precari e sottopagati. I lavoratori di Kellog’s sono riusciti a imporre al sindacato la parola d’ordine dell’integrazione immediata dei colleghi precari nel nucleo centrale coperto dal contratto fra azienda e sindacato, e l’hanno ottenuta per coloro che avevano almeno quattro anni di anzianità in azienda.

Come mostra il grafico sottostante, la ripresa dei conflitti di lavoro negli Stati Uniti era già iniziata nel 2018. Ma fino all’inizio della crisi da Covid, tale ripresa non aveva particolarmente interessato la produzione.

Grafico 4: Numero di lavoratori che hanno partecipato a uno sciopero con almeno 1.000 scioperanti (Stati Uniti, 1981-2019)

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In un recente articolo, Kim Moody ha rielaborato e commentato i dati grezzi del Bureau of Labour Statistics riportati nel grafico riprodotto qui sopra, aggiungendo le annate 2020 e 2021. L’anno scorso si è registrato un forte aumento dell’attività di sciopero dei dipendenti negli Stati Uniti, con 194 scioperi importanti rispetto ai 66 del 2020, agli 89 del 2019 e ai 76 del 2018. Tuttavia, il numero degli scioperanti, nel 2021, è stato significativamente inferiore a quello del 2019 e del 2018, e questo soprattutto perché si tratta di scioperi (e scioperanti) diversi. Come afferma Moody: «Prima del 2021, la maggior parte degli scioperi riguardava il settore dell’istruzione scolastica pubblica e soprattutto i dipendenti del settore sanitario privato»12.

In definitiva, l’aumento dei salari nominali registrato per l’anno 2021 (5%) è molto più alto rispetto agli anni precedenti, ma è ancora inferiore al tasso d’inflazione annuo (6,8%), il che significa che i salari reali sono diminuiti. Contrariamente a quanto afferma l’ideologia della spirale prezzi-salari, gli aumenti salariali non causano l’inflazione, ma la seguono a distanza (nella migliore delle ipotesi). I commentatori sono preoccupati dall’eventualità che l’aumento dei prezzi provochi un aumento dei salari, dando vita così alla famosa spirale. In realtà, dal momento che i salari rimangono puntualmente indietro rispetto ai prezzi, i salari reali diminuiscono e si deve parlare piuttosto di una spirale prezzi-profitti. Se le lotte hanno successo, i salari nominali partecipano all’aumento generale dei prezzi, ma senza provocarlo. E in assenza di un meccanismo di indicizzazione automatica, l’adeguamento dei salari attraverso le lotte e le negoziazioni non può essere che parziale.

Come già detto, il tasso d’inflazione è più basso nell’UE che negli USA, e varia da paese a paese. Ciò non impedisce che il malcontento dei lavoratori cominci a farsi sentire. In Spagna, lo sciopero dei metalmeccanici di Cadice (novembre 2021), che ha ricevuto grande attenzione da parte dei media, è stato accompagnato da molti altri conflitti meno massicci, anch’essi incentrati sulla questione salariale: metalmeccanici ad Alicante, lavoratori dei supermercati nella regione di Castilla y Léon, lavoratori del settore agroalimentare un po’ in tutto il paese etc. La maggior parte di questi conflitti ha condotto a degli aumenti salariali, che però sono ancora piuttosto modesti rispetto all’aumento del tasso d’inflazione.

Anche in Francia, dove l’inflazione non era così alta, si sono verificati diversi scioperi tra ottobre e dicembre 2021, nel contesto delle negoziazioni annuali obbligatorie (NAO). Anche in questo caso, si tratta di lotte che spesso nascono in stabilimenti dove non ci sono mai state grandi mobilitazioni, o non ce ne sono state per decenni. Negli ultimi mesi si sono avuti scioperi a Leroy Merlin, Decathlon, nel settore agroalimentare bretone, nei negozi Sephora, a Dassault (sito di Anglet, dipartimento dei Pirenei Atlantici), in diversi stabilimenti Enedis (a Parigi, Marsiglia, nella Loira Atlantica, nell’Orne), nei siti del gigante della petrolchimica Arkema, nei supermercati Cora (una dozzina di negozi colpiti sui 60 presenti in Francia) etc. In tutti questi casi, le richieste degli scioperanti sono molteplici e possono riguardare sia i salari che le condizioni di lavoro, ma l’aumento dei salari e il loro adeguamento all’inflazione appare spesso come una delle richieste centrali degli scioperanti. Ad Arkema, gli scioperanti chiedevano, tra l’altro, un aumento mensile di 100 euro per tutti i dipendenti. Dopo due settimane di sciopero (a partire dal 9 dicembre), hanno ottenuto un aumento di 70 euro. Il 21 dicembre, gli scioperanti del sito di Jarrie (hinterland di Grenoble) erano pronti a continuare lo sciopero, ma alla fine hanno deciso di accodarsi alla decisione degli altri 12 siti mobilitati di accettare la proposta della direzione. Ciò lascia pensare che non sia da escludere una ripresa della mobilitazione, in un prossimo futuro, almeno in alcuni siti.

Un elemento comune a tutti questi scioperi è che spesso si svolgono all’interno di grandi aziende o gruppi multinazionali e sono guidati da dipendenti con contratti a tempo indeterminato. Le PMI, che subiscono la pressione di questi stessi grandi gruppi e sono spesso fortemente indebitate, sembrano per il momento le meno colpite, probabilmente perché hanno pochi margini di manovra per rispondere alle rivendicazioni salariali.

In conclusione, si può affermare che le lotte salariali che si sono sviluppate dall’inizio dell’impennata inflazionistica, sono certamente destinate a moltiplicarsi qualora quest’ultima dovesse proseguire. Esse potrebbero combinarsi con movimenti sociali sul modello dei Gilets Jaunes, focalizzati sulla questione del potere d’acquisto.

 

4. – Inflazione, ripartizione ineguale del plusvalore e politica delle banche centrali

Fin dai suoi esordi, si è posto il problema di sapere quanto la fiammata inflazionistica sarebbe durata. Tra gli economisti, i dibattito si è strutturato intorno all’opposizione tra la tesi della «inflazione transitoria» e quella della «inflazione strutturale». Se i sostenitori della prima si sono per lo più limitati a sottolineare il carattere presumibilmente passeggero degli squilibri tra l’offerta e la domanda, quelli della seconda hanno invocato, talvolta non senza una certa dose di immaginazione, ogni sorta di pretesa causa «più profonda» per sostenere la propria posizione. Resta il fatto che la tesi dell’inflazione «transitoria» risulta sempre meno verosimile. Anche se i colli di bottiglia legati alla disorganizzazione delle catene del valore sono in via di risoluzione, vediamo in effetti sorgere nuovi fattori che sono fonte

di inflazione. Il conflitto russo-ucraino ne è un esempio. Esso si sta ripercuotendo tanto sui prezzi del petrolio e del gas, che su quelli di altre materie prime come il grano, il nichel, il palladio etc. Ecco perché la prospettiva di una rapida risoluzione del problema dell’inflazione sembra sempre meno probabile. Anche la nostra analisi delle cause profonde dell’inflazione va nella stessa direzione. Dal canto nostro, ne individuiamo essenzialmente due: la caduta brutale del saggio di profitto e la destabilizzazione della perequazione stratificata del medesimo.

4.1 – Rialzo dei prezzi, oligopoli e saggio di profitto

Nel corso del XX secolo, ci sono state tre grandi ondate inflazionistiche nei paesi occidentali, coincidenti con la Prima Guerra Mondiale, la Seconda Guerra Mondiale e gli anni ‘70 (vedi il grafico qui sotto).

Grafico 5: l‘inflazione negli Stati Uniti (19902012)

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Ogni volta, il rialzo dei prezzi è risultato connesso all’appropriazione di una considerevole massa di plusvalore da parte di un dato settore della produzione capitalistica: l’industria degli armamenti durante le due Guerre Mondiali, la produzione di petrolio per quanto riguarda gli anni ‘70. Nel primo caso, abbiamo a che fare con il brusco sviluppo di capitali improduttivi, che per funzionare richiedono una grande massa di plusvalore. Questa massa viene loro trasferita dallo Stato, che compra gli armamenti e che la preleva attraverso le imposte e il debito. Nel secondo caso, è il forte aumento del prezzo del petrolio ad aver preso in ostaggio il resto dell’economia capitalistica, rafforzando la rendita petrolifera in una misura fino ad allora sconosciuta. In entrambi i casi, ciò che ne è scaturito è una penuria di plusvalore per gli altri capitali, i quali non hanno avuto altro modo di salvaguardare la propria valorizzazione che il rialzo dei rispettivi prezzi. E in entrambi i casi, queste fasi di forte inflazione hanno provocato delle trasformazioni importanti nella riproduzione capitalistica. Ammesso che l’attuale ondata inflazionistica prosegua, si tratta di capire se anch’essa annunci delle trasformazioni analoghe. Ma, per cominciare, torniamo alle cause profonde di tale ondata. L’inflazione attuale nasce dalla doppia crisi della redditività e della perequazione distorta del saggio di profitto.

Se non possiamo attenerci allo schema astratto della perequazione perfetta del saggio di profitto (il «comunismo del capitale» di Marx), è perché nella realtà essa non esiste. Dobbiamo partire dal fatto che tale perequazione è distorta, vale a dire che la tendenza alla formazione di un unico saggio di profitto medio per tutte le branche della produzione è ostacolato, e questo in misura crescente. Lo schema di perequazione stratificata a quattro livelli che abbiamo proposto in Le Ménage à trois de la lutte des classes (Éd. L’Asymétrie 2019, pp. 323-324) è troppo complesso rispetto ai fini della nostra trattazione qui. Lo semplificheremo, quindi, supponendo che vi siano due soli livelli: quello delle branche aperte [alla penetrazione di nuovi concorrenti, ndt] e quello delle branche chiuse (monopoli e oligopoli).

Nel § 2.2, abbiamo visto come l’aumento dei prezzi sia più forte per i prezzi alla produzione che per quelli al consumo. Ora, se l’aumento dei prezzi a monte si trasmette a valle soltanto parzialmente, non si tratta solo di uno sfasamento temporale. Vi sono capitalisti che impongono il rialzo dei prezzi e altri che lo subiscono; vi sono capitalisti che possono facilmente aumentare i loro prezzi, mentre altri non lo possono fare. Vediamo questa dinamica da più vicino.

Per i capitalisti che impongono l’aumento dei prezzi, si tratta di un modo per contrastare la caduta del saggio di profitto. Questo espediente permette loro di intascare una quota maggiore di plusvalore, senza investimenti aggiuntivi e senza sottoporre i propri salariati a una pressione maggiore – detto altrimenti, senza agire sulla composizione organica del capitale o sul saggio di sfruttamento (il saggio del plusvalore). In linea di principio, questo è possibile solo se i capitalisti in questione si trovano in una situazione di monopolio o di oligopolio.

Tra i capitalisti che subiscono il rialzo dei prezzi iniziale, vi sono altri oligopolisti. Questi possono reagire al rialzo rapidamente, aumentando a loro volta i propri prezzi. Non risultano vincenti nell’affare, ma non sono tuttavia neanche perdenti: subiscono l’aumento dei prezzi altrui, e nella stessa misura lo trasferiscono ai propri.

Tuttavia, la maggioranza dei capitalisti, quelli delle grandi e piccole imprese delle branche aperte, subisce il rialzo dei prezzi senza poterlo trasferire immediatamente ai prezzi delle proprie merci. Per costoro, l’aumento dei prezzi dei fattori di produzione provoca un abbassamento del saggio di profitto. In ragione della concorrenza, i prezzi di mercato delle branche considerate (branche aperte) non cambiano, per lo meno in un primo tempo, o comunque aumentano molto più lentamente di quelli delle branche chiuse. Il solo modo per fare risalire il saggio di profitto, è allora quello di aumentare i saggio di sfruttamento (pl/v). È probabile che agli occhi di questi capitalisti, la soluzione di comodo rappresentata dal ricorso al plusvalore assoluto (prolungare o intensificare la giornata lavorativa, o comprimere maggiormente i salari) sia preferibile a degli investimenti volti ad accrescere la produttività, per lo meno in un primo tempo. Tuttavia, non si tratta di una vera soluzione. In primo luogo, possiamo immaginare che i salariati vi oppongano resistenza più vigorosamente che in passato. Negli ultimi decenni, nelle aree centrali dell’accumulazione, il ritorno al plusvalore assoluto è avvenuto in un contesto di relativa stabilità dei prezzi. La fiammata inflazionistica cambia le carte in tavola, poiché erode i salari reali. Se essa dovesse proseguire senza un adeguamento dei salari (per via automatica o attraverso la lotta), essa rappresenterebbe un’autentica rottura del «compromesso sociale» post-fordista. In secondo luogo, il ricorso al plusvalore assoluto, nella forma e nelle condizioni attuali, è già stato praticato in lungo e in largo, e ha esaurito il suo potenziale. Esso non permette di ottenere nuovi incrementi di produttività, né di abbassare il valore del paniere dei mezzi di sussistenza. Altra falsa soluzione per i capitalisti delle branche aperte, in quanto molto provvisoria, sarebbe rassegnarsi ad aumentare i propri prezzi, col rischio di perdere quote di mercato o andare in fallimento.

