RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 29 MAGGIO 2020

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RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI

29 MAGGIO 2020

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

 L’uomo che pensa deve agire, deve dispiegarsi favorendo e rasserenando la vita intorno a sé.

Colma di tacita forza, la natura abbraccia colui che la intuisce.

FRIEDRICH HÖLDERLIN, La morte di Empedocle, II stesura, vv. 525-529, Bompiani, 2003, pag. 193

 

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SOMMARIO

Mattarella nipote del boss? ‘Il Colle non deve spiegare’
Carpeoro: virus, un rituale sinistro. Voluto da chi e perché?
La mascherina, la museruola
Le balle sui 172 miliardi del Recovery Fund. Solo propaganda. Ecco i numeri reali
Il caso Palamara è peggio della P2: vi spiego perché.
Assistenti civici, Coisp lancia l’allarme: rischio infiltrazioni mafiose
ARCHITETTURE PER L’ULTIMO UOMO
28 Aprile 1976, scuola media privata di Roma, ai Parioli.
Fani: paura e diffidenza, la mascherina è un rituale magico
Mario Polia: Haiku
Il museo civico di Leonessa
Giorgio Agamben – Requiem per gli studenti
L’anarchia delle cose
LE AUTOPSIE VIETATE – La precisazione del dottor Manera
Casa Bianca: l’ordine esecutivo per i social media verrà firmato giovedì
Cosa abbiamo imparato dal Covid-19. Anche per la cybersecurity
FACEBOOK vs TWITTER
RAI PER TE, PER TUTTI (LORO)
IL PARROCO BRESCIANO SOTTOPOSTO A TSO
Imprese. E’ possibile invocare lo stato di forza maggiore al fine di evitare il fallimento?
Il caso Palamara e la vergogna della giustizia italiana.
LA RIFORMA: LIBERARE I GIUDICI. DAI PROCURATORI
CLAMOROSO: LA BCE STA VALUTANDO UN QE SENZA LA BUNDESBANK.
I TRADITORI: ROMANO PRODI – I parte
IMMUNI, SPERIMENTAZIONE IN TRE REGIONI
Gatti tossicodipendenti e bruchi cannibali: risponde la scienza
LE LUNGHE OMBRE DEL “SECOLO BREVE”: UNA NOTA DI LETTURA SOCIOLOGICA DEL ‘900

 

 

IN EVIDENZA

Mattarella nipote del boss? ‘Il Colle non deve spiegare’

14 Febbraio 2015

di Sandra Rizza – 14 febbraio 2015E’ possibile che lo zio materno di Sergio Mattarella fosse un boss di Castellammare del Golfo, piccolo borgo marinaro della provincia trapanese? Non lo sapremo certamente dalla viva voce del suo discendente che oggi occupa i saloni ovattati del Quirinale. Il nuovo capo dello Stato non sarà chiamato a speigare nell’aula della prima sezione civile del Tribunale di Palermo se sua madre Maria Buccellato ‘era parente del mafioso Antonino Buccellato‘, così come è scritto nel capitolato che invocava il suo interrogatorio.

Dopo nove mesi di silenzio, infatti, il giudice onorario Rosa Maria Rini ha sciolto la riserva e rigettato la richiesta di ascoltare il nuovo inquilino del Colle, perché la sua audizione è ritenuta ‘ininfluente ai fini del giudizio’. E’ l’ultima puntata della guerra giudiziaria avviata nel 2012 dall’ex membro della Consulta e dai nipoti Bernardo e Maria, nei confronti del giornalista e scrittore Alfio Caruso, accusato di aver diffamato il vecchio patriarca Bernardo e il primogenito Piersanti, presidente della regione siciliana ucciso il 6 gennaio 1980, nelle pagine del suo libro Da cosa nasce cosa, che proprio ai Mattarella e alla loro saga di sangue e potere dedicava un intero capitolo.

Fino ad oggi, per la verità, il giudice onorario di Tribunale di Palermo se l’era presa comoda, dimostrando di non avere alcuna fretta di concluedere il giudizio: il 6 maggio scorso, davanti alla richiesta dell’avvocato Fabio Repici, difensore di Alfio Caruso, il magistrato onorario si era riservato di decidere con tutta calma sulla richiesta di interrogatorio formale di Sergio Mattarella. Ma ora che l’illustre attore è diventato l’inquilino del Quirinale, il giudice non togato di colpo si è svegliato ed ha cambiato marcia: il 31 gennaio Mattarella è il nuovo capo dello Stato, l’1 febbraio Il Fatto Quotidiano pubblica l’intervista a Caruso centarta sulla richiesta da 250 mila euro da parte dei discendenti del vecchio Bernardo, ed ecco che il 3 febbraio Rosa Maria Rini scioglie la riserva e si affretta a rigettare la richiesta di interrogatorio del presidente della Repubblica. Poi, a tre anni dall’inizio della causa, fissa in tempi brevisssimi l’udienza per la precisazione delle conclusioni, prevista per il prossimo 4 maggio. ‘La tempistica è molto imbarazzante – dice l’avvocato Repici – naturalmente non intendo che ci sia stato alcun interessamento del presidente Mattarella, per il quale ribadisco assoluto rispetto, ma certo la cadenza dei tempi fa temere che il giudice onorario si sia trovato in comprensibile soggezione rispetto all’alto ruolo istituzionale nel quale è subentrato l’attore del processo’.Non sarà possibile, dunque, ascoltare direttamente dalle parole di Sergio Mattarella un chiarimento definitivo sulle parentele familiari? ‘Parrebbe proprio di no – risponde Repici – il giudizio di ininfluenza esckude qualsiasi possibilità di avere una risposta diretta, ma è sorprendente: il quesito sulle ventuali parentele mafiose della famiglia è assolutamente centrale per accertare se il mio assistito ha diffamato i Mattarella oppure se nel suo libro si è limitato a raccontare vicende che fanno parte della storia’.
Nel 1933, infatti, il vecchio Bernardo Mattarella sposa Maria Buccellato, una donna con un cognome ‘pesante’, lo stesso che appartiene ad una storica famiglia della mafia di Castellammare del Golfo, cittadina che ha dato i natali alla dinasty del nuovo capo dello Stato. E’ parentela o solo omonimia? Nel suo volume, Caruso racconta che il pentito Angelo Siino parla di un Piersanti Mattarella ‘bravo nel barcamenarsdi tra i Bontate e i Buccellato: una navigazione a vista che avrebbe scatenato la furibonda reazione del proncipe di Villagrazia’. Una ricostruzione che già in passato, Sergio Mattarella definì una ‘fandonia grottesca’.La causa Mattarella-Caruso era stata in origine assegnata al guiudice della prima sezione civile Enrico Catanzaro, magistrato togato. L’assegnazione all’avvocaro Rosa Maria Rini avvenne il 14 gennaio 2014 in seguito al provvedimento del presidente del Tribunale Leonardo Guarnotta che disponeva la possibilità di surrogare i giudici assegnatari delle cause di ‘minore rilevanza’ con i giudici onorari. Nei mesi scorsi, Repici ha depositato un’istanza affinchè il fascicolo ‘per il valore della causa e la qualità delle aprti’, fosse riassegnato ad un togato. Ma nel frattempo Guarnotta è andato in pensione e l’istanza non ha mai avuto risposta.Sandra Rizza (Il fatto Quotidiano)FONTE:http://www.19luglio1992.com/mattarella-nipote-del-boss-il-colle-non-deve-spiegare/

 

 

 

Carpeoro: virus, un rituale sinistro. Voluto da chi e perché?

Mascherine? Uno degli aspetti più sconcertanti di questa vicenda del coronavirus è che, dietro, c’è stata una tecnica manipolativa e distorsiva del potere, molto sofisticata. Per vivere meglio, consiglio il libro di Heirinch Popitz sulla “Fenomenologia del potere”. Per imporre delle cose, alle persone, devi utilizzare uno strumento cerimoniale: devi imporre dei riti. Per affermare il concetto principale – il fatto che io limito la libertà, non si sa bene per quale scopo – devo creare un contesto cerimoniale e rituale, fatto di cose aggiuntive e totalmente inutili, che poi portano le persone ad appartenere a una specie di copione, di cerchio magico: una specie di spettacolo da palcoscenico. Certe volte, questo funziona anche se lo scopo magari non è terribile – ma comunque funziona. Se io do un consiglio a uno, dicendogli: non mangiare questo, non bere quello, è un conto; se invece questo consiglio deve diventare una manipolazione definitiva, devo inquadrarlo in un contesto di gesti e di simboli, per i quali il soggetto non ne esca più. Noi, come massa, non siamo più usciti, da questo tipo di comunicazione. Un sacco di persone mi hanno infastidito con la storia della mascherina e dei guanti: perché erano tutte completamente coinvolte nel copione. La parte in commedia era stata data ad ognuno, e ciascuno la recitava alla perfezione. Peccato che la commedia fosse una tragedia.

E’ così vero, che era una tragedia, che tutte le misure introdotte ora si dice che forse potrebbero essere parzialmente superate. E a me non risulta che abbia avuto un senso, tutto quello che è stato fatto, finora (a danno dell’economia nazionale, delle Carpeoropersone e della Costituzione). Come avevo previsto, c’è stata un’evoluzione naturale del virus. Non mi risulta che ciò che è stato fatto abbia avuto un senso, se non quello di coinvolgere tutti in un copione sinistro, minaccioso, angoscioso, che costruisse il vero Moloch – che è quello della paura collettiva. Perché i morti sarebbero stati gli stessi, i contagi sarebbero stati gli stessi, l’evoluzione sarebbe stata la stessa. Ora, ci sono tante piste che si possono seguire. Quella dei soldi, per esempio: perché tante persone ci hanno guadagnato, da questa cosa. Poi quella della manipolazione del potere che rendesse le masse completamente passive in un momento particolare. Vedo che c’è una gestione molto sofisticata, che non può essere solo italiana: non può essere di un solo paese, perché poi si sono accodati tutti, ed erano pronti ad accodarsi. Non so davvero se, tra qualche decennio, troveremo delle risposte da qualche parte, in qualche archivio, in qualche pentito di turno. So solo che è stata una cosa terribile.

Quello che sta avvenendo ha tutte le caratteristiche della sovragestione: non so se il virus è stato fabbricato o meno, ma tutta la gestione successiva, una volta che il virus è entrato nella nostra quotidianità, è una sovragestione. Abbiamo avuto delle commissioni tecnico-sanitarie che ci hanno detto di tenere a distanza i nostri cari, di non uscire, di non fare questo e quello. Il diritto di ogni persona, il diritto di decidere, mi chiedo dove sia finito. Chi c’è, al vertice di questa sovragestione? E’ ancora tutto molto confuso, per capirlo. Le vicende terroristiche erano più chiare, più rivelatorie; in questa vicenda, invece, dire qualcosa è difficile. Sicuramente la gestione è molto sofisticata: troppo sofisticata, per rispondere a logiche semplificatorie,Edoardo Bennatosolo nazionali. E soprattutto è una gestione di grande competenza, rispetto alle tecniche di manipolazione. L’attenzione particolare per l’Italia? E’ perché gli italiani sono un enorme allevamento di maiali, e del maiale non si butta via niente.

Braccialetti elettronici per distanziare anche i bambini nelle scuole? Io non so quale sia lo scopo ultimo. Credo però che l’incaglio, di tutta questa cosa, sia nei soldi: perché loro ce l’hanno, la voglia di mettere i braccialetti a chiunque, ma non hanno i soldi per farlo. E soprattutto, abbiamo fermato la produzione: e da che mondo è mondo, quando fermi la produzione fermi tutto. Fa pensare, che abbiano fermato anche il calcio. In una bellissima canzone, “Meno male che adesso non c’è Nerone”, Edoardo Bennato cantava l’abilità politica dell’imperatore: per accontentare gli italiani bastava dar loro in pasto i giochi del Colosseo. I latini dicevano “panem et circenses”, per far stare tranquilla la massa. Qui siamo di fronte a una cosa strana: ci hanno tolto i giochi, e ci stanno togliendo il pane. Quindi, qual è lo scopo di tutta questa cosa? Francamente, io non ho ancora la chiave di questa vicenda. Le manifestazioni non autorizzate come quella di Roma, con le mascherine tricolori? Confermo la mia previsione: tra poco ci saranno problemi di ordine pubblico, se non trovano i soldi per dar da mangiare alla gente.

Né deve sorprendere che i media non parlino, di queste manifestazioni: in Italia non abbiamo certo una classe giornalistica coi fiocchi. La maggior parte si rende comoda per il sistema, appena si accorge che lavora solo chi è comodo per il sistema. Quanto al governo, la proproga di altri sei mesi dello stato d’emergenza è certamente il possibile preambolo di nuovi provvedimenti. Di tutto, si preoccupano, tranne che di finanziare una ricerca seria su questo virus, ancora sconosciuto. Prima di formarsi delle opinioni, bisognerebbe informarsi: e qui è mancata una corretta informazione, con tutte le conseguenze che da questo derivano. La Gelmini (Forza Italia) chiede l’obbligo vaccinale per le fasce a rischio e per tutto il personale sanitario: un’altra tappa verso la road map Ue, che già nel 2019 prevedeva per il 2022 il passaporto vaccinale europeo? Io non sono in grado di Bambini mascherinedire quale sarà la fase successiva, perché – ripeto – non ho ancora delineato lo scopo di questa operazione: se uno non conosce lo scopo, come fa a pensare che ci sia una fase successiva, e come sarà?

Giusto, intanto, preoccuparsi dei bambini: questa esperienza è stata durissima, per i ragazzi – più dura, che per noi. Li abbiamo chiusi in casa, senza poter vedere nemmeno i nonni. Spero che la elaborino in senso positivo, anche se non sono in grado di quantificare gli eventuali danni che hanno subito. Gli abbiamo impedito il contatto coi i coetanei, e persino con la natura: le fioriture, i profumi della primavera. Pure gli esami, gli abbiamo tolto. Abbiamo modificato il percorso dei ragazzi dei bambini. Certo, tutto può sempre essere alchemicamente trasformato in oro. Con gli strumenti che hanno oggi (e se li aiutiamo), spero che i ragazzi possano elaborare in maniera costruttiva questa esperienza. In fin dei conti, i ragazzi di altre generazioni sono riusciti a elaborare anche l’esperienza della guerra. Se dietro a tutto c’è un disegno, e se quello italiano non è un popolo considerato pericoloso per il sistema dominante, che bisogno c’era di questa gestione del virus per fare un salto di qualità così rilevante? La sovragestione Bill Gatesfunziona così: prima di tutto, il modello viene diffuso. Dopodiché, visto che sono quantomeno idioti, se non corrotti, i politici – nazionali e locali – si accodano. Ma ripeto: fino a quando non capiremo lo scopo, di tutta questa cosa, non ne capiremo la sovragestione.

Siamo in una dittatura? Quello di dittatura è un concetto teoricamente applicabile a qualunque sistema, anche se poi realizzarlo è un altro discorso. Siamo un paese il cui ministero della sanità ha raccomandato ai medici di non eseguire autopsie sulle vittime del Covid. Abbiamo sentito di tutto, in questo periodo: e credo che non abbiamo ancora finito, di sentire di tutto. Bill Gates il grande burattinaio della situazione? No, però è un mascalzone: ha fatto benissimo, Sara Cunial, a definirlo così. Bill Gates ha cercato di stabilire il monopolio sui sistemi operativi dei computer, e lo ha fatto con metodi mafiosi. In tempi non sospetti lo scrissi, su “Pc Magazine”, rivista che dirigevo, assumendomene la responsabilità (e venni quasi lapidato). Ora Bill Gates si occupa di vaccini? Ha aggiustato il tiro, ma i metodi sono gli stessi. Dite che è più inquietante, il vaccino? Ma perché, non era inquietante anche quello che voleva fare prima? La differenza è che qui si parla del corpo umano? Alla lunga, lo scopo è sempre il corpo umano: se ci passi tramite un computer, ci puoi passare anche tramite un microchip.

(Gianfranco Carperoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming su YouTube “Carpeoro Racconta” del 17 maggio 2020).

FONTE:https://www.libreidee.org/2020/05/carpeoro-virus-un-rituale-sinistro-voluto-da-chi-e-perche/

 

 

 

La mascherina, la museruola

di Paolo Becchi su Libero, 24/05/2020


Quando scoppiò l’epidemia da HIV immediatamente risultò chiaro che un modo per contenere la sua diffusione c’era ed era molto semplice: usare il preservativo. Avere rapporti sessuali con estranei non protetti poteva diffondere la malattia ed il modo per evitarlo era in fondo molto semplice. Usare una precauzione. Anche allora ricordate c’era chi sosteneva che bastava baciarsi per infettarsi, ma un medico baciando in bocca una bella ragazza sconosciuta, che si era prestata al gioco dimostrò che erano solo favole. Certo, la malattia era seria e per guarire i malati ci sarebbe dovuto essere un vaccino, ma sono passati un sacco di anni e del vaccino non c’è ancora traccia. Mentre, per fortuna, alcune cure sono state nel frattempo sperimentate con successo ed oggi si muore sempre meno a causa di questa infezione virale.

Oggi ci troviamo di fronte ad un nuovo virus che ha prodotto una emergenza epidemiologica in molte parti del pianeta, la quale si è presentata nella forma di una influenza virale e anche in questo caso si è individuato uno strumento di protezione: la mascherina. C’è chi persino sostiene che l’uso regolare di essa dovrà essere prolungato sino alla scoperta di un vaccino, non prendendo in considerazione che ci vorrà del tempo, molto tempo e non è neppure detto che alla fine si trovi il vaccino. Ecco perché la cosa più importante da fare sarebbe quella di studiare le cure, come del resto alcuni medici, peraltro ostacolati, stanno cercando di fare.

Ma è proprio vero che è assolutamente necessario, sino alla scoperta di un vaccino, l’uso della mascherina? Beninteso, non intendo contestare la sua utilità nel momento in cui si sta diffondendo una influenza virale, soprattutto il personale sanitario dovrebbe essere in questo caso obbligato a farne uso proprio per evitare la diffusione del contagio, e lo stesso vale per gli infetti. Se fosse stata tempestivamente adottata una tale misura i danni sarebbero stati sicuramente minori. La cosa paradossale è che quando la mascherina era indispensabile, nessuno la utilizzava o addirittura se ne sconsiglia un uso generalizzato, ora invece che essa non è più indispensabile o addirittura è nociva per la salute la si vorrebbe rendere obbligatoria per tutti.

C’è chi ritiene persino che la mascherina diventerà la nuova moda dell’estate, che dovremmo tenerla in spiaggia, per strada, quando si passeggia, insomma pare proprio che della mascherina non ci libereremo tanto facilmente. Sarà la protagonista della fase due. È certo un problema farsi un aperitivo con una mascherina. Pare che ne stiano progettando alcune speciali con buco attraverso il quale con l’uso di una cannuccia si potrà bere un Martini. Più difficile è mangiare con la mascherina, ma l’immaginazione italiana è infinita. Oserei dire impossibile baciare con la mascherina, ma baciare è comunque vietato anche tra i coniugi perché è difficile tenere un metro di distanza in questo caso.

C’è del metodo in questa follia? Ha un senso obbligarci a coprire il nostro volto all’aperto, anche quando il virus con il caldo non riesce a sopravvivere? Anche il “Corriere della Serva” non riesce più infatti a nascondere l’evidenza, vale a dire che la curva epidemiologica – purtroppo per il governo – è in discesa. Ragioni sanitarie, dunque, io non ne vedo. L‘intenzione è allora quella di lanciare un nuovo capo di abbigliamento? Un tempo la cravatta per gli uomini e il foulard per le donne e ora la mascherina per tutti? Insomma, la mascherina realizza finalmente la parità dei sessi? Se si trattasse di questo non ci sarebbe niente di male, il male sta nel fatto che ci vogliono imporre questo nuovo capo di abbigliamento unisex a tutti e tutte le volte che usciamo di casa. Dal “restare a casa” all’“uscir di casa” sì, ma solo alle condizioni prescritte.

Epidemia dell’idiozia? No, c’è del metodo, il metodo del fanatismo. Che differenza c’è infatti tra l’obbligo della mascherina e l’obbligo per le donne musulmane di portare il Burqa o il Niqab? Una imposizione pura e semplice, in questo ultimo caso almeno – se vogliamo – giustificata da tradizioni, usi, e costumi. La mascherina è molto peggio del Burqa, perché noi le mascherine le mettiamo solo a Carnevale quando ogni scherzo vale. Mentre ora il Comitato Tecnico Scientifico del Governo Terapeutico, non scherza affatto. Chi alle regionali di settembre o al referendum vorrà votare dovrà indossare obbligatoriamente mascherina e persino i guanti. L’esercizio di un diritto politico fondamentale come quello del voto è meno importante dell’uso della mascherina.

Perché siamo arrivati a tanto? L’unica risposta che mi è venuta in mente è la seguente. Dal momento che l’esperimento sociale del virus in un Paese democratico è perfettamente riuscito solo in Italia, dove un popolo intero è stato ridotto per mesi allo stato di “schiavitù volontaria”, forse si può continuare nell’opera di addomesticamento, con questa ultima umiliazione. I cani possono uscire di casa, ma solo con la museruola.

E chi non lo farà sarà facilmente individuabile e punibile. Perché è facile distinguere gli uomini con mascherina dagli uomini senza mascherina. Gli uomini senza mascherina saranno il vero pericolo di questa estate. Perché vuol dire che quegli uomini non ha accettato niente di quello che sinora questo governo ha fatto, non si sono internamente piegati alle limitazioni della loro libertà, non hanno accettato il modo barbaro in cui sono stati bruciati i morti, onde evitare che si potesse scoprire l’”arma del delitto”.

Questi uomini non hanno dimenticato il terrore, non quello dell’Isis, ma quello di un governo che ha gettato un popolo intero nel panico collettivo per poterlo dominare. Non l’hanno dimenticato, e per dimostrarlo vanno fieri di uscire senza il bavaglio. Questi sono gli uomini liberi.

FONTE:https://paolobecchi.wordpress.com/2020/05/24/la-mascherina-la-museruola/

 

 

 

Le balle sui 172 miliardi del Recovery Fund. Solo propaganda. Ecco i numeri reali

(di G. PALMA)

– 28 MAGGIO 2020

Oggi la Commissione europea ha proposto per l’Italia – nel programma di Recovery Fund – tra i 153 e i 172 miliardi, di cui 81 a “fondo perduto” e il resto come prestiti da restituire (se fossero 172 miliardi, il prestito sarebbe di 91). Il nostro Paese sarebbe quello che riceverebbe la somma più alta dell’intero piano di aiuti. Urla di giubilo tra gli eurofanatici e i membri del governo, ben sostenuti da un’accurata propaganda dei media.

Iniziamo a vedere, in due punti, come stanno davvero le cose.

Primo punto. Perchè la proposta della Commissione europea diventi realtà servono ancora due passaggi: l’approvazione del Parlamento europeo e quella del Consiglio europeo. In quest’ultimo occorre però l’unanimità (l’Olanda ha già detto no), quindi – alla fine delle trattative – bisogna vedere cosa resta.

 

Ma la mossa della Ue – probabilmente oggetto di un accordo tra Conte e Gentiloni – è abile: serve adesso per far votare in Parlamento ai 5Stelle il pacchetto che prevede, tra le altre misure, anche il MES.

Secondo punto: il cosiddetto contributo “a fondo perduto” sarà finanziato col prossimo bilancio pluriennale della UE, dunque prima versiamo e poi vi attingiamo. Quindi proprio “perduto” non è, anche perché aumenterà la nostra contribuzione annua al bilancio europeo.

Se anche il contributo a “fondo perduto” restasse di 81 miliardi, tolto quello che verseremo nel bilancio comunitario, ci resterebbero solo 26 miliardi. Meno del MES.

La conferma arriva anche dalle parole dell’ex ministro Carlo Calenda, europeista convinto e certamente contento per l’impegno della Commissione europea, che dalla trasmissione della Gruber parla di 26 miliardi netti “a fondo perduto” in 5 anni, definendo una speculazione della stampa l’annuncio dei 172 miliardi: https://www.liberoquotidiano.it/news/politica/22869506/carlo-calenda-otto-mezzo-recovery-fund-170-miliardi-italia-speculazione-stampa-primi-soldi-2021.html

In pratica, al netto della propaganda governativa e dei media e al netto della nostra contribuzione al bilancio Ue, siamo di fronte a poco più di 5 miliardi l’anno a “fondo perduto”, a partire dal 2021Una cagatina di mosche. I 172 miliardi sono una vera e propria trovata pubblicitaria della stampa e delle televisioni. Tutto il resto saranno prestiti da restituire.

A svelare l’inganno ci pensa anche Christian Odendahl, capo economista del Centre for European Reform, che su twitter conferma che dagli 82 miliardi “a fondo perduto” per l’Italia, vanno sottratti 56 miliardi di nostra contribuzione al bilancio Ue. Insomma, netti sono 26 miliardi in 5 anni: quasi niente.

Questi i numeri, ad andarci bene. Sempre che l’Olanda e gli altri Paesi del Nord Europa non tentino, in seno al Consiglio europeo, a dare il loro ok solo su un accordo a ribasso.

Siamo di fronte all’ennesima presa in giro di un popolo allo stremo delle forze.

FONTE:https://scenarieconomici.it/le-balle-sui-172-miliardi-del-recovery-fund-solo-propaganda-ecco-i-numeri-reali-di-g-palma/

 

 

 

Il caso Palamara è peggio della P2: vi spiego perché.

Lo scandalo che investe in questi giorni il CSM e l’Associazione Nazionale Magistrati è peggiore dello scandalo del 1981, quando scoppiò il caso P2. Vi spiego perché.

VIDEO QUI: https://youtu.be/6dTTFAYYe0o

FONTE:http://www.aldogiannuli.it/il-caso-palamara-e-peggio-della-p2-vi-spiego-perche/

 

 

 

INTERVISTE

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Il sindacato di polizia boccia la proposta di Ministero degli Affari Regionali e Anci di schierare 60.000 volontari per vigilare sulle norme antiassembramento durante la movida.