Nel nostro ragionamento, abbiamo fatto astrazione dalla questione del credito, vale a dire dalla possibilità per i capitalisti che subiscono il rialzo dei prezzi, di prendere di più a prestito per acquistare i propri fattori di produzione. D’altro canto, abbiamo presupposto una produttività data e stabile, nelle branche chiuse come in quelle aperte, mentre è noto che durante la crisi da Covid essa è peggiorata per alcuni capitalisti (la maggior parte) e migliorata per altri (pochi). Queste riserve, per quanto importanti, non toccano l’essenziale: l’ammontare del plusvalore disponibile non è certamente aumentato, ma la sua ripartizione è diventata improvvisamente più sfavorevole alle branche aperte. Lo era già prima, ma la situazione si è ulteriormente aggravata.

Detto altrimenti, non solo il rialzo dei prezzi modifica le condizioni della lotta di classe (l’inflazione che si sostituisce alla stabilità dei prezzi, o perfino alla deflazione), ma cambia anche quelle della concorrenza tra branche chiuse e branche aperte. Le prime, vittime di un drenaggio di plusvalore prolungato e ora rafforzato, vedono ridursi la propria redditività. Ma questa perdita di redditività non può che compromettere la sostenibilità del drenaggio di plusvalore verso le branche chiuse. In tal modo, i capitali delle une e delle altre sono destinati a una impasse, la quale rivelerà finalmente che il rialzo dei prezzi è un ultimo e impossibile tentativo di salvaguardare lo statu quo, vale a dire la formula dello sfruttamento basata essenzialmente sul plusvalore assoluto.

4.2. Il problema delle banche centrali

Le banche centrali, come ogni altra istituzione del capitale, sono dei luoghi di confronto/scontro tra frazioni capitalistiche concorrenti, e le loro politiche monetarie risultano dal consenso o dai compromessi che si realizzano tra queste frazioni.

Quando la pandemia è esplosa, le banche centrali hanno lanciato o enormemente ampliato i loro programmi di acquisto di obbligazioni di Stato, i cui frutti hanno inondato di liquidità il sistema bancario e, di rimando, quello finanziario. Il consenso giocava allora a favore della conservazione dello statu quo. Ciò ha permesso di mantenere aperti i canali del credito alle imprese (incluse quelle «zombie») e, soprattutto, ha impedito il crollo dei mercati finanziari. In effetti, dopo una brusca caduta nella primavera del 2020, i mercati finanziari hanno beneficiato di un rialzo senza precedenti, anticipando una crescita senz’altro eccessiva rispetto alla ripresa reale.

Ora che l’inflazione inizia a mordere seriamente, le banche centrali si trovano di fronte a un’alternativa che si presenta come un rompicapo. Secondo la pratica abituale, esse dovrebbero reagire varando delle politiche monetarie più restrittive, aumentando i tassi d’interesse e riducendo rapidamente i loro programmi di acquisto di titoli di stato. È ciò che la Fed, e più recentemente la BCE, hanno annunciato di voler fare nel corso di quest’anno, in forma più o meno graduale (sette rialzi dei tassi per la Fed nel 2022). Si sta dunque preparando un Volcker Shock 2.0? Bisogna qui diffidare degli annunci ad effetto.

In generale, si suppone che il rialzo dei tassi d’interesse da parte della banca centrale equivalga a una restrizione dei canali del credito alle imprese: alle banche commerciali costa più caro prendere a prestito dalla banca centrale, e di conseguenza alle imprese e alle famiglie costa più caro prendere a prestito dalle banche commerciali – ciò che «raffredda» l’economia e fa diminuire l’inflazione. Cionondimeno, per introdurre una politica monetaria realmente restrittiva e capace di provocare una rapida diminuzione dell’inflazione, le banche centrali dovrebbero rialzare i tassi d’interesse nominali sensibilmente al di sopra del tasso d’inflazione soggiacente, poiché sono i tassi d’interesse reali (quelli, cioè, al netto dell’inflazione) che contano. È per questa ragione che all’epoca del Volcker Shock del 1980, la Fed dovette far salire il suo tasso d’interesse ben al di sopra del tasso d’inflazione del tempo (circa il 15%, alla fine del 1979). In una situazione di uscita dalla crisi molto incerta e segnata dall’aumento delle tensioni geopolitiche, è difficile immaginare che la Fed faccia lievitare il proprio tasso d’interesse dallo 0,25% all’8% in pochi mesi. Ciò provocherebbe certamente una crisi molto profonda, che solo una piccola frazione di capitali pensa di poter affrontare traendone vantaggio. All’epoca del Volcker Shock, le frazioni capitalistiche che promossero la svolta erano quelle in grado di promuovere la finanziarizzazione dell’economia, la mondializzazione degli scambi etc. Oggi, tali frazioni sono piuttosto da ricercare all’interno della tendenza alla digitalizzazione integrale. Ma la loro vittoria indicherebbe un cambiamento radicale in un lasso di tempo molto breve del consenso in seno alla Fed, tale da rimettere in discussione gli sforzi fatti a partire dal marzo-aprile 2020 per tenere a galla l’economia, per passare invece bruscamente a una politica della terra bruciata (stimolare una devalorizzazione rapida e massiva). È poco verosimile. L’inflazione sarà combattuta solo timidamente. Si avranno probabilmente dei ritocchi cosmetici dei tassi d’interesse, con un impatto minimo sull’evoluzione dell’inflazione. Possiamo ancora aggiungere che l’inflazione «erode» i debiti accumulati, e può quindi contribuire a ridurre il sovraindebitamento pubblico e privato, argomento a cui la Fed non è certo insensibile.

Certo, come abbiamo visto, l’opzione del lasciar fare l’inflazione non è esente da rischi. Lasciar fare l’inflazione significa innanzitutto accettare un certo grado di instabilità sociale. Abbiamo già evocato la ripresa delle lotte salariali. Inoltre, come si può già osservare, l’inflazione provoca dei problemi di liquidità per numerose piccole e medie imprese, e il malcontento di questo settore del padronato può trasformarsi rapidamente in un vincolo politico e di bilancio per i governi. Lasciar fare l’inflazione significherebbe allo stesso modo accettare una certa dose di instabilità finanziaria poiché, in un clima di tensione sui mercati dell’energia e delle materie prime, le rotazioni settoriali nei portafogli di asset degli investitori potrebbero essere molto violente. L’hi-tech americano, ad esempio, potrebbe perdere molta della sua attrattiva a vantaggio di settori meno blasonati e fin qui sottovalorizzati del mercato azionario. Le recenti evoluzioni del Nasdaq (-24% dal 19 novembre 2021 al 14 marzo 2022) vanno in questa direzione.

A parità di condizioni, la situazione risulta ancora più complessa nella zona euro, la cui unione monetaria presenta delle caratteristiche uniche nella storia (nessun vero bilancio né un Tesoro comuni). Qui, la diversità dei tassi d’inflazione che si registrano nei vari paesi, che dipende dalla diversità delle rispettive strutture economiche, è inevitabilmente causa di conflitti in seno alla BCE riguardo alle misure da adottare per farvi fronte. Ricordiamo che la BCE è la sola istituzione federale della UE. Per la stessa ragione, è il luogo dove si confrontano le agende delle diverse banche centrali nazionali. Il salvataggio dell’euro all’epoca del whatever it takes di Mario Draghi, ad esempio, era stato reso possibile dalla messa in minoranza della Bundesbank e della Nederlandsche Bank in seno al Consiglio dei Governatori. Da allora, qualunque ritorno all’indietro rispetto al Quantitative Easing (QE) si è rivelato impraticabile. La zona euro può sopravvivere solo se la BCE, con i suoi acquisti ragionati di titoli di debito, provvede a mantenere sotto controllo gli interessi sui titoli di Stato dei paesi membri e a ridurre gli scarti tra tali interessi (gli spread). Il QE è una monetizzazione del debito. Questa monetizzazione del debito è incompatibile con una politica monetaria restrittiva. Non si possono praticare l’una e l’altra contemporaneamente. Dunque, ogni improvviso mutamento in materia di politica monetaria equivarrebbe a rimettere in discussione l’integrità dell’area euro.

In breve, sulle due sponde dell’Atlantico, le banche centrali sono poste di fronte a un problema delicato: contrastare davvero l’inflazione e provocare una profonda recessione, oppure lasciarla fare? Per il momento, sembra essersi stabilito, in seno alle banche centrali, un consenso intorno a una lotta all’inflazione soltanto di facciata. Un allargamento del conflitto in Ucraina potrebbe cambiare questo quadro? È improbabile: una politica monetaria e di bilancio espansiva è più favorevole allo sforzo bellico e al riarmo. Contrariamente alle apparenze, l’abbandono delle politiche monetarie non- convenzionali, come il QE, non è lo scenario più verosimile. Ma come abbiamo visto in un nostro precedente intervento, «è poco probabile che le aree centrali dell’accumulazione (Stati Uniti, Europa occidentale, Estremo Oriente) seguano tutte la stessa traiettoria»13. Ciò vale anche per la politica monetaria. Una divergenza tra gli Stati Uniti e l’eurozona, su questo terreno, è egualmente possibile.

 

5 – Conclusione

Nell’intervento appena citato, avevamo immaginato un’ondata inflazionistica capace di destabilizzare in profondità gli equilibri dello statu quo e di innescare una devalorizzazione massiva di capitale reale e fittizio. È questo davvero il caso? No, almeno per il momento. La nostra analisi fa ora apparire l’inflazione piuttosto come l’ultimo tentativo di salvaguardare lo statu quo. Il quadro provvisorio all’uscita dalla crisi da Covid, è dunque quello di una bipolarizzazione esacerbata del capitale tra branche aperte e branche chiuse, o in altri termini, quello di un rafforzamento del predominio dell’oligopolio e dei meccanismi di drenaggio del plusvalore che esso implica. Si tratta di una fase ulteriore (l’ultima, salvo sorprese) della decomposizione della vecchia formula dello sfruttamento, piuttosto che dell’apparizione di una nuova formula.

Cionondimeno, il mantenimento dello statu quo è sempre contraddittorio, nel senso che le iniziative capitalistiche che lo perseguono finiscono sempre per produrre risultati diversi da quelli attesi. La fiammata inflazionistica, ammesso che prosegua, è destinata ad esacerbare lo scontro tra i capitalisti e lo scontro tra le classi. Prodotta dal voltafaccia di alcune frazioni capitaliste (oligopoliste) a detrimento di tutte le altre, l’inflazione inaugura probabilmente un periodo di conflitti inter-capitalistici molto aspri e una ripresa dei conflitti di lavoro nelle aree centrali del capitale. In ogni caso, essa crea oggettivamente le condizioni affinché la questione del rilancio del plusvalore relativo sia infine posta: la resistenza all’inasprimento della vecchia formula del plusvalore assoluto, nella misura in cui dovesse avere successo, spingerà alcune frazioni capitaliste a prendere in considerazione la soluzione dell’abbassamento del valore del paniere dei mezzi di sussistenza, e a imporre il proprio punto di vista. Allo stesso modo, essa radicalizzerà lo scontro tra oligopoli/monopoli e capitali delle branche aperte, poiché la diminuzione del valore del paniere dei mezzi di sussistenza è impossibile senza una diffusione rapida dei nuovi incrementi di produttività all’insieme delle branche della produzione sociale. Ora, gli oligopoli/monopoli rappresentano precisamente un ostacolo a questa diffusione.

Sarà qui necessario tenere sotto osservazione gli interventi dello Stato a livello della perequazione del saggio di profitto. Le politiche anti-trust, ad esempio, sono notevolmente regredite nel corso degli ultimi vent’anni, soprattutto negli Stati Uniti (cfr. supra, nota 10). La ripresa di queste politiche sarebbe attualmente in corso, almeno nelle intenzioni, ma in misura molto minore rispetto a quanto sarebbe necessario per ritornare a una formula più equilibrata del plusvalore. Non è proprio in ragione della bassa intensità della lotta di classe, e in particolare della debolezza delle lotte salariali nel decennio seguito alla crisi del 2008, che i governi hanno potuto tergiversare su questo fronte? A questo livello, l’inflazione introduce un elemento di novità che sta iniziando a cambiare le carte in tavola.

Come abbiamo più volte ripetuto, nel quadro di un’eventuale ristrutturazione non si tratterebbe soltanto, per i capitalisti, di ridurre il valore delle merci che costituiscono l’attuale paniere dei mezzi di sussistenza, ma di rivedere da cima a fondo le modalità della riproduzione del proletariato. A tal fine, si dovrebbero ad esempio addomesticare i GAFAM e gli altri oligopoli detentori delle tecnologie necessarie, perché il loro vantaggi in termini di produttività si estendano agli altri settori. Tutto ciò si iscriverebbe in una trasformazione molto più vasta, di ampiezza probabilmente maggiore rispetto alle due ristrutturazioni del XX secolo (quella fordista e quella post-fordista). Soltanto una crisi sociale potrà metterla all’ordine del giorno.


Note
1 Solo il presente episodio è disponibile in traduzione italiana. [ndt]
2 Se e in che misura l’aumento del prezzo del petrolio da parte dei paesi OPEC, nel 1973, sia stato precedentemente concordato con le principali compagnie petrolifere, o addirittura incoraggiato da queste ultime, non è molto importante per i fini che si propone questo testo, ma vorremmo sottolineare che la questione rimane aperta.
3 Si potrebbe obiettare che il debito pubblico, negli Stati Uniti, sia cresciuto in modo significativo negli ultimi decenni. In realtà, non è stato così fino ai primi anni 2000. Tra il 2002 e il 2008, l’aumento del debito pubblico americano è stato determinato principalmente dalla spesa militare. È solo a partire dalla svolta della crisi del 2008, che il debito pubblico statunitense ha iniziato a crescere in modo esponenziale, e per motivi differenti da quelli legati alla spesa militare.
4 Si tenga presente che quest’ultimo dato si riferisce alla data di pubblicazione del testo, cioè aprile 2022. [ndt]
Kim Moody, The Supply Chain Disruption Arrives «Just in Time», 6 dicembre 2021; disponibile qui: https://labornotes.org/2021/12/supply-chain-disruption-arrives-just-time.
6 François Chesnais, Économie mondiale: «Un nouveau régime de croissance faible s’annonce  la pression sur le travail et la nature va s’accentuer», 30 novembre 2021; disponibile qui: http://alencontre.org/laune/economie-mondiale-un-nouveau-regime-de- croissance-faible-sannonce-ou-la-pression-sur-le-travail-et-la-nature-va-saccentuer.html.
7 Op. cit.
8 Parisa Kamali & Alex Wang, Longer Delivery Times Reflect Supply Chain Disruptions, 25 ottobre 2021; disponibile qui: https://blogs.imf.org/2021/10/25/longer-delivery-times-reflect-supply-chain-disruptions/?utm_medium=email&utm_source=govdelivery.
9 Adam Tooze, Explaining the energy dilemma of 2021- the 2014 shock and the global energy business, 10 novembre 2021; disponibile qui: https://adamtooze.substack.com/p/chartbook-51-explaining-the-energy.
10 Josh Young, The Myth of OPEC+ Spare Capacity, 18 settembre 2021; disponibile qui: https://seekingalpha.com/article/4455943-the-myth-of-opec-plus-spare-capacity.
11 «Negli ultimi vent’anni […] i mercati statunitensi sono diventati meno competitivi: la concentrazione è elevata in molti settori, i leader sono ben radicati e i loro tassi di profitto sono eccessivi. Questa mancanza di concorrenza […] ha portato a un aumento dei prezzi, a una riduzione degli investimenti e a una minore crescita della produttività […] Ho attribuito il declino della concorrenza all’aumento delle barriere all’ingresso e alla debole applicazione delle leggi antitrust, sostenute da un’intensa attività di lobbying.» (Thomas Philippon, The Great Reversal: How America gave up on free markets, Harvard University Press, 2021, p. 205).
12 Kim Moody, U.S. Strikes in 2021 in Context, 3 dicembre 2021; disponibile qui: https://newpol.org/u-s-strikes-of-2021- in-context-whats-happening-and-why/.
13 R.F. & B.A., Accouchement difficile  Épisode 3: Peut-on mettre une crise au congélateur?, aprile 2021; disponibile qui (solo in francese): http://www.hicsalta-communisation.com/accueil/accouchement-difficile-episode-3-peut-on-mettre-une-crise-au- congelateur.

FONTE: https://illatocattivo.blogspot.com/

 

 

Nuove dinamiche del ciclo economico

di Fabrizio Russo

crisi economicaDoveva essere un non-evento, per così dire, “irrilevante”. A conferma di una “New Cycle Dynamics”, il “mini budget” del governo Truss ha invece scatenato un caos assoluto sui mercati, e non solo obbligazionari: fondi pensione che esplodono, operazioni di salvataggio di emergenza della banca centrale, instabilità del mercato globale. Il Segretario al Tesoro del Regno Unito è stato sacrificato dopo soli 38 giorni, un intero governo si è trovato in bilico a solo poche settimane dalla sua nascita per finire poi miseramente – il Governo più breve nella storia dell’Inghilterra – il 21 ottobre u.s. Un bell’exploit, non c’è che dire!

Venerdì 14 u.s. il Financial Times titolava: “Gilt sugli scudi ma gli investitori affermano che l’inversione a U del Governo Truss non è stata sufficiente a rassicurare ed invertire il tono di fondo del mercato”. “Liz Truss può sopravvivere come Primo Ministro del Regno Unito?”; “L’austerità chiama mentre Truss cerca di ripristinare la reputazione della Gran Bretagna tra gli investitori” (istituzionali, aggiungerei). E “La debacle del Regno Unito mostra che la banca centrale ‘Tough Love’ è qui per restare”.

Viene in mente il monito di Boris Johnson che, al momento del suo commiato, si è speso in un sibillino: “Arrivederci!” ….. nel senso che la Truss sarebbe durata poco? Lo sospettavo ma adesso ormai sono la maggioranza a crederlo … purtroppo i problemi non scompariranno con la designazione di un nuovo Esecutivo, nella fattispecie quello del neo incaricato Rishi Sunak, mentre il ritorno di Boris – pur paventato – sarebbe certamente stato un pessimo segnale di disperazione.

Il mondo è cambiato davanti ai nostri occhi. È stata una delle mie domande retoriche preferite negli ultimi due decenni: il “denaro” (inflazione monetaria) è la soluzione o il problema? La risposta è ovvia: lo è da tempo e presumo – i fatti lo provano – che i banchieri centrali abbiano accettato la dura realtà (nascondendo però la mano dietro la schiena dopo aver lanciato il sasso) per tanto tempo negata.

Anni di inflazione monetaria senza precedenti hanno creato false realtà, mondi virtuali che ora portano a dolorosi risvegli a cui nessuno riconosce la paternità. La percezione di un “denaro” infinito ed “a buon mercato” (quando non “gratuito”) ha distorto il modo in cui funzionano i nostri sistemi di mercato, economici, finanziari, politici e sociali. Il periodo di (doloroso) riadattamento, ad un tempo procastinato ed atteso da tempo, è iniziato e ci sono tutte le ragioni per aspettarsi che sarà particolarmente brutale. Così tante cose sono già cambiate così velocemente. Le settimane scorse ci sono stati altri tremori ed è sopraggiunta quella sensazione fastidiosa che il terreno stava per cedere.

Liz Truss, alla fine, ha vinto il premio come il primo ministro in carica più breve nella storia del Regno Unito. I banchieri centrali e i mercati obbligazionari hanno accolto allegramente molti budget folli. Ora però corrono spaventati, lasciando i politici sbalorditi a cercare di capire cosa può funzionare in questo nuovo mondo. La Truss non è comunque nata sotto una buona stella, sembrerebbe!

In un macrocosmo di fenomeni globali in corso, il Regno Unito deve affrontare una doppia crisi di fiducia: di politica fiscale e monetaria. A questo punto, nel Regno Unito, i mercati, più intransigenti, non vogliono sentir parlare né di spesa fiscale aggiuntiva né di stimolo monetario.

12 ottobre – Reuters (Dhara Ranasinghe, Harry Robertson, Tommy Wilkes): “Il governatore della Banca d’Inghilterra Andrew Bailey è stato inequivocabile: venerdì la banca centrale porrà fine al sostegno di emergenza alle obbligazioni. Tuttavia, con i mercati che mostrano pochi segnali di stabilizzazione, la BoE potrebbe non avere altra scelta che tornare a sostenere i corsi. Mercoledì i costi del debito pubblico britannico sono aumentati di nuovo con i rendimenti delle obbligazioni a 20 e 30 anni che hanno raggiunto i massimi di 20 anni dopo che Bailey ha detto martedì ai fondi pensione che avevano tre giorni per risolvere i problemi di liquidità prima della fine dell’acquisto d’emergenza di obbligazioni da parte della BoE. La banca centrale è intrappolata tra l’incudine e il martello. Da un lato sta navigando in quello che ha definito un “rischio materiale per la stabilità finanziaria” dall’altro ha di fronte la rotta del mercato dei gilt, che espone vulnerabilità nel settore delle pensioni.

Dopo un decennio in cui si è completamente integrato nelle percezioni del mercato, nei prezzi e nelle strutture, nonché nella pianificazione e nei bilanci governativi, nelle strategie aziendali, nella struttura economica e simili, in che modo i banchieri centrali di oggi possono segnalare che il “whatever it takes” ha fatto il suo corso? Può essere fatto questo però senza scatenare una grave instabilità praticamente ovunque?

L’ ex-primo ministro Truss e il governatore della BOE Bailey potrebbero finire a commiserarsi, vicendevolmente, davanti a una tazza di tè inglese a colazione. Truss è stata costretta a placare il mercato obbligazionario, mentre cercava di evitare le conseguenze disastrose di un pushover debole sull’intera agenda fiscale del suo, ormai defunto, ex-governo. Sono inversioni a U disordinate che mettono in luce l’aspetto a breve termine dell’indecisione.

Bailey deve prevenire – non sembra infatti ancora finita, nonostante l’abbandono di Truss – il crollo del mercato obbligazionario e del sistema pensionistico, pur non aprendo completamente le “porte” monetarie in un momento in cui imperversa l’inflazione e la sterlina è assolutamente fragile. Il supporto obbligazionario di emergenza della BOE scadrebbe a breve, ma pochi credono che sia fattibile non prolungare il sostegno. Buona parte degli osservatori è convinta che le banche centrali siano per sempre votate a dover intervenire per proteggere dai crash il mercato, “whatever it takes“. Per la BOE, pure, sono inversioni a U disordinate che mettono in luce l’aspetto inquietante dell’indecisione. La credibilità è in forse, è comunque decisamente precaria.

I rendimenti dei gilt britannici sono arrivati fino al 4,63% nelle contrattazioni dell’altro mercoledì (due settimane fa), scendendo a un minimo del 3,89% all’inizio del venerdì 14/10 successivo, prima di concludere la settimana in rialzo di 10 punti base al 4,34%. I rendimenti a due anni del Regno Unito sono stati scambiati lunedì (intraday), della stessa settimana anzidetta, a un massimo del 4,40%, con un minimo di venerdì del 3,46% (chiudendo la settimana in calo di 25 punti base a 3,87%). La sterlina è stata scambiata a un minimo di 1,092 mercoledì e un massimo di 1,138 giovedì, prima di concludere la settimana in rialzo dello 0,8% a 1,118.

È stata quella una settimana infausta anche per i CDS delle banche globali. I CDS Barclays Bank nel Regno Unito sono balzati di 11 a 147 pb, il massimo di luglio 2013 (“taper tantrum”). Barclays CDS è stato scambiato a 105 bps il 15 settembre. I CDS di NatWest sono cresciuti sino a 131 pb e quelli dei i Lloyds a 97 pb (la settimana dopo sono stati scambiati ai massimi dal 2016).

Curiosamente, le banche statunitensi sono tornate vicino alla vetta della classifica dei CDS nella settimana in parola, con tutte le major che hanno visto la chiusura dei CDS venerdì ai massimi da marzo 2020. JPMorgan CDS è salito da 8 a 112 pb, con Bank of America da 9 a 121 pb. Citigroup CDS è salito a 139 pb, Goldman di 11 a 142 pb e Morgan Stanley a 140 pb. Altrove, i CDS di Deutsche Bank sono aumentati sino a 173 pb (trading intraday mercoledì a 189 pb); Société Générale a 110 bps (intraday giovedì a 120 bps); e in difficoltà Credit Suisse a 318 pb (giovedì infragiornaliero a 341 pb).

La volatilità registrata dal mercato azionario è degna di nota. L’S&P500 è sceso a 3.492 a seguito di dati CPI peggiori del previsto, per poi registrare uno straordinario rally intraday del 5,5% (chiudendo la sessione in rialzo del 2,6%). L’S&P500 è poi scambiato fino a 3.712 all’inizio del venerdì, prima di invertire il 3,5% in meno per chiudere la settimana a 3.583 (in calo dell’1,6%).

Gli spread delle società investment grade statunitensi rispetto ai Treasury sono aumentati di 11 pb a 1,63 punti percentuali, il livello più ampio da maggio 2020. Insomma, più legna sul fuoco per la “singolare” (ormai sempre meno) tesi della bolla globale.

10 ottobre – Reuters (Davide Barbuscia): “I prezzi dei titoli di Stato in tutto il mondo si stanno muovendo di pari passo, riducendo la capacità degli investitori di diversificare i propri portafogli e sollevando preoccupazioni di essere presi alla sprovvista dalle oscillazioni del mercato. Le correlazioni tra i rendimenti rettificati per valuta del debito pubblico di paesi come Stati Uniti, Giappone, Regno Unito e Germania hanno raggiunto il livello più alto da almeno sette anni, come evidenziano i dati dell’MSCI, mentre le banche centrali di tutto il mondo intensificano la loro lotta contro inflazione.”

11 ottobre – Wall Street Journal (Matt Wirz e Caitlin Ostroff): “Le ricadute della crisi dei mercati finanziari britannici hanno colpito un angolo recondito di Wall Street: quello del mercato, da trilioni di dollari, dei prestiti garantiti. Un tempo un prodotto di nicchia, i CLO sono ora ampiamente detenuti da investitori di tutto il mondo, inclusi pensioni, assicuratori e fondi britannici che sono stati colpiti dal recente crollo dei mercati valutari e dei titoli di stato del Regno Unito. Molti di loro hanno venduto obbligazioni CLO per soddisfare le richieste di margine, facendone crollare i prezzi ben al di sotto del loro valore intrinseco, come affermano molti analisti e gestori di fondi.

A volte ti gratti la testa…m non aiuta…

10 ottobre – Bloomberg (Ott Ummelas e Niclas Rolander): “L’ex presidente della Federal Reserve Ben S. Bernanke e due colleghi statunitensi hanno vinto il Premio Nobel per l’economia 2022 per la loro ricerca sulle crisi bancarie e finanziarie. Douglas Diamond, Philip Dybvig e l’ex banchiere centrale condivideranno il premio da 10 milioni di corone ($ 885.000), ha annunciato la Royal Swedish Academy of Sciences… “I vincitori hanno fornito una base per la nostra moderna comprensione del motivo per cui le banche sono necessarie, perché sono vulnerabili e su cosa fare al riguardo”, ha detto ai giornalisti John Hassler, professore di economia e membro del comitato del premio… “Nel lavoro dei vincitori, è dimostrato che l’assicurazione sui depositi è un modo per ‘cortocircuitare’ le dinamiche dietro le corse agli sportelli. Con l’assicurazione sui depositi, non c’è bisogno di correre in banca.’”