La questione dei volontari civici pone “una serie di interrogativi che puntualmente sono senza risposta e fanno capire quanto sia approssimativa la gestione di questa situazione”. A parlare è il segretario generale del sindacato di polizia CoispDomenico Pianese, che in esclusiva per Sputnik Italia, ha commentato il piano siglato dal ministro per gli Affari Regionali, Francesco Boccia, e il sindaco di Bari, Antonio Decaro, presidente di Anci, l’associazione dei Sindaci, di dotare i comuni di 60.000 assistenti civici volontari.

— Arrivano gli assistenti civici, volontari che “dirigeranno la movida”, per sorvegliare sul rispetto delle distanze. La ritiene una buona iniziativa?

— Noi troviamo fuori da ogni logica affidare delle funzioni tipicamente preposte alle forze di polizia, come quella di controllare gli altri cittadini, di verificare l’applicazione delle regole di contrasto a questo maledetto virus, a persone senza alcuna formazione e senza alcun accertamento su chi sono, cosa sono e perché vogliono svolgere questo tipo di attività.

— Lei ritiene che qualcuno – ad esempio la criminalità organizzata – possa approfittare di questa situazione per acquisire una posizione di autorità da far valere sui cittadini? 

— Sicuramente e non sarebbe la prima volta. Noi abbiamo lanciato l’allarme rispetto all’individuazione di questi ipotetici volontari anche per via l’infiltrazione delle organizzazioni criminali. Il rischio è concreto ed è molto più grande di quello che si immagina, perché in alcune aree potrebbe essere un ulteriore strumento per affermare il controllo del territorio da parte di queste organizzazioni.

— Nello specifico un’organizzazione mafiosa come potrebbe abusare di un ruolo del genere?

— Le organizzazioni criminali darebbero un ulteriore messaggio di essere padrone di un determinato territorio. Un’organizzazione mafiosa che riesce ad infiltrare i suoi uomini all’interno di un gruppo preposto al  controllo della vita sociale in un paese, potrebbe ad esempio favorire determinati esercizi commerciali e sfavorirne altri.

— In che modo?

— Ad esempio con le estorsioni. L’esercente potrebbe essere costretto a pagare per non ricevere false segnalazioni, incorrere in sanzioni in caso di assembramento, affinché si “chiuda un occhio” su qualsiasi cosa accada nel locale. Questa è la classica logica del ricatto mafioso che potrebbe riproporsi in casi del genere.

Ma non c’è solo il problema legato alle infiltrazioni criminali, ma anche quello di mandare persone allo sbaraglio.

— Cioè? 

— Cioè corriamo il rischio di schierare del personale non preparato che, quantunque animato da spirito volontaristico, si troverebbe gestire delle situazioni che non è assolutamente in grado di affrontare, in cui non saprebbe né cosa fare né a chi rivolgersi.

Nel caso di un assembramento di ubriachi, ad esempio un volontario che si avvicina per far rispettare le distanze, per sollecitare l’uso della mascherina, rischia di essere preso a schiaffi.

Sono situazioni che nella nostra esperienza abbiamo già vissuto in passato, ad esempio con gli steward allo stadio, e quelli sono contesti ipercontrollati, quindi immaginiamo cosa può succedere a dei volontari senza formazione e senza autorità in un contesto cittadino. Li esponiamo ad un rischio abnorme e sconsiderato.

Riteniamo che ci sia tutta una serie di questioni che non sono state minimamente affrontate né minimamente percepite da chi ha avuto quest’idea di arruolare questi 60 mila controllori civici.

— L’idea è venuta dai sindaci che lamentano gli assembramenti davanti ai locali. Una volta che si aprono i locali, come si fa ad evitare gli assembramenti?

— Noi ci dobbiamo prima di tutto affidare al senso civico dei cittadini italiani, che durante il periodo del lockdown si sono comportanti bene nella stragrande maggioranza del Paese, da Nord a Sud. Questo è il primo punto di partenza.

Poi devono essere i gestori dei locali a far rispettare la normativa e le forze dell’ordine a vigilare. Non si può pensare di mettere in ogni paese, davanti a ogni locale, un assistente civico che alla gente “voi siete in troppi, dovete andare via”, rischiando di ricevere insulti o schiaffi.

Diventa un qualcosa che va ben oltre le prescrizioni contenute nel decreto che stabilisce lo stato di emergenza nel nostro Paese. Noi non dimentichiamo che dobbiamo difendere anche le libertà personali, garantite costituzionalmente.

— Vede una sorta di deriva autoritaria? 

— La nostra Costituzione assegna alle forze di polizia il compito di gestire l’ordine e la sicurezza pubblica e non ci possono essere altri soggetti incaricati di attività simili.

Se pensiamo di aprire dei locali dove si fa intrattenimento, poi non possiamo pretendere che le persone non facciano aggregazione, soprattutto i ragazzi che sono stati agli “arresti domiciliari” per quasi tre mesi. Noi non possiamo impedire l’esistenza di rapporti e relazioni sociali.

— Queste figure assisteranno la protezione civile anche per altre mansioni, come la distribuzione di aiuti alle persone fragili. crede che siano in grado di svolgerli o c’è bisogno di personale formato?

— Ci sono dei volontari che sono stati anche molto attivi durante il lockdown, che hanno portato la spesa a casa agli anziani e aiutato i fragili, svolgendo attività di effettivo volontariato e sostegno.

Ma nulla ha a che fare con il controllo dell’ordine pubblico e il rispetto delle norme. I poteri di vigilanza e di controllo dell’ordine e della sicurezza pubblica sono in capo alle forze di polizia.

— E per quanto riguarda quelle mansioni che solitamente spettano alla protezione civile, tipo il controllo delle file all’entrata di parchi o altri luoghi contingentati? Potrebbero essere svolte da un volontario civico?

— Io lo vedo in ogni caso fuori luogo. Io le faccio un esempio che abbiamo vissuto in passato. Quando qualcuno pensò di inventarsi le ronde, finì con le ronde che giravano di sera e la polizia che doveva vigilare a sua volta le ronde perché nessuno li aggredisse. Per l’esperienza che abbiamo avuto da anni di servizio, sono sicuro che se mettiamo un volontario davanti a un parco a limitare gli ingressi, prima o poi arriverà qualcuno che lo prenderà a schiaffi. E poi dal giorno dopo ci dovrà essere una pattuglia di polizia o dei carabinieri o della guardia di finanza a vigilare il volontario che vigila il parco.

© AFP 2020 / ALBERTO PIZZOLI

— L’unica strada, pare di capire, è il potenziamento delle forze di polizia?

— Se la sanità è la prima priorità, abbandonata negli anni, la seconda priorità riguarda le forze di polizia, su cui non ci sono stati negli ultimi 15 anni gli investimenti necessari.

Quando abbiamo nel nostro Paese la polizia di Stato con circa 12 mila uomini in meno, la stessa cosa l’arma dei carabinieri, la guardia di finanza, qualcosina si potrebbe fare per rafforzare il controllo del territorio e metterci nelle condizioni di fare di più e meglio.

FONTE:https://it.sputniknews.com/intervista/202005279130767-assistenti-civici-coisp-lancia-lallarme-rischio-infiltrazioni-mafiose/

 

 

 

ARTE MUSICA TEATRO CINEMA

ARCHITETTURE PER L’ULTIMO UOMO

Nella prima parte di questo contributo cercherò di mostrare in che senso l’architettura possa intrecciare pratiche discorsive etichettate come ideologie; filosofi come Althusser, Freud e Spinoza, o architetti come Rem Koolhaas, ci aiuteranno a comprendere in che modo i processi di soggettivazione si strutturano attraverso determinate forme materiali di esistenza. Nella seconda parte valuteremo alcuni tentativi di dialogo a distanza tra architetti e filosofi; in particolare mi soffermerò sulla necessità di ricollocare nel loro originario quadro discorsivo categorie come quella di postmoderno, al fine di evidenziare l’eccessiva mobilità di un lessico che diventa comune senza i necessari approfondimenti; infine verrà evidenziato come alcuni termini – come junkspace di Koolhaas – richiamino indirettamente alcuni concetti filosofici, o come la necessità di una filosofia del design sia stata praticata in ambito estetico prima che filosofico.

The aim of this paper is to explain the debatable connection between architecture and philosophy. In the first part, we will take into consideration in what sense architecture can be considered a form of ideology, which contributes to realize processes of Subjectivation through material forms that create precise conditions of existence; we will use Althusser, Freud and architects such as Koolhaas for this purpose. In the second part we will refer to the various kinds of inspiration that philosophy has produced in the field of architecture; how Jenks read Lyotard or Rem Koolhas took inspiration from Les Immaterieux at the Pompidou center  in 1985, by making reference and explaining the so-called Postmodern condition and the so-called design philosophy in Latour. We will also try to understand how architectural concepts such as junkspace connect to philosophical concepts such as heterotopias

Lo spazio della domus è il luogo in cui avviene l’iscrizione del tempo; da un punto di vista antropologico esso costituisce la cornice in cui deve collocarsi l’attesa di tutto quanto si ripete in forme differenti, diari, quaderni contabili, vincoli familiari, attese per l’avvenire, una continua esplicitazione ritmica di alleanze materiali e immateriali in cui trova posto, in una silenziosa e meditata accoglienza, la stessa irruzione dell’imprevedibile dolore[1]. Lo spazio domestico è anche il luogo di una rimozione strutturale e simbolica; è lo spazio dei nostri escrementi, quello nascosto nelle pareti e nelle fondamenta per assicurare il nostro comfort; è il luogo riparato per le voci narranti che sanno essere dispotiche e violente. Ma noi, in qualità di ultimi uomini, siamo quelli per i quali “la terra è diventata troppo piccola e su di essa saltella l’ultimo uomo, quegli che tutto rimpicciolisce. […]. Noi abbiamo inventato la felicità”[2]; e ciò comporta la necessità di piegare il pensiero a ciò che è comunicabile o, in altri termini, il fatto che la condizione di benessere in uno spazio diventi, come spiega Sloterdijk[3], un sistema immunitario in cui ogni forma di estraneazione viene bandita. Da qui, osserva Koolhaas dall’angolo visuale del teorico e dell’architetto, il fatto di essere ormai condannati “ad un limbo di parole” funzionale solo a costruire un consenso inconcludente; l’ossessione della viabilità propria di ogni programma urbanistico ci rivela che le autostrade, così come gli aeroporti con i loro servizi sempre più sganciati dall’attività del viaggio – tanto che di fatto si avviano a sostituire le città – delineano la nostra condizione universale di esseri di passaggio.[4]

Costruire l’ideale

Quando Althusser parla di “esistenza materiale” dell’ideologia si sta evidentemente smarcando da una considerazione della stessa in termini di credenza e coscienza, cioè una considerazione del tutto idealistica dell’ideologia costruita sull’opposizione credenza/scienza; la materialità di cui parla Althusser ci immette direttamente nel campo degli “apparati” e delle “pratiche”. Per cui se l’ideologia continua a “rappresentare il rapporto immaginario degli individui con le proprie condizioni reali di esistenza”, queste rappresentazioni non vanno intese come qualcosa di altro rispetto alla realtà, ma qualcosa di immanente alla realtà sotto forma di corpi, forze, e qualsiasi forma di materialità che struttura le relazioni in una società. In questo modo Althusser, con questi “corpi di rappresentazioni esistenti all’interno di istituzioni e pratiche”[5], vuole da un lato dare conto di tutte le posizioni soggettive nelle descrizioni delle pratiche sociali, dall’altro giustifica il fatto che siamo già sempre presi in una serie di rapporti che definiscono le nostre condizioni di vita, e questo non ha niente a che vedere con la conoscenza che abbiamo di queste stesse condizioni.

Prendiamo il progetto di Iofan del 1934 per il Palazzo dei Soviet; al vertice vi era una gigantesca statua di Lenin che porge la sua mano a circa 450 metri di altezza; veniva, cioè, plasticamente raffigurata la situazione per cui il sogno socialista della nuova umanità dominava dall’alto le persone in carne ed ossa, i cui bisogni erano evidentemente secondari rispetto al traguardo da conseguire. Ora, chiunque avesse fatto notare ciò, sarebbe stato accusato di essere un anti-rivoluzionario, con tutte le conseguenze del caso. Quello che, dunque, questa esteriorità materiale rende visibile è che l’ideologia funziona facendo vedere ciò che non può essere esplicitamente formulato, in questo caso l’antagonismo non dichiarato tra gruppo dirigente comunista e la popolazione. Questa monumentale trasparenza sociale rivela il modo in cui l’apparato ideologico si rapporta alle nostre convinzioni consce, cioè ci dice il modo in cui agisce la fantasia all’interno dell’ideologia. Il Lenin gigante è innanzitutto la costruzione immaginaria che ci permette di non vedere la nostra effettiva condizione di uomini sfruttati che stanno costruendo il socialismo; allo stesso modo, spostandoci nell’Italia fascista, la fondazione di una nuova capitale all’esterno dei confini della città eterna ipotizzava una monumentalità separata dalla realtà sociale: l’Enigma dell’ora di De Chirico era realizzato quasi alla lettera nel Palazzo della Civiltà Italiana. Mussolini presenta l’Italia come un impero, però noi notiamo che costruisce l’EUR fuori da quello che era all’epoca il centro storico di Roma, quindi in una zona che non ha niente di imperiale, di fatto una zona di aperta campagna. Inoltre questa costruzione, che viene ripresa dai dipinti di De Chirico, non ha nulla di nuovo, ma riposa su un passato tradizionale, non c’è nulla di moderno. E’ un paese che a parole vuole costruire un impero e l’uomo nuovo; ma in realtà è un paese ancorato al passato, anche dal punto di vista architettonico. Anche se proviamo ad aggirare l’ideologia dicendo che la sua materialità è, in certi casi, semplicemente rispondente a criteri di utilità, siamo veramente al riparo? L’utilità non è anch’essa intrisa di ideologia? Il rituale che si definisce utile, pretendendo in questo modo di mantenere un neutrale distacco dalla realtà, non è qualcosa che ci sta pilotando senza che uno ne sia consapevole, così come nel nostro esempio venivano presentate quelle soluzioni architettoniche? Ancora; l’opera canonica del movimento razionalista italiano fu la Casa del fascio di Como, progettata da Terragni all’interno di un quadrato e alta esattamente la metà della sua base; la casa venne posta su un basamento per accentuarne la monumentalità; questo progetto mostra bene come si sposavano elementi tecnici ed intenzioni politiche, visto che le porte che separavano l’atrio d’ingresso dalla piazza erano in vetro ed azionate da un meccanismo elettronico che le faceva aprire tutte simultaneamente; in questo modo si voleva rendere anche visivamente la suggestione di un flusso ininterrotto tra la città e la sede del partito, come se le due cose si identificassero.

Dvorec Sovetov, Boris Iofan; Vladimi Ščuko; Vladimir Gel’frejch

L’operatività della fantasia, dunque, va ben al di là del modo più ovvio in cui possiamo considerarla, e cioè come la modalità allucinatoria di soddisfacimento di un desiderio. Se desidero un determinato oggetto, il problema non è semplicemente capire come realizzo questo desiderio sul piano della fantasia; il primo problema, quello che Freud chiamava “fantasia fondamentale”, è capire perché il desiderio è orientato proprio su quell’oggetto. In secondo luogo, dobbiamo evitare un’altra considerazione ovvia, e cioè che questo desiderio ricorrente sia l’espressione del mio essere più autentico, il mio desiderio più privato; questo desiderio esprime solo il modo in cui cerco di corrispondere alle aspettative che gli Altri hanno su di me.
In altre parole: è il problema che Marx evidenzia con il mistero teologico della merce; io so chiaramente che la mia giacca è il prodotto del lavoro umano, eppure, girando per le vie dello shopping, è lei che dalla vetrina vede me, facendo si che mi appaia come se avesse una vita propria che dice: sono fatta per teA saltare è proprio la distinzione tra apparenza soggettiva e realtà oggettiva, nel senso che lo scarto tra le due si riflette dal lato dell’apparenza facendo si che quest’ultima appaia oggettivamente così, dotata della sua esteriorità materiale, simbolicamente riconosciuta nella sua impersonalità. Questo aspetto ci consente di evidenziare, dal lato del soggetto, un aspetto decisivo; non si tratta, cioè, solo di riconoscere il fatto che c’è un meccanismo anonimo che ci guida, ma soprattutto di riconoscere il fatto che quella che ci sembra un’esperienza intima, del tutto personale – ho scelto questa giacca perché esprime il mio stile -, è qualcosa di inaccessibile; non possediamo affatto il nucleo più profondo del nostro essere proprio così. Solo la giacca può creare quella X interiore e personale che poi si dichiarerà alienata. In termini più espliciti: è l’alienazione stessa a creare il mito di un soggetto non alienato – questo è un punto importante. All’inizio abbiamo parlato del fantasma come di una produzione singolare: il mio fantasma / i nostri fantasmi, quando parliamo in questo modo intendiamo evidenziare il fatto che il fantasma è una singolarità non scambiabile; esso diventa tale solo quando viene formulato, condiviso. In altre parole, accanto alla realtà dei fantasmi c’è quella dei simulacri. È il simulacro, in quanto segno, a funzionare per la circolazione. Non bisogna pensare, però, che il fantasma tradotto in segni venga, per così dire, sacrificato perché baratta la sua singolarità per essere condiviso; anzi, gli stessi simulacri diventano un’ulteriore manifestazione di carica libidinale, altrimenti non si capirebbe il godimento attraverso segni come per esempio la scrittura e il denaro[6]. Vediamo come, servendoci del resoconto di Rem Koolhaas in Delirious New York[7] della costruzione del Rockefeller Center, la mega struttura che avrebbe ospitato uffici, abitazioni, intrattenimento, una radio, una tv, e attività commerciali. La lunga fase di progettazione portata avanti da ciascuno degli Associated Architects dalla metà degli anni venti culminò nella capacità di far coesistere cinque progetti ideologicamente distinti accomunati solo dalla comune presenze di ascensori, servizi, l’involucro esterno e i pilastri. La base delle torri venne affidata a S.L. Rothafel affinchè ne facesse un luogo per il divertimento illimitato da offrire alla Nazione. Dopo un deludente viaggio in Europa e a Mosca per visionare teatri e strutture per il divertimento, questo ex showman della Paramount dichiarò di aver avuto la visione della futura Radio City Music Hall durante il viaggio di ritorno in nave, prima ancora di confrontarsi con gli architetti. La visione consistette nella volontà di realizzare un gigantesco teatro che incarnasse il tramonto osservato dalla nave. La pianta venne così disegnata eseguendo una serie di semicerchi concentrici di diametro sempre più ridotto man mano che ci si avvicina al palco; su quest’ultimo una tenda di tessuto sintetico riflettente inviava i riflessi sugli archi di stucco con elementi color oro disposti per illuminare tutto l’auditorium; il ritmo e l’intensità dell’elettricità simulava alba e tramonto. Prima che venisse dissuaso dagli avvocati Rothafel diffuse ozono dal sistema di condizionamento per aiutare le persone a rilassarsi; negli opuscoli e negli articoli che pubblicizzarono l’apertura campeggiava la scritta: “Una visita al Radio city Hall fa bene come un mese in campagna”[8]. In un’unica area della città, il Rockefeller Center, le persone trovavano spazio, bellezza, divertimento, cultura, reddito, una dimensione urbana e anti-urbana: un complesso architettonico che trasmetteva al mondo intero la vera vita desiderabile. Ed è proprio su questa abolizione della distanza tra affetto e lavoro che dobbiamo soffermarci. Quello che dobbiamo notare, con un testo di Lyotard del 1974[9], è che la pubblicità tradizionale dove il corpo fa segno verso il prodotto è un tipo di potere psico-economico, perché neutralizza la carica libidinale del corpo esposto della modella tradizionale che pubblicizza un prodotto e la proietta verso il prodotto e il denaro funzionando come una normale forza/lavoro; in Delirious New York, invece, il corpo scatena una potenza d’emozione che funge da modello complessivo di un’esperienza che si imprime come fantasia fondamentale da realizzare; l’intensità di questi corpi non rinvia a nient’altro, vuole essere immediatamente consumata in forma allucinatoria perché viva come incandescenza incorporata nello spettatore.

In Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) Freud pone la formazione dell’ideale dell’io al centro della propria speculazione, osservando come ogni singolo, attraverso il meccanismo dell’identificazione, assuma i modelli più diversi come elementi strutturanti il proprio ideale. Quando, due anni più tardi, in L’Io e l’Es, Freud introduce per la prima volta il concetto di Super-Io, quest’ultimo ha con l’Io un duplice rapporto, che riunisce le funzioni del divieto e dell’ideale: devi fare tutto ciò che fa la tua istanza -modello (l’ideale), ma allo stesso tempo alcune cose rimarranno una sua prerogativa perché non puoi essere alla sua altezza (divieto); infine, nella nuova serie di Lezioni di Introduzione alla Psicoanalisidel’33, Freud ingloberà nel Super-Io ben tre funzioni: auto-osservazione, coscienza moralela funzione di ideale; queste ultime due, nello specifico, vengono da Freud associate al seno di colpa e a quello di inferiorità. Seguendo l’indicazione freudiana della compenetrazione tra l’aspetto ideale e quello del divieto, Lagache[10] stabilirà una relazione strutturale tra questi due aspetti: «il Super-io corrisponde all’autorità e l’ideale dell’Io al modo in cui il soggetto deve comportarsi per corrispondere all’attesa dell’autorità». Tenuto conto di ciò si rivela il paradosso per cui più compri più hai bisogno di spendere o più obbedisci più hai bisogno di provare di essere all’altezza.

Consideriamo il Prada Flagship store di Rem Koolhaas[11], ultimato nel 2000 a New York. Di questo progetto, costruito su due livelli congiunti da una “grande onda” rivestita di legno e da un ascensore, colpisce il suo carattere scarsamente funzionale. L’onda è concepita come una zona di transito dove si può e si deve sostare: durante il tragitto, infatti, le persone si ritrovano davanti modelli di scarpe casualmente disposti (anche se il piano di vendita è al livello inferiore), o gabbie pendenti con all’interno modelli di abiti: qui chiaramente emerge l’affinità dell’ideologia con la verità, visto che né Prada né Koolhas smentiscono l’analogia weberiana del capitalismo con le gabbie d’acciaio; la parte finale dell’onda apre su uno spazio dove è possibile imbattersi in diverse tipologie di eventi perché concepito come area destinata ad ospitare differenti performances. Lo stesso uso della tecnologia si rivela semplicemente estetizzante più che funzionale; l’ascensore che, infatti, collega i due livelli viene scarsamente usato dai clienti (che invece prediligono la camminata) a dispetto della sua posizione assolutamente visibile da entrambe le aperture: da questo punto di vista il tecnologico incarna bene la tipologia di prodotto in vendita in questo tipo di shop: non chiedere mai quanto sia costato e a cosa serve, ma solo se per te è bello. Se un edificio incarna la possibilità di rendere concreto qualcosa che prima era nascosto anche alla vista, questa ‘apparenza’ non è falsa, ma vera proprio perché struttura il modo in cui si manifestano le relazioni sociali: che i marchi di alta moda siano afferrabili da chiunque esprime bene la realtà sociale per cui veramente crediamo di dover fare determinate esperienze sensibili per rendere la nostra giornata fatta di momenti riusciti. Da questo punto di vista un edificio può essere strutturato per incarnare uno spazio inclusivo che annulla ogni forma di antagonismo perché, in ultima analisi, è già un miracolo che tutti possiamo conoscere e accedere a forme che riproducono ciò che cinquanta anni fa era profondamente elitario; ed è, di conseguenza, necessario accettare che questo miracolo veda qualcuno in posizione privilegiata: quel qualcuno è solo più bravo o più fortunato, ma l’importante è esserci. Questi spazi polifunzionali privati e pubblici, autentico fiore all’occhiello delle principali città mondiali, hanno un accesso filtrato – alcune aree hanno tickets, alcuni luoghi pubblici hanno servizi con prezzi nettamente superiori agli stessi servizi in altri luoghi della città – nonostante vengano sempre presentati come spazi della città e, come tali, pensati per tutti. Tanto che questa apertura selettiva sembra essere la frontiera della nuova aristocrazia democratica; l’importante non è tanto la mostra, la conferenza o la sfilata che possono tenersi in alcuni spazi all’interno di questi contenitori sociali, quanto la vita sociale che si può fare passando da uno spazio all’altro: io ci sono. Pensiamo ai luoghi concepiti per la musica: Karlheinz Stockhausen predispose ad Osaka nel 1970, per l’Esposizione mondiale, una sala da concerto sferica trasparente al suono[12]. La piattaforma consisteva in una griglia di metallo, con tre cerchi di microfoni al di sotto e quattro cerchi al di sopra. Tutti i solisti erano disposti su dei balconi sospesi intorno e sopra la piattaforma, il loro suono veniva catturato dai microfoni e inviato ad un mixer da cui il suono poteva essere indirizzato in qualsiasi direzione e con cambi di intensità: uno spazio di ascolto in cui il visitatore poteva stazionare o muoversi cambiando in  questo modo fonte sonora, il proprio rapporto col corpo, e il livello di coinvolgimento estetico. Nato come luogo per una diversa disciplina dell’ascolto questa tipologia di spazio si è poi realizzata nei decenni successivi in molti edifici polifunzionali pieni di musica in ogni ambiente, ma sono diventati il format di un consumismo generalizzato in cui si passa da un ambiente all’altro senza poter metabolizzare i passaggi, e questo perché prima e dopo non c’è stata né ci sarà alcun ascolto disciplinato. Seguendo Foucault[13] dobbiamo chiederci se questi artefatti architettonici creino dei luoghi comuni per gli esseri che li attraversano, se riescano a stabilire dei rapporti con un minimo di stabilità tra i segni e ciò che designano; nel caso contrario avremmo solo dei frammenti sparpagliati che svuotano ogni rappresentazione legata ad un ordine delle cose, ovvero l’aspetto inquietante delle “eterotopie”. A differenza dell’utopia, infatti, la quale permette di concepire uno spazio meraviglioso, le eterotopie possono aggrovigliare “i luoghi comuni”[14] e non consentono di pensare i rapporti tra le cose: dove ciò accade, il senso stesso del nostro rapportarci a queste cose sprofonda. Ma possono anche aggrovigliare i luoghi, osserva Foucault, in modo da sfumare le distinzioni tra utopie ed eterotopie; possono, cioè, manifestare la realizzazione nello spazio sociale vissuto di luoghi che permettono, seppur temporaneamente, di sperimentare la realizzazione di una pratica di vita che perturba la struttura di uno spazio già noto: si pensi all’esempio precedente di Stockhausen o allo straordinario resoconto degli elementi di design che lo scrittore D.F. Wallace fa del modo in cui una nave diventa lo spazio progettato per strutturare il divenire di uno spazio collettivo di divertimento[15].