Nessun commento!

Ripensandoci… Pochi sembrano apprezzare l’ironia di Bernanke che riceve il Premio Nobel per l’Economia proprio mentre la dottrina inflazionistica (di cui egli è certamente ‘padre naturale’) della banca centrale USA deve affrontare una monumentale crisi di fiducia. Ha vinto il premio Nobel per le sue ricerche sulle corse agli sportelli. Nessuno ha fatto di più per garantire una “corsa sugli strumenti del mercato globale”.

“L’interpretazione corretta degli anni ’20, quindi, non è quella popolare: cioè che il mercato azionario era sopravvalutato, ed è crollato causando una Grande Depressione. La vera storia è che la politica monetaria ha cercato con zelo eccessivo di fermare l’aumento dei prezzi delle azioni. Ma l’effetto principale della politica monetaria restrittiva, come aveva previsto Benjamin Strong, è stato quello di rallentare l’economia – sia a livello nazionale che, attraverso il funzionamento del gold standard, all’estero… Questa interpretazione degli eventi della fine degli anni ’20 è condivisa dagli studiosi più esperti del periodo, tra cui Keynes, Friedman e Schwartz, e altri eminenti studiosi sia dell’era della Depressione che di oggi… la politica monetaria era già diventata eccezionalmente rigida alla fine del 1927… Una piccola compensazione a fronte dell’enorme tragedia della Grande Depressione è che noi abbiamo appreso alcune preziose lezioni sulle decisioni delle banche centrali. Sarebbe un peccato se quelle lezioni venissero dimenticate”. Ben Bernanke, “Sul novantesimo compleanno di Milton Friedman”, 8 novembre 2002

Bernanke ha concluso il suo discorso del 2002: “Consentitemi di concludere il mio discorso abusando leggermente del mio status di rappresentante ufficiale della Federal Reserve. Vorrei dire a Milton e Anna: per quanto riguarda la Grande Depressione. Hai ragione, ce l’abbiamo fatta. Siamo molto dispiaciuti. Ma grazie a te, non lo faremo più. “

Sembra che invece, pur negandolo e condannandolo (ex post), “egli andò e lo fece!”, ecco quindi che il “dottor Bernanke” si dipinge come l’alfiere (ora più ricco) dell’ideologia economica più disastrosamente imperfetta della storia. Bernanke: “[Il presidente della NY Fed Benjamin] Strong morì di tubercolosi all’inizio del 1928, e la Fed passò al controllo di una coterie di aggressivi “sgonfiatori” di bolle…” Peggio ancora, l’ex presidente della Fed crede che la tragedia della Grande Depressione sarebbe stata evitata se la Fed avesse stampato denaro per ricapitalizzare il sistema bancario statunitense.

Gli eccessi dei “ruggenti anni Venti” non erano il problema, no? Le bolle creditizie e speculative emerse dalla prima guerra mondiale (e alimentate dalla nascente Federal Reserve) non vengono neppure sfiorate dalla sua considerazione nell’analisi prodotta. Inoltre, le strutture economiche e di mercato che si sono evolute in anni di condizioni finanziarie “assai flessibili” sono irrilevanti? Insomma, per giustificare tutto basta – nella Bernanke visione – dare la colpa all’incompetenza della Fed di allora (per non aver “rigonfiato” la bolla, sic) ed, insieme, al gold standard!

Paradossalmente, proprio oggi, stiamo già vedendo le prove del fallimento dell’inflazionismo della banca centrale in stile Bernanke. La macchina da stampa della Banca d’Inghilterra deve in qualche modo comportarsi come acquirente di ultima istanza per una bolla del mercato obbligazionario ormai al collasso, frenando al contempo (auguri!) anche l’inflazione. Bernanke ha ridicolizzato la Banca del Giappone fino al punto in cui quest’ultima ha finalmente ceduto, intraprendendo una stagione “eclatante” di stampa di denaro. La debacle risultante è ormai sul punto di venire a galla in tutta evidenza.

Eppure c’è un esperimento ancora più altisonante che si ispira all’ “inflazionismo di Bernanke”: quello che continua a svilupparsi in Cina. Qui, la diga del denaro e del credito ha oramai le porte spalancate. E Pechino alla fine ricapitalizzerà sicuramente il suo sistema bancario, enormemente “gonfio” (bolla anche qui), come meglio crede.

Ora, l’inflazione monetaria in corso preverrà il collasso della “Big Bubble”? Ovviamente no! Evitare le corse agli sportelli si rivelerà decisivo per sostenere il “ciclo boom” della Cina? Corsa agli sportelli o meno, il sistema creditizio cinese è su una rotta insostenibile e quindi è su una rotta di collisione ….. serve solo un ostacolo, un inciampo. Non è altro che un epico “eccesso in fase terminale” – con una massiccia crescita del credito, caratterizzato da qualità in rapido deterioramento, che alimenta una crescita esponenziale del rischio sistemico.

La crescita del credito aggregato cinese in settembre è balzata a 490 miliardi di dollari molto più massiccia del previsto, in aumento rispetto ai 340 miliardi di dollari di agosto e al +22% rispetto a settembre 2021 (404 miliardi di dollari), a 46,9 miliardi di dollari dal record. La crescita da inizio anno di $ 3,85 trilioni (TN) è di circa il 12% superiore a quella del 2021, comparabile e solo del 6,5% inferiore all’exploit storico del credito registrato nel 2020. Il finanziamento aggregato ha registrato una crescita del 10,5% sui dodici mesi, salendo pericolosamente mentre l’economia cinese – profondamente “disadattata” – invece pressoché ristagna. Ricetta ottimale per la prossima crisi valutaria.

I prestiti bancari sono aumentati di $ 344 miliardi, passando dai $ 174 miliardi di agosto e quasi il 50% prima di settembre 2021 ($ 230 miliardi). La crescita da inizio anno di $ 2,51 TN è dell’8% in più rispetto al 2021 e dell’11% superiore rispetto al 2020.

I prestiti aziendali sono aumentati di $ 267 miliardi, il doppio sia ad agosto che a settembre 2021. A $ 2,01 TN, la crescita da inizio anno è in aumento del 39% rispetto al confronto con il 2021. La crescita anno su anno è salita al 13,4%, il ritmo più forte da febbraio 2016. I prestiti alle aziende sono aumentati del 26,3 % su due anni, 41,9% su tre e 73,9% su cinque anni.

I prestiti al consumo sono aumentati di $ 90 miliardi, in aumento rispetto ai $ 64 miliardi di agosto, pur rimanendo ancora del 18% inferiori rispetto a settembre 2021. La crescita da inizio anno di $ 474 miliardi è del 46% inferiore al 2021 e del 44% al di sotto del 2020. La crescita in un anno del 7,2% è la più debole dal 2007. Lo storico boom dei prestiti alle famiglie (principalmente mutui) ha iniziato a vacillare, con la crescita in due anni che è rallentata al 21%, a tre anni al 39%, a cinque anni al 91% e a 10 anni al 380%.

I titoli di stato sono aumentati di $ 78 miliardi nel mese di settembre, in aumento rispetto ai $ 42 miliardi di agosto, ma in calo rispetto all’anno precedente di $ 111 miliardi. La crescita annuale di $ 823 miliardi è stata del 35% in più rispetto al 2021 e solo del 12% al di sotto dell’emissione record del 2020. I titoli di stato sono aumentati del 16,9% in un anno, del 32,7% in due e del 59% in tre anni.

I prezzi delle azioni cinesi sono cresciuti ma è stata una settimana infausta per la finanza cinese. I rendimenti dei titoli di Evergrande sono aumentati di 40 punti percentuali al 227%. I rendimenti di Country Garden sono balzati di 13 punti percentuali a un record del 66,5%. I rendimenti di Sunac sono aumentati di 26 punti percentuali (135%), Lonfor di 28 punti percentuali (148%) e Kaisa di 38 punti percentuali (187%).

Indicativi dell’escalation del rischio sistemico, i CDS delle banche cinesi sono balzati ai massimi pluriennali. China Construction Bank è salita di 13 a 143 pb; Banca Industriale e Commerciale da 12 a 137 bps; Bank of China da 10 a 136 pb; e China Development Bank da 12 a 126 bps., il CDS di “AMC” China Huarong è balzato di 41 a 635 pb (ad inizio anno a 261 pb). Giovedì i CDS sovrani cinesi sono stati scambiati fino a 115 pb, il massimo dall’inizio del 2017. Il renminbi ha perso l’1,1% rispetto al dollaro, scambiando vicino al minimo nel 2008.

Nel frattempo, i rendimenti italiani a 10 anni sono aumentati al 4,79%, chiudendo il periodo preso in considerazione ad inizio articolo con il rendimento più alto dal 2012. I rendimenti dei JGB giapponesi a 10 anni sono al limite di 25 pb della BOJ, mentre lo yen è sceso di un altro 2,3% (in calo del 22,6% da inizio anno), ai minimi da 30 anni. Le obbligazioni più vulnerabili dei mercati emergenti sono state sottoposte a forti pressioni. I rendimenti sono aumentati di 128 pb in Colombia (14,36%), 74 pb in Ungheria (10,66%), 54 pb in Romania (9,05%), 38 pb in Repubblica Ceca (5,48%) e 37 pb in Polonia (7,69%). I rendimenti sono aumentati di 19 punti base sia in Messico (9,83%) che in Sud Africa (11,27%).

Le tessere del domino si stanno allineando per una grave crisi del mercato globale sincronizzata.

12 ottobre – Financial Times (Laura Noonan): “La Banca d’Inghilterra ha affermato che ‘bisogna imparare la lezione dalla crisi dei fondi pensione, che ha spinto ad un intervento senza precedenti sui mercati dei gilt britannici’ e ha sottolineato la necessità di agire per mitigare rischi simili in altri parti del settore finanziario. “Anche se potrebbe non essere ragionevole aspettarsi che i partecipanti al mercato si assicurino contro tutti i risultati estremi del mercato, è importante che si traggano lezioni da questo episodio e che siano assicurati livelli adeguati di resilienza”, ha affermato il comitato per la politica finanziaria della BoE… La BoE ha anche avvertito che nel Regno Unito le famiglie e le aziende sono sotto pressione a causa degli alti tassi di interesse, degli alti costi energetici e della crisi del costo della vita che si sono combinati, rendendo più difficile per loro pagare bollette e prestiti. I mutui erano una preoccupazione particolare,

Il Regno Unito è un microcosmo. Le lezioni saranno finalmente “imparate”, e non solo in UK, ma questo succederà purtroppo nel modo più difficile e doloroso.

FONTE: https://www.lafionda.org/2022/10/27/nuove-dinamiche-del-ciclo-economico/

 

 

 

LE TENDENZE DEL CAPITALE NEL XXI SECOLO, TRA “STAGNAZIONE SECOLARE” E GUERRA

La realtà geopolitica dell’inizio del XXI secolo va studiata a partire dalla categoria di modo di produzione. Tale categoria definisce i meccanismi di funzionamento del capitale in generale, astraendo dalle singole economie e dai singoli Stati. Per questa ragione, dobbiamo far interloquire la categoria di modo di produzione con quella di formazione economico-sociale storicamente determinata, che ci restituisce il quadro dei singoli Stati e delle relazioni tra di loro in un dato momento.

Inoltre, il nostro approccio dovrebbe essere dialettico, basato cioè sull’analisti delle tendenze della realtà economica e politica. Tali tendenze non sono lineari, ma spesso in contraddizione con altre tendenze. Solo lo studio delle varie tendenze contrastanti può permetterci di delineare i possibili scenari futuri.

  1. La “stagnazione secolare”

L’economia capitalistica mondiale è entrata in una fase di “stagnazione secolare”. A formulare tale definizione è stato nel 2014 Laurence H. Summers, uno dei principali economisti statunitensi, ministro del Tesoro sotto l’amministrazione Clinton e rettore dell’Università di Harvard. Summers ha mutuato il termine di “stagnazione secolare” dall’economista Alvin Hansen, che lo coniò durante la Grande depressione degli anni ’30, che iniziò con la crisi borsistica del 1929. L’attuale “stagnazione secolare” inizia, invece, con la crisi del 2007-2009, seguente allo scoppio della bolla dei mutui subprime.

La “stagnazione secolare” consiste di una crescita del Pil molto ridotta, ben al di sotto del potenziale. Secondo Summers, la bassa crescita è dovuta alla riduzione degli investimenti di capitale. Del resto, la crescita precedente alla crisi dei mutui subprime è stata sempre dovuta a una politica fiscale e monetaria eccessivamente espansiva, basata sul mantenimento di tassi d’interesse molto bassi da parte della Fed, la banca centrare statunitense. In sostanza, rileva Summers, negli ultimi quindici o vent’anni non c’è stato un solo periodo in cui si sia verificata una crescita soddisfacente in condizioni finanziarie sostenibili. Questo problema, però, non ha riguardato solo gli Usa, ma anche l’area euro e il Giappone.