Il gesto architettonico, o “la modernizzazione dei poveri”[16]

Quando Eisenmann cercò di prendere le distanze da Derrida, gli fece notare che la decostruzione della dialettica presenza/assenza è del tutto inadeguata in architettura: in architettura c’è un’altra condizione che io chiamo presentness (presentezza), che non è né assenza né presenza; né forma né funzione; né un particolare uso del segno, né la cruda esistenza del reale; piuttosto un’eccedenza, posta tra il segno e la nozione heideggeriana di essere – la mia architettura non può essere ciò che dovrebbe essere, ma ciò che può essere[17].
Con un percorso molto diverso Zizek segnala un elemento affine  riprendendo il concetto di “pennacchio” utilizzato in architettura e biologia per designare la classe di forme e spazi che si presentano come sottoprodotti necessari di un’altra decisione nel progetto, e non come adattamenti di utilità diretta in se stessi. Questi spazi interstiziali ci rammentano l’enorme responsabilità etico-politica dell’architettura: nella progettazione è in gioco molto di più di quanto possa sembrare[18].

In entrambi i casi l’attenzione cade sul fatto che l’architetto compie una serie di atti sociali, nel senso che le condizioni dell’autonomia dell’architettura si sviluppano in dialogo o in dissidio con le strutture politiche e sociali in cui operano; da questo punto di vista il gesto architettonico si manifesta sempre come qualcosa che si inscrive in un codice e, allo stesso tempo, ha qualcosa di singolare ed irripetibile. Che il discorso architettonico debba assumere piena consapevolezza delle proprie implicazioni politiche e filosofiche è un’esigenza manifestatasi con particolare chiarezza negli ultimi decenni anche se, è bene dirlo, in modi non sempre adeguati. Le due figure paradigmatiche di questo incontro tra discipline – Derrida ed Eisenmann – ebbero così tante  incomprensioni da spingere il primo a definire il loro rapporto né in termini di collaborazione, né di scambio, “piuttosto una doppia parassitaria pigrizia”[19]. Non meglio era andata qualche anno prima tra Lyotard e Jencks. Quest’ultimo aveva pubblicato nel 1978 la bibbia del postmoderno architettonico, rivendicando per l’architettura una connotazione linguistica poiché veicola dei significati. L’architettura postmoderna era per lui l’esito del fallimento del razionalismo e del funzionalismo dello stile internazionale in cui si era ingessato il movimento moderno, tanto da essere esplicitamente accusato di elitarismo; l’uomo moderno immaginato dagli architetti, osservava Jencks, esisteva solo nella loro testa. Occorreva recuperare la capacità di saper parlare a tutti, comprendendone lo stile di vita, gli aspetti tradizionali delle loro culture, etc… È chiaro che qui riecheggiava quanto già Fiedler e Sontag avevano detto negli anni sessanta a proposito della letteratura americana. In questo modo l’architettura si apriva ad una pluralità di codici culturali in senso ampio, facendo dell’eclettismo la capacità di saper aderire ai diversi contesti. Jencks conosceva la Condizione postmoderna di Lyotard, ma aveva accusato il filosofo francese di essere un semplice sostenitore di un nuovo mondo tecnocratico; possibile? Lyotard aveva, proprio nel primo capitolo del suo pamphlet, avanzato l’ipotesi che in una società informatizzata cambiasse la natura del sapere, ma non aveva indicato un rapporto di causa-effetto; e infatti subito dopo aveva iniziato a porsi il problema della legittimazione delle scienze. Lyotard osservava che i grandi metaracconti moderni, cioè quelli universalizzanti e totalizzanti che finalizzavano tutte le condotte umane (idealismo, illuminismo, socialismo, etc…) non avevano più alcuna validità. Le stesse scienze dure erano andate incontro, all’inizio del ‘900, ad una crisi interna dopo che la relatività e il principio di indeterminazione avevano profondamente alterato la certezza della verità. La condizione postmoderna è esattamente la condizione di tutti i saperi, nel momento in cui non trovano più il loro posto in un discorso legittimante universale che ricostruisce tutte le sfaccettature della verità; di fronte ai saperi, ormai, bisogna solo chiedersi se sono efficaci oppure no in base alle regole che si sono dati. Da qui la “guerra” che Lyotard proclama a tutti i discorsi inglobanti. Occorre, invece, salvaguardare i dissidi, testimoniare dell’impresentabile. In campo artistico ciò implica per Lyotard la necessità di reinventare continuamente i codici di ogni pratica artistica, proprio perché nessuno stile o corrente possono pretendere di avere la parola definitiva. Se, dunque, Jenks metteva l’accento sulla necessità di riportare in superficie tutti gli aspetti della memoria storica – era questo il senso del suo eclettismo architettonico -, lo sguardo di Lyotard andava verso la continua ricerca del nuovo, di una sperimentazione incessante.

In un’intervista del 2015 su Artribune Koolhas ha dichiarato di essere stato molto più vicino a filosofi come Lyotard e Latour che agli architetti che lo invitarono alla sua prima Biennale nel 1980, quella che programmaticamente portò il postmoderno architettonico americano alla conquista dell’Europa. Ed infatti in questa intervista ricorda con molto più piacere la partecipazione alla mostra Les Immaterieux nel 1985 al Centre Pompidou, accanto a molti pensatori francesi dell’epoca. Koolhas afferma, a ragione, che questa mostra lo affascinò perché “non aveva niente a che fare con la materia e la sostanza- si trattava di pensiero-”. Che tipo di pensiero? Mostrerò che

Koolhas è molto più vicino a Latour che a Lyotard e che, rispetto a quest’ultimo, mette in campo una più lucida consapevolezza degli effetti in campo architettonico della concettualità postmoderna. L’immateriale della mostra è un materiale la cui essenza è linguistica in senso generale, in molti casi un codice numerico. Questo radicale cambiamento nello statuto della materia ci permette di considerare lo scarto rispetto alla tradizione metafisica precedente, in cui la materia era un dato che l’uomo si trovava davanti e che l’affettava nei modi previsti dalle categorie dell’intelletto e dagli schemi dell’immaginazione. Poiché l’immateriale non è già dato come la vecchia materia, ma prodotto da un apparato tecno-scientifico, allora tutta la realtà che ne deriva può essere considerata l’esito di una produzione senza resto, del tutto trasparente, proprio perché deriva da dei dati intellegibili, programmati. In secondo luogo l’idea stessa di paternità in rapporto a un prodotto materiale si attenua, perché questi modelli generativi automatici possono operare con la stessa matrice in contesti e progetti del tutto diversi, e tendono spesso a considerare chi ne fa esperienza come una variabile che interagisce con gli elementi del progetto. Prendiamo l’installazione Le double plateau di Buren al Palazzo reale di Parigi nel 1985[1]; c’è uno strumento programmato per produrre, in modo del tutto anonimo e senza alcuna intenzionalità, delle bande verticali bianche e nere che si applicano a qualsiasi tipo di contesto materiale pre-esistente: una piazza, una facciata, etc… . Abbiamo così una matrice tecno-scientifica, non legata a nessuno spazio in particolare e potenzialmente a nessun autore, ma programmata per intervenire su qualsiasi supporto: è il trionfo del trans-individuale, il ritorno ad un sistema massivo che cerca di conciliare varietà e ripetizione. In questo modo il senso della postmodernità consisterebbe nella condizione in cui qualsiasi messaggio- sia esso una frase, un edificio, un’immagine, etc…- non viene né considerato come l’effetto di una causa pre-individuale che ci precede, ci ingloba e in qualche modo ci predestina a ricevere il messaggio, né come qualcosa la cui paternità sia chiaramente individuabile: qui la postmodernità rischia di essere qualcosa di molto vicino all’essere heideggeriano. Nel testo che Lyotard presenta per questa mostra osserva che questa nuova corrente di pensiero ci insegna che “l’uomo non deve considerarsi né come un origine né come un risultato, ma come un tasformatore che assicura […] un supplemento di complessità nell’universo”[2]. L’anno successivo, al Convegno Nuove tecnologie e trasformazione dei saperi organizzato dall’Ircam e dal Collége international de philosophie, esplicita in che senso la tecno-scienza contemporanea esprima una potenza di sintesi all’opera sul pianeta nel suo insieme, e come lo spazio umano non sia affatto il beneficiario di questa potenza, ma solo il tramite: “bisognerà riprendere l’analisi, direi metafisica e ontologica, del capitalismo”[3], per porsi il problema delle direzioni in cui “ricostruire”; mentre per molta architettura contemporanea non c’è nessun problema nell’avere un’architettura regolamentata dall’economia di mercato, per Lyotard la cosa da pensare è proprio questa; inoltre non c’è mai nel filosofo l’attitudine riconciliante verso il passato che c’è in Jencks.  Lyotard, invece, nell’ultimo intervento richiamato non tradisce la sua radicale concezione di postmoderno: “si tratta […] di abbandonare le sintesi già stabilite, non importa di che livello siano, logiche, retoriche ed anche linguistiche, e di lasciar lavorare in maniera liberamente fluttuante ciò che accade, cioè il significante, per quanto insensato possa apparire”[4].

Latour è molto più in sintonia con Koolhas. Il pensatore francese mette in evidenza la centralità assunta negli ultimi anni dal termine design[24], tanto da fargli dire che esso ha del tutto sostituito il termine rivoluzione: nessuno, ormai, propone di ricominciare da zero, ma per ogni situazione o oggetto si tratta di riprogettare a partire da ciò che è. Il concetto di design ha ormai un’estensione che era inimmaginabile fino a pochi decenni fa. Oggi il termine si applica a qualsiasi cosa: si può fare il design di una costa, di una città, di un sito ­ovviamente, a tutti gli oggetti che popolano la nostra esistenza. Non è più possibile distinguere tra funzione e design, che si tratti di un edificio, di un telefono, o delle nanotecnologie, il design è entrato prepotentemente a definire ogni aspetto della progettazione. Va da sé che l’applicazione del design ad ogni ambito ci autorizza a chiederci, per qualsiasi cosa, se è stato progettato bene o male, anche se quest’aspetto non viene problematizzato in modo convincente. Latour si augura che la grande conquista di questo nuovo idioma, la cui incarnazione filosofica viene giustamente attribuita a Sloterdjik (superamento della vecchia distinzione moderna tra “materie di fatto” e “materie in questione”) conduca alla capacità di esplicitare tutti gli effetti e i concatenamenti che una data riprogettazione in un ambito può avere in contesti del tutto diversi e apparentemente slegati, a partire ovviamente dalle pressanti questioni ecologiche. Ma è possibile porre il problema di come aumentare, grazie alle tecnologie, il livello di consapevolezza globale su queste questioni e i loro intrecci senza porre la questione delle enormi disuguaglianze distribuite a tutti i livelli sociali? Questione che ritorna in modo cinico nella produzione teorica di Rem Koolhaas; cinica perché parliamo di uno dei grandi protagonisti dell’architettura mondiale degli ultimi tre decenni e che, quasi parallelamente, ha sviluppato una capacità di descrizione e narrazione della stessa produzione architettonica con accenti apocalittici. Quello che Foucault aveva intravisto con il termine eterotopia viene teorizzato in rapporto all’architettura con il termine Junkspace[6]. Questo termine, di cui Koolhaas ha preteso il copyright, giunge al termine di una riflessione che ha attraversato gli anni novanta, e che lo ha visto esplicitare una serie di questioni inerenti alle tendenze dell’architettura moderna compendiate prima intorno al termine Bigness, poi quello di Città generica e infine, nel 2001, con un saggio apparso in un volume collettaneo, Guide to shopping,  e intitolato appunto Junkspace. Quando Koolhaas teorizza la bigness, spinto dalla consapevolezza che le grandi dimensioni dei complessi architettonici (come aereoporti, stazioni, o centri commerciali) impongono all’architetto la necessità di formulare la grandezza teoricamente, per poter capire come gestirla e utilizzarla, è netto nell’affermare che l’accumulazione di queste strutture trasforma la città fino a renderla “una rivoluzione senza programma”, in cui nuovo e vecchio si fronteggiano senza far parte di alcuna narrazione condivisa: “un nebuloso impero di indistinzione che confonde l’alto e il basso, il pubblico e il privato […] per offrire un ininterrotto patchwork di ciò che é perennemente disarticolato”[7]. La disarticolazione è una chiave di analisi che rende penetrante il modo in cui l’architetto olandese esprime il suo disappunto verso gli esiti della postmodernità, denunciando sia  i risultati scadenti raggiunti da ciò che Lyotard aveva esaltato sul piano teorico, ovvero la ricerca del nuovo, “la libera fluttuazione del significante”, sia la presunta capacità creativa di aderire al contesto ricercata da Jencks. Quando Koolhaas, infatti, riflette sulla condizione globale delle città non manca di notare come i tentativi parossistici di trasformare il tessuto urbano mostrando una identità storica abbiano finito col depauperare la storia di ogni significatività, fino a produrre “uno stato ipnotico fatto di esperienze estetiche quasi impercettibili”[8]Junkspace è l’estenuazione epigonale della ricerca del nuovo che ha ossessionato parte della recente produzione architettonica. Il saggio Junkspace ha il ritmo incalzante di una confessione in cui Koolhaas sembra tanto il penitente quanto il confessore:

il junkspace sarà la nostra tomba. Metà dell’umanità inquina per produrre, l’altra metà inquina per consumare […].
Il junkspace è politico: dipende da una rimozione centrale della facoltà critica in nome del comfort e del piacere[9]

Gli architetti per primi pensarono al junkspace nominandolo megastruttura; tra l’altro, osserva Koolhaas, il nominare è la nuova attività per il rinnovamento sociale una volta che la lotta di classe è entrata a far parte dell’antiquariato. Il sogno postmoderno era quello di garantire, attraverso l’idea di megastruttura, l’incontro tra frammenti differenti, uno spazio per tutti i codici culturali, in realtà ha prodotto “la fine improvvisa di un sistema, lo stallo”[29].


[1] Cfr. J.F. Lyotard, Domus e la megalopoli, in L’Inumano, Lanfranchi 2001, pp. 239-253.

[2] F. Nietzsche, Così parlo Zarathustra, Prologo, Adelphi 1986.

[3] P. Sloterdijk, Sfere III, Raffaello Cortina 2015, p. 509.

[4] R. Koolhaas, Bigness, in Junkspace, Quodlibet 2006, pp. 33-35.

[5] L. Althusser, Elementi di autocritica, Feltrinelli, 1975, p. 48.

[6] Mi permetto di rinviare, per l’approfondimento di questi aspetti, a M. Autieri, Ideologie trainanti: produttività, piattaforme, economia libidinale, goWare, Firenze 2019 (in particolare cap. 2 e 4).

[7] R. Koolhaas, Delirious New York, Electa, Milano 2001.

[8] Ibid., p. 200.

[9] J.F. Lyotard, Economia libidinale, PGRECO edizioni, Milano 2012, p. 101.

[10] Cfr. J. Laplanche, J.B. Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisiLaterza 1993 , vol.1, p. 227.          

[11]Cfr. D.J. Huppatz, Miuccia Prada/OMA/Rem Koolhaas: Prada Store: http://djhuppatz.blogspot.com/2009/08/muiccia-pradaomarem-koolhaas-prada.html

[12] Cfr. K. Stockhausen, Sulla musica, postmediabooks 2014, p. 114.

[13] M. Foucault, Il corpo utopico e Le eterotopie, in Utopie Eterotopie, Cronopio, Napoli 2006.

[14] Id., Le parole e le cose, BUR 2009, p. 7.

[15] Mi riferisco al reportage intitolato Una cosa divertente che non farò mai più, Minimumfax 2017.

[16] “Invece che una coscienza, come i suoi inventori in origine possono aver sperato, (la città generica) crea un nuovo inconscio. È la modernizzazione dei poveri”. R. Koolhaas, La città generica, in Junkspace, Quodlibet 2006, p. 54.

[17] P. Eisenman, A Reply to Jacques Derrida, in Written into the VoidSelected Writings 1990-2004, introduction J. Kipnis, New Haven & London, Yale University Press, pp. 1-4.

[18] S. Zizek, Il parallasse architettonico. Pennacchi e altre forme di lotta di classe, in Il trash sublime, Mimesis, Udine 2013, p. 76-77.

[19] Cit. in P. Bojanić e V.  Đokić, La filosofia architettonica, tr.it. di Autieri M.,  in “Rivista di estetica”, n.58, 2015, pp. 81-88, nota 2.

[20] Cfr. J.L. Déotte, «Les Immatériaux de Lyotard : un programme figural», mis en ligne le 09 mars 2009: http://journals.openedition.org/appareil

[21] J.F. Lyotard, Materia e tempo, in L’Inumano, cit., p. 68.

[22] Id, Logos, techne o la telegrafia, in L’inumano, cit., p. 76.

[23] J.F. Lyotard, Logos, techne o la telegrafia, in L’inumano, cit., p. 82.

[24] B. Latour, Un Prometeo cauto? Primi passi verso una filosofia del design, in “EIC”, n.3/4, 2009, pp. 255-263.

[25] “il Junkspace è la somma delle nostre attuali conquiste […]. L’essenza del junkspace è la continuità; il junkspace sfrutta ogni invenzione che rende possibile un’espansione […]: scale mobili, aria condizionata, sprinkler, porte tagliafuoco, lame d’aria…”; R.  Koolhaas, Junkspace, op.cit., p. 64.

[26] Ivi,  Junkspace, cit., p. 66.

[27] Id., Bigness, cit., p. 33.

[28] Id., Junkspace, cit., p. 83.

[29]Ivi, p.71.L’altro aspetto interessante, che richiede una trattazione a parte, è la vicinanza di Koolhaas a Deleuze –cosa che lo stesso architetto dichiara esplicitamente-. Quando in Mille piani Deleuze  e Guattari  affermano che quei flussi che hanno conosciuto un modo di stare nello spazio senza delimitazioni – “spazi lisci”-, possono tornare a dipendere da forme stratificate di potere che si caratterizzano proprio per il fatto di coesistere con ciò che, in termini assoluti, oltrepassa i limiti degli apparati di Stato, dicono qualcosa che Koolhass riprende chiaramente quando scrive ad es.: “il junkspace conosce tutti i tuoi desideri, le tue emozioni. Anticipa le sensazioni della gente”; Ivi, p. 84.

FONTE:https://www.mimesis-scenari.it/2020/05/25/architetture-per-lultimo-uomo/

 

 

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

28 Aprile 1976, scuola media privata di Roma, ai Parioli.

Marina Buontempo – 28 05 2020

Riporto qui  la narrazione di un amico in onore del valente architetto Mario Polia che pagò personalmente il gesto libertario di esprimere un insegnamento differente dalla vulgata storica dominante…

Il preside chiede ai professori di spiegare agli alunni chi è Rosario Bentivegna, poiché, in vista del 25 aprile, la medaglia d’oro alla resistenza verrà a fare una visita all’istituto.

Un professore dice agli alunni “se uno di voi combina una marachella inutile, ed io mi arrabbio e chiedo chi è stato voi che fate?”. Gli alunni guardano il Maestro e non dicono nulla. Il maestro capisce che quel silenzio è già una risposta, allora aggiunge “non me lo dite, se io però dico che o esce il colpevole o punirò 10 di voi a caso, voi che fate?”, un bambino all’ultimo banco, dopo un breve istante di incertezza, alza timidamente la mano e dice “maestro, pur sapendo chi è stato, noi continuiamo a stare zitti, perché siamo certi che il colpevole si farà avanti da solo” allora il maestro “non mi rispondete, però immaginate che il vostro compagno non si faccia avanti, che nei 10 puniti non ci sia lui e che non ci sia neanche nessuno dei suoi amici più cari. Ecco, vi ho spiegato chi è la persona che viene domani”.

Il giorno seguente la preside gira le classi con la medaglia d’oro finché arriva nella classe del maestro e chiede “ragazzi chi sa chi è questo signore?”.

Il bambino dell’ultimo banco si alza in piedi e grida “un infame”.

Quella scuola era l’Assunzione, quel cattivo maestro era un mio amico, MARIO POLIA (licenziato e radiato da tutte le scuole d’Italia a seguito di questo episodio), poi divenuto famoso archeologo.

Ecco quello che voglio pacatamente dirvi è che non voglio abolire la festa del 25 aprile, non voglio togliere medaglie d’oro né al partigiano Rosario né al boia Tito, sarebbe troppo.

Mi accontento solo della libertà. La libertà di festeggiare le mie date, la libertà di scegliere i miei eroi.

Io scelgo Nazario Sauro e non Alcide De Gasperi.

Io scelgo Salvo d’Acquisto e non Rosario Bentivegna.

Io festeggio il 4 novembre non il 25 aprile.

Non voglio togliete niente a voi, chiedo solo che voi non togliate niente a me, ognuno si sceglie gli eroi che merita.

FONTE: Gruppo Whatsapp “AMICI DELL’ARTE”

 

 

Fani: paura e diffidenza, la mascherina è un rituale magico

«La maschera è sempre negativa: copre una falsità, un inganno, una finzione». Lo ricorda lo scrittore e formatore Maurizio Fani, che è anche psicologo e psicoterapeuta. Le “museruole” che gli ambigui gestori dell’emergenza Covid ci costringono a indossare? Puzzano di rituale collettivo: simboleggiano sottomissione e annullamento della personalità. D’accordo, c’è anche l’elemento medico, precauzionale. Ma in quale misura? L’Oms e lo stesso ministero italiano della sanità ne raccomandano l’uso, alle persone sane, «solo se stanno fornendo assistenza a persone certamente malate di Covid-19, o con sintomi che facciano sospettare la malattia». Molti autorevoli virologi le temono: «Non vanno usate, specialmente in luoghi all’aperto», dice il professor Giulio Tarro, allievo prediletto di Albert Sabin, l’inventore del vaccino contro la poliomielite. «Le mascherine non sono il massimo dell’igiene», avverte Tarro: «Io starei attento nel loro uso, riuso e abuso: e quando arriverà il caldo, sarà bene gettarle via». L’Ordine dei Medici Sportivi di Cagliari – racconta Fani – ha sollevato un problema: un pericolo, la mascherina, per chi pratica attività sportiva.

Sotto sforzo, con la “museruola” che copre naso e bocca, si respira un’overdose di anidride carbonica: si rischia di svenire. «Pensare che la mascherina protegga dal virus, poi, è come credere che un’inferriata alla finestra vieti l’accesso alle zanzare», Mascheratidice il nanopatologo Stefano Montanari. Ma la mascherina, soprattutto, è oramai un simbolo a tutti gli effetti. Lo sostiene uno studioso come Fani, co-autore con Monica Maggio del volume “Il significato segreto delle immagini nei film e nei sogni”, ovvero “La manipolazione individuale dell’essere umano” (Scribo, 2019). In un’articolata analisi sul sito “Petali di Loto“, di Paolo Franceschetti, Fani mette a fuoco il potenziale simbolico della maschera, equiparandolo all’attuale protezione sanitaria anti-contagio. Premessa: tutti i supereroi dei fumetti indossano una maschera, a partire dall’Uomo Mascherato (The Phantom, il “fantasma” creato nel 1936 dallo sceneggiatore Lee Falk e disegnato da Ray Moore. E’ il capostipite dell’eroe in incognito, dalla doppia vita. Poi ecco Devil, L’Uomo Ragno, Kriminal, Satanik e Diabolik. «Tutti soggetti “unici”, che attraverso la maschera manifestavano la loro originalità. Invece l’attuale mascherina serve a uno scopo molto diverso», osserva Fani.

Ma da dove nasce, l’arte di travisare i lineamenti del viso? «L’uso della maschera nasconde un atavico e complesso significato che attraversa ogni comportamento dell’uomo: dalla guerra alla morte, dalla festa alle espressioni artistiche, fino a giungere ai rituali religiosi, magici ed esoterici». Spiega Fani: «Per sua natura, la maschera occulta e nasconde, e cancella ogni emozione», cambiando l’identità di chi la indossa. Nel film “Eyes wide shut”, di Stanley Kubrick, nella scena del rituale orgiastico tutti fanno ricorso alla maschera «per comportarsi più liberamente, in maniera meccanica e animalesca». Lo stesso carnevale, come quello di Venezia – aggiunge Fani – consentiva di dare libero sfogo all’erotismo. Il breve periodo carnascialesco «portava con sé il tema del “rovesciamento” dei rapporti tra le persone: tutto era lecito, ci si poteva abbandonare agli eccessi, i padroni servivano i servi (come nei Saturnali della Roma antica)». In questo modo, «si concedeva al popolo ignorante l’illusione di Eyes Wide Shutessere simile a chi lo comandava». In pratica, «una manipolazione per detenere il consenso». Già allora: maschera, uguale inganno. Ma il peggio, sostiene Fani, è che l’identità di ciascuno non è solo celata agli altri: con la maschera, «diventiamo sconosciuti a noi stessi».

E così, «qualsiasi azione viene “deresponsabilizzata” nell’inconscio dell’individuo, perché lui stesso si cala psichicamente nel personaggio». Secondo lo psicologo, dunque, avviene una trasformazione profonda all’interno di chi si maschera. «Anche gli sciamani e i sacerdoti, calandosi nel mascheramento, si spersonalizzano e diventano ciò che la maschera vuole significare. Chi presiede un rito e impersona un demone o un’entità, attraverso la maschera assume una nuova identità, trasformandosi in ciò che ha evocato». Quest’aspetto, continua Fani, è confermato dalle maschere del teatro classico, cui in passato era stato erroneamente attribuito il potere di amplificare la voce: in realtà «servivano per identificare il personaggio, al di là dall’interprete». La maschera crea un’identità fittizia: lo sanno anche gli antropologi, pensando alla prima maschera funerararia, in selce, rinvenuta sul volto di un probabile Neanderthal vissuto 32.000 anni fa (in quel caso, l’obiettivo è la “rigenerazione” del defunto dopo la morte: e anche qui la maschera denota un cambiamento di personalità). Un espediente “innocente” comunque, se paragonato alle mascherine di oggi.

«Le persone – premette Fani – s’identificano solitamente dai lineamenti del viso, e la maschera impedisce questo riconoscimento, annullando la personalità del soggetto: la maschera fornisce un volto nuovo a quel corpo». Di fatto, il travisamento «struttura anche un pensiero diverso in chi la indossa, e fa in modo che questo nuovo elemento che si è aggiunto interagisca e dialoghi con altri simili nelle stesse condizioni». Il nuovo pensiero s’impone sia all’interno, nel soggetto, che all’esterno, nel rapporto con gli altri. «Si sviluppa così un “effetto rete”, responsabile della nascita di una credenza positiva in quel gesto». Più precisamente, spiega lo psicologo, «si assiste a una de-individualizzazione, con successiva ricostituzione di una nuova psichicità, capace di difendere la nuova posizione oltre ogni riflessione e dubbio». In questo modo «si acquisiscono certezze, non opinioni». Lo vediamo: «Gli individui ne diventano i primi difensori, e i primi accusatori di chi mostra un Bambinopensiero minimamente contrario al loro». La verità è che «stanno semplicemente obbedendo a un ordine psichico, invisibile ma non meno concreto». Come si ottiene questo tipo di manipolazione? «Attraverso tre passaggi: il consumismo, conformismo e “groupthinking”».

Tre modalità di non-pensiero, che «hanno come comune denominatore la funzione “copia & incolla”». L’importante è essere gregge, adeguati agli stili proposti dal sistema. Fino, appunto, all’appiattimento mediocre del pensiero di gruppo, cioè la ricerca del consenso eliminando il conflitto del pensiero critico. Attenzione: «Il fenomeno del “groupthinking” attecchisce in quei contesti sociali in cui i membri di un determinato gruppo evitano di promuovere punti di vista che vadano al di fuori di quella zona confortevole delimitata dal pensiero consensuale. Si deve creare un pensiero comune che permetta al dominio di imporre scelte e decisioni che altrimenti non avrebbe potuto istaurare». Le persone, quindi, «devono restare inevolute, non devono assolutamente mai provare il piacere di pensare con la propria testa». E per raggiungere questo «s’instaura un clima di terrore, fatto di paure, di posti di blocco, lampeggianti, divise, armi e talvolta tanta arroganza». Ed eccoci, appunto, al consenso attorno all’imposizione della mascherina. Maurizio Fani chiama in causa il celebre drammaturgo Alejandro Jodorowsky, teorico della “psicomagia”. «I Maschererituali non sono mai fatti a caso: in qualunque operazione magica, la garanzia di successo è il rispetto del preciso rituale: gesti e parole, abiti, maschere, intonazione della voce, modo di camminare».

Aggiunge Fani: «Il rituale non solo ti mette in rapporto con altri possibili mondi, ma parla all’inconscio di chi ascolta e di chi compie il rito». A chi desidera liberarsi di un problema, Jodorowsky propone un gesto simbolico dall’effetto taumaturgico. Funziona? Sì, risponde Fani, citando una sua esperienza personale: un suo paziente si sentiva vessato dal prestigio del fratello, che in famiglia gli veniva indicato come un semidio da venerare. «Gli ho fatto prendere una fotografia del fratello e gli ho detto che avrebbe dovuto metterla sotto i piedi 5 volte al giorno per una settimana, pensando intensamente che stava camminando sopra di lui e che percepiva il fratello sotto i suoi piedi». Questo ha risolto il problema interiore, secondo la lezione di Jodorowsky. «Sono atti poetici, teatrali, ricchi di emozione e di simbologie, che smuovono forze sopite e spesso inconsce, che la persona non credeva di avere». Compiere dei rituali – insiste Fani – incide profondamente sia sulla psiche sia sulla realtà. Attenti, quindi, alle mascherine anti-Covid: oltre a farci respirare male e a nasconderci il volto, inibiscono lo scambio verbale e aumentano a diffidenza reciproca.

«Qualcuno la chiama “museruola”, come quella messa ai cani di grossa taglia. Ed è vero: è un tentativo per addomesticare quei pochi neuroni che ancora la massa possiede, per realizzare dei neuro-schiavi a tutti gli effetti». Occhio alla maschera: «Si tratta di uno strumento magico per eccellenza». Il potere fondato sul dominio «fa credere che la magia sia il Mago Otelma, Silvan, Vanna Marchi: tutti fenomeni di costume». In realtà, scrive Fani, «chi tira le fila sa benissimo che cos’è la magia, e come si opera». Secondo lo psicologo, quindi, quella in atto «è una “operazione magica” su tutti i fronti, tesa a smuovere forze imponenti e a minimizzare ogni tipo di reazione, incanalandola in percorsi mentali di totale accettazione, senza alcuna possibilità di porsi delle domande sull’effettiva validità di tutte le misure poste in atto». In sostanza: «Infondere paura, terrore, per condizionare la risposta attesa. Impedire ogni possibile reazione che distolga la mandria (poco) umana dal correre Maurizio Faniciecamente verso il precipizio, per immolarsi a un bieco desiderio di potere egemone e totalitario». Per fortuna, chiosa Fani, nessuno – nella storia del mondo – è mai riuscito a prendere completamente il potere. E anche questa volta, assicura, finirà così.

Certo, nel frattempo «passeranno diversi anni nei quali tutti noi avremo la grande opportunità di crescere, superando difficoltà inaudite». L’importante, dice lo studioso, è iniziare a mettere in gioco strumenti nuovi, interiori e sociali, più adatti a fronteggiare questa emergenza: vivere in modo più sano, selezionare gli amici. Il momento è cruciale, di portata storica: «Siamo di fronte a una “speciazione”, cioè alla nascita di una nuova specie, che si distaccherà da quella precedente» e lo farà «in malo modo, fino a configgere apertamente». L’avanguardia della nuova umanità punta ad un “nuovo rinascimento”, abbandonando definitivamente «quel consenso robotico, inumano, alieno e mostruoso che contraddistingue la maggioranza». Fondamentale, per Fani, «stringersi intorno a persone che dimostrino il coraggio di esistere e che siano indifferenti alle lusinghe del potere e del dominio». Molti, certo, si vendono: «Si prostituiscono, per uno sputo di visibilità mediatica: sono schiavi obbedienti, e schiavi restano». Sono loro, “i molti”, «quelli che hanno contribuito a questo sfacelo». Secondo Fani, a vincere saranno le avanguardie coraggiose: «Saranno proprio quei pochi, a scrivere la storia», magari cominciando con un gesto: rifiutare di indossare la mascherina, sapendo cosa nasconde davvero.

FONTE:https://www.libreidee.org/2020/05/fani-paura-e-diffidenza-la-mascherina-e-un-rituale-magico/

 

 

 

CULTURA

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Morphema, 2016

 

La cultura giapponese non ha mai rinunciato al contatto con la natura, traendone ispirazione ed energia creativa. Non ci si meravigli quindi se anche e forse soprattutto la poesia nipponica, non esclusa anzi per prima la forma poetica più nota tra di noi, l’haiku, trae la sua linfa vitale dal susseguirsi delle stagioni. Esiste però una differenza fondamentale tra la teoria occidentale del ciclo annuale di vita e quella orientale.

 

Abbiamo quindi ritenuto opportuno iniziare un dialogo col curatore e traduttore di questa raccolta, il professor Mario Polia, che possa aiutare il lettore a inquadrare il fenomeno degli haiku nella sua giusta cornice.

Come mai questa raccolta esce in cinque volumi separati, visto che rappresenta un tutt’uno?

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Mario Polia durante una lezione tenuta presso il Dojo Torakan di Roma nel 2017

La scelta di pubblicare la mia raccolta di haiku in cinque volumi rispetta la tradizione giapponese. In Giappone le raccolte di haiku rispettano l’andamento delle stagioni. Inoltre la suddivisione dell’antologia in quattro tomi permette di portarsi dietro un volumetto alla volta [N.d.r.: che, presumiamo, sarà di volta in volta quello intonato alla stagione che si sta vivendo il quel momento].In occidente siamo però abituati a suddividere il ciclo annuale in quattro stagioni, qui ne troviamo cinque. Quale è la ragione, e cosa rappresenta la quinta stagione?

La prima brevissima stagione che inaugura l’anno nuovo (shinnen), precede immediatamente la primavera (haru). Vengono poi  l’estate (natsu), l’autunno (aki) e l’inverno (fuyu).

Nel primo volume, inoltre, vi è un’accurata introduzione al genere poetico haiku; seguono poi brevi biografie degli autori e la lista in ordine alfabetico delle parole o espressioni che caratterizzano la stagione (kigo). Questa mia antologia contiene più di 600 haiku. Ad ogni haiku è dedicata una pagina strutturata in questo modo: testo giapponese in caratteri del nostro alfabeto; traduzione del poema; analisi delle parole e del loro significato; commento al testo specie per quanto riguarda il contenuto e il sistema filosofico-religioso (shinto o buddhista) che, spesso, è riflesso nello haiku. Anche la scelta di dedicare ogni singola pagina a una sola composizione rispetta la tradizione giapponese.

Ci sono ragioni particolari per la caratteristica metrica utilizzata negli haiku, o è semplicemente un ritmo che suona gradevole alla mente e al cuore?

Risponde a una tradizione molto antica, direi che è un ritmo che, oltre ad essere gradevole, aiuta a recepire la poesia: cinque sillabe introducono; sette sviluppano; cinque chiudono.

Ci sono o sono ipotizzabii paralleli con la metrica della poesia classica greca e latina?

Sebbene sia la poesia classica latina che quella e greca, come la giapponese, usino una metrica non basata sugli accenti ma sulla lunghezza delle vocali, escluderei ogni altro possibile parallelo.

HaikuHaru07

Una pagina aperta a caso dal volume Haru (primavera). Lo haiku è di Yasuhara Teishitsu (1610-1673)

Quali sono gli stilemi utilizzati più frequente nell’haiku, che preferisce alludere piuttosto che citare letteralmente, ad esempio non facendo mai il nome della stagione che lo ispira?

Lo haiku è il dito che mostra verso dove guardare per vedere la luna. Come potrebbe una descrizione della luna essere più efficace e più bella della stessa luna?

Quali sono le ragioni dello straordinario successo avuto dalle composizioni haiku nel mondo poetico occidentale? E questa produzione moderna nata fuori dal paese del sol levante, ne rispetta mediamente i canoni e lo spirito?

La serena composta bellezza (furyoo), la trasparente concisione del verso, i temi che ispirano la poesia giapponese (la natura colta come splendida e fugace manifestazione del Vuoto – da noi si direbbe del divino) i sentimenti che modulano il verso: la profonda compassione non scevra da nostalgia (mono-no-aware) per quella effimera bellezza che ci circonda e che, come i fiori di sakura, si ha appena il tempo di ammirare; il senso profondo del mistero che sta dietro a ogni cosa (yu-gen). Gli haiku non-giapponesi? Per scrivere un buon haiku il pennello deve essere mosso dal cuore, non basta imitare il ritmo del verso (ritmo che oggi quasi più nessuno usa).

A che serve pubblicare, oggi, una raccolta di haiku, poemi provenienti da una cultura apparentemente lontana e da tempi sicuramente diversi?:

Permettersi di godere un poco di bellezza è un privilegio raro in questo mondo convulso e distratto. La mia traduzione dal giapponese ha tenuto presente non solo il contenuto letterario ma anche la resa del ritmo del verso, quell’intima armonia fatta di sonorità e silenzio che rende la poesia diversa dalla prosa.

Leggere haiku comporta il saper diventare il foglio di carta di riso sul quale, ancora una volta, spesso a distanza di secoli, il poeta traccia di nuovo il suo poema. La lettura di haiku è una forma di meditazione e perfino di contemplazione. Fermarsi all’estetica equivale a fermarsi alla buccia del frutto. Occorre entrare nella parola e andare oltre di essa.

FONTE:https://www.musubi.it/en/biblioteca/haiku/477-mp-haiku.html

 

 

 

Il museo civico di Leonessa

Mario Polia, Direttore

Il Museo Civico della Città di Leonessa è ormai una realtà. Dal mese di agosto del 2003, infatti, funziona regolarmente la Sezione Virtuale del Museo Demoantropologico.

Il Museo Civico si svilupperà nella sua interezza secondo un preciso programma di cui esponiamo qui i tratti essenziali.L’intero complesso architettonico che si articola attorno al chiostro dell’ex-convento di S. Francesco, sito nella via omonima, è stato adibito a sede dei servizi culturali della nostra città e sarà strutturato, d’accordo alle norme regionali vigenti, come Centro di Servizio Polivalente.Il Centro di Servizio comprenderà: il Museo Civico; l’Archivio Storico della Città; una Biblioteca Specializzata.Il Museo Civico, a sua volta, comprenderà queste due aree museali: Museo Demoantropologico (è in funzione la Sezione Virtuale) e Museo Archeologico (non ancora allestito).  

Il Museo Demoantropologico è strutturato in due sezioni:  

Sezione Virtuale (già in funzione), dedicata alla conservazione della memoria della gente dell’altopiano leonessano, raccoglie testimonianze orali, foto e documentari a disposizione dei visitatori. La filosofia che ha presieduto all’allestimento della Sezione Virtuale, e presiede alla sua gestione, è quella che privilegia il dato “immateriale” rispetto all’oggetto. Ossia, la tradizione nelle sue espressioni orali rispetto alle sue manifestazioni materiali. 

Compito precipuo di questa Sezione è, dunque, quello di salvare la tradizione orale trasferendo le fonti non-scritte ad idonei supporti -magnetici, informatici, cartacei- che permettono di salvaguardare questo prezioso patrimonio, il più soggetto ai processi di deculturazione e, dunque, al deterioramento ed all’oblio. Tre punti audio, anch’essi a disposizione del visitatore, raccolgono alcune delle numerose testimonianze raccolte mediante interviste dirette, testimonianze riguardanti la religiosità popolare, le leggende e le fiabe ed i mestieri tradizionali.Contemporaneamente, le espressioni della tradizione, come sono i gesti e le forme, i riti e le cerimonie della religiosità e della liturgia popolare, sono anch’esse opportunamente documentate in questa sezione.Due postazioni di computer permettono di accedere a due archivi fotografici: uno contenente foto d’epoca, suddivise per aree tipologiche, provenienti in massima parte dalle raccolte esistenti presso varie famiglie dell’altopiano leonessano. Secondo le nostre intenzioni, nel Museo Civico di Leonessa dovrebbe essere conservato il più importante archivio d’immagini del territorio. Un archivio del popolo e per il popolo accessibile anche ai visitatori. Il secondo archivio contiene testimonianze fotografiche dedicate alle espressioni della religiosità popolare.

Una terza postazione permette l’accesso ad un programma che illustra la storia di Leonessa; espone un profilo del patrimonio architettonico ed artistico della città ed un profilo dedicato al territorio ed alle sue risorse naturali e paesaggistiche oltre ad introdurre ai cicli di produzione ed alle ricette della gastronomia locale. Un secondo programma, a cura di Massimo Montanari, contiene un’esauriente e dettagliata panoramica della storia dell’alimentazione europea dalla tarda antichità ai nostri giorni. 

Sezione “Tracce, di prossima apertura, alloggiata nella porzione chiusa del piano superiore del chiostro. Questa sezione esporrà, per cicli tematici, gli oggetti usati nei mestieri tipici dell’altopiano (agricoltura, pastorizia, artigianato), quelli usati nella vita di ogni giorno e le testimonianze della cultura religiosa del popolo.  

Per “ciclo tematico” si intende una mostra con una durata di sei mesi o un anno dedicata ad un tema specifico, ad esempio le attività agricole tradizionali dell’altopiano leonessano quali la coltivazione del farro, del grano, della patata, o la produzione del latte e del formaggio; la religiosità tradizionale; l’espressività popolare, ecc. In ogni mostra tematica saranno esposti oggetti-simbolo, opportunamente selezionati in base al loro significato culturale, rappresentativi dell’attività cui la mostra si riferisce.

Attorno ad ogni oggetto sarà ricostruito, mediante idonei pannelli esplicativi, foto e disegni, punti-audio, ecc. l’ambiente ed i modi in cui l’oggetto era usato: per quanto riguarda, ad esempio, gli strumenti per fare il cacio o quelli usati nella panificazione non bisogna dimenticare che, oltre alla tecnica, ruotava attorno a questa delicata e importante operazione tutto un complesso di pratiche tradizionali di carattere magico-religioso come le invocazioni a San Martino per allontanare l’onnipresente e temuta “immidia” (l’invidia) e per propiziare la buona riuscita del lavoro, pratiche che vanno opportunamente documentate.

Nel volume che raccoglie ed espone sistematicamente il primo ciclo delle ricerche etnografiche intraprese dal nostro Museo -volume intitolato “Mio padre mi disse: religione e magia sui monti dell’Alta Sabina” di Mario Polia e Fabiola Chávez (ediz. Il Cerchio, Rimini 2002)- abbiamo fornito un’ampia selezione di tali formule ed un panorama delle antiche usanze vigenti presso il ceto rurale. Secondo i moderni criteri museografici, e le norme regionali che dettano le regole in materia di esposizioni museali, le testimonianze della cultura materiale e quelle della cultura spirituale debbono giustapporsi e integrarsi illuminandosi vicendevolmente. In tal modo, mediante tali testimonianze, sarà possibile comprendere appieno la realtà esposta nelle vetrine del Museo.  

La visita al Museo (a qualunque museo), infatti, deve mettere il visitatore -parliamo ovviamente di visitatori attenti e culturalmente motivati-  in grado di percepire la cultura del luogo in ogni sua espressione. Un museo ben allestito, comunque, dovrebbe essere in grado di attrarre anche l’attenzione dei visitatori meno attenti: è questa una sfida alla quale il nostro Museo non intende sottrarsi.

            Nel frattempo, il Museo Demoantropologico sta compiendo uno dei suoi principali obiettivi, se non il principale, svolgendo in modo metodico una ricerca capillare sul campo per la conoscenza e il salvataggio della memoria e della cultura tradizionale. Il secondo volume sulle tradizioni culturali del popolo leonessano, dedicato alle formule religiose, alle espressioni poetiche ed alla narrativa locale, è ormai pronto e vedrà la luce nei prossimi mesi. Nel 2003 è uscito, per le edizioni del Museo, il volume dello storico Mauro Zelli citato in nota nella scheda storica.

             Colgo qui l’occasione per ringraziare tutti i cittadini che hanno collaborato e collaborano con il Museo permettendoci di intervistarli: tutti costoro hanno compiuto un dovere civico di altissimo merito perché ogni loro informazione, anche la più piccola, unita alla mole di dati che andiamo continuamente raccogliendo, dopo essere stata opportunamente vagliata, comparata ed integrata, ci permette di ricostruire con il dovuto dettaglio e l’indispensabile metodologia scientifica il volto della cultura tradizionale. Ringraziamo anche tutti coloro che ci hanno donato oggetti per le esposizioni museali e ci aspettiamo future collaborazioni. Sono anche gradite foto d’epoca i cui originali, opportunamente riprodotti, resteranno in possesso di quanti ci permetteranno effettuare delle copie-laser. Un doveroso ringraziamento va al “Museo della Nostra Terra” di Ocre che ci ha concesso numerose fotografie già consultabili presso il Museo Demoantropologico. 

            Il Museo Archeologico, a sua volta, occuperà la suggestiva struttura architettonica conventuale sottostante il chiostro e conserverà le testimonianze più antiche della cultura locale rinvenute negli scavi eseguiti e ancora da eseguire sull’altopiano leonessano. Valle Fana, con le sue tombe a camera sabine (I secolo a.C.), è il primo anello di una lunga catena di ritrovamenti decisivi per la ricostruzione della storia più antica del territorio. Gli scavi sono iniziati. La nostra città può e, in virtù della sua lunghissima storia e della sua posizione di terra di confine fra culture diverse, deve giustamente aspettarsi molto dalla ricerca archeologica compiuta sul suo territorio. 

            I fondi per eseguire i lavori di restauro e la ristrutturazione architettonica degli ambienti sono già stati concessi ed i lavori inizieranno al più presto. Inoltre, la Provincia ha recentemente concesso l’acceso ai fondi regionali del 2005 i quali permetteranno di terminare in modo ottimale l’allestimento del Museo Demoantropologico includendo le vetrine della Sezione “Tracce”; ufficio; area di ricevimento del pubblico. 

Per quanto riguarda la futura Biblioteca Specializzata, si tratterà di una raccolta altamente selezionata di opere riguardanti la storia locale; gli studi demoantropologici sul territorio nazionale e i testi classici dell’antropologia, della demoantropologia italiana e dell’antropologia religiosa. A questo riguardo, il Museo ha già ricevuto una sostanziosa donazione di testi e documenti dovuta alla lodevole generosità del nostro concittadino Mauro Zelli cui la ricerca storica locale deve molto. Vogliamo qui ringraziarlo ed additarlo ad esempio.

Gli orari per la visita al Museo Demoantropologico sono i seguenti: ogni venerdì e sabato dalle ore 9 alle 12 e dalle 15 alle 18; la domenica dalle ore 9 alle ore 13. Durante il mese di agosto e fino al 12 di settembre il Museo è aperto dalle ore 9 alle ore 12 ogni giorno.

 

Per prenotare visite guidate fuori degli orari normali, telefonare al Comune di Leonessa:

0746-923212.

 

 

Giorgio Agamben – Requiem per gli studenti

 23 maggio 2020

Come avevamo previsto, le lezioni universitarie si terranno dall’anno prossimo on line. Quello che per un osservatore attento era evidente, e cioè che la cosiddetta pandemia sarebbe stata usata  come pretesto per la diffusione sempre più pervasiva delle tecnologie digitali, si è puntualmente realizzato.

Non c’interessa qui la conseguente trasformazione della didattica, in cui l’elemento della presenza fisica, in ogni tempo così importante nel rapporto fra studenti e docenti, scompare definitivamente, come scompaiono le discussioni collettive nei seminari, che erano la parte più viva dell’insegnamento. Fa parte della barbarie tecnologica che stiamo vivendo la cancellazione  dalla vita di ogni esperienza dei sensi e la perdita dello sguardo, durevolmente  imprigionato  in uno schermo spettrale.

Ben più decisivo in quanto sta avvenendo è  qualcosa di cui significativamente non si parla affatto, e, cioè, la fine dello studentato come forma di vita. Le università sono nate in Europa dalle associazioni di studenti – universitates –  e a queste devono il loro nome. Quella dello studente era, cioè, innanzitutto una forma di vita, in cui determinante era certamente lo studio e l’ascolto delle lezioni, ma non meno importante erano l’incontro e l’assiduo scambio con gli altri scholarii, che provenivano spesso dai luoghi più remoti e si riunivano secondo il luogo di origine in nationes. Questa forma di vita si è evoluta in vario modo nel corso dei secoli, ma costante, dai clerici vagantes del medio evo ai movimenti studenteschi del novecento, era la dimensione sociale del fenomeno. Chiunque ha insegnato in un’aula universitaria sa  bene come per così dire sotto i suoi occhi si legavano amicizie e si costituivano, secondo gli interessi culturali e politici, piccoli gruppi di studio e di ricerca,  che continuavano a incontrarsi anche dopo la fine della lezione.

Tutto questo, che era durato per quasi dieci secoli, ora finisce per sempre. Gli studenti non vivranno più nella città dove ha sede l’università, ma ciascuno ascolterà le lezioni chiuso nella sua stanza, separato a volte da centinaia di chilometri da quelli che erano un tempo i suoi compagni. Le piccole città, sedi di università un tempo prestigiose, vedranno scomparire dalle loro strade quelle comunità di studenti che ne costituivano  spesso la parte più viva.

Di  ogni fenomeno sociale che muore si può  affermare che in un certo senso meritava la sua fine ed è certo che le nostre università erano giunte a tal punto di corruzione e di ignoranza specialistica che non è possibile rimpiangerle e che la forma di vita degli studenti si era conseguentemente altrettanto immiserita. Due punti devono però restare fermi:

  1. i professori che accettano – come stanno facendo in massa – di sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente on line sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista. Come avvenne  allora, è probabile che solo quindici su mille si rifiuteranno, ma certamente i loro nomi saranno ricordati accanto a quelli dei quindici docenti che non giurarono.
  2. Gli studenti che amano veramente lo studio dovranno rifiutare di iscriversi alle università così trasformate e, come all’origine, costituirsi in nuove universitates, all’interno delle quali soltanto, di fronte alla barbarie tecnologica, potrà restare viva la parola del passato e nascere – se nascerà – qualcosa come una nuova cultura.

FONTE:https://www.iisf.it/index.php/attivita/pubblicazioni-e-archivi/diario-della-crisi/giorgio-agamben-requiem-per-gli-studenti.html

 

 

 

 

L’anarchia delle cose

Su Le cose inutili di Carlo Sperduti tra Campari e gamberetti ribelli

Le cose inutili di Carlo Sperduti è una storia che ben si inserisce nella migliore e assai surreale tradizione sperdutiana, capace di architettare, in poco più di un centinaio di pagine, fraintendimenti, paradossi ed elucubrazioni – ovviamente, inutili. Il romanzo, pubblicato per la prima volta nel 2015 per la casa editrice CaratteriMobili, è uscito questa primavera per la giovane pièdimosca, con alcune correzioni e lo slittamento temporale delle vicende narrate (adesso la narrazione ha inizio proprio nel 2015). È divertente notare, ma con Sperduti raramente qualcosa non lo è, che i cinque anni che separano le due edizioni potrebbero benissimo essere quelli vissuti allo sbando dal protagonista del libro, il tuttologo, milionario e ubriacone Vlado Merletti.