Quanto scriveva Summers nel 2014 ha trovato conferma in quanto avvenuto fino ad oggi. La crescita del Pil si è ridotta dappertutto e nel 2020 si è avuta, a seguito della pandemia, la più grave recessione dalla fine della Seconda guerra mondiale. Tuttavia, il rallentamento è stato più accentuato nei principali Paesi avanzati e meno marcato in alcuni Paesi emergenti. Tale fenomeno può essere osservato mettendo a confronto i Paesi del G7 (Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Canada) con i Brics (Cina, India, Brasile, Russia e Sud Africa), sia nel periodo precedente alla crisi dei mutui subprime, tra 1980 e 2007, sia nel periodo successivo, tra 2007 e 2021 (Tabella 1).

La crescita dei Paesi della Triade, che comprende le tre aree storicamente dominanti del capitalismo mondiale, il Nord America, l’Europa occidentale e il Giappone, era già inferiore a quella dei Brics nel periodo 1980-2007, ma dopo il 2007 si è dimezzata. Gli Usa, ad esempio, tra 1980 e 2007 fanno segnare una crescita media annua del 3,1%, che nel 2007-2021 si dimezza all’1,5%. Dall’altra parte, Cina e India registrano una crescita molto superiore rispetto a quella Usa nel periodo 1980-2007, rispettivamente del 10,1% e del 6,1% medio annuo. Nel periodo 2007-2021 la crescita di Cina e India si riduce, ma molto meno di quella statunitense, rispettivamente al 7% e al 5,5% medio annuo, rimanendo così molto superiore a quella statunitense.

Ancora peggiore, in confronto a quella degli Usa, è la performance di Giappone e Europa occidentale. La crescita del Giappone nel periodo 1980-2007 è stata del 2,5% medio annuo, cioè di quattro volte inferiore a quella cinese e meno della metà di quella indiana, azzerandosi nel periodo 2007-2021 (+0,1%). L’Europa occidentale (Germania, Regno Unito, Francia e Italia), che nel periodo 1980-2007 aveva registrato una crescita inferiore a quella statunitense, nel periodo 2007-2021 subisce una vera e propria stagnazione con una crescita media annua inferiore all’1%, che, per quanto riguarda l’Italia, si traduce in una decrescita del -0,5% medio annuo.

Come abbiamo detto, la crisi del 2020 ha visto una contrazione del Pil a livelli mai visti nel periodo post Seconda guerra mondiale. Per combatterla, le banche centrali, a partire dalla Fed e dalla Bce, hanno abbassato il costo del denaro fino a farlo arrivare in area negativa, e, allo stesso tempo, i governi hanno messo in campo politiche fiscali espansive di grande entità. Non è un caso che, allo scoppio della pandemia, Draghi abbia sostenuto che la crescita dell’indebitamento e del deficit statali fosse una necessità, come in guerra, e non più il male assoluto da evitare a ogni costo con politiche di austerity. L’economia, spinta dalle politiche espansive, nel 2021 è rimbalzata, ma nel 2022 la crescita si è già ridimensionata. Dunque, non solo viene confermata la “stagnazione secolare”, ma addirittura si prospetta uno scenario ancora peggiore: l’accoppiata tra crescita ridotta e alta inflazione, la cosiddetta “stagflazione”. L’aspetto più grave è che, per combattere l’inflazione, le banche centrali, in particolare la Fed statunitense e la Bce, hanno deciso di rialzare il costo del denaro e ridurre i programmi di acquisto di titoli di Stato. È la fine delle politiche espansive monetarie, che determina il rallentamento della ripresa e, secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale, una probabile recessione nel 2023.

Ritornando a Summers, appare evidente dal suo ragionamento che il vero problema dell’economia mondiale non risiede nella carenza di liquidità, ma nel suo eccesso: le crisi finanziarie sono una conseguenza della sovrabbondanza o sovraccumulazione di capitale produttivo. Una sovrabbondanza che è relativa, cioè determinata dalla incapacità delle imprese private a impiegarla profittevolmente. Il calo del tasso reale d’interesse crea bolle borsistiche a ripetizione che, scoppiando, determinano una ricorrente situazione di instabilità finanziaria che si estende all’economia nel suo complesso. L’economia capitalistica si trova così presa nel circolo vizioso di recessione, politiche espansive monetarie e fiscali, creazione di bolle, scoppio delle bolle e ricaduta nella recessione.

La stagnazione, quindi, appare configurarsi come una caratteristica “secolare”, ossia di lungo periodo dell’economia capitalistica, specialmente nelle sue punte più avanzate, la Triade. Sorge a questo punto la domanda: come risolvere una tale “stagnazione secolare”? La risposta di Summers è che bisogna aumentare gli investimenti, ma questo non è possibile a meno del verificarsi di una condizione che si è ben lungi dall’augurarsi: “è certamente possibile che alcuni eventi esogeni possano intervenire ad aumentare la spesa e incentivare gli investimenti. Ma, guerra a parte, non appare chiaro quali potrebbero essere tali eventi.”[i] Quindi, solo una guerra e, in particolare, una guerra su larga scala come una guerra mondiale, potrebbe tirare fuori l’economia dei Paesi avanzati dalle secche in cui affonda. Del resto, è quello che è accaduto nella precedente “stagnazione secolare”, quella degli anni ’30. A risolvere la Grande depressione non fu il New Deal, varato dal presidente Franklin D. Roosvelt, ma furono le massicce spese belliche e gli investimenti per la ricostruzione, seguita alle enormi distruzioni della Seconda guerra mondiale, a determinare la ripresa dell’economia e a dare luogo all’espansione dei “trenta gloriosi”, fino alla crisi degli anni ’74-‘75.

 

  1. La caduta tendenziale del saggio di profitto e il crollo del capitalismo

Secondo quanto evidenziato da Marx, la tendenza tipica del modo di produzione capitalistico è la diminuzione della parte di capitale spesa in forza lavoro (capitale variabile) in rapporto alla parte spesa in mezzi di produzione e materie prime (capitale costante). In altri termini, si determina un progressivo aumento della composizione organica di capitale, cioè un aumento della parte di capitale costante in rapporto a quella di capitale variabile. Il fatto è che solo il capitale variabile, la forza lavoro, produce plusvalore. Ne deriva che, a parità di sfruttamento della forza lavoro (cioè a parità di saggio di plusvalore), la quantità di plusvalore tende a diminuire rispetto al capitale totale investito. Essendo il saggio di profitto dato dal rapporto tra plusvalore e capitale totale, si determina così una tendenza alla caduta del saggio di profitto.

In questo modo, si viene a creare una sovraccumulazione di capitale. Questo vuol dire che si è accumulato troppo capitale, in mezzi di produzione, rispetto alla capacità di generare un saggio di profitto adeguato alle necessità dei capitalisti. Quando la sovraccumulazione si viene a verificare nei settori principali dell’economia si ha una sovraccumulazione generale. A questo punto, i capitalisti, in assenza di un saggio elevato di profitto, riducono gli investimenti. Nello stesso tempo, la concorrenza tra singoli capitali si fa più spietata, e i capitali meno forti soccombono, generando una moria di imprese. In conseguenza di tutto ciò, si ha una contrazione della produzione generale che si traduce in crisi e recessioni.

Dal momento che l’aumento della composizione organica è più forte nei paesi capitalisticamente più sviluppati, la caduta del saggio di profitto tende a manifestarsi con più forza in questi Paesi. Per questa ragione, il tasso di crescita del Pil è minore nei Paesi capitalisticamente più sviluppati e maggiore in quelli meno sviluppati. Anche il rallentamento della crescita o il crollo della produzione, nel corso delle crisi, si determina con maggiore intensità nei paesi più avanzati, come abbiamo visto sopra nel confronto di lungo periodo tra i Paesi del G7, capitalisticamente più sviluppati, e i Paesi del Brics, capitalisticamente meno sviluppati.

Naturalmente, lo scoppio delle crisi e delle recessioni può avvenire per certe cause scatenanti, come lo scoppio di una bolla finanziaria, la penuria o l’aumento del prezzo di certe materie prime o di certi componenti o semilavorati, o per fattori esogeni all’economia, come una guerra o sanzioni economiche o una pandemia. Le crisi, inoltre, possono generarsi per uno squilibrio tra eccesso di merci prodotte e ristrettezza del mercato di assorbimento. Ciononostante, queste sono cause contingenti che accendono la miccia sul vero e proprio materiale esplosivo che è sottostante, ossia la sovraccumulazione di capitale e la caduta del saggio di profitto. La crisi generale è sempre da ricollegare a questa tendenza tipica del modo di produzione capitalistico.

Però, la caduta del saggio di profitto è una tendenza, importante sì, ma una tendenza. Marx scriveva che il problema teorico per gli economisti non è tanto capire il perché della caduta del saggio di profitto, bensì capire il perché una tale tendenza non sia più celere e accentuata, tramutandosi in crollo del sistema. In sostanza, dice Marx, “devono intervenire influenze antagonistiche che ostacolano o annullano l’attuazione della legge generale conferendole il carattere di una semplice tendenza; ed è per questa ragione che la caduta del saggio generale di profitto noi l’abbiamo chiamata tendenziale”[ii].

Al suo tempo, Marx evidenziava le seguenti influenze antagonistiche: l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro, la riduzione del salario al di sotto del suo valore, la diminuzione di prezzo del capitale costante, la sovrappopolazione relativa, che porta alla creazione di un esercito industriale di riserva, ossia una massa di disoccupati, che, esercitando una pressione concorrenziale sugli occupati, permette una riduzione del salario. Tra i più importanti fattori c’è, poi, il commercio estero: sia l’esportazione dell’eccesso di merci, determinato dall’aumento della capacità produttiva del capitale, sia l’esportazione di capitale nei paesi periferici, dove il saggio di profitto è più alto a causa del minore sviluppo capitalistico e il lavoro viene sfruttato in maniera più intensa. Possiamo osservare come le stesse cause che producono la caduta del saggio di profitto determinano anche i fattori che la contrastano. Infatti, lo sviluppo tecnologico che porta alla sostituzione di forza lavoro con macchine, e cioè alla sostituzione di capitale variabile con capitale costante, se, da una parte, conduce all’aumento della composizione organica, dall’altra parte, genera l’aumento dello sfruttamento del singolo lavoratore e la creazione dell’esercito industriale di riserva.

Queste tendenze antagonistiche, che Marx evidenziava ai suoi tempi, sono ancora funzionanti a tutt’oggi.  Da Marx a oggi, però, il capitalismo si è molto sviluppato: la sovraccumulazione di capitale è cresciuta a livelli talmente alti che, di fatto, il capitalismo sarebbe già crollato se non si fossero verificate delle condizioni nuove. Tra queste c’è la guerra mondiale: senza la Seconda guerra mondiale oggi il capitalismo forse non esisterebbe. C’è poi la finanziarizzazione, che consente, tramite tutta una serie di invenzioni speculative, di fare profitti senza passare per la produzione di merci. Per la verità, la finanziarizzazione viene rilevata anche da Marx, sebbene nella sua epoca non fosse arrivata agli estremi attuali. C’è, infine, l’intervento diretto dello Stato a sostegno dell’economia capitalistica. A causa dell’aumento della spesa pubblica, i debiti pubblici si sono rigonfiati a livelli mai visti prima in tempi di pace proprio perché nel corso dei decenni, soprattutto dopo i “trenta gloriosi”, lo Stato si è assunto il compito di stampella del capitalismo.

Tuttavia, questi nuovi fattori antagonistici presentano dei forti limiti: la finanza e il debito, pubblico e privato, oltre un certo livello rappresentano un forte fattore di instabilità e di crisi. Inoltre, il capitale ha già sfruttato tutte le leve, che, secondo Marx, ha a sua disposizione, dalla compressione del salario all’uso dell’esercito industriale di riserva alla esportazione di capitali dai paesi capitalisticamente più sviluppati verso quelli meno sviluppati. L’ulteriore accentuazione della contrazione del salario non fa che aggravare la crisi sul lungo periodo. Per questo, rientra in gioco l’aspetto della distruzione creatrice: la distruzione di capacità produttiva, che permette di ridurre la sovraccumulazione di capitale e rilanciare la produzione di profitto. Le stesse crisi sono un fattore di riduzione della sovraccumulazione mediante la distruzione di capitale, sotto forma di eliminazione di imprese e la centralizzazione, mediante fusioni e acquisizioni, di quelle che rimangono. Ma è soprattutto la guerra mondiale che si staglia sullo sfondo come elemento di ridefinizione delle condizioni di accumulazione mediante la distruzione di capitale.

Se la caduta del saggio di profitto fosse senza tendenze contrastanti, il modo di produzione capitalistico crollerebbe su sé stesso. Ma, come abbiamo visto, così non è. Tuttavia, per Marx, la caduta del saggio di profitto dimostra il carattere “ristretto, meramente storico, transitorio, del modo di produzione capitalistico: attesta che esso non costituisce affatto l’unico modo di produzione in grado di generare ricchezza, ma al contrario, arrivato a un certo punto, entra in conflitto con il suo stesso ulteriore sviluppo.”[iii] La tendenza del capitalismo al crollo è sempre più evidente e accentuata, sebbene non sia possibile pensare a un crollo automatico. Bisogna vedere cosa il capitale inventerà per spostare ancora una volta in avanti il suo redde rationem. A parte la carta della guerra, il capitale sembra volersi giocare la carta della transizione ecologica. Il passaggio alle fonti rinnovabili e trasformazioni radicali come il passaggio dal motore a combustione interna al motore elettrico rappresentano degli strumenti tesi a ridurre la sovrapproduzione di capitale e merci per rilanciare i profitti.