Cosa racconta Le cose inutili non è facilissimo da dire: servirebbe, come in un romanzo fantastico, una mappa. Su questa mappa potremmo provare a tracciare i caotici intrighi quotidiani e al limite dell’assurdo degli avventori del Baranoia, luogo in cui Vlado Merletti ha frequenti incontri con il Campari e i due amici Amando e Gioio. Quando all’improvviso viene lasciato dalla moglie decide si andarsene. Negli anni di assenza taglia i contatti con la famiglia, ma il popolo del Baranoia ne conosce le gesta grazie a taccuini che invia agli amici. Episodi, folli schegge narrative, dove Vlado fa i conti con oggetti decontestualizzati. Un gamberetto fritto sperduto in mezzo alla strada, per esempio. La storia è illogica e insensata e la struttura del romanzo ne è uno specchio efficace. Salti temporali, flussi inarrestabili di coscienza, punti di vista che si scambiano, divagazioni spronate da giochi di parole; la mappa che stiamo provando a tracciare diventa sempre più ingarbugliata mentre cerchiamo di appigliarci alle storie di Vlado, alle invenzioni della moglie, alla tresca che sua figlia ha con un libraio e che assume contorni inaspettatamente paranormali.

Ancora una volta, come nei suoi lavori precedenti, Carlo Sperduti intrattiene una partita con l’anarchia del reale.

Ancora una volta, come nei suoi lavori precedenti, Carlo Sperduti intrattiene una partita con l’anarchia del reale. I personaggi di Le cose inutili in maniera più o meno volontaria dovranno rendersi conto che ciò che sta loro intorno è predisposto alla ribellione e, nel narrarlo, Sperduti mette in scena una piccola epica, una battaglia giocata ad armi impari che non può mai esaurirsi, dato che gli umani sono testardi, mentre le cose inutili sono cose e basta, per quanto ribelli. Le vicende del Baranoia sembrano a prima vista scaturire da trasmissioni surreali giunte da un’altra dimensione, quando invece procedendo  nella lettura assumeranno contorni ben diversi. Risulterà evidente come si tratti semplicemente di una distruzione lenta e ossessiva della familiarità, cosicché quando avremo quasi terminato il romanzo il non familiare sarà ormai davvero poco assurdo, e l’inverosimile una conseguenza sensata di tutto ciò a cui abbiamo assistito fino a quel momento.

È ormai chiaro che Sperduti è uno di quei narratori che vivono d’ossessione; nei racconti come nei romanzi c’è una ricerca continua di smarrimento, di evasione attraverso la ricerca del dettaglio più sottile e inaspettato che è possibile ritrovare negli oggetti. La ribellione della materia, degli oggetti, in questo caso delle cose inutili è un mantra che si ripete. Per ogni personaggio o viandante del quotidiano che Sperduti getta in pasto alla realtà schizofrenica verrà insegnata una lezione: fare i conti con gli oggetti non porta mai a niente di buono. Questi si ribelleranno sempre: le cose non sono addomesticabili. Ne Lo Sturangoscia (Gorilla Sapiens, 2015), una sorta di romanzo epistolare scritto insieme all’altrettanto imprevedibile Davide Predosin, il carteggio riguardava il funzionamento dello sturangoscia appunto, una macchina fantastica utilizzata per tirare via il disagio dall’uomo; intorno all’invenzione si radunano altre innumerevoli stramberie, assurdi individui e organizzazioni losche, che causeranno ancor più smarrimento nel lettore. In Sottrazione (Gorilla Sapiens, 2016) la materia era la lingua stessa che andava, appunto, sottraendosi, le parole erano le vicende che venivano decostruite; anche qui, non mancavano episodi dove il fare troppo affidamento alla propria capacità di comprendere come le cose sono fatte porta al fallimento: «Se le cose dovessero svegliarsi, dopo tutto questo tempo, sarebbero affamate».

 

Una cosa inutile spalanca una voragine di ricerca infinita

Ne Le cose inutili però l’esplosione del senso è una forza infinita che continua a scorrere all’interno dei personaggi stessi e non si esaurisce mai nella materia o nell’azione; gli oggetti e gli eventi surreali con cui Sperduti circonda i suoi personaggi non sono apparecchi fantasmagorici e diabolici, capaci di istigare forze negative o positive. Gli oggetti e le vicende continuano a caricarsi di assurdo, sono una forza radioattiva che continua a rilasciare nonsense, che va a scuotere fino al midollo i personaggi. Più si osservano, più vengono tracciati schemi, più le cose inutili raddoppieranno. Alcuni, come Vlado, provano a fare ordine, tentano una rivincita sul mondo, non senza un approccio fanatico a là Peter Kien.

Forse questo gamberetto è stato inciso con cura, forse gli è stato inserito nel torace un messaggio e poi è stato richiuso attraverso tecniche di saldatura gamberistica di cui io, a dispetto delle mie vaste conoscenze in materia, ignoro l’esistenza.

Una cosa inutile spalanca una voragine di ricerca infinita: un’ossessione permette a un’altra ossessione di nascere, una deduzione porta a un’altra, più si cerca un senso nelle cose inutili più queste fanno sì che il senso e la ragione ne escano impoveriti. Vlado è un superstite, è onnipotente e tuttologo perché apparentemente ormai all’interno del flusso nonsense. Così è quasi naturale che il linguaggio che Sperduti utilizza sia imbizzarrito quanto le cose inutili che assediano il Baranoia. Nella scuola di Malerba, o di Campanile, si costruiscono fraintendimenti ed equivoci, tramite espressioni che assumono significati diversi. Si tratta di una panacea alle rigide certezze letterarie.

In quella indimenticabile contingenza le facoltà mentali del Merletti erano andate indebolendosi sin dal sesto bicchiere, ma né i suoi compagni né Linda né le cameriere avevano notato alcuna differenza tra gli sproloqui tuttologici di quella giornata e gli sproloqui tuttologici delle precedenti, cosicché i bicchieri erano diventati senza alcuna opposizione sette, poi otto, poi sòtto, poi ètte, finché Vlado si era convinto che al settimo fosse seguito l’ottimo e che in ciò non ci fosse nulla di male.

Equivoco, ambiguo, inaspettato, è in questo modo che il lettore ne esce ancora più stranito, confuso, ma non per questo viene allontanato dalla realtà. Come ho scritto prima, lentamente l’inverosimile diventa pane quotidiano. Basta entrare nel flusso non regolato da alcuna legge, imparare a saltare, prendersi come Vlado Merletti cinque anni per riempire taccuini, registrare e comprendere tutte le opzioni possibili che la realtà offre. Infine, Le cose inutili è divertente. Non vi fa ridere a bocca aperta, ma vi fa ghignare e, mentre voi vi prendete gioco del povero Merletti, le ‘cose inutili’ ridono di voi.

FONTE:https://www.ecodelnulla.it/lanarchia-delle-cose

 

 

 

SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

LE AUTOPSIE VIETATE – La precisazione del dottor Manera

Come ora è noto, fu dopo le cinquanta autopsie che il gruppo di medici lombardi scoprì e rettificò l’errore di diagnosi. Siccome non mi era ancora chiaro da chi fosse venuuto il divieto – dal ministro Speranza, ossia dal potere esecutivo? Dalla Procura di Milano, ossia dal giuidiziario?,  l’ho chiesto per mail al dottor Stefano Manera, il primo che nel famoso tweet segnalò l’errore di diagnosi. Ecco la sua risposta
La circolare diffusa il 2 aprile a tutti gli ospedali italiani dal Ministero della Salute retto da Roberto Speranza, diceva: “Per l’intero periodo della fase emergenziale non si dovrebbe procedere all’esecuzione di autopsie o riscontri diagnostici nei casi conclamati di Covid-19, sia se deceduti in corso di ricovero presso un reparto ospedaliero sia se deceduti presso il proprio domicilio“.

Questa indicazione ministeriale risale già all’inizio dell’epidemia perché gli ospedali autorizzati ad eseguire autopsie erano solo quelli dotati di sala autoptica con requisiti di sicurezza elevati (ospedale Sacco, PGXXIII, Spallanzani…).

Questa indicazione è stata interpretata ed utilizzata come divieto nel marasma gestionale.

Tutte le autopsie, tranne «quelle indispensabili», non erano da eseguire, lo comunicó il procuratore di Milano, Francesco Greco, in una circolare interna nella quale motiva a la decisione con «ragioni di sicurezza».

C’era tra l’altro anche il problema del luogo in cui sarebbero dovute essere svolte, ossia l’ospedale cittadino Sacco, che risultava «già oberato» a causa del virus che aveva colpito soprattutto la Lombardia.

La decisione fu presa su esplicita richiesta dell’istituto di Medicina Legale.

La saluto cordialmente e rimango a sua disposizione per ogni ulteriore chiarimento.

Dott. Stefano Manera

Grazie, dottore

Aggiungo l’intervista fattagli da Massimo Mazzucco:

VIDEO QUI: https://youtu.be/vnV3gIsprpQ

FONTE:https://www.maurizioblondet.it/le-autopsie-vietate-la-precisazione-del-dottor-manera/

 

 

 

Il presidente Trump in precedenza aveva minacciato di emanare regolamenti o addirittura di chiudere i siti di social media, incluso Twitter, dopo che quest’ultimo aveva etichettato i tweet del presidente con l’etichetta “fuorvianti”.

Il presidente Donald Trump firmerà a breve un ordine esecutivo “sui social media”, ha detto ai giornalisti il segretario alla stampa della Casa Bianca Kayleigh McEnany.

McEnany ha affermato per la prima volta che non era chiaro se il presidente l’avrebbe firmata sull’aereo durante il volo dal Kennedy Space Center o quando sarebbe tornato alla Casa Bianca, ma il direttore delle comunicazioni strategiche della Casa Bianca Alyssa Farah ha successivamente confermato che l’ordine doveva essere firmato giovedì.

Il presidente Trump su Twitter mercoledì ha scritto che le piattaforme sociali stanno cercando di censurare gli americani in vista delle elezioni di novembre, aggiungendo che hanno fatto lo stesso nel 2016.

​”Le grandi aziente di IT stanno facendo tutto il possibile per la CENSURA in vista delle elezioni del 2020. Se ciò accade, non abbiamo più la nostra libertà. Non lo lascerò mai accadere! Ci hanno provato nel 2016 e hanno perso. Ora stanno diventando assolutamente PAZZI. Rimanete sintonizzati!!!”

Martedì, Trump ha accusato Twitter di interferire nelle elezioni del 2020 per aver applicato etichette “di verifica dei fatti” a due dei tweet del presidente nei quali Trump sosteneva che il voto per corrispondenza avrebbe portato a “imbrogli” alle elezioni di novembre. Ha quindi segnalato che seguirà “grande azione”.

​”Twitter ha ora dimostrato che tutto ciò che abbiamo detto su di loro (e gli altri loro connazionali) è corretto. Seguirà una grande azione!”

I tweet di Trump sulle votazioni per corrispondenza

Martedì il presidente degli Stati Uniti si è unito ai membri del Partito Repubblicano nel criticare l’ordine esecutivo dell’8 maggio del governatore democratico della California Gavin Newsom, che ha richiesto che le votazioni per corrispondenza fossero consegnate agli elettori registrati prima delle elezioni presidenziali del 2020 a novembre.

Trump ha pubblicamente attaccato le votazioni per corrispondenza in entrata e ha fatto affermazioni non comprovate riguardo alle frodi associate al metodo, così martedì Twitter ha deciso di agire contro i suoi commenti sulle votazioni per corrispondenza.

La lotta di Twitter contro la “disinformazione”

La segnalazione mirata della piattaforma di social media invita gli utenti a “informarsi sui fatti relativi alle votazioni per posta elettronica”.

Secondo Twitter due tweet in questione “contengono informazioni potenzialmente fuorvianti sui processi di voto e sono stati etichettati per fornire un contesto aggiuntivo riguardo le votazioni per corrispondenza”.

Trump si è scagliato contro Twitter più tardi martedì sera, accusando la piattaforma di “interferire nelle elezioni presidenziali del 2020” e di “soffocare la libertà di parola”.

Twitter ha intensificato la segnalazione e la rimozione di “contenuti potenzialmente dannosi e fuorvianti” negli ultimi mesi, con la maggior parte dei contenuti relativi alla pandemia di coronavirus. La società è stata accusata di censura da parte di persone con punti di vista alternativi.

FONTE:https://it.sputniknews.com/politica/202005289131300-casa-bianca-lordine-esecutivo-per-i-social-media-verra-firmato-giovedi/

 

 

 

Cosa abbiamo imparato dal Covid-19. Anche per la cybersecurity

Il fattore umano e la formazione multidisciplinare sono strategici per affrontare le sfide della sicurezza informatica

Le persone possono fare la differenza sempre e dall’essere soggetti vulnerabili, possono rappresentare l’unico determinante punto di forza, a patto di prepararle e comunicare con loro adeguatamente. Questo è stato osservato chiaramente durante la pandemia e vale anche nella Cybersecurity. Se in parte era già noto, oggi tutto questo è stato ulteriormente provato.

Ne parliamo con Isabella Corradini, psicologa e criminologa, docente e Direttrice del Centro Ricerche Themis.

Cosa ha potuto osservare con i suoi colleghi in relazione al periodo di isolamento durante la pandemia?

Parlerei di un isolamento con conseguente distanziamento fisico, ma non sociale. Anzi, gli strumenti digitali ci hanno salvato dal punto di vista della socialità, consentendoci di acquisire una consapevolezza sull’importanza di questi strumenti come supporto nella quotidianità e nel mantenimento delle relazioni. Mi ha colpito nei primi giorni la serie di video con i caroselli dai balconi, con quel tono di “colore e folclore” orientato alla condivisione e sintetizzato nel messaggio “Uniti ce la faremo, andrà tutto bene”. A partire da quel momento io stessa ho consigliato di mantenere una sorta di quotidianità nell’esercizio fisico, nel rispetto degli orari rispetto al piano della giornata. Infatti, senza riferimenti ci si può demotivare se non anche deprimere. Invece, pensare in termini di progettualità è utile nel day-by-day, ma anche allo sviluppo di piani futuri. Psicologicamente tutto questo è molto importante e permette di allontanare l’ansia e i pensieri negativi. E arriviamo alla resilienza perché è proprio in momenti come questi che si dimostra quanto siamo resilienti. Lo possiamo attribuire ad individui, comunità, imprese. Individualmente o come organizzazione è cruciale la possibilità di fare fronte a situazioni difficili imparando dall’esperienza, soprattutto quella di tipo emergenziale e legata ad un problema serio.

Perché la resilienza è un concetto importante fine a sé stesso e maggiormente in relazione all’ambito pandemico e alla cybersecurity?

Non è detto che tutti l’abbiamo maturata, ma imparare dalle emergenze è fondamentale. La resilienza sviluppata in un momento di crisi è la cassetta degli attrezzi per il proseguimento delle attività. Chi l’ha maturata e si è reso conto della propria resilienza ha raggiunto il livello di autoconsapevolezza, che è sempre un punto di partenza fondamentale per qualsiasi percorso. Se applichiamo questo approccio alla cybersecurity, allora significa che anche le organizzazioni dovrebbero prendere esperienza da quanto accaduto per poi prepararsi in modo resiliente al prossimo futuro. Ovvero le organizzazioni devono rendersi consapevoli che possono essere coinvolte in una situazione critica e quindi preventivamente dovrebbero creare progetti di cyber resilienza, considerando come componente fondamentale quella del fattore umano. Solitamente a questa componente ci si riferisce con termini come “vulnerabilità del fattore umano”, “anello debole”, ma se adeguatamente preparato questo “fattore umano” può diventare un punto di forza. Citiamo la cyber resilienza intendendo il saper reagire; quindi il personale deve essere formato e addestrato per operare correttamente in una situazione di crisi. si può partire con la sensibilizzazione a mezzo awareness, ma non basta avere solo avere l’informazione, è necessario anche comportarsi coerentemente alla formazione ricevuta. In questo senso la cybersecurity awareness come leva per un cambio dei comportamenti e necessaria per sedimentare e interiorizzare il cambiamento.

Perché nelle organizzazioni il fattore umano sembra essere meno pronto in tema cybersecurity?

Perché il fattore umano è quello in cui si investe meno e quando si investe si investe male. Come “una patch di security” malamente applicata in ottica umana. Si deve pensare a dei percorsi di formazione e non a soluzioni puntuali erogate come una giornata singola. In questo senso è necessario ragionare in ottica progettuale. Per gestire il cambiamento si deve avere una idea del processo e sono cruciali le competenze.  Ma non parliamo di tecnicismi bensì competenze relative alle scienze sociali e al comportamento umano. Si deve lavorare sulle dinamiche comportamentali singole e di gruppo per realizzare il tema della preparazione nella cybersecurity coniugata al benessere sui luoghi di lavoro.

Come si può favorire la cultura della cybersecurity nelle organizzazioni?

Per farlo è necessario mettere al centro le persone e creare ambienti di lavoro sani e collaborativi.  Lavorando su questo tipo di ambienti si conseguono ricadute positive anche nella cybersecurity. Le dinamiche di team sono importantissime. Se non vengono considerate o considerate accessorie, manca una componente. Nel mio libro “Building a Cybersecurity Culture in Organizations” ho raccolto circa venti anni di esperienza nell’ambito della sicurezza iniziando dalla safety, passando per la sicurezza fisica e approdando infine alla cybersecurity. Ho voluto rappresentare una vision della cybersecurity focalizzandomi e partendo dal concetto di cultura perché i termini hanno valore. Ho parlato di costruzione di cultura per colmare il gap di preparazione agli eventi avversi che la cybersecurity a volte comporta. Ci si focalizza sulle credenze, opinioni, e valori delle persone e si rapportano alle tematiche di cybersecurity ma anche ai temi più generali delle tecnologie dell’informazione.

Si tratta di comprendere come le persone si comportano rispetto ai rischi e ai problemi e il livello delle loro percezioni. Se si vuole creare questa cultura per la cybersecurity è necessario saper comunicare correttamente e coinvolgere le persone rendendole partecipi di un processo di cambiamento, come parte integrante della cultura organizzativa, proprio perché questo è un processo richiede tempo risorse e competenze e una chiarezza di visione.

FONTE:https://www.infosec.news/2020/05/28/news/risorse-umane/cosa-abbiamo-imparato-dal-covid-19-anche-per-la-cybersecurity/

 

 

 

FACEBOOK vs TWITTER

ZUCKERBERG dice a DORSEY che non può ergersi a giudice della verità. Intanto TRUMP prende la libertà di parola sotto la sua protezione

28 Maggio 2020 posted by Leoniero Dertona

Zuckerberg di Facebook se la prende con Jack Dorsey di Twitter in una intervista alla NCBC e gli dice: Caro Jack non sei il Padreterno e non puoi giudicare cosa sia vero o meno.

La discussione parte dalla vicenda che ha coinvolto il presidente Donald Trump che si è visti “Debunkerizzati”, cioè contestati con un link. Donald Trump contestava la sicurezza del voto per corrispondenza,  ed i Debunker di Twitter (tutti anti- Trump, inutile specificarlo) gli hanno aggiunto un link con le loro “Verità”.

GEt The Fact prendi i fatti, significa dare per scontato che quello che dice Trump non sia vero. Eppure i dubbi sul voto per corrispondenza sono molteplici, basta chiederlo agli italiani all’estero ed alle numerose contestazioni in materia.

Zuckerberg ha detto:

“Non penso che Facebook o le piattaforme internet in generale debbano essere arbitri della verità… Il discorso politico è una delle parti più sensibili in una democrazia ed il popolo dovrebbe  poter sapere quello che dicono i politici”. 

Bisogna dire che alla fine Jack Dorsey è stato costretto a correggere il debunking, dicendo che intendeva che solo gli iscritti ricevono le schede elettorali (Ballot in inglese), una excusatio non petita che, alla fine, indica come probabilmente i suoi debunker avevano effettivamente preso un topica. Più o meno come i pessimi, superficiali e partigiani debunker italiani

Trump sta per lanciare un’iniziativa contro la censura online sulle piattaforme che, non casualmente, viene a colpire sempre la destra e mai la sinistra, anche la più violenta ed estrema. Quindi Trump, con un ordine  esecutivo, mette il rispetto della libertà di parola nelle piattaforme online, sotto il controllo della FCC, la Commissione Federale per le Comunicazioni. Quindi i cancellati da Twitter ed assimilati, almeno negli USA, hanno ora una autorità a cui rivolgersi che proteggerà la loro libertà di parola.

FONTE:https://scenarieconomici.it/facebook-vs-twitter-zuckerberg-dice-a-dorsey-che-non-puo-ergersi-a-giudice-della-verita-intanto-trump-prende-la-liberta-di-parola-sotto-la-sua-protezione/

 

 

 

 

RAI PER TE, PER TUTTI (LORO)

Rai per te, per tutti (loro)I principali problemi, non ancora risolti, di carattere strutturale limitano la potenzialità tecnico-produttiva dell’azienda.

Rai “per te, per tutti”, era il famoso slogan con cui l’azienda si presentava al pubblico del piccolo schermo, solo che quel “tutti” ha sempre più riguardato, nel tempo, più “tutti” coloro che di questa prestigiosa azienda ne hanno voluto fare un proprio feudo. Infatti, sono proprio di queste ultime settimane, i rumors che continuano a circolare insistentemente sul cambio ai vertici della Rai e che si fanno sempre più insistenti, sembrerebbe che dietro queste voci ci sia una precisa tattica. L’ipotesi più calzante sembra essere quella di una strategia che porti alle dimissioni di due consiglieri, naturalmente nel nuovo Consiglio poi riconfermati, per consentire l’azzeramento dell’attuale Cda, se l’attuale amministratore delegatoFabrizio Salini, dovesse scegliere un nuovo incarico altrove.

La manovra, pensata nelle segrete stanze della maggioranza di Governo, servirebbe anche ad anticipare le nomine e risulterebbe utile in vista di una eventuale caduta del premier Giuseppe Conte, questo eviterebbe al M5s e al Pd, nel caso di un Governo di larghe intese, di ottenere meno spazio rappresentativo. Si continua in questo modo sempre a guardare il dito che indica la luna e non la luna, perché quello che occorrerebbe analizzare sono i problemi che la Rai ha in sé. Sono un esempio i principali problemi, non ancora risolti, di carattere strutturale che limitano la potenzialità tecnico-produttiva dell’azienda, producendo effetti indesiderati tanto sul conto economico quanto sulla produzione radiotelevisiva.

La Rai dispone di un ampio organico escludendo tra questi i collaboratori artistici e i consulenti di vario genere. Nel corso degli anni, l’azienda è stata sottoposta a un notevole processo di razionalizzazionesvecchiamento ed efficienza della propria forza lavoro. Tuttavia, se si considera l’effetto dirompente delle politiche di outsourcing che hanno limitato moltissimo il perimetro di attività di competenza delle strutture del gruppo Rai, congiuntamente all’incremento di collaboratori esterni, si deduce che il rapporto tra lavoratori e attività gestite è significativamente aumentato. In questo ragionamento è trascurabile l’incremento dell’offerta Rai in quanto gestita da società costituite, quasi sempre, da semplici spin-off di strutture aziendali già operanti in precedenza.

Al contrario, la creazione di una costellazione societaria, derivante dai criteri strategici dei primi anni 2000, non ha fatto altro che portare all’aumento delle risorse necessarie a gestire le singole spa (si faccia riferimento, ad esempio, ai consigli di amministrazione piuttosto che alle funzioni di staff). La principale motivazione dell’incremento complessivo di risorse (in aggiunta alle palesi logiche clientelari che hanno informato, da sempre, i processi di reclutamento) risiede nella consapevolezza che alcuni manager Rai (sia essi dedicati a responsabilità editoriali/produttive piuttosto che a funzioni di supporto) hanno assunto nel corso degli anni, è molto più facile ed efficiente gestire (si legga “ottenere risultati da”) un collaboratore esterno piuttosto che un dipendente a tempo indeterminato.

L’ovvia motivazione del cosiddetto “ricatto” lavorativo, verso un lavoratore al quale deve essere periodicamente rinnovato un contratto verso la totale certezza dell’inamovibilità di un lavoratore a tempo indeterminato, è sufficiente a spiegare questo tipo di fenomeno. L’estremizzazione di questo concetto è stata la politica di outsourcing che altro non è che un ulteriore livello di ricorso a manodopera esterna molto più “maneggevole” delle omologhe risorse interne che, tra l’altro, va precisato, nulla hanno da invidiare a quelle esterne. Se tale criticità ha effetti sulla parte medio-bassa della forza lavoro, si possono facilmente ipotizzare gli effetti sul management, e in particolare sul top management. Infatti, anche volendo trascurare la fascia altissima di dirigenti è banale diventare consapevoli dell’effetto di un mancato controllo del vertice sulla classe dirigente e delle conseguenze sulla capacità dell’azienda di definire, ma soprattutto di mantenere, i seppur minimi indirizzi strategici.

Quanto scritto può essere riassunto con una sola espressione: mancanza di governance in alcuni livelli aziendali. Questa criticità è il vero problema che rende la Rai molto spesso ingovernabile ed è causa delle principali critiche che sono rivolte, in alcuni casi, al management del Gruppo. Se, da un lato, lo stesso problema può affliggere in parte altre aziende, tanto private che pubbliche, in Rai è evidente che questo fattore coinvolge tutti i livelli dell’organigramma. Risulta anche inutile ragionare sulle motivazioni storiche che hanno portato a questo stato, la motivazione sulla quale si basa questo sistema di mancata governance è l’assoluta consapevolezza d’impunibilità (a fronte delle proprie prestazioni) che ogni dipendentedirettore od operaio che sia, ha assunto nel corso del tempo, a fronte di tale consapevolezza, si affianca una parallela certezza di una quasi totale assenza di una politica premiante che, al contrario, differenzi coloro che offrono prestazioni  all’altezza della loro retribuzione. La soluzione ovviamente non è immediata e tantomeno semplice. Tuttavia, il protrarsi di questo problema rende pressoché sterile qualunque tentativo di agire sulla leva organizzativa, ossia di definire un organigramma funzionale, divisionale, centralizzato o di qualunque conformazione ipotizzabile che, in ogni modo, sarà reso completamente inefficiente e inefficace dalle persone che vi operano internamente.

Uno dei settori più penalizzati da questa logica è, senza dubbio, quello creativo. In queste aree, principalmente le reti televisive, il mancato controllo centrale si concretizza nella quasi continua violazione dei tentativi di coordinamento del palinsesto (di responsabilità, per l’appunto, di una Direzione che dovrebbe essere super partes alle reti e ai loro interessi peculiari) e dei budget di spesa assegnati. Il derivante disinteresse per il contenimento dei costi e la corrispondente impunità dei responsabili porta a un ulteriore effetto perverso, l’esternalizzazione dell’ideazione dei programmi a favore di produttori esterni che, ideatori e realizzatori di format per quasi tutte le televisioni europee, garantiscono risorse molto competenti e una sorta di “polizza di assicurazione” contro eventuali fallimenti dei programmi. In realtà, tale condizione d’ingovernabilità ha di solito contraddistinto la storia della Rai.

A prescindere, infatti, da oscillazioni di governance derivanti da fattori di stabilità politica, il comportamento dei responsabili delle strutture di core business, ossia reti e testate, si è sempre contraddistinto per una pressoché totale indifferenza verso le linee guida impartite dal vertice aziendale, considerato quasi come un ostacolo rispetto all’unico obiettivo del raggiungimento del massimo risultato di share possibile. Ciò che connota il periodo attuale è la difficile congiuntura economica che potrebbe rivelarsi strutturale, in altre parole, il crash degli introiti derivanti dalle due uniche fonti di ricavo, canone e pubblicità, proprio quest’ultima voce potrebbe portare a conseguenze molto pesanti che potrebbero impattare sullo stesso buon andamento dell’azienda. Infatti, non sono trascurabili il forte calo pubblicitario, la programmazione senza visione, gli ascolti in molti casi, in affanno e la piattaforma digitale che lo stesso marketing Rai ha definito sconosciuta.

Se, infatti, si considera che, mentre in Rai si continua a discutere sulle attribuzioni dei poteri, la pubblicità è stata progressivamente erosa dall’ampliamento dell’offerta satellitare (che scardinerà sempre più la falsa proiezione statistica dei dati Auditel, portando gli investitori pubblicitari a dirottare i loro investimenti dalla tv generalista alla tv tematica satellitare), si può facilmente ipotizzare un trend di progressivo impoverimento delle risorse che potrebbe portare al collasso del sistema. In conclusione, la definizione di strumenti che supportino il vertice aziendale nel recupero del controllo della tecnostruttura costituisce il primario obiettivo rispetto a qualunque operazione, tanto di modifica organizzativa, quanto d’inserimento di nuove risorse, tanto umane quanto economiche. Questo è il vero problema, occorre come sempre una visione imprenditoriale che guardi ai risultati e non alle poltrone.

 

 

DIRITTI UMANI

IL PARROCO BRESCIANO SOTTOPOSTO A TSO

 

Così don Gianluca è stato prelevato e portato via. Per il reato di “diverso pensiero

A Castelletto di Leno (millecinquecento abitanti, provincia di Brescia) c’era una volta un parroco. Questo parroco si chiamava don Gianluca Loda e aveva una strana abitudine. Anzi, tre. La prima era quella di pensare con la sua testa, la seconda era quella di dire ciò che pensava, la terza quella di pensare cose piuttosto diverse da quelle imposte dal pensiero dominante.

Per esempio, nell’aprile del 2017 don Gianluca disse che in Europa è in atto un’invasione islamica pianificata, studiata e calcolata a livello mondiale, denunciò la profanazione di un presepio nella sua frazione, invitò a riflettere sulla crisi demografica, disse che i nostri governanti, a Roma come a Bruxelles, si allontanano sempre di più dalla vita concreta delle persone e si preoccupano solo della grande finanza, li invitò a riflettere sulla Brexit, denunciò l’arrendevolezza di fronte alla Turchia di Erdogan e, in polemica con il politicamente corretto che impone di fare l’elogio del dialogo, aggiunse: “Si dice che il confronto con altre culture e civiltà arricchisce; ed è vero. Però, mi permettete, non vorrei far cambio con la cultura e con la civiltà di nessun altro; mi sento contento della mia. Oggi lo posso dire ancora liberamente. Ma fino a quando?”.

Già. Fino a quando?

Le cronache ci dicono che don Gianluca di recente è stato prelevato dalle forze dell’ordine e portato in ospedale “per accertamenti”.

Ospedale? Accertamenti? E perché?

Perché giorni fa, in polemica contro le restrizioni imposte dalle autorità, il suddetto don Gianluca pranzò in piazza, all’aperto, insieme ad altre quattro persone (quattro operai arrivati da Treviso per realizzare alcuni lavori nella chiesa). Fu multato (quattrocento euro), ma mangiò all’aperto anche alla sera (questa volta da solo: una pizza) e tornò a rivendicare il diritto di pensare con la sua testa, senza cedere al clima di terrore.

Non solo. In precedenza, circa le restrizioni imposte alla Chiesa cattolica causa coronavirus, don Gianluca disse che le autorità ecclesiastiche sono “prone al potere”, che per il governo “noi cattolici contiamo meno del pallone, meno della Serie A… meno dei cani”. Poi, già che c’era, aggiunse riflessioni tipo che “i lombardi vanno bene al governo solo per spremerli con le tasse”, che “gli italiani vanno bene all’Europa solo per far funzionare il carrozzone dei marpioni della massoneria” e, dulcis in fundo, che “i cattolici vanno bene finché fanno opere sociali e tamponano i buchi dello Stato”.

Domanda finale di don Gianluca: “Secondo voi è un mondo che gira giusto?”.

Ora, specificando che non ho mai conosciuto don Gianluca e mai ho avuto occasione di parlare con lui, mi sembra di poter dire che le sue osservazioni, certamente espresse in modo alquanto diretto, non sono tanto strane.

Eppure…

Eppure, un bel giorno a casa di don Gianluca si presentarono la polizia locale, i carabinieri e i vigili del fuoco (mancavano solo i Marines), i quali, dopo aver forzato una finestra, entrarono nella canonica (il che, se non ricordo male, si chiama violazione di domicilio), lo prelevarono e lo portarono in ospedale (il che assomiglia molto a un sequestro di persona).

Direte: ma la diocesi non ha protestato?

Volete scherzare? Certo che no. Anzi, la diocesi ha diffuso una nota nella quale si legge: “Alcuni comportamenti di don Gianluca Loda negli ultimi giorni sono frutto di un evidente disagio personale. In questo frangente, il vescovo e i suoi collaboratori, dopo un momento di ascolto e con la consulenza del medico curante, hanno concordato con don Gianluca di mettere in atto una serie di azioni per recuperare al più presto una condizione personale più serena. Nelle prossime settimane, pertanto, l’attuale parroco di Castelletto di Leno sarà assente dalla parrocchia e sarà accompagnato in un percorso di verifica e di sostegno che gli consenta un pieno ristabilimento”.

Ripeto ad abundantiam: non ho mai conosciuto don Gianluca e non so nulla del suo stato di salute fisica e mentale. Circa le dichiarazioni fatte nel 2017, sento di poter dire che mi trovo piuttosto d’accordo con lui. Idem per quanto riguarda le più recenti. E quanto al pranzo all’aperto, credo che non abbia infranto alcuna norma. Tuttavia, nei suoi confronti sono scattate queste che la curia diocesana molto carinamente chiama “azioni per recuperare al più presto una condizione personale più serena”.

Il caso di don Gianluca mi fa venire alla mente per analogia quello del signor Dario Musso, che a Ravanusa in provincia di Agrigento, lo scorso 2 maggio andò in giro per le strade della sua città con un megafono, invitando i concittadini a uscire, a riprendere le loro attività lavorative e a non cedere al clima di terrore.

Risultato? Il signor Musso fu intercettato dalle forze dell’ordine, gettato a terra, sedato, prelevato, portato all’ospedale di Canicattì e immobilizzato in un letto di contenzione. Un Trattamento sanitario obbligatorio, che dovrebbe essere autorizzato solo in casi di grave pericolo per la comunità e invece in questo caso è scattato per presunti sintomi di “scompenso psichico e agitazione psicomotoria”.

Molto bene. Ora lo sappiamo. In questo paese chi pensa con la propria testa, e dice quel che pensa, e pensa in modo diverso rispetto al pensiero dominante, da un momento all’altro, pur non avendo infranto la legge, può essere (usiamo le belle parole della curia bresciana) “accompagnato in un percorso di verifica e di sostegno che gli consenta un pieno ristabilimento”.

Non vi sentite più sicuri?

A.M.V.

A questa gerarchia si applica  a pennello  la furente e appassionata apostrofe di Danilo Quinto  a difesa di un altro sacerdote perseguitato dai vescovi:

Gesù ha già vinto e i nomi dei Suoi amici sono scritti nei cieli. Voi vivete nelle tenebre. –

Danilo Quinto – 24.05.2020

“Un eroe del nostro tempo”. Dedico a padre Leonardo Ricotta, parroco a Sant’Agata (Palermo-Villabate) – rimosso dal suo ufficio per aver pubblicamente e umilmente difeso la Santa Eucaristia e aver rifiutato di applicare il protocollo firmato dalla Cei, sacrilego e abusivo, perchè quest’organismo non ha alcuna competenza nel dettare ai vescovi norme che riguardino la liturgia – il titolo di uno straordinario romanzo di Vasco Pratolini, che i ragazzi farebbero bene a leggere, se gli insegnanti di Lingua Italiana di oggi avessero ancora voglia d’insegnare e di consigliare buoni testi ai loro studenti, piuttosto che quelli che costituiscono il “catalogo” dell’ideologia dominante.

 

La dedica è fatta con un’avvertenza: il termine “eroe” dovrebbe essere sostituito con il termine “martire” e al termine “tempo” bisognerebbe aggiungere l’aggettivo “infame”.

 

In questo tempo infame – dove i lupi sono scesi a valle ansimando e ringhiando, prima di andare a mordere e dilaniare i corpi dei buoni, in attesa di essere definitivamente abbattuti da Colei che ne ha ricevuto mandato da Dio – le persecuzioni dei cristiani, che Gesù aveva preannunciato e sulle quali si fonda l’essenza del Cristianesimo, nato sulla Croce che Cristo ha accettato e che il cristiano, per imitarLo nella perfezione, deve abbracciare per tutta la sua vita – proseguono senza sosta e chi le riceve è amico di Colui che ha indicato la “porta stretta” per vivere nel Paradiso per l’eternità ed opera su questa Terra, guardando il Cielo, per la gloria immensa e infinita di Dio, che giudicherà i traviati dalle forze demoniache, che hanno quasi esaurito il tempo a loro concesso.

 

«In un giorno qualsiasi» – come ha ricordato padre Ricotta – «ci sarà il giudizio di Dio» e «In un giorno qualsiasi, scenderà il fuoco dal Cielo».

 

Il fuoco divorerà i protagonisti della vicenda vissuta in questi mesi: coloro che rivestono ruoli di potere e che hanno ideato, sviluppato e vorrebbero portare a termine questo gigantesco e diabolico programma di distruzione della Chiesa Cattolica e di controllo e annientamento dell’umanità. La grandezza del Cristianesimo è dimostrata proprio da questo: dai secoli che ci sono voluti per giungere a questo punto, perchè questo programma ha radici lontane nel tempo, che oggi conoscono il loro epilogo.

 

Come appare sempre più accecante, i “due piani” procedono all’unisono e i due poteri – quello civile e quello ecclesiastico – sono indissolubilmente legati in un patto sodale con il Male. E’ come se i personaggi di questa vicenda, ciascuno per la loro parte in “commedia”, incarnino quei  malfattori che duemila anni fa, avvolti nell’oscurità delle tenebre, che attesero Gesù in quel giardino che si trovava al di là del torrente Cedron. In quel luogo, il Getsemani, dove l’uomo che mai si sarebbe potuto pentire – perchè condannato fin dall’inizio, così come tutta la sua generazione per l’eternità – consegnò l’Uomo-Dio, la Persona-Dogma, ai Suoi carnefici.

 

Quegli uomini d’allora, così come quelli di oggi – che tanto si dimenano per celare la loro iniquità e per apparire buoni e fedeli tutori di un ordine da loro stessi costituito, che calpesta tutti i princìpidel diritto naturale, la cui realtà costituisce parte integrante della dottrina cristiana, perchè è «la partecipazione della legge eterna nella creatura ragionevole ed è impressa nella coscienza di ogni uomo all’atto della sua creazione» (“Libertas praestantissimum”) – non si accorsero che Gesù, anche nel Getsemani, non pensò minimamente, pur potendelo fare, a preservare se stesso da quell’arresto che avrebbe segnato l’inizio della sua agonia. Dalla Croce, straziato dalle sofferenze, avrebbe pensato e agito a favore dei nemici che Gli erano attorno e rivolgendosi a Suo Padre, avrebbe detto: «Padre, perdona loro, perchè non sanno quello che fanno». La sera del Getsemani pensò e agì per i Suoi amici e rivolto ai soldati romani e alle guardie fornite dai sommi sacerdoti e dai farisei, pur conoscendo tutto quello che gli doveva accadere, si fece innanzi e disse: «”Chi cercate?”. Gli risposero: “Gesù, il Nazareno”. Disse loro Gesù: “Sono io!”. Vi era là con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse “Sono io”, indietreggiarono e caddero a terra. Domandò loro di nuovo: “Chi cercate?”. Risposero: “Gesù, il Nazareno”. Gesù replicò: “Vi ho detto che sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano”» (Gv 8, 4-8). Volle così salvare i Suoi discepoli che L’accompagnavano, pur sapendo che tutti – tranne Giovanni – al momento della prova, L’avrebbero abbandonato e uno di loro perfino rinnegato tre volte. Erano, però, Suoi amici. Li aveva scelti Lui e loro avevano scelto di seguirLo, di rispondere “sì” al dono della grazia che avevano ricevuto. Fece questo, riporta Giovanni (18, 9): «Perché s’adempisse la parola che egli aveva detto: “Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato”».

 

Anche nelle tenebre che viviamo oggi, che preludono i tempi del giudizio finale, Gesù non perderà nessuno di coloro che, toccati dalla grazia, Gli rimarranno fedeli e che combatteranno – con l’armatura dello Spirito Santo – i membri di quell’establishment civile ed ecclesiastico che sta governando, per i suoi fini malvagi e perversi, questo periodo della vita dell’umanità.

 

Il potere civile – davanti al quale la gerarchia ecclesiastica si è prostrata, dismettendo il suo mandato, che non è quello di assecondare la menzogna, ma di proclamare sempre la Verità, chè una sola e di portare le anime alla salvezza eterna – dopo aver condotto l’umanità in una situazione che non ha precedenti, neanche rispetto ai livelli di crisi raggiunti dopo le guerre mondiali, teme (e lo fa scrivere dai suoi uomini, cosiddetti scienziati, su riviste definite scientifiche) che il virus scompaia prima che sia pronto, prodotto e distribuito il vaccino, per il quale occorrono tempi medio-lunghi (c’è chi dice un anno o un anno e mezzo), perchè bisogna testare sul campo la sua efficacia. Oltre che dati oggettivi – l’andamento della curva del contagio e I dati sulla mortalità – da tutti verificabili, il timore deriva anche dalle previsioni che scienziati autorevoli (israeliani) hanno fatto sin dal mese di aprile sulla scomparsa del virus entro 70 giorni dal picco di contagio. Per l’Italia siamo molto, molto vicini, a questa meta.

 

Il potere, però, “non molla la presa”. Dal 25 maggio inizierà a svolgere test sierologici su un campione di 150.000 persone scelte dall’Istat, pur sapendo che questi testi hanno scarsi risultati di attendibilità e soprattutto possono evidenziare casi di “falsi positivi”. C’è chi, come il presidente della regione Emilia-Romagna – ma i casi stanno diventando molteplici – va ad affermare in televisione che andrà «a prendere i contagiati ad uno ad uno, casa per casa». Si stanno già preparando ad introdurre obblighi o limitazioni gravissime alla libertà (ancora più gravi di quelle decise fino ad oggi e che riguarderanno, noi crediamo, innanzitutto i bambini e i ragazzi, con l’obbligo, che sarà sancito, di vaccinarsi per frequentare la scuola) per chi non volesse sottoporsi al  “marchio di fabbrica” del vaccino. Stessa cosa avverrà per il controllo attraverso le nuove tecnologie (il 5G), che vengono installatte dappertutto, nel silenzio totale del sistema mass-mediatico ufficiale e per le app di controllo della popolazione, che hanno il fine di varare una “patente sanitaria”, senza la quale sarà impossibile essere soggetti di diritti, così come sta già accadendo per il vaccino anti-influenzale (proposto come obbligatorio nel Lazio da Luca Zingaretti per gli over 65 e dalla proposta di legge presentata dalla deputata di Forza Italia, Maria Stella Gelmini per tutto il Paese, che ha obiettivi analoghi e che si vorrebbe imporre anche ai bambini di 6 mesi, colpiti da altre patologie).

Questi signori, però, non hanno fatto i conti con Dio. Nel disegno di origine diabolica al quale abbiamo assistito e stiamo assistendo, l’intervento di Dio si è già visto. I medici di Bergamo hanno “disobbedito” o non hanno tenuto conto dei consigli contenuti nelle direttive ricevute dal Ministero della Salute agli inizi del mese di febbraio e ai proclami degli scienziati o pseudo-tali, ufficiali e molti dei quali prezzolati per le loro apparizioni televisive ed hanno disposto le autopsie di 50 persone decedute. Si è, quindi, scoperto che non si moriva per polmoniti interstiziali, ma per trombi che colpivano l’organismo e che i respiratori polmonari non facevano che accelerare la morte delle persone, che da un certo momento in poi sono state curate – anche a casa, nei casi meno gravi, per questa ragione si sono svuotati i reparti Covid – con il protocollo di eparina, clorochina e antibiotico. Un clinico cattolico, il prof. Giuseppe De Donno, di Mantova, ha dovuto – come egli stesso ha raccontato – divenire personaggio pubblico per raccontare e documentare che con le trasfusioni di plasma iperimmune stava salvando decine di vite e, nonostante l’invio immediato dei controlli nel suo ospedale e l’ostilità, l’ostracismo e il disprezzo che ha ricevuto, al protocollo della “terapia” da lui attuata insieme ai clinici dell’ospedale di Pavia, è interessato mezzo mondo e molte regioni italiane la stanno adottando. Un’altra verità è emersa in questi giorni, grazie agli studi dell’Università di Genova, che ha accertato che casi di polmoniti interstiziali anomale sono stati diagnosticati in Liguria sin dagli inizi del mese di dicembre. Molti medici di base di altre regioni confermano questo dato. Qualcuno, quindi, sapeva. Qualcuno ha segnalato questi casi? Perchè non si è intervenuti prima che il virus si diffondesse nella popolazione e si realizzasse una strage di persone anziane, come quella che c’è stata? E’ ormai evidente che un numero considerevole dei morti che ci sono stati – molti di più di quelli ufficiali, come raccontano i dati dell’Istat – si sarebbe potuto evitare se si fosse agito diversamente fin dall’inizio: se si fossero adottate misure di precauzione per le persone fragili; se si fosse deciso un lockdown breve, immediato e limitato nel tempo; se si fossero fatti parlare gli operatori che erano sul campo. Nessuno pagherà le sue responsabilità. Ne siamo certi. Perchè il potere ha strumenti formidabili di copertura e di solidarietà.

 

D’altra parte, la politica – rispetto alla quale il cattolico che vive il suo tempo ha il dovere non solo di guardare, ma di giudicare e di correggere nei suoi comportamenti – ha mostrato, in questi mesi e nel suo insieme, tutta la sua mediocrità. Riteniamo che da quando esiste in Italia l’Istituzione Parlamento – storicamente si può risalire fino al primo Parlamento Sabaudo – mai vi sia stata, come oggi, una “rappresentazione” così evidente della decadenza morale, intellettuale e civile nella quale siamo immersi.

 

Un papa che non amo, Paolo VI, definì la politica la “più alta forma di carità”. La carità è amore e quest’espressione racchiude il connotato più nobile di quello che si deve intendere per “politica”, alla quale l’attuale ceto politico è totalmente e nella sua interezza estraneo. Anche chi ora o nei decenni passati si è proclamato cattolico, non ha mai vissuto la politica da cattolico.

 

Per il cattolico, la politica – come qualsiasi attività umana – dev’essere governata dal “frutto dello Spirito”, che – come afferma San Paolo nella Lettera ai Gàlati, 5, 22-25 – «è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di s黫Contro queste cose» – aggiunge San Paolo – non c’è Legge. Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito».

 

Tutto, nella politica e nella società che viviamo si muove e va avanti – invece – per salvaguardare interessi ed egoismi economici precostituiti, pre-politici, desideri della carne. Della persona umana, delle sue aspirazioni, dei suoi sogni, della sua necessità vitale di acculturarsi, di elevarsi spiritualmente e quindi anche dei suoi bisogni materiali – perchè la miseria è il naturale prodotto dell’ignoranza – a questo Paese e al suo ceto politico e dirigente non importa assolutamente nulla. Altro che “Nuovo Umanesimo”. Per realizzare una buona politica non è necessario nè richiamarsi a categorie atee, nè creare nulla di “nuovo”. Sarebbe sufficiente seguire gli insegnamenti del più grande legislatore civile che la storia dell’umanità abbia mai avuto: Gesù Cristo.Questo ceto politico, così come quello delle decadi precedenti (che aveva firmato e fatto approvare tutte le leggi anti-umane che conosciamo, dall’aborto al divorzio), non è manifestamente in grado di farlo, altrimenti non avrebbe consentito che i battezzati al Cristianesimo, che ha dato identità storica, culturale e spirituale al popolo italiano ed europeo, vivessero per tre mesi, nel tempo pasquale, senza Santa Messa e senza Santa Eucaristia, per sottoporre poi quanto di più sacro hanno i cattolici, a misure coercitive e sacrileghe; così come non avrebbe consentito che gli italiani, nella loro totalità, si trovassero e vivessero in una morsa totalitaria, realizzata con il combinato disposto di un controllo sanitario, collettivo e personale, senza precedenti e dalla riduzione in uno stato di povertà, di fame e di lotta per la sopravvivenza, di cui vediamo solo i primi prodromi.

Che cosa fare?

 

Sul piano umano, è necessario sempre più fare controinformazione, diffondere le notizie veredocumentarsi e leggere fonti diverse dal mainstream ufficiale, mettendo nel conto che il “Grande Fratello” è pronto a censurare e a colpire coloro che dissentono e che esprimono opinioni dissonanti da quelle imposte.

 

Sul piano spirituale – accanto alla moltiplicaziome delle preghiere e dei Rosari alla Santa Vergine Maria, perchè schiacci presto la testa della bestia immonda che sta divorando le coscienze di tanti uomini e donne che vivono su questa Terra, in attesa di diventare suoi servi per l’eternità – è necessario operare per iniziare a formare dei veri e propri “cenacoli” di preparazione teologica e culturale alla conta finale, che sarà successiva al combattimento definitivo tra il Bene e il Male, per vivere questo tempo nella pienezza dell’amore per Dio. In attesa, perchè non si deve mai disperare, che ci sia un Vescovo o un Cardinale disposto a dare voce e sostegno ai patimenti di coloro – sacerdoti e laici – che intendono mantenere integra la loro fede e preservarla nel nome di Maria e di Suo Figlio, Nostro Signore Gesù Cristo.

 

Ricordiamo quanto Gesù disse ai settantadue discepoli, che inviò «a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi» (Lc 10, 1). «I settantadue tornarono pieni di gioia dicendo: “Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome”. Egli disse: “Io vedevo satana cadere dal cielo come la folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli”».

 

Già ora, i nomi dei discepoli di Gesù sono scritti nei cieli. Che questo sia di conforto e consolazione a coloro che intendono vivere e testimoniare nel Suo nome.

FONTE:https://www.maurizioblondet.it/il-parroco-bresciano-sottoposto-a-tso/

 

 

 

ECONOMIA

Imprese. E’ possibile invocare lo stato di forza maggiore al fine di evitare il fallimento?

Alcune riflessioni di Lisa Taddei

28 MAGGIO 2020

In piena emergenza Covid sono state sospese le dichiarazioni di fallimento sino a data da destinarsi; alcuni studiosi hanno individuato l’uovo di Colombo in una sentenza del 1986 (Cass. Civ. n. 6856 del 21/11/1986), ossia la possibilità di non fallire a causa dello stato di forza maggiore.

Orbene, analizzando la suddetta sentenza è emerso che né la Cassazione né il tribunale – in sede di opposizione allo stato passivo – hanno utilizzato il concetto di forza maggiore.

La sentenza del giudice di legittimità ha riguardato un imprenditore individuale che ha rivestito altresì la qualità di socio di un’altra impresa, quest’ultima dichiarata fallita; la curatela ha erroneamente apposto i sigilli per circa una mese anche all’azienda in proprio, creandole uno stato di insolvenza anche solo transitoria.

Già il giudice delegato, analizzando i crediti ammissibili allo stato passivo dell’impresa individuale ha comunque ritenuto che lo stato di insolvenza ai sensi dell’art. 5 della legge fallimentare sia applicabile, poiché l’imprenditore non è stato in grado di far fronte alle proprie obbligazioni nonostante alcuni crediti contestati (non è indicato nella sentenza di Cassazione se siano stati in precedenza oggetto di opposizione allo stato passivo).

L’apposizione per errore dei sigilli alla impresa non è stata sufficiente per ottenere uno “scudo” dal fallimento pur trattandosi di un’attività, quella della vendita di generi alimentari, che di certo avrebbe ripreso appieno dopo un breve periodo di sospensione.

La sentenza, raffrontata all’attuale emergenza Covid, porta a riflettere innanzitutto sulla figura dello stato di forza maggiore, figura squisitamente civilistica in materia di responsabilità da inadempimento e da illecito aquiliano.

Se è vero, come sostiene autorevole dottrina, che si può considerare il diritto fallimentare una branca autonoma, sono tuttavia evidenti le sinergie sussistenti con il diritto civile, commerciale e diritto processuale civile: pertanto, è ben possibile ricorrere ad un “risanamento” del diritto fallimentare attingendo alla disciplina civilistica della causa di forza maggiore.

Occorre considerare altresì che la causa di forza maggiore instaurata dall’emergenza Covid, di cui ancora non si conosce la durata, comporterà altresì una importante modifica della propensione al consumo dei cittadini, condizione che si rivelerà una conseguenza causalmente riconducibile sempre allo stato di forza maggiore.

Non vi è dubbio che il fallimento sistemico sarebbe ingestibile per i tribunali, che sortirebbe con effetto domino, su tutti gli altri settori dell’attività giurisdizionale, sia civile che penale; senza dimenticare la stessa sezione fallimentare che potrebbe sospendere le aste fallimentari per manifesta anti economicità.