 

  1. Cambiamenti dei rapporti di forza mondiali

Come scriveva Lenin, il capitalismo concreto, cioè quello formato da un insieme di formazioni economico-sociali, è caratterizzato da una crescita diseguale[iv]. Le potenze egemoni, più “vecchie” dal punto di vista dello sviluppo capitalistico tendono a crescere meno, mentre quelle più “giovani” tendono a crescere più velocemente. Di conseguenza, i rapporti di forza economici tendono a modificarsi a favore di queste ultime. A un certo punto i nuovi rapporti di forza economici entrano in conflitto con i rapporti politici esistenti, generando una tendenza alla guerra.

La storia del capitalismo può essere letta come un avvicendarsi di cicli economici, più o meno secolari, che vedono il prevalere, di volta in volta, di una potenza egemone, attorno alla quale si determina l’accumulazione di capitale mondiale. È questa la teoria dei “cicli secolari”, ideata da Giovanni Arrighi, che definisce quattro cicli secolari del capitalismo, dal XVII al XXI secolo: quello ispano-genovese, quello olandese, quello britannico e, infine, quello statunitense[v]. La potenza economica si accompagna sempre alla potenza politico-militare: ad ogni ciclo gli Stati di volta in volta egemoni sono sempre più grandi e militarmente potenti. I cicli secolari sono divisi in due parti: una basata sulla produzione materiale e una sulla finanza. Fino a un certo punto gli Stati egemoni sono prevalenti dal punto di vista della produzione materiale, poi tale prevalenza viene meno, per la sovraccumulazione di capitale, e, allora, prevale l’aspetto finanziario di controllo dei flussi di capitale. Ma anche la crescita dei profitti trainata dalla finanza a un certo punto viene meno e, nel frattempo, emergono altre potenze che sfidano la potenza egemone. Si determina così un periodo di caos alla fine del quale, sempre dopo una guerra generale, la vecchia potenza egemone viene sostituita da una nuova potenza, attorno alla quale riprende il ciclo di accumulazione capitalistico.

Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo la Gran Bretagna viene sopravanzata nella produzione e nella esportazione di beni da due potenze emergenti, la Germania e soprattutto gli Stati Uniti. La Prima e la Seconda guerra mondiale sono combattute per l’egemonia mondiale. Alla fine della lotta la Germania è sconfitta ma la Gran Bretagna è costretta a cedere il ruolo di potenza guida agli Usa.

Neanche gli Usa sfuggono, però, alle leggi storiche, incorrendo in una decadenza che si manifesta nel calo della crescita e nella drastica diminuzione della loro quota sul Pil e sulle esportazioni mondiali. Per la verità, oggi, la decadenza è riscontrabile anche negli altri Paesi che, insieme agli Usa, fanno parte del cosiddetto Occidente, cioè l’Europa occidentale e il Giappone. Come già accaduto alla Gran Bretagna, oggi gli Usa e gli altri Paesi centrali subiscono la forte concorrenza di alcuni emergenti, soprattutto quella della Cina (Graf.1).

Graf. 1 – Quota dei principali Paesi sul Pil mondiale (a parità di potere d’acquisto; in %)

Infatti, se consideriamo il Pil a parità di potere d’acquisto, la Cina ha superato gli Usa già nel 2016. La Cina negli ultimi trenta anni, tra 1991 e 2021, è passata dal 4,3% del Pil mondiale al 18,6%, mentre gli Usa sono calati dal 21% al 15,7%[vi]. Anche la quota dell’India è cresciuta dal 3,4% al 7%, mentre quella degli altri Paesi centrali, alleati degli Usa, è calata. Ad esempio, il Giappone è passato dal 9,2% al 3,8% e la Germania dal 6% al 3,3%. Uno stesso calo è riscontrabile anche nella quota sulle esportazioni mondiali di beni manufatti. Tra 1991 e 2021 gli Usa passano da una quota del 12% al 7,9%, mentre la Cina passa dal 2% al 15,1%. L’india passa dallo 0,5% all’1,8%, mentre il Giappone scende dal 9% al 3,4% e la Germania dall’11,5% al 7,3%. Bisogna, però, considerare che, sul piano del Pil pro capite (sempre a parità di potere d’acquisto), la Cina è ancora distante dagli Usa, pur essendo cresciuta enormemente negli ultimi venti anni. Il Pil pro capite della Cina rappresentava nel 1991 il 3,8% di quello degli Usa e nel 2021 il 27,8%, mentre quello dell’India nel 1991 rappresentava il 4,1% e nel 2021 il 10,3%.

In sostanza, possiamo osservare che i rapporti di forza mondiali sul piano economico sono cambiati e che, per la prima volta da circa un secolo e mezzo, la Cina ha ripreso il primato sul Pil mondiale che aveva sempre avuto storicamente fino all’epoca delle guerre dell’oppio intorno alla metà del XIX secolo. Anche sul piano tecnologico la Cina sta facendo molti passi in avanti, sfidando anche su questo terreno gli Usa. Questi, però, se non hanno più l’egemonia sulla produzione e sull’export mondiali mantengono una egemonia sia militare sia finanziaria, grazie al dollaro.

 

  1. Il ruolo egemonico del dollaro e la tendenza al suo declino

Gli Stati Uniti hanno ricalcato le orme della Gran Bretagna, sebbene con importanti differenze, soprattutto con la sostituzione del dollaro alla sterlina come moneta mondiale. Con la Prima guerra mondiale molti paesi abbandonarono il gold standard, stampando massicciamente denaro per finanziare le spese militari. Il Regno Unito, invece, mantenne la sterlina legata all’oro, per conservarle il ruolo di moneta mondiale, ma fu costretto, per la prima volta nella sua storia, a prendere a prestito denaro dall’estero. Il Regno Unito e gli altri Paesi alleati divennero così debitori degli Usa, che furono pagati in oro. In questo modo gli Usa alla fine della guerra divennero il principale possessore di riserve auree. Gli altri Paesi, privi delle loro riserve in oro, non poterono più ritornare al gold standard. Nel 1931 anche il Regno Unito abbandonò definitivamente il gold standard e il dollaro sostituì la sterlina come valuta di riserva mondiale.

Fu, però, solo con la Seconda guerra mondiale che il dollaro vide consacrato il suo ruolo di moneta mondiale grazie agli accordi di Bretton Woods (1944), in base ai quali si decise di abbandonare il gold standard: le valute mondiali non sarebbero più state agganciate all’oro bensì al dollaro, che a sua volta era agganciato all’oro. In caso di richiesta i paesi creditori in dollari sarebbero stati pagati dagli Usa in oro. In questo modo, le banche centrali dei Paesi aderenti a Bretton Woods anziché oro accumularono dollari. Il sistema, però, entrò in crisi alla fine degli anni ’60, perché gli Usa, per finanziare la guerra in Vietnam e i programmi di welfare interni, cominciarono a inondare il mercato di dollari. Preoccupati per la svalutazione del dollaro, i creditori degli Usa cominciarono a chiedere di essere pagati in oro. Temendo di perdere le proprie riserve auree, il presidente Richard Nixon nel 1971 sganciò il dollaro dall’oro. Il dollaro rimase la valuta mondiale ma con il vantaggio, per gli Usa, di garantirsi la possibilità di pagare le importazioni e il debito pubblico semplicemente stampando dollari.

Il dollaro rimane, fino ad ora, il re delle valute. Oltre a rappresentare la maggior parte delle riserve valutarie mondiali è moneta di scambio nel commercio internazionale, grazie al fatto che la maggior parte delle materie prime, inclusi il petrolio e il gas, sono comprate e vendute in dollari. Non a caso, lo status mondiale del dollaro negli anni ’60 è stato definito “l’esorbitante privilegio” degli Usa dal ministro delle finanze francese Valery Giscard d’Estaing. La domanda di dollari a livello mondiale permette agli Usa di finanziarsi a basso costo, pagando cioè tassi d’interesse ridotti agli acquirenti dei loro titoli di Stato. Grazie a questo, dal 1968, gli Usa hanno cominciato ad accumulare un crescente e quasi ininterrotto debito del commercio estero. Nel 2021 il debito commerciale (solo beni) statunitense ammontava alla colossale cifra di 1.182 miliardi di dollari[vii], mentre il debito pubblico raggiungeva, sempre nel 2021, i 30,5 trilioni di dollari, vale a dire il 133,3% rispetto al Pil e 2,7 trilioni di dollari in più rispetto all’anno precedente[viii].

La centralità del dollaro nei pagamenti internazionali aumenta anche il potere degli Usa di imporre sanzioni finanziarie. Infatti, ogni transazione che tecnicamente tocchi il suolo statunitense dà agli Usa giurisdizione legale e quindi la capacità di bloccare le transazioni indesiderate. Le sanzioni, però, hanno un effetto boomerang sul dollaro, visto che spingono i Paesi che ne sono oggetto a fare uso di valute alternative al dollaro. È da un paio di decenni che l’egemonia del dollaro si sta erodendo, a causa soprattutto dell’aumento degli scambi su scala regionale e come risposta dei Paesi che vogliono sottrarsi al dominio valutario degli Usa. Tra 1999 e 2021 le riserve in dollari detenute dalle banche centrali sono scese dal 71% al 59%[ix]. Inoltre, oggi, il dollaro conta per il 40% delle transazioni internazionali, l’euro per il 35%, la sterlina per il 6% e lo yuan per il 3%[x].

La guerra in Ucraina ha accelerato questa tendenza. La Russia ha reagito alle sanzioni occidentali reindirizzando verso altri Paesi, come l’India e la Cina, le esportazioni di petrolio e gas che andavano verso l’Ue e regolando le transazioni non più in dollari ma in altre valute, come rubli, yuan e rupie. L’uso del rublo verrà esteso anche alla commercializzazione di altri prodotti tipici dell’export russo, per esempio ai cereali destinati a Turchia, Egitto, Iran e Arabia saudita. Inoltre, la Cina ha intenzione di mettere a disposizione della Russia il Cross-border Interbank Payment System (Cips), il proprio sistema di pagamenti internazionali alternativo allo Swift, lanciato nel 2015 per ridurre la dipendenza dal dollaro, internazionalizzare la propria valuta (lo yuan renminbi) e spingerne l’uso fra i Paesi coinvolti nella Nuova via della seta. La Cina ha stipulato anche accordi con alcuni Paesi, come la Turchia e il Pakistan, per commercializzare beni in yuan.

La decisione di accogliere le richieste della Russia di essere pagata in valute differenti dal dollaro e l’aggiramento del sistema Swift ha fortemente irritato gli Usa. Il vice consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Daleep Singh, ha dichiarato: “Non vorremmo vedere sistemi progettati per sostenere il rublo o minare il sistema finanziario basato sul dollaro o per aggirare le nostre sanzioni…ci sono conseguenze per i Paesi che lo fanno.”[xi] A esprimere preoccupazioni sulla tenuta del dollaro come valuta mondiale è stato anche il Fondo monetario internazionale: “l’esclusione dal sistema di messaggistica Swift potrebbe accelerare gli sforzi per sviluppare alternative. Ciò ridurrebbe i vantaggi in termini di efficienza derivanti dall’avere un unico sistema globale, e potrebbe potenzialmente ridurre il ruolo dominante del dollaro nei mercati finanziari e nei pagamenti internazionali[xii].

 

  1. La tendenza alla guerra

Il dollaro non è soltanto uno strumento di guerra per gli Usa, ma rappresenta l’architrave stessa della loro egemonia mondiale: col dollaro gli Usa finanziano il loro Stato e indirettamente tutta la loro economia. Senza il dollaro gli Usa non potrebbero sostenere il loro enorme doppio debito, quello pubblico e quello commerciale. Quando il dollaro divenne moneta mondiale gli Usa producevano la metà del prodotto interno mondiale e detenevano il 21,6% delle esportazioni mondiali (1948)[xiii]. Oggi, la Cina ha scalzato gli Usa dal loro primato economico. In questa fase storica, l’economia statunitense ha un carattere fortemente parassitario. Anche più di quanto non accadesse all’epoca dell’egemonia britannica. L’imperialismo britannico poteva basarsi sulle risorse estorte alle colonie, in particolare all’India, dalla quale fluiva il surplus commerciale verso il centro finanziario di Londra[xiv]. Tuttavia, la sterlina era basata su qualcosa di tangibile, cioè sull’oro. Oggi, il dollaro non ha dietro di sé nulla di concreto e di reale che non siano le Forze armate statunitensi.

Dal momento che hanno perso la loro egemonia economica, gli Usa fanno sempre più affidamento sull’influenza geopolitica, che deriva in gran parte dal fatto che gli Usa possono disporre di una forza militare senza confronti. La spesa militare degli Usa è pari a 778 miliardi di dollari, mentre quella del secondo paese in classifica, la Cina, è di 252 miliardi, e quella della Russia è di 61,7 miliardi[xv]. In totale, il budget militare dei primi 10 Paesi del Mondo equivale a malapena al budget Usa.

Si innesca, a questo punto, un circolo vizioso: gli Usa mantengono l’egemonia del dollaro grazie alla forza militare e mantengono la forza militare, finanziandosi grazie al dollaro. Quindi, se il dollaro perde forza a livello mondiale risulta più difficile per gli Usa mantenere la loro forza militare e se viene meno quest’ultima viene meno anche l’egemonia del dollaro. Insomma, se si rompe il “giocattolo” del dollaro, gli Usa rischiano una crisi radicale.

Il peggioramento dei rapporti di forza economici e la necessità di mantenere, nonostante questo declino, l’influenza geopolitica spingono gli Usa verso la tendenza alla guerra. Una guerra che alcune volte viene combattuta direttamente, come in Iraq, e a volte indirettamente, come in Ucraina. Nella guerra attualmente in corso il vero oggetto del contendere è l’influenza geopolitica degli Usa e, attraverso di essa, la capacità del dollaro di mantenersi moneta di scambio e di riserva mondiale.

 

Note

[i] Lawrence H. Summers, Reflection on the New Secular Stagnation Hypothesis, p.36. Il corsivo è mio.

[ii] Karl Marx, Il capitale, Newton Compton editori, Roma 1996, p. 1070.

[iii] Ibidem, p.1077.

[iv] Lenin, L’imperialismo. Fase suprema del capitalismo, Editori Riuniti, Roma 1974.

[v] Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 2003.

[vi] International monetary fund, World economic outlook (april 2022).

[vii] Unctad, data center.

[viii]International monetary fund, Database.

[ix] International Monetary fund, The Stealth erosion of dollar dominance.

[x] G, Di Donfrancesco, “L’Fmi: le sanzioni alla Russia minano l’egemonia del dollaro”, Il Sole24ore, 1 aprile 2022.

[xi] G. Di Donfrancesco, “Lavrov in India per offrire greggio ma Washington lancia l’allarme”, Il Sole24ore, 1 aprile 2022.

[xii] Ibidem.

[xiii] Unctad, data center.

[xiv] Marcello de Cecco, Moneta e impero. Economia e finanza tra 1890 e 1914, Donzelli editore, Roma 2016.

[xv] https://worldpopulationreview.com/country-rankings/military-spending-by-country.

FONTE: http://www.laboratorio-21.it/le-tendenze-del-capitale-nel-xxi-secolo-tra-stagnazione-secolare-e-guerra/

 

 

 

FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI

Powell applica un altro turbo aumento dei tassi e annuncia che non si fermerà

Powell ha deciso di non dare nessuna tregua ai mercati finanziari USA e all’economia reale nella sua guerra contro l’inflazione. La Federal Reserve ha alzato di 75 punti percentuali l’intervallo di riferimento per il tasso dei fondi federali, portandolo al 3,75%-4% durante la riunione del 2022. Si tratta del sesto rialzo consecutivo dei tassi e del quarto aumento di tre quarti di punto, che spinge i costi di finanziamento a un nuovo massimo dal 2008. La decisione è stata in linea con le previsioni del mercato. I responsabili politici hanno inoltre dichiarato che i continui aumenti dell’intervallo di riferimento saranno appropriati e che terranno conto dell’inasprimento cumulativo della politica monetaria, dei ritardi con cui la politica monetaria influisce sull’attività economica e sull’inflazione, nonché degli sviluppi economici e finanziari, al momento di decidere l’entità di ulteriori aumenti.

Il messaggio sembrava indicare un aumento dei tassi più contenuto a dicembre, ma durante la conferenza stampa il presidente Powell ha anche sottolineato che il livello finale dei tassi di interesse sarà più alto di quanto previsto in precedenza il tutto per combattere l’inflazione. La Fed mira a raggiungere un orientamento di politica monetaria sufficientemente restrittivo per riportare l’inflazione al 2%, che rimane elevata intorno ai massimi da 40 anni a questa parte. Ecco il grafico relativo ai tassi:

US Interest Rate

Notiamo che il livello degli interessi del 2018 è stato ampiamente superato e ormai siamo a livelli che non si vedevano veramente da molti anni. Powell si sente forte anche sulla base degli ultimi dati sull’occupazione, che sono positivi: infatti le imprese private statunitensi hanno inaspettatamente creato 239.000 posti di lavoro nell’ottobre del 2022, il massimo da tre mesi a questa parte, rispetto alle previsioni del mercato di 195.000 unità. Le assunzioni non hanno avuto un’ampia base, con il settore dei servizi che ha creato 247.000 posti di lavoro, guidato da tempo libero/ospitalità (210.000) e commercio/trasporti/utilità (84.000). Ecco il relativo grafico

Quindi Powell si sente forte e non ha paura di spaventare mercati ed economia, anche con il rischio di causare un crash. In realtà diversi dati, soprattutto relativi al mercato immobiliare, iniziano ad essere preoccupanti, ma ne parleremo, forse, domani.

FONTE: https://scenarieconomici.it/powell-applica-un-altro-turbo-aumento-dei-tassi-e-annuncia-che-non-si-fermera/

 

 

 

Banche occidentali: l’arte del furto

Hedelberto Lopéz Blanch*, “Rebelión”, 17 agosto 2022.
Versione italiana a cura di Liliana Calabrese. *Giornalista, scrittore e ricercatore cubano.
Molte nazioni si stanno rendendo conto che la ricchezza non può essere conservata nelle banche occidentali perché alcune di queste istituzioni si sono specializzate nel sottrarre e rubare i loro tesori con qualsiasi scusa.
Da diversi decenni, sono stati perpetrati di continuo questi atti di furto e rapina in cui sembrano coinvolte banche degli Stati Uniti e dell’Europa, che si sono appropriate del capitale sovrano di altri Paesi.
L’evento più recente si è verificato quando, lo scorso luglio, l’Alta Corte della Gran Bretagna si è pronunciata a favore dell’autoproclamato presidente fantasma del Venezuela, Juan Guaidó, affinché gli consegnasse l’oro che il governo di Caracas ha conservato per anni nella Banca d’Inghilterra.
Il magistrato Sara Cockerill ha deciso, senza rispettare il diritto internazionale, che la Giunta di Guaidó ha vinto una causa intentata, in quell’istanza, con la scusa che le decisioni della Corte Suprema del Venezuela (che aveva dato ragiona a Caracas) non sono riconosciute dalla giustizia britannica.
La Banca Centrale del Venezuela (BCV) ha respinto “l’insolito pronunciamento della Corte britannica che, ancora una volta, subordinata alle decisioni di politica estera della Corona britannica, mina i legittimi poteri di amministrazione delle riserve internazionali della Repubblica Bolivariana del Venezuela”.
Il documento della BCV ha sottolineato che tale decisione giudiziaria “vìola le norme di diritto internazionale e l’ordinamento costituzionale e giuridico venezuelano nel tentativo di ignorare le autorità legittime dell’ente emittente per giustificare il meccanismo criminale che consente l’appropriazione indebita delle riserve internazionali del Venezuela”.
Il presidente Nicolás Maduro ha denunciato che il Regno Unito “ruba palesemente l’oro venezuelano” e che “il mondo intero deve sapere che non c’è sicurezza legale a Londra, né nella Banca d’Inghilterra”.
Eventi di questa natura abbondano nel recente passato, come spiegato da un’indagine dello Sputnik. Quarantatré anni fa, nel 1979, quando trionfò la rivoluzione nella Repubblica Islamica dell’Iran, i beni della nazione persiana furono tagliati fuori da Washington, che vietò le importazioni di petrolio iraniano e congelò circa 11 miliardi di dollari in beni – circa 35,35 miliardi di dollari di oggi, tenendo conto dell’inflazione.
Violando ogni regola internazionale e con la protervia di una potenza imperiale, un tribunale di New York ha ordinato che questi beni iraniani fossero utilizzati per risarcire le vittime dell’11 settembre 2001, senza che vi fosse la minima indicazione che la Repubblica Islamica fosse coinvolta negli attentati terroristici.
Inoltre, sono stati destinati più di 15 miliardi di dollari di Teheran per la ricostruzione “fantasma” dell’Iraq dopo l’invasione statunitense del 2004. In quest’ultima nazione araba, miliardi di dollari delle riserve del Paese sono scomparsi dalle sue casse.
Un caso simile si è verificato con i 7 miliardi di dollari della Banca Centrale dell’Afghanistan depositati presso istituzioni finanziarie statunitensi. La Casa Bianca, nel febbraio 2022, ha ordinato di rendere disponibili questi fondi per “aiutare” le vittime dell’11 settembre.
In Libia, dopo l’invasione della NATO, con il pieno consenso degli Stati Uniti, 13 miliardi di dollari sono stati congelati in una banca belga e successivamente sono scomparsi, secondo la rivista belga Le Vif.
Sulla stessa linea, per ordine della Corte Penale Internazionale, sono stati confiscati in Italia più di 1 miliardo di euro di beni della nazione araba, mentre Washington ha effettuato un’operazione simile con 30 miliardi di dollari che erano depositati nelle banche americane.
Nelle istituzioni britanniche, il numero di beni libici di cui non si conosce la destinazione ammonta a 12,5 miliardi di dollari.
Nel caso di Cuba, a causa del blocco economico, commerciale e finanziario, dal 1963 sono stati congelati più di 245 milioni di dollari nelle banche americane, e sono scomparsi perché le diverse amministrazioni di quella nazione li hanno consegnati, attraverso processi spuri, a membri della mafia cubano-americana con sede a Miami.
Sono stati, inoltre, congelati beni e conti bancari appartenenti allo Stato, a enti cubani e persone fisiche, bonifici effettuati a Cuba da enti e cittadini stranieri e persino premi in denaro vinti da cubani in gare o eventi sportivi internazionali ed eredità.
Ma se fino al 2021 gli Stati Uniti e l’Europa Occidentale avevano compiuto queste truffe contro dei Paesi in via di sviluppo, ora si sono indirizzati contro la Russia, una potenza politica, economica e militare.
Dopo che Mosca ha lanciato l’operazione militare speciale in Ucraina, con l’obiettivo di smilitarizzare e denazificare il Paese confinante, Washington e i suoi alleati occidentali hanno bloccato beni russi per circa 300 miliardi di dollari, circa la metà delle riserve internazionali del gigante eurasiatico. Si tratta dei soldi che i Paesi occidentali hanno pagato per anni per le importazioni di gas russo.
Il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ha definito l’azione un “furto” e se continuasse, ha detto, “sarebbe la distruzione della base stessa delle relazioni internazionali e colpirebbe gli stessi europei, il sistema finanziario e minerebbe la fiducia nell’Europa e nell’Occidente in generale, perché è una arbitrarietà totale simile alla legge della giungla”.
E potremmo chiederci: per quanto tempo si permetterà che queste malversazioni continuino impunemente? Non c’è dubbio che sia necessario un nuovo ordine economico, finanziario, giuridico e, soprattutto, morale per porre fine a questo arbitrio.
FONTE: https://www.cumpanis.net/banche-occidentali-larte-del-furto/

GIUSTIZIA E NORME

Amnistia per gli errori delle politiche Covid? Prima vengano accertate le responsabilità

Guido Da Landriano 1 11 2022

 

The Atlantic è una rivista liberal americana di grandi tradizioni, i cui redattori hanno vinto molti premi Pulitzer e con oltre 100 anni di storia. Per capire il suo orientamento politico basta ricordare che alle elezioni del 2016 espresse apertamente il proprio appoggio a Hillary Clinton.

Questa prestigiosa rivista ha pubblicato un articolo molto interessante di Emily Oster. Il titolo in inglese è: Let’s Declare a Pandemic Amnesty. We need to forgive one another for what we did and said when we were in the dark about COVID. Dichiariamo un’amnistia pandemica. Dobbiamo perdonarci l’un l’altro per quello che abbiamo fatto e detto quando eravamo dell’oscurità sul COVID. 

L’articolo è interessante: abbiamo un progressista che, alla fine, ammette che sono stati fatti enormi errori durante il lockdown e nella campagna vaccinale, e come questi errori abbiano, e avranno, degli effetti pesanti nella società. L’autrice è un’insegnante e nota, ad esempio, la pesante caduta nei risultati nella preparazione degli studenti, ma nota anche l’esplosione di altre malattie dovute alla minor prevenzione sanitaria durante la pandemia. Sono ricordati anche i comportamenti assurdi imposti in quel periodo, come la necessità di portare le mascherine nelle escursioni in montagna o il divieto di recarsi in spiaggia. Insomma si fa un moderato elenco delle bestialità del periodo pandemico.

Però la conclusione della scrittrice sono diverse: tutti questi errori, eccessi e violenze sono stati dovuti al fatto che non si conosceva abbastanza, che agivamo in una situazione di nebbia scientifica. Quindi, per questo, bisogna perdonare tutti questi eccessi. Alla fine, dall’altra parte dell’oceano, il messagio è il partenopeo: “Chi ha avuto, ha avuto avuto, chi ha dato ha dato dato, scurdammoce ‘o passato”….

Il discorso avrebbe una sua logica, se però fossero rispettate due precondizioni:

  • la cessazione immediata delle misure sbagliate, con la sanatoria degli effetti;
  • l’ammissione di responsabilità di chi ha preso le misure eccessive ed erronee;

Senza queste due premesse non può esistere un’amnistia, alla cui base c’è sempre l’ammissione del peccato. Ecco perché la proposta della Oster è comprensibile, anche giusta, ma prematura. Prima è necessario appurare le responsabilità, quindi si può esercitare, eventualmente, l’indulgenza. Altrimenti feriamo solo la giustizia.

FONTE: https://scenarieconomici.it/amnistia-per-gli-errori-delle-politiche-covid-prima-vengano-accertate-le-responsabilita/

 

 

 

LA LINGUA SALVATA

Oltremare
ol-tre-mà-re

SIGNIFICATO Al di là del mare; luogo che si trova al di là del mare; Mediterraneo orientale, Medio Oriente, Terra Santa, Nordafrica; blu, anticamente ottenuto dal lapislazzuli

ETIMOLOGIA composto di oltre e mare.