Il fallimento “ad ogni costo” è stato invocato da un diverso orientamento, particolarmente rigoroso, il quale sostiene che non esistono leggi né a livello nazionale né sovranazionale che permettano l’esenzione dal fallimento.

Del pari, si può obiettare che non emerge in alcuna legislazione nazionale o sovranazionale la compressione dei diritti fondamentali della persona e dell’imprenditore tali da paralizzare le attività.

Sostenere il predominio del diritto fallimentare rispetto ai diritti umani richiama quell’assimmetria, una sorta di distopia sistemica, per azzardare un parallelismo, della par condicio creditorum, che si è volatilizzata con l’introduzione delle classi nel fallimento

In detto contesto, “l’esproprio fallimentare” rimanda alla definizione sull’abolizione della schiavitù, in forza della Convenzione sull’abolizione della schiavitù del 1926 nella quale, all’art. 1 si recita: “la schiavitù è lo stato o la condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o taluni di essi”, principi d’altronde già noti ai tempi del diritto romano.

Alla luce delle considerazioni fin qui evidenziate, il risanamento delle imprese in crisi da Covid tramite il concordato “in bianco” si rivelerà soltanto una mossa, una posa che si inarca, si incaglia prima del fallimento se non sarà accompagnato da un nuovo paradigma di politica monetaria e fiscale.

Lisa Taddei

FONTE:https://scenarieconomici.it/imprese-e-possibile-invocare-lo-stato-di-forza-maggiore-al-fine-di-evitare-il-fallimento-alcune-riflessioni-di-lisa-taddei/

 

 

 

GIUSTIZIA E NORME

Il caso Palamara e la vergogna della giustizia italiana.

Torniamo a parlare del problema dell’ordinamento giudiziario nel nostro paese. Sapete bene che parere ho di Salvini e della Lega, ma difendo il suo ruolo di esponente politico e di parlamentare. Un magistrato come Palamara è indegno di appartenere all’ordine giudiziario e richiama l’urgenza di una profonda riforma del sistema giudiziario. Vi spiego perché.

VIDEO QUI: https://youtu.be/2pQrxG4L3aY

FONTE:http://www.aldogiannuli.it/il-caso-palamara-e-la-vergogna-della-giustizia-italiana/

 

 

 

LA RIFORMA: LIBERARE I GIUDICI. DAI PROCURATORI

La riforma dell’ordine giudiziario ormai è indispensabile e urgente: stranamente nessuno ne parla, dal Quirinale mutissimo ai politici di governo e di opposizione, ai media. Segno che il potere indebito e radicalmente illegittimo rivelato dalle intercettazioni di Palamara e soci (giornalisti compresi) non è affatto intaccato, fa paura a chi avrebbe il dovere di restituire alla magistratura la dignità che essa stessa ha calpestato, l’autorità che ha buttato via per sostituirla col potere senza limiti.

Solo le Camere Penali – gli avvocati penalisti, che con le aberrazioni della “giustizia” sono alle prese tutti i giorni, per lo più come vittime – propongono la riforma. La sola davvero necessaria: occorre riscattare i giudici (giudicanti) dalla soggezione ai “giudici d’accusa”, i procuratori.

Nei paesi dove esiste la cultura diritto, i procuratori non sono nemmeno magistrati, ma politici eletti, proprio perché sia chiara che la funzione degli accusatori pubblici è “politica”, comporta scelte opinabili, quindi appartiene all’ordine esecutivo e non al giudiziario; tutto ciò che è eseecutivo deve essere esposto al giudizio elettorale dei cittadini.

In Italia, la identificazione dei procuratori come magistrati è una eredità del fascismo, e era filosoficamente giustificata nella diversa concezione dello Stato, verticale e monolitica, che nutriva il regime. E tuttavia la superiore cultura giuridica del fascismo rispetto all’oggi, è paradossalmente testimoniata dall’istituzione del Tribunale per la Difesa dello Stato, che perseguiva i nemici politici: un tribunale “speciale”, ossia distinto radicalmente dalla magistratura ordinaria di carriera, l’ordine giudiziario di cui fu preservata, e rispettata, la separatezza e indipendenza.

L’attuale corpo giudiziario, monoliticamente antifascistissimo, difende questa prerogativa fascistissima non meno monoliticamente. E minacciosamente. Qualunque politico che proponga la separazione dei procuratori dai giudici veri, è sicuro di scoprire che ci sono dei dossier aperti contro di lui e i suoi telefoni sono sotto intercettazione, per vedere quali reati sta commettendo. Facile, perché, come disse il Procuratore Totale, “Non esistono innocenti, ma solo colpevoli che non sono stati ancora scoperti”

Gli avvocati mettono il dito sulla piaga. Le intercettazioni dei Palamara hanno mostrato come siano i procuratori – che sono solo il 20 per cento del corpo magistratuale – a spadroneggiare distribuirsi cariche, sedi e stipendi, i delicatissimi “distacchi” presso i ministeri come tecnici e consulenti, ossia presso il potere esecutivo; con questi distacchi, è particolarmente aberrante il fatto che gli accusatori hanno preso possesso del ministero della “giustizia”, e hanno mostrato come possano ricattare il ministro – nel caso, l’incapace Bonafede, ma è solo l’ultimo .

Gli avvocati identificano il problema nel modo più lucido e tagliente: i giudici giudicanti, l’80 per cento del corpo, devono essere liberati. Occorre renderli indipendenti da procuratori che hanno tanti amici nei giornali e tv, ispirano un quotidiano di successo manettaro, e decidono quali reati perseguire (scelta radicalmente “politica”) e quali no, come ha mostrato la persecuzione giudiziaria di Salvini di cui fra loro hanno riconosciuto l’infondatezza, e prima, per anni, di Berlusconi.

Ma l’aberrazione massima è che i procuratori d’accusa possano diventare quando vogliono loro magistrati giudicanti; e dopo qualche inchiesta che ha fatto i titoloni sei media, presentarsi alle elezioni. Gli avvocati propongono: due Consigli Superiori della Magistratura, “due separati C.S.M., per restituire alla Magistratura Giudicante la sola, ma decisiva autonomia ed indipendenza che le è oggi negata: quella dalla magistratura inquirente.
E abrogare da subito norme e vietare prassi che consentono il distacco di Magistrati presso i Ministeri, ed in primo luogo presso il Ministero di Giustizia, una scandalosa anomalia che non ha eguali nel mondo, e che letteralmente sovverte il principio cardinale di ogni democrazia politica, vale a dire il principio della separazione dei poteri”.

Un atto di coraggio civile, e di cultura giuridica (quella di cui i Palamari non hanno il minimo sentore) di cui bisogna essere grati. E siccome siamo certi che questo atto di coraggio resterà inascoltato e nullificato – dal Muto in giù – e tutto continuerà come prima, lo posto qui con rilievo a testimonianza e futura memoria. Poi, spero di venire a sapere in tempo che è stato aperto un dossier contro di me, e vi avviserò, lettori.

Un PM indipendente dalla politica, un Giudice indipendente dal PM.

Crisi della magistratura e della separazione dei poteri, le proposte dell’Unione.

Occorre innanzitutto separare le carriere tra magistrati della Pubblica Accusa e Giudici, prevedendo altresì due separati C.S.M., per restituire alla Magistratura Giudicante la sola, ma decisiva autonomia ed indipendenza che le è oggi negata: quella dalla magistratura inquirente. Occorre poi, da subito, abrogare norme e vietare prassi che consentono il distacco di Magistrati presso i Ministeri, ed in primo luogo il Ministero di Giustizia, una scandalosa anomalia che non ha eguali nel mondo, e che letteralmente sovverte il principio cardinale di ogni democrazia politica, vale a dire il principio della separazione dei poteri. Il documento della Giunta.

All’indomani della pubblicazione delle prime intercettazioni relative alle indagini della Procura di Perugia, ammonimmo di quanto fosse illusorio pensare di liquidare ciò che già andava con chiarezza emergendo, come un isolato episodio di malcostume di qualche singolo magistrato.
Perciò U.C.P.I. convocò “Gli Stati Generali dell’Ordinamento Giudiziario”, con la partecipazione della stessa A.N.M. oltre che dell’Accademia e della Politica, per sottolineare la indispensabile necessità di affrontare una volta per tutte una coraggiosa riforma della Giustizia, muovendo proprio dalla riforma dell’ordinamento giudiziario.
Ora che il materiale investigativo è stato integralmente depositato, quella nostra allarmata denuncia trova piena e definitiva conferma, mentre si consuma una crisi della Magistratura italiana che non ha precedenti nella sua storia, ma che continua a non essere compresa nelle ragioni che manifestamente l’hanno determinata.
Quelle intercettazioni confermano in modo lampante quali siano i luoghi del Potere giudiziario che interessano e contano, ed intorno ai quali si affannano e si impegnano senza tregua i vertici politici della magistratura italiana: Procure della Repubblica e Ministero di Giustizia. Una eclatante anomalia, se è vero che dovrebbe invece essere il Giudice, cioè colui che pronuncia la sentenza, ad interpretare il ruolo più alto e più forte della funzione giurisdizionale.

Ma sappiamo tutti quale immenso, anomalo potere abbiano raggiunto nel nostro Paese gli Uffici di Procura; quanto l’apertura di una indagine, la semplice iscrizione nel registro degli indagati, una richiesta di misura cautelare bastino di per sé sole a determinare le sorti della vita istituzionale, politica ed economica del Paese, e quanto indifferente sia poi l’esito giudiziario di quelle indagini.
Lo stesso assetto della Associazione Nazionale Magistrati, il cui governo è immancabilmente affidato a magistrati del Pubblico Ministero pur rappresentando costoro nemmeno il 20% dell’intera Magistratura italiana, è la più nitida fotografia di questa autentica anomalia democratica e costituzionale, che deve ormai essere affrontata e risolta con assoluta determinazione.
Occorre innanzitutto separare le carriere tra magistrati della Pubblica Accusa e Giudici, prevedendo altresì due separati C.S.M., per restituire alla Magistratura Giudicante la sola, ma decisiva autonomia ed indipendenza che le è oggi negata: quella dalla magistratura inquirente.

Occorre poi, da subito, abrogare norme e vietare prassi che consentono il distacco di Magistrati presso i Ministeri, ed in primo luogo presso il Ministero di Giustizia, una scandalosa anomalia che non ha eguali nel mondo, e che letteralmente sovverte il principio cardinale di ogni democrazia politica, vale a dire il principio della separazione dei poteri.
È finito il tempo delle ipocrisie, delle anime belle e dei sepolcri imbiancati. Gli Uffici di Procura sono i luoghi nei quali si esercita il potere più forte e incontrollato tra tutte le istituzioni del Paese, perché al tempo stesso essi governano la giurisdizione, con i suoi assetti e le sue istituzioni di “autogoverno”, e condizionano la politica giudiziaria dell’esecutivo, attraverso una occupazione massiccia e diffusa dei ruoli-chiave del Ministero di Giustizia.

In Commissione Affari Costituzionali pende il disegno di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere dei magistrati, promosso dall’Unione Camere Penali italiane e sottoscritto da oltre settantamila cittadini italiani. Riparta da qui la riscossa ed il riscatto delle nostre istituzioni giudiziarie, della credibilità della magistratura e della giurisdizione, in nome della separazione dei poteri e della indipendenza ed autonomia della magistratura.

Roma, 24 maggio 2020

La Giunta

https://camerepenali.it/cat/10516/un_pm_indipendente_dalla_politica,_un_giudice_indipendente_dal_pm.html

 

FONTE:https://www.maurizioblondet.it/la-riforma-liberare-i-giudici-dai-procuratori/

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

CLAMOROSO: LA BCE STA VALUTANDO UN QE SENZA LA BUNDESBANK.

Reuters riporta un incredibile scenario. Anticipo di DeXit?

26 Maggio 2020 – Leoniero Dertona

La Reuters ci presenta una situazione clamorosa. Secondo fonti dell’agenzia di stampa la Banca Centrale Europea sta preparando un piano d’azione d’emergenza per proseguire con la politica di acquisto dei titoli di stato e privati per iniettare liquidità, il famoso Quantitative Easing, anche senza la partecipazione della BundesBank, la banca centrale tedesca. Le stesse fonti, anonime, ma informate, confermano che poi, nel caso estremo, la Banca Europea è pronta ad una clamorosa azione legale contro la Banca centrale tedesca.

Questo piano verrebbe ad intervenire nel caso la BuBa volesse, o fosse obbligata, ad obbedire alla decisione della Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe che obbligala BCE a giustificare i proprio acquisti ed a dimostrare che questi non danneggiano il cittadino tedesco. Evidentemente la BCE sta valutando di non fornire questa giustificazione e quindi si prepara al peggio.Gli acquisiti dei titoli di stato nazionali sono effettuati normalmente dalla Banca Centrale di competenza: la Banca d’Italia compra (e poi tiene in custodia) i titoli italiani, la Banque de France quelli francesi, la Buba quelli tedeschi e così via. Il piano d’emergenza prevede che la BuBa non effettui acquisti, ma i titoli tedeschi vengano acquistati dalle altre banche centrali pro quota. Questa scelta, se applicata, romperebbe il divieto di condivisione del rischio che la stessa BuBa aveva imposto a Draghi all’inizio del QE nel 2015.

Questa regola vuole che nessuna banca centrale rischi acquistando titoli di altri paesi, aiutandoli, ma in questo caso il divieto voluto dalla banca centrale tedesca sarebbe superato proprio a suo favore. Del resto i titoli tedeschi sono un po’ un benchmark su cui si confrontano gli altri titoli, per cui l’acquisto è necessario. Sicuramente però questo è un segnale che mostra la divisione profonda nel cuore dell’Europa e dell’unico elemento veramente unitario: la moneta. Se si viola il divieto di risk sharing da un lato, dopo potrebbe essere violato anche dall’altro, magari dalla Banque de France per aiutare l’Italia, o viceversa. Rotto un principio le eccezioni si possono moltiplicare. Inoltre escludere la BuBa, renderla quindi secondaria ed ininfluente, nonostante abbia la maggiore partecipazione nella BCE, è anche un primo passo per il “DExit”, o il “GERMANexit”, cioè per l’uscita della Germania per lo meno dall’area euro. Alla fine, se non partecipasse alle operazioni della BCE, perchè ci sta dentro?

FONTE:https://scenarieconomici.it/clamoroso-la-bce-sta-valutando-un-qe-senza-la-bundesbank-reuters-riporta-un-incredibile-scenario-anticipo-di-dexit/

 

 

 

POLITICA

I TRADITORI: ROMANO PRODI – I parte

27 MAGGIO 2020

Credevate che Romano Prodi fosse soltanto quello che ha svenduto l’Italia e firmato per incatenarci all’Europa della concorrenza spietata tra presunti partner, laddove la solidarietà è solo di facciata?
 
Allora non perdetevi il terzo appuntamento della serie, I traditori dell’Italia.

Si comincia dalle consulenze pagategli dall’IRI (mentre è presidente dell’ente stesso) e si arriva fino alle ricerche di mercato fatte da neolaureati che copia-incollano dalle enciclopedie e dalle tesi di laurea, fino alle commesse milionarie, pagate con soldi pubblici, per investigare sul tasso di natalità degli asini somali o la velocità di spostamento di capre, pecore e cammelli (sul serio, non è inventato) nel deserto per salvarlo dalla bancarotta.

Con l’aiuto degli appunti di Paride Lupo, che ringraziamo di cuore per il supporto, iniziamo il viaggio per esplorare il Prodi che ci piace ricordare di più: quello che è sparito dai media e che in pochi si ricordano.

Dopo i mitici Mario Monti e Giorgio Napolitano, che ti invitiamo a rileggere, perché ne abbiamo aggiornato i ritratti con succosi e importanti dettagli, eccoci a colui che meglio di chiunque altro ha saputo svendere l’Italia a privati e stranieri.

L’esperto in svendite, Romano Prodi

Prodi nel ritratto di Costantino Rover © per economia spiegata facile

Romano Prodi è celeberrimo per le famose privatizzazioni svolte in Italia a partire dagli anni Novanta.
Di queste ha sempre saputo fare sfoggio, per agevolare la propria carriera e la propria immagine, come fossero stati dei fiori all’occhiello, tanto nelle trasmissioni televisive, che sui giornali e nei consessi politici, financo nel ruolo di consulente di importanti fondi di investimento stranieri, come la giapponese Nomura.

Ma Prodi non è soltanto il simbolo, nella veste di Pinocchio, di quella che era stata (s)venduta agli italiani come la trovata geniale per arricchire l’Italia e consentirle di abbassare il debito pubblico.
È anche quello che assieme a Massimo D’Alema firmò il Trattato di Lisbona durante una pomposa cerimonia. Stavolta però nelle vesti del gatto e la volpe che dissotterrano altri zecchini d’oro da consegnare agli italiani.

Come stia andando in Europa per l’Italia, politicamente ed economicamente, è sotto gli occhi di tutti.


La storia di Romano Prodi

Iniziamo a raccontare la storia di Romano Prodi partendo dall’incrocio che vede dividersi le strade di Giorgio Napolitano e del Partico Comunista Italiano.

Siamo tra la fine degli anni 80 e gli inizi del decennio successivo quando, i comunisti chiudono di fatto bottega e vengono sostituiti dal nuovo progetto politico che si chiamerà Partito Democratico della Sinistra (PDS).

È il 3 febbraio 1991 e al termine del 20° congresso del PCI, a grande maggioranza dei delegati presenti, il partito cambia nome.
Ma il nome non è l’unica cosa a cambiare a sinistra.

Il cambiamento principale sarà anche la propria disposizione sugli assi cartesiani della geopolitica europea e internazionale.
Infatti essa passa dall’allineamento ad est, al riposizionamento sulle posizioni filo atlantiste.
E non è un caso.
Il crollo del muro di Berlino avvenuto appena due anni prima, ha messo fine alla guerra fredda, così la sinistra trova più conveniente salire sul carro del vincitore.
Gli USA?
Non del tutto.

Forse è più corretto dire che la sinistra si è già sintonizzata sulle istanze mondialiste del mercato globale.
Segno che i suoi leaders avevano deciso che era giunto il tempo di creare un terzo

polo universale che sarebbe dovuto essere l’Europa Unita.
Ma prima che per un’unità politica, l’interesse era verso una comunità commerciale, se non mercantile.


Il pensiero unico liberista

Congetture? Populismo? Nazionalfascismo?
No, è dimostrato dai salti mortali che da questo momento fino al fatidico 1998, l’Italia dovrà fare per entrare in Europa.
Si inizia quindi a costruire un pensiero unico e trasversale tra le forze di tutto l’arco istituzionale italiano con poche e comunque sporadiche eccezioni.

Chissà quante volte l’avrai sentito nominare il cosiddetto, pensiero unico liberista, senza forse afferrarne bene il significato.
Uno dei principi cardini di questa filosofia, che specie nell’ultimo trentennio è diventata più una fede, l’intervento dello Stato nell’economia deve essere il meno presente possibile.
Le compartecipate statali erano viste come un cancro per il Paese e foriere di corruzione, nepotismo e malaffare tra politica e finanza.

Con il processo di Mani pulite emerge tutto il marcio che fino a quel momento serpeggiava nelle barzellette e nei monologhi di qualche cominco, con Beppe Grillo in testa, che qui nominiamo perché uno degli artefici di una campagna denigratoria, basata su principi sacrosanti, ma condotta per costruire un nemico comune del popolo italiano, preso tra i soggetti più facili da colpire, buttando via il bambino assieme all’acqua sporca.

Per capirlo meglio ne riparleremo quando questa rubrica si occuperà di lui.

VIDEO QUI: https://youtu.be/W7oKQtBfTT8

Le privatizzazioni degli asset pubblici

Il clima in cui avvennero le privatizzazioni si evince dal seguente trafiletto di Repubblica:

“Rifondare una pubblica amministrazione snella, meno costosa, ‘ amica’ ‘ dell’utente, richiede una micro-chirurgia di precisione fatta di tagli e innovazioni coraggiose, contro cui si mobiliterebbero corporazioni potenti e agguerrite. Una rivoluzione difficile da conciliare con i proclami di Nerio Nesi (Rifondazione comunista): “Qui d’ora in avanti non si privatizza più nulla”.

Estromissione dello Stato dagli affari che dovrebbero competere soltanto ai capitani d’impresa (quelli capaci… sic!) e all’alta finanza, significa appunto: privatizzazioni.
Le privatizzazioni in Italia sono un vecchio mantra.
Da una parte dovrebbero alleggerire lo Stato dal fardello del nepotismo, della corruzione e della spesa assistenziale, perché si dà come assodato che la creazione di posti di lavoro pubblico debba per forza creare sacche di assistenzialismo.

Come se il settore privato fosse estraneo alla corruzione come anche il nepotismo.

Dall’altro lato, dovrebbero efficientare le grandi aziende strategiche e ridurre la spesa pubblica e il debito.

Insomma invece che una maggiore regolamentazione ed un più ampio controllo sull’operosità all’interno delle strutture, si pretende che vendere gli asset pubblici restituirà servizi migliori ed un impiego più oculato ed efficiente delle maestranze.

E mentre oggi – nel 2020 – le grandi potenze riportano le produzioni strategiche entro i confini e le proteggono con piani, almeno di medio termine, di nazionalizzazione, in Italia si continua a beatificare chi ha smantellato i gioielli di famiglia negli anni Novanta.

Tralasciando l’ovvio discorso sull’aumento delle tariffe degli asset privatizzati come benzina, luce, gas e autostrade (l’unico o quasi settore che ha beneficiato della concorrenza dei prezzi è stato quello del traffico telefonico); perché di fatto in alcuni casi abbiamo visto sostituire il monopolio pubblico con quello di monopoli privati (mai intaccati dalla concorrenza straniera) e aumentare la dipendenza dalle materie prime straniere.

Un importane motivo che ha forzato la privatizzazione dei grandi asset pubblici è stato il bisogno di ridurre il rapporto debito pubblico/PIL, atto considerato necessario per l’ingresso dell’Italia nell’Euro.


 

Quali erano gli asset che si volevano privatizzare?

L’azienda di Stato che destava maggiori preoccupazioni, sia in Italia che in Europa, era l’IRI. Il commissario europeo Van Miert, nel 1993 aveva sollecitato al nostro ministro degli Esteri, Andreatta un intervento che ponesse argine allo spreco di denaro pubblico.
L’istituto per la Ricostruzione Industriale era passato dallo status di gioiello a quello di macigno sui conti pubblici, negli anni Settanta, a vero e proprio scarico di soldi pubblici negli anni Ottanta.

In realtà l’Istituto per la Ricostruzione Industriale vantava un passato come una delle più grandi aziende mondiali. Constava in mille aziende con 500 mila dipendenti.

Giunse nel 1993 al settimo posto mondiale per fatturato, ma produceva perdite per oltre 5 mila miliardi.

 

L’IRI

L’Istituto per la Ricostruzione Industriale era stato fondato in epoca fascista con l’obiettivo di salvare il sistema bancario nazionale ed aveva un mandato temporaneo.
L’IRI entrò nell’azionariato, prima ed acquisì poi, tre banche: Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma, giunte al fallimento a seguito della grande crisi del 1929, oltre che diventare proprietario di oltre il 20% dell’intero capitale azionario privato italiano, assorbendo aziende tipo AnsaldoTerniSIP (poi Telecom…), SMENavigazione Generale ItalianaLloyd Triestino di NavigazioneCantieri Riuniti dell’AdriaticoIlva, Alfa Romeo.

Fondata da Alberto Beneduce su mandato di Benito Mussolini, questi aveva ricevuto il compito di realizzare un’Istituto che fosse provvisorio, ma poi Benduce riuscì ad imporre la sua visione e trasformò l’IRI in un ente permanente che contribuirà in modo decisivo alla ricostruzione post bellica fino ed oltre il boom italiano, tanto che:

“Negli anni sessanta, mentre l’economia italiana cresceva ad alti ritmi, l’IRI era tra i protagonisti del “miracolo” italiano. Altri paesi europei, in particolare i governi laburisti inglesi, guardavano alla “formula IRI” come ad un esempio positivo di intervento dello Stato dell’economia, migliore della semplice “nazionalizzazione” perché permetteva una cooperazione tra capitale pubblico e capitale privato.

In molte aziende del gruppo il capitale era misto, in parte pubblico, in parte privato. Molte aziende del gruppo IRI rimasero quotate in borsa e le obbligazioni emesse dall’Istituto per finanziare le proprie imprese erano sottoscritte in massa dai risparmiatori.”

fonte, Wikipedia

Un estratto del profilo di Alberto Beneduce, dal libro di economia spiegata facile

 


Le cause della svendita

Di questa faccenda ne parliamo nel libro di economia spiegata facile, all’interno del capitolo riservato ai “pensatori”.
Si tratta di un capitolo che contiene le storie dei maggiori economisti, ma anche di altre personalità molto interessanti, in una versione estremamente condensata, che ti farà scoprire un mondo veramente avvincente.

 

Le ingenti perdite dell’istituto avevano trasformato l’IRI in un autentico pozzo senza fondo. Ma da chi?

Tra il 1980 e il 1985, il Ministero del Tesoro conferì al capitale dell’IRI qualcosa come 33 mila miliardi di lire, cioè una media di 5.500 miliardi all’anno per sei anni.
È indubbio che l’IRI in quegli anni fu decisiva per l’impennata del debito pubblico.
Ma sempre in quegli anni l’azienda e le sue sottoposte furono spacchettate in consigli di amministrazione molto frammentati (e costosi) che di fatto invece che ottimizzare l’IRI, la resero più pesante e fragile.

In quegli anni il presidente dell’IRI è proprio Romano Prodi (dal 1980 al 1989).


Lo smantellamento dell’IRI

Prodi è il perfetto prototipo dell’utilie idiota messo, prima ad aggravare la situazione e poi a smantellare qualcosa reso malfunzionante, invece di farlo condurre da personalità capaci di farlo funzionare a dovere.
Visto il successo dell’operazione di smantellamento del potere dello Stato sotto il profilo industriale, Prodi è in un certo senso, il medesimo esperimento successivamente trasferito in politica, sia riciclando l’utile idiota, sia sostituendo una generazione di politici in parte e corrotti, anziché con una classe politica all’altezza, con una classe dirigente totalmente incapace e quindi bisognosa di direttive da piani superiori, cioè dal potere finanziario.