«È un tappeto che mi ha portato da uno dei suoi viaggi oltremare.»
Dato che il mare è blu, il blu oltremare prenderà questo nome dai toni dell’alto mare, dove le sfumature si fanno più profonde. O no? Anche se c’è un gioco di eco cromatiche, no: nasce letteralmente come un blu di oltremare, il blu che viene dall’altra parte del mare. Ma come, i colori viaggiano? Sì.
Si riferisce al pigmento del blu di lapislazzuli, quello costosissimo con cui sono dipinti tanti degli affreschi e delle miniature più celebri della nostra storia dell’arte — colore degno del manto della Madonna. Un pigmento ottenuto a partire dall’omonima pietra semi-preziosa che da noi è introvabile, e che doveva essere importata dall’Asia, da oltremare (oggi siamo in grado di riprodurlo in maniera più sofisticata ed economica).

È un dato che ci mette subito in luce un punto saliente: ‘oltremare’ è un termine che a dispetto della vaghezza con cui ci indica qualcosa che si trova dall’altra parte del mare, nella nostra storia ha avuto, per forza di cose, un significato piuttosto preciso. È stato l’insieme delle terre del Mediterraneo orientale, del Medio Oriente (con un fuoco particolare sulla Terra Santa), dell’Africa del nord. Un luogo che può parere vago nei confini, e che però come riferimento geo-culturale rivela una certa omogeneità, specie per il punto di vista di popoli come il nostro, affacciati sul mare, con porti interfacciati costantemente con un vasto, variegato, indefinito oltremare, e che in particolare tendevano la propria attenzione verso un fulcro religioso, luogo della narrazione biblica ed evangelica, e quei centri commerciali da cui l’Asia entrava in Europa.

Qui sta la forza di questa parola: la sua composizione semplice e diretta dà un risultato vago e sospeso (di quelli che piacevano a Leopardi), e che però proprio in virtù della sua vaghezza riesce ad avere un’incisività unica. Non descrive, ma evoca, non delimita, ma apre: solo così riesce a portarsi dietro tutta un’atmosfera di esotismo, tutta la possibilità e tutte le rischiose promesse di un altro mondo, di un oltre mondo. Che sia quello più domestico di un Oriente che si trova al di là delle acque di questo nostro mare, che sia quello transoceanico, e che adombri luoghi noti o ignoti. Che richiamo straordinario è l’oltremare! Un richiamo condiviso da una cascata di generazioni.

E se vogliamo muovere qualche passo di grammatica, troviamo anche qui un motivo di fascino sospeso, nella doppia vita di avverbio e di sostantivo che ha questa parola: è al di là del mare ma anche ciò che si trova al di là del mare. Si emigra oltremare, si torna da oltremare: direzione e luogo.

Allora posso parlare delle terre d’oltremare che fanno parte di un vecchio impero, così come dell’amica che ora insegna oltremare, su una via irrimediabilmente lontana dalla nostra, e dei regali che la zia ci porta dai suoi viaggi oltremare, quando torna fra i nostri colli.

Parola pubblicata il 02 Novembre 2022

FONTE: https://unaparolaalgiorno.it/significato/oltremare

 

 

 

POLITICA

“Soldi da Soros per fermare Giorgia Meloni”. L’accusa choc di Calenda: “Ecco chi ha finanziato e come”

Tra i cavalli di battaglia della sinistra italiana c’è, ormai da tempo, il presunto finanziamento di questa o quella potenza straniera ai partiti di destra. Indiscrezioni che puntualmente rimbalzano sui giornali e animano ogni campagna elettorale, nel tentativo di instillare dubbi e sospetti nei cittadini chiamati al voto. La realtà, però, sembra essere ben diversa, opposta. Carlo Calenda ha infatti ammesso di fronte a Bruno Vespa come George Soros abbia “sovvenzionato con un milione e mezzo di euro + Europa”. Un passaggo che lo stesso Vespa ha inserito nel suo ultimo libro, in uscita il 4 novembre 2022. E che la dice lunga sui rapporti politico-economici tra il finanziere ed Emma Bonino. Non bastasse, ecco poi saltar fuori anche la motivazione alla base del generoso contributo.

Come raccontato da Libero Quotidiano, che ha anticipato i contenuti del prossimo libro di Vespa, Calenda avrebbe infatti ammesso che “elargendo quei soldi alla storica esponente radicale e al suo partito, Soros ha posto come condizione imprescindibile che si facesse un listone antifascista”. Il finanziere avrebbe quindi cercato di finanziare la nascita di un’ampia coalizione per contrastare l’ascesa di Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia.

In cambio del sostegno economico, Bonino avrebbe quindi dovuto unirsi al Pd e alle altre liste di sinistra per creare un blocco politico in grado di contrastare FdI, Lega e Forza Italia. Cosa che effettivamente + Europa ha fatto, al contrario di Azione di Calenda che ha preferito invece muoversi autonomamente e dar vita al Terzo Polo insieme a Matteo Renzi. Tra i passaggi attribuiti da Vespa a Calenda c’è, guarda caso, proprio questo: “Vedo che Della Vedova, segretario di +Europa, è totalmente schierato con il Pd. D’altra parte ne conosco le ragioni, non ultima quella che il finanziere George Soros ha sovvenzionato con un milione e mezzo di euro +Europa ponendo come condizione imprescindibile che si facesse un listone antifascista”. 

Calenda avrebbe poi aggiunto: “Me lo disse ripetutamente Della Vedova prima della rottura”. Un rapporto di lunga data, quello tra Soros e il mondo radicale italiano, visto che Emma Bonino era stata anche invitata al terzo matrimonio del miliardario. In passato, però, non si era mai parlato apertamente di contributi economici destinati al partito.

FONTE: https://www.ilparagone.it/attualita/soldi-da-soros-per-fermare-giorgia-meloni-laccusa-choc-di-calenda-alla-sinistra-italiana/

 

 

 

SCIENZE TECNOLOGIE

PSICOTOPO QUINTA PUNTATA: IL PIANETA DEI TOPI UMANOIDI

I topi ci assediano, ci divertono, ci perseguitano, ci fanno compagnia ma anche assurgono a protagonisti dei nostri peggiori incubi. Di tutto questo ed altro ancora se ne parlerà il prossimo 22 novembre. Intanto continua la nostra indagine nella misconosciuta società dei topi.

I primi esperimenti dell’etologo dei topi John Bumpass Calhoun vennero condotti nel 1947 in una fattoria presso Rockville, nel Maryland. Calhoun partiva dall’assunto ipotizzato da Thomas Malthus (teorico delle conseguenze della sovrappopolazione) che considerava limiti assoluti alla crescita della popolazione sia la miseria che il vizio. La miseria, che nel campo pratico si basa sulla predazione, sulle malattie e sulla scarsa quantità di cibo. Calhoun quindi si chiese quali fossero gli effetti del comportamento sociale sulla crescita della popolazione: viceversa gli effetti della densità di popolazione sul comportamento. Durante i primi test posizionava fra i 32 ed i 56 roditori in scatole (da tre per quattro metri) dentro un granaio nella contea di Montgomery. Quindi separava l’habitat in quattro stanze distinte. Ogni stanza era stata specificamente creata per sostenere una dozzina di ratti grigi maturi. I ratti potevano spostarsi fra le stanze usando delle rampe. Calhoun provvide la colonia di risorse illimitate, come acqua e cibo, ad eccezione dello spazio disponibile: forniva loro protezione dai predatori, così come dalle malattie e dalle condizioni meteorologiche avverse. Creava ciò che uno psicologo avrebbe appellato come il “paradiso per ratti” o l’”utopia per ratti”. In questo modo, eliminati tutti i limiti fisici, ad eccezione dello spazio disponibile, solo il comportamento degli individui avrebbe influenzato la crescita della popolazione. Ed i topi sono un po’ come gli umani, hanno personalità diverse, e condizionate da molteplici esperienze di vita.

Compagnia e poi etologia: osservando il ratto

L’uso sporadico dei ratti norvegesi come animali da compagnia è attestato nel Regno Unito almeno dalla metà dell’Ottocento. Nell’Inghilterra vittoriana i ratti da compagnia iniziarono a differenziarsi da quelli selvatici attraverso la selezione operata da pochi pionieri del breeding (la selezione tramite incroci). Nel libro “London Labour and the London Poor” di Henry Mayhew sulla vita quotidiana della povera gente di Londra (1851) vengono citati almeno due personaggi che avevano a che fare con la selezione di ratti: Jack Black, “Acchiapparatti di Sua Maestà” (la Regina Vittoria), e Jimmy Shaw, direttore di un club di combattimento fra animali. Black, che si interessava tra l’altro del breeding di razze canine, prese l’abitudine di risparmiare alcuni dei ratti che catturava, scegliendo quelli con le colorazioni di pelo più insolite e incrociandoli per ottenere ratti particolarmente “carini” da vendere come animali da compagnia. I suoi clienti erano principalmente signorine benestanti dell’alta società vittoriana. Nella loro attività di allevamento selettivo di ratti, Shaw e Black trassero probabilmente ispirazione dall’analoga pratica di allevamento selettivo di topi “colorati”, detti anche fancy mice: diventata popolare in Europa e nel Regno Unito già all’inizio del secolo romantico. La popolarità dei topi colorati continuò ad aumentare per tutto l’Ottocento, culminando nella fondazione nel 1895 del National Mouse Club (“club nazionale del topo”): organizzazione tutt’oggi esistente e che si occupa tra l’altro di definire standard estetici e di organizzare mostre e competizioni, e c’è il loro zampino nella messa al bando delle derattizzazioni.

Uomini, topi,suini, simili ma in guerra

Si può agilmente sostenere che il mondo odierno assista alla contesa del territorio tra uomini, topi e suini. Tre differenti specie animali, tanto simili da poter permettere all’uomo di testare farmaci umani su ratti e maialini. Una percentuale di oltre i 70% di similitudini genetiche, come ebbero a dimostrare più di sessant’anni fa i genetisti James Watson e Francis Crick, alla base della sperimentazione. Ma come differisce la regolazione dei geni? Se topi ed esseri umani condividono circa il 70 per cento delle sequenze geniche che codificano per proteine, un numero significativo di geni del topo non si comporta come le controparti umane. La causa di questa differenza va ricercata nei geni e nelle sequenze di DNA che hanno la funzione di regolare i livelli ed i tempi di espressione degli altri geni.
Questa scoperta ha importanti implicazioni per la ricerca medica. In quest’ultima il topo è sempre stato considerato un modello di riferimento per lo studio delle malattie umane. “L’ipotesi era che tutto ciò che si scopre nel topo fosse probabilmente vero anche per l’essere umano” spiegava Bing Ren (dell’Università della California di San Diego, uno dei coordinatori del progetto Mouse ENCODE). “Uno dei vantaggi – spiega Ren – è che benché i topi si siano dimostrati molto diversi dagli esseri umani in alcuni aspetti, ora sappiamo esattamente in quali casi sono diversi (in modo da tenerne conto e trovare o sviluppare un modello migliore) e in quali il topo continua ad essere un buon modello”. “Uomini e topi: come differisce la regolazione dei geni – secondo Le Scienze -… è la conclusione che si può trarre dall’enorme corpus di dati che i ricercatori del progetto Mouse ENCODE hanno iniziato a pubblicare su varie riviste, e di cui è offerto un panorama generale in un articolo su Nature”. (Fonti le pubblicazioni di: Nature, Science, Nature Communications, Proceedings of the National Academy of Sciences, Genome Research, Genome Biology, Blood).

Codice Topo

Mouse ENCODE è la più importante banca dati sulla genetica dei topi, una ricerca utile a uomini, topi e suini. Il progetto ENCODE (Encyclopedia of DNA Elements) dal 2003 ha iniziato a descrivere gli elementi potenzialmente funzionali del genoma umano, creando una mappa delle regioni genomiche a cui si legano i fattori di trascrizione e le RNA polimerasi (gli enzimi che attivano la trascrizione RNA), e librerie di sequenze di RNA messaggero ed altri dati relativi alle modificazioni chimiche che interessano le cosiddette proteine istoniche (quelle attorno a cui si avvolge il DNA per formare la cromatina dei cromosomi) e che rendono accessibili o inaccessibili ai fattori di trascrizione i geni. “La maggior parte delle malattie umane, dal diabete al disturbo da deficit di attenzione e iperattività alla malattia di Parkinson, in realtà derivano dal una errata regolazione dell’espressione dei geni”, spiega Michael Beer (Johns Hopkins University) ricordando che, sia nell’uomo sia nel topo, i geni che codificano per proteine rappresentano solo l’1,5 per cento dei rispettivi genomi. Le Scienze ha pubblicato l’analisi di 124 diversi tipi di cellule e tessuti di topo, ed i ricercatori hanno scoperto che, a dispetto dell’elevata conservazione dei geni codificanti durante i 75 milioni di anni di evoluzione che ci separano da questo roditore, però i programmi che ne regolano l’espressione sono cambiati in modo significativo. In svariati casi, ogni specie si è evoluta per trovare modi diversi di fare le stesse cose: il topo e l’uomo si adattano in modo diverso ad un cibo od a come ripararsi da caldo e freddo. Oggi suini, ratti e uomini sarebbero tornati a lottare per il territorio: l’uomo si finge buonista verso il topo, ed intanto cinghiali e ratti tentano di usurpare l’affetto che da migliaia d’anni viene elargito a cani e gatti.

FONTE: https://www.lapekoranera.it/2022/10/31/psicotopo-quinta-puntata-il-pianeta-dei-topi-umanoidi/

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