Durante i due governi Amato l’IRI verrà prima trasformata in Spa (nel 1992) e poi svenduta.
La svendita avverrà durante il secondo mandato di Prodi alla testa dell’IRI, per terminare nel giugno 2000 (governo Amato II), quando la grande partecipata – modello che un tempo veniva imitato dalla Cina per costruire il suo impero del futuro – verrà messa in liquidazione fino all’anno 2002.


La carriera di Romano Prodi

Romano Prodi inizia ufficialmente la sua carriera politica come Ministro dell’Industria nel 1978 in uno dei governi Andreotti.
In realtà questo è un incarico tecnico. Il suo battesimo politico ufficiale avverrà nel 1994 con l’ingresso ne L’Ulivo, componente ufficialmente di sinistra, di cui diventerà leader l’anno seguente, quando la nascita del partito diverrà ufficiale.
Seguiranno altri numerosi incarichi ministeriali lungo i decenni successivi.

Nel 1981 Prodi è co-fondatore della società Nomisma assumendone la carica di direttore del comitato scientifico ininterrottamente fino al 1995.
La Nomisma svolge attività di indagini di mercato e servizi alle imprese.

Tra i clienti che Nomisma colleziona negli anni troviamo società private e società collegate ad alcune partecipate statali come l’Italsider dell’IRI e poi:  ENEL, Enichem, Mediocredito Centrale, ENEA.
Nel frattempo, come abbiamo appena visto, tra il 1982 e il 1989 e tra il 1993 e il 1994 è anche Presidente dell’IRI.

Romano Prodi simil Renato pozzetto

Romano Prodi simil Renato pozzetto


Alcune delle attività di Nomisma

Alcune di queste ricerche condotte dalla Nomisma di Romano Prodi:una ricerca, pagata dallo Stato italiano circa 10 miliardi di lire, che appurava la percentuale di presenza di rotoli di carta igienica nei bagni sulle vetture delle Ferrovie dello Stato. Nella commessa da 10 miliardi erano comprese anche altre analisi. Tutte queste rientravano nel pacchetto di uno dei primi studi sul rapporto costi/benefici sulla linea TAV già iniziati negli anni Ottanta.

Ebbene dalla lettura del prodigioso e corposo studio emergono argute analisi simili a quelle che seguono:

“Occorre realizzare l’Alta Velocità perché il treno così è più veloce”

“La zona della stazione Termini era un tempo linda e simpatica e poi si è degradata… La zona è principalmente frequentata da immigrati, in particolare extracomunitari, e vi sono localizzate in misura prevalente piccole pensioni molto degradate”.

fonte Secolo d’Italia


Ne citiamo un’altra, quella sul tasso di natalità degli asini somali o la velocità di spostamento di capre, pecore e cammelli nel deserto.

fonti Wikileaks:


 

Le indagini della magistratura sulle attività di Nomisma che furono insabbiate

Le indagini del Giudice istruttore Mario Antonio Casanova durante gli anni Ottanta sulle attività di Nomisma furono avvalorate da testimonianze importanti.
Alcune di queste rivelarono come spesso le ricerche pagate miliardi venivano realizzate con l’impiego di neolaureati dediti al copia-incolla di brani di enciclopedie o di tesi di laurea prese in prestito da biblioteche.

Oltre a ciò le ricerche venivano infarcite di dati del tutto superficiali o già noti e quindi del tutto inutili. Alcune ricerche peraltro venivano condotte al di fuori del campo di competenza della società.

Nel 1983 il Ministero degli Affari Esteri commissiona una nuova ricerca a Nomisma.

L’incarico non viene affidato su gara d’appalto ma rigorosamente con trattativa privata.
La ricerca verte su venti aree geografiche di interesse rispetto ad attività svolte dall’allora Dipartimento per la Cooperazione allo Sviluppo.
Il costo ammontò a 5 miliardi e 700 milioni di lire, più altri 150 milioni per un’analisi che doveva illustrare gli effetti della Cooperazione sul sistema produttivo italiano.

Ecco un estratto della testimonianza del senatore Forte, interrogato dal magistrato Casanova in merito ad una delle consulenze di Nomisma, riferisce di:

«documentazione invecchiata, superficiale, in gran parte copiata su altre fonti di accesso come enciclopedie geografiche e annuari statistici, senza alcuna analisi dei problemi dei Paesi in questione ai fini di eventuali interventi»

Questo e molto, molto altro sul Secolo d’Italia.

Inutile dire che furono esercitate enormi pressioni per porre fine all’indagine.
Di quella è persino molto difficile trovare informazioni approfondite su internet.


 

Romano Prodi sulle sue privatizzazioni, versione 1
“Sono stato l’unico a fare le privatizzazioni e ne vado fiero”

Sulla privatizzazione dell’IRI, in un’intervista del 1996 dirà:

“Ho fatto le privatizzazioni, unico, e ne sono orgoglioso”

VIDEO QUI: https://youtu.be/ejCL65GLFos

Romano Prodi sulle sue privatizzazioni, versione 2
“Le mie privatizzazioni? Obblighi europei”

fonte: Il Giornale

 

La privatizzazione di Autostrade

“La privatizzazione era obbligatoria perché era un ordine che veniva…  una decisione che veniva da tutti i contesti internazionali, una decisione presa politicamente.
la Società Autostrade – intendiamoci – quando era disciplinata e controllata rigava dritto e ha fatto tante cose.
Il problema non è dare una concessione e chiudere gli occhi, il problema è dare la concessione con le regole e poi deve aver gli ispettori, deve avere tutti i tecnici che seguono le cose, devi intervenire quando è ora.
Non è un problema si o no la concessione, la concessione va data perché queste erano le regole.”

 

Comincia già ad esserne un po’ meno orgoglioso… la colpa sta già diventando dell’Europa e dell sue regolette.

Le privatizzazioni di Romano Prodi e Massimo D'Alema. Dal libro di economia spiegata facile

Le privatizzazioni di Romano Prodi e Massimo D’Alema hanno dato i risultati promessi? Dal libro di economia spiegata facile


 

Dal libro di economia spiegata facile:

“…E anche se fosse, come mai dopo Tangentopoli e il crollo dell’intera classe dirigente che ha dominato incontrastata in Italia per tutto il secondo dopo guerra; nonostante il “trionfo del bene sul male” le cose siano andate sempre peggio?

Perché abbiamo dovuto compiere la razionalizzazione della spesa pubblica con trucchi come l’accorpamento dei Comuni, abbiamo dovuto operare generosi tagli agli enti locali, la tassa sui rifiuti è aumentata del 50% nonostante facciamo la raccolta differenziata?

E meno male che ce li dovevano pagare.

Perché di fronte ai progressi tecnolgici che riducono i costi di gestione e di scambio, nonostante la privatizzazione dei servizi locali, dipinti come sprechi, i costi fissi in bolletta superano quelli dovuti ai consumi?

Perché le tasse locali aumentano?

E perché, dopo le massicce e spietate privatizzazioni, fiore all’occhiello della sinistra progressista e liberista, vanto dei vari Prodi e D’Alema il debito pubblico è continuato e continua a salire?”

Le privatizzazioni di Romano Prodi e Massimo D'Alema. Dal libro di economia spiegata facile

Le privatizzazioni di Romano Prodi e Massimo D’Alema hanno dato i risultati promessi? Dal libro di economia spiegata facile


Fine prima parte

FONTE:https://scenarieconomici.it/i-traditori-romano-prodi/?utm_medium=push&utm_source=onesignal

 

 

SCIENZE TECNOLOGIE

IMMUNI, SPERIMENTAZIONE IN TRE REGIONI

Immuni, sperimentazione in tre regioniEntro lunedì 1° giugno inizierà la sperimentazione dell’app Immuni in Liguria, Abruzzo e Puglia. Lo ha confermato ieri sera il ministero della Salute. Il via libera dell’applicazione su tutto il territorio nazionale dovrebbe essere garantito entro metà mese. Fermo restando il parere positivo del Garante per la privacy Antonello Soro. Immuni dovrebbe essere scaricabile gratuitamente su App Store e Google Play. Dai documenti si vede il logo dell’app: un omino bianco in un cerchio blu. Il codice sorgente è il profilo dell’app espresso nel linguaggio informatico di programmazione. La sua pubblicazione, con il link presente sul portale del dicastero, rappresenta un’altra tappa del percorso che guarda al lancio.

Ieri, Pierpaolo Sileri, viceministro della Salute, è stato intervistato sul tema a 24Mattino, su Radio 24, da Simone Spetia e Maria Latella. “Immuni – ha detto Sileri – rientra in una riorganizzazione della medicina territoriale e della medicina preventiva. È un tracing importantissimo e quando sarà attivo darà ulteriori informazioni su tracciamento e diffusione della malattia”.

Intanto, il Garante Soro ha detto che “allo stato la norma trasmessa dal governo al Parlamento risponde alle richieste che avevamo fatto”. E sulla questione Immuni è intervenuto anche il sindaco di Milano, Beppe Sala. “L’app da sola – ha detto – non serve a niente. Servono i tracciatori, cioè migliaia di persone che prendono ciò che la app segnala, la decifrano e da ciò permettono di intervenire. All’estero ne stanno assumendo a migliaia, da noi non se ne parla. Come si parla ancora poco di test e tamponi. E io insisterò fino alla noia”.

FONTE:http://opinione.it/hi-tech/2020/05/26/roberta-moretti_app-immuni-liguria-abruzzo-puglia-soro-ministero-della-salute-sileri-app-store-google-play-spetia-latella-radio24/

Di recente i ricercatori hanno finalmente spiegato per quale motivo l’odore di erba gatta abbia effetti stimolanti sui gatti, mentre quella comune no. La ragione risiede in sostanze psicoattive secrete da questi vegetali.

Di norma servono ad allontanare gli insetti. Ma talvolta la natura non funziona nel modo corretto e gli animali diventano tossicodipendenti.

Un gatto con una mascherina
© DEPOSITPHOTOS / NATIZR

Erba invece della femmina

Risalgono a circa 30 anni fa le prime ipotesi sul fatto che la Nepeta cataria faccia impazzire non solo i gatti domestici ma anche quelli selvatici. In quel periodo gli scienziati sostenevano che questo vegetale fosse in grado di produrre sostanze volatili, i nepetalattoni, simili per struttura ai feromoni del gatto. Infatti, annusando l’odore di Nepeta cataria, i gatti cominciano a strusciarsi contro il pavimento e a fare le fusa. I ricercatori ritengono che in quei momenti i gatti si trovino in uno stato euforico paragonabile a quello che sentono i soggetti umani che fanno uso di sostanze oppiacee. Gli esperimenti hanno dimostrato che sostanze analoghe al naloxone (un composto chimico che inibisce i recettori degli oppioidi nel sistema nervoso) riducono o addirittura azzerano l’effetto dell’erba gatta su questi animali.

I nepetalattoni sono necessari a questo vegetale non tanto per ammansire i gatti quanto per allontanare gli insetti che se ne potrebbero cibare. Tuttavia, a quanto pare, hanno un effetto stimolante anche sugli afidi. Ancora non è noto, tuttavia, quale sia la loro funzione.

Per lungo tempo la sintesi dei nepetalattoni è rimasta un mistero. Solo alla fine del 2018 taluni biochimici britannici hanno decodificato il genoma dell’erba gatta e hanno appurato che queste sostanze volatili si vengono a creare grazie a 2 gruppi di enzimi. Il primo gruppo è costituito dalle terpene sintasi che raggruppano molecole di feromoni vegetali a partire da idrocarburi a legami semplici, mentre gli enzimi del secondo gruppo, i NEPS, strappano via da una molecola gli atomi di idrogeno non necessari e la spingono ad unirsi a un anello aromatico.

Un tempo l’enzima era presente in tutti i vegetali legati all’erba gatta. Tuttavia, con il tempo gli altri vegetali hanno perso questo enzima insieme all’attrattività per i gatti. Solamente la Nepeta cataria ha conservato la capacità di produrre in maniera indipendente queste sostanze secondo il fenomeno della convergenza evolutiva.

Mangiare un simile

I bruchi che si nutrono di pomodori comuni con il tempo diventano cannibali e si mangiano a vicenda. Come hanno spiegato taluni biologi statunitensi, il colpevole sarebbe l’acido jasmonico presente in questi vegetali. I derivati dell’acido reagiscono alla saliva degli insetti e stimolano la produzione all’interno delle foglie di speciali enzimi che a loro volta inibiscono la digestione dei bruchi. Di conseguenza, il cibo non è più così allettante per questi animali i quali cominciano a mangiarsi a vicenda.

I ricercatori hanno coltivato per 3 settimane delle piantine di pomodori con il jasmonato di metile, un fitormone. Le piante utilizzano questo composto come segnale per difendersi da insetti troppo voraci. Poi per ogni gruppo di piantine hanno inserito 8 esemplari di nottua piccola (Spodoptera exigua), un numero sufficiente perché questi bruchi riuscissero a mangiare tutte le foglie prima che i pomodori cominciassero a reagire in maniera spontanea alla minaccia.

Dopo alcuni giorni la situazione è diventata chiara: i più colpiti sono stati i vegetali ricoperti dalla minore quantità di jasmonato di metile. Mentre i pomodori su cui gli scienziati non avevano lesinato con la sostanza sono rimasti praticamente integri. La loro biomassa è quadruplicata.

Per quanto riguarda i bruchi, dopo una settimana si sono mangiati l’un l’altro su tutte le piantine dell’esperimento. I primi a ricorrere al cannibalismo sono stati quelli collocati sulle piantine maggiormente ricoperte di jasmonato di metile.

Il gatto perfetto
© AFP 2020 / EZEQUIEL BECERRA

Gli autori dello studio osservano che la strategia difensiva dei pomodori è una delle più efficaci del mondo vegetale. Da un lato la coltura conserva le proprie foglie rendendole inappetibili, dall’altro riduce il numero di fauna infestante inducendola al cannibalismo. Proprio per questo motivo per difendersi dagli insetti è più sicuro e conveniente ricorrere a fitormoni, quali il jasmonato di metile, e non a erbicidi sintetici.

Animali dipendenti dalla nicotina

Alcune specie vegetali utilizzano la nicotina per difendersi dagli infestanti. Questa sostanza rende le foglie e lo stelo inappetibili per i bruchi e i fiori di interesse per i bombi. Presente nel polline e nel nettare in quantità esigue, questa sostanza, come spiegato dai ricercatori britannici, induce gli insetti a ritornare più volte sugli stessi vegetali.

Durante l’esperimento gli scienziati hanno trattato fiori artificiali con una soluzione di glucosio al 30% in un caso pura e nell’altro con un’aggiunta di nicotina in varie concentrazioni. Poi hanno inserito nell’ambiente 60 bombi. È risultato che una minima quantità di nicotina attira gli insetti, mentre grandi quantità li allontanano. Concentrazioni medie della sostanza, invece, non hanno in alcun modo influenzato le preferenze degli insetti.

Inoltre, i bombi, prima attratti dal cibo alla nicotina, hanno cercato poi di scegliere proprio quegli stessi fiori che avevano provato la prima volta. Si sono comportati in questo modo anche quando gli scienziati hanno trattato i fiori con comune acqua. Dunque, maggiore era la concentrazione iniziale di nicotina, maggiore è stato l’interesse dimostrato dagli insetti per i fiori.I ricercatori ipotizzano che si tratti di una dipendenza fisiologica simile a quella che la nicotina provoca anche nell’uomo. A quanto pare, questa sostanza influisce sull’attività dei recettori cerebrali colinergici dei bombi e contribuisce a generare in questi animali una dipendenza verso determinate specie di vegetali.

FONTE:https://it.sputniknews.com/scienza-e-tech/202005279126903-gatti-tossicodipendenti-e-bruchi-cannibali-risponde-la-scienza/

 

 

 

STORIA

LE LUNGHE OMBRE DEL “SECOLO BREVE”: UNA NOTA DI LETTURA SOCIOLOGICA DEL ‘900

 

Il Novecento, “secolo breve” secondo la ormai celebre definizione dello storico Eric Hobsbawn, periodo in cui sono confluiti eventi e contraddizioni di portata epocale, probabilmente in misura incomparabile con qualsiasi altro secolo, è ormai alle nostre spalle, almeno cronologicamente. Ma, in realtà, gli effetti e le implicazioni che questa epoca ha determinato appaiono un discorso tutt’altro che chiuso e, lungi dall’essere questioni solo storico-culturali, si configurano, invece, anche come questioni politico-sociali ancora aperte e su cui è importante riflettere.  Il secolo breve getta lunghe ombre e, in questa sede, cercheremo brevemente di rileggere, in termini sociologici, alcuni suoi snodi, per proporne una visione d’insieme in questi termini, visione che può anche aiutarci a comprendere meglio evoluzioni attuali e future. Possiamo, infatti, indicativamente, pensare alla crisi della razionalità, all’accesso delle masse alla politica, alle crisi dell’agire politico, all’ascesa e declino delle ideologie, all’individualismo radicale e alla biopolitica, sino al trionfo del neoliberalismo e alle aporie della globalizzazione. Vediamo dunque meglio questi punti e il loro concatenarsi.

Il Novecento determina, innanzitutto, una peculiare condizione socio-esistenziale: con l’accesso delle masse alla politica, viene a essere influenzato fortemente il senso della vita degli uomini, le loro occupazioni e preoccupazioni, l’oscillazione tra ciò che è pubblico e privato. La dimensione del senso in generale, nel XX secolo, si trova in una situazione assai cruciale. Infatti, si può affermare che la vicenda filosofica dell’Occidente si apre quando viene capovolto il rapporto cosmo-politico (e zoo-politico), subordinando il primo al secondo, la natura alla storia; questo capovolgimento raggiunge il culmine nel XX secolo. La domanda chiave della società, della conoscenza, della politica, della scienza nella modernità non è più “Cos’è?”, ma “A che serve?” (si vedano indicativamente Heidegger, M., Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano 2003 e Husserl, E., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1997). L’uomo dell’età contemporanea si trova inserito in una situazione storica così fortemente condizionata da componenti scientifiche e tecniche che la possibilità di uscire da questi condizionamenti è quasi nulla. Non a caso, per tutta questa fase storica, si afferma una lunga crisi della razionalità. Questo problema esistenziale del senso, ha avuto effetti anche nella politica del XX secolo e sembra essersi determinato lungo due momenti distinti. Una prima fase coincide con la vicenda storica del secolo sino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, in cui assistiamo al processo che conduce al totalitarismo in cui ha luogo l’annientamento della sfera privata, che caratterizza l’autodeterminazione dell’individuo: è il momento della dissoluzione del privato nel pubblico, dell’annichilimento dell’individualità e della personalità. Una seconda fase è, invece, individuabile con l’ultimo trentennio della seconda metà del secolo, in cui, progressivamente, si assiste alla privatizzazione e dissoluzione della sfera pubblica, che scompare nella morsa dell’individualismo radicale. Attraverso queste fasi, si sancisce il passaggio dalla condizione del cittadino a quella del consumatore: è il mercato, è l’economia a decidere la politica e non più, come in passato, la politica a determinare l’economia. In definitiva, attraverso il XX secolo, il progresso, la scienza, la ragione, la tecnologia, si muovono lungo un orizzonte non necessariamente lineare, forgiando missioni e destini, aprendo il varco a egemonie e domini, sancendo una condizione di incapacità dell’uomo a tenervi dietro, a imporvi la propria capacità di previsione, di organizzazione e guida (sempre emblematico su questi aspetti l’insegnamento di Horkheimer, M., Adorno, T.W., Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1997). Il Novecento è davvero il secolo dell’avvento di un’altra umanità, di un cambiamento radicale per cui, usando una espressione molto efficace del filosofo Alain Badiou, che vale sempre la pena ricordare,  l’uomo “non è, ma avviene” (cfr. Badiou, A., Il secolo, Feltrinelli, Milano 2006, p. 115), è l’epoca in cui convivono e coesistono situazioni a volte ambivalenti, è il momento in cui la spinta creativa (e, al limite, manipolativa) dell’uomo raggiunge il culmine e diventa sfuggente e incontrollabile.

Oltre che dalla crisi della razionalità e dei problemi dell’agire politico, il Novecento è stato anche l’epoca delle ideologie con tutto il loro ambiguo fascino (si veda Bracher, K.D., Il Novecento. Secolo delle ideologie, Laterza, Roma-Bari 1999;  si considerino anche Mannheim, K., Ideologia e Utopia, Il Mulino, Bologna 1999 e Meynaud, J., Destino delle ideologie, Cappelli, Bologna 1964); esse hanno mosso la storia (si pensi alle vicende del liberalismo, del fascismo, del nazismo, del comunismo, del socialismo, dello scientismo, della tecnocrazia, ecc.) e al tempo stesso hanno mostrato come possano perdere il senso della realtà, possono essere il preludio di derive totalitarie. Le ideologie, grandi visioni del mondo che si estendevano alla collettività, dandole coesione, assumendo spesso una grande portata politica, hanno condizionato ampiamente molti passaggi del Novecento, eppure, poi, si sono disciolte e oggi, nel XXI secolo, paradossalmente dobbiamo considerare l’ipotesi secondo cui viviamo in un mondo post-ideologico, ma non nel senso che ci siamo finalmente liberati dal peso delle grandi narrazioni e delle cause ideologiche e possiamo dedicarci alla soluzione pragmatica dei problemi reali; piuttosto, come osserva, ad esempio, Slavoj Žižek, quella ipotesi, forse, potrebbe essere considerata in modo più critico, come un segno della forma contemporanea predominante di cinismo, per cui il potere non ha più bisogno di una struttura ideologica coerente per legittimare il proprio dominio, perché esso ormai può permettersi di affermare direttamente l’ovvia verità, la ricerca del profitto, l’imposizione brutale di interessi economici (si veda Žižek, S., In difesa delle cause perse, Ponte alle grazie, Milano 2009, specialmente pp. 368-369).

Ancora, il XX secolo conduce progressivamente a desocializzazione e deistituzionalizzazione, sancendo il trionfo dell’individualismo radicale. Anche questo passaggio del resto è frutto di un percorso complesso: se, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, si era diffuso il modello del “welfare state”, esso viene poi gradualmente limitato e la sua crisi implica una crisi dell’idea stessa di cittadinanza; inoltre la dimensione stessa degli “spazi politici” diventa difficile da delineare giuridicamente. Burocrazia e tecnologia, due delle dimensioni più caratteristiche della società novecentesca, hanno certo una loro influenza su tutte queste evoluzioni. Mentre la logica burocratica contribuisce ad assegnare stati emotivi, i meccanismi di produzione tecnologica rendono tali stati emotivi repressi o al più incanalati. E, così, nella definizione del sé, si passa, progressivamente, da una costruzione sociale, che legava il senso del sé a ruoli istituzionali, ad una costruzione sociale che invece rende il senso del sé indipendente dai ruoli istituzionali. Il risultato è l’avvento, sostanzialmente dagli anni Settanta, di una cultura estremamente “narcisista” (si veda Lasch, C., La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano 1981) nella quale la vita quotidiana diventa un esercizio di sopravvivenza. L’agire sociale oscilla tra l’affermazione del momento tecnologico, che vuole ripristinare l’illusione di autosufficienza, e l’insediarsi di tale cultura narcisista che cerca di ripristinare l’illusione di una unità assoluta con la natura.

L’evoluzione tecnologica e la spinta narcisista diventano, poi, progressivamente, aspetti del più complesso processo di globalizzazione, acceleratosi a partire dagli anni Novanta, che  restringendo considerevolmente le coordinate spazio-temporali, determina come contraltare all’ampiezza delle possibilità, la perdita di sicurezza e di fiducia (si veda Bauman, Z., La società individualizzata, Il Mulino, Bologna 2002).

E, parallelamente a tutto ciò, il Novecento è anche il momento della  “biopolitica”, ossia una condizione in cui la politica è diventata una questione di scelte di vita e in cui si verifica lo smembramento dell’unità personale, come presupposto di una perdita definitiva della possibilità di controllo, giudizio e retroazione, sullo sfondo del paradigma politico neoliberale. Nella dimensione biopolitica, è l’intera forma biologica che costituisce il contenitore della vita stessa – in ogni sua manifestazione – a diventare un prodotto della prassi, riducendo così l’essere umano a puro organismo, privato del suo rapporto con la parola, la memoria, la storia (sul concetto di biopolitica si veda indicativamente Foucault, M., Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005).

Dunque, tenendo presenti tutti questi aspetti, di cui qui abbiamo solo delineato alcuni tratti essenziali, ma che richiederebbero numerosi approfondimenti, è evidente che l’insieme delle vicende del Novecento, attraverso sbalzi e contraddizioni, si proietti ancora su questo inizio del XXI secolo, in misura molto più problematica di quanto forse siamo disposti a raccontarci. La società e la politica attuale vivono sull’istante, e i processi storico-culturali sembrano esposti a una continua obsolescenza, ma certe dinamiche che il secolo breve  ha avviato e portato avanti, anche in modo aporetico, continuano a determinare questioni non lineari, per quanto si possa cercare di dare una linearità alla vicenda storica o si desideri rimuovere certe questioni o ritenerle concluse. A ben vedere, i nodi del Novecento sembrano restare irrisolti e anzi sembrano addirittura più intricati: il ruolo della razionalità e il modo più corretto con cui dobbiamo rapportarci ad essa, i rapporti politici e l’organizzazione della partecipazione politica, le rappresentazioni culturali e le idee e gli ideali, la costruzione delle soggettività, la gestione della sfera economica e lavorativa, sono tutti ambiti in cui oggi continuano a ricadere le eredità ambivalenti del secolo scorso. Queste eredità ambivalenti ci chiedono ancora di essere dispiegate, ci chiedono uno sguardo responsabile al passato che non si può eludere, per quanto ciò sia faticoso;  fuggire questo genere di riflessione significa rivolgersi, ingenuamente e incoscientemente, a un futuro che si vorrebbe solo sistematizzato, tecnologico, individuale, estetizzante, disincantato, pragmatico.

FONTE:https://www.mimesis-scenari.it/2016/03/08/le-lunghe-ombre-del-secolo-breve-una-nota-di-lettura-sociologica-del-900/

 

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