RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 21 LUGLIO 2020

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RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 21 LUGLIO 2020

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

FAMOSO: infelice in maniera cospicua

AMBROSE BIERCE, Dizionario del diavolo, Longanesi,1985, pag. 83

 

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SOMMARIO

Con la legge Zan arriva lo psicoreato di transfobia
Magaldi: gli apprendisti stregoni del Covid hanno già perso
Il Recovery Fund è un MES che ce l’ha fatta. Ecco come funziona
TOSCANA, SCANDALO MASCHERINE
Perché il sindaco di Milano propone stipendi pubblici diversi
Coronavirus Romania: l’Italia trema per il boom contagi nel Paese dell’Est
La lunga memoria degli antichi cinesi
Recovery fund: arriva l’Unione sovietica europea
Intesa dà il via al valzer tra le banche
Borsellino e i Messina Denaro, lo ‘schiaffo’ al giudice
La Kyenge sconfitta in tribunale: in Italia dire “negra” non è un insulto razzista
Il nodo dei prestiti del Recovery Fund
Per i migranti il governo studia un “sussidio di sostentamento”
Per una teoria generale dello sfruttamento
Il tribunale UE ha annullato la decisione della Commissione Europea
Popolazione mondiale in contrazione dal 2064.
Alle radici del problema olandese
L’obiettivo nascosto dell’Olanda
La verità dell’Ue sta in Rutte
Caso Berlusconi: tutti zitti sulle colpe di Napolitano
IL MONDO DEGLI ORRORI
Non si devono mandar via i brutti pensieri, non si deve lottare contro le cose che in noi non ci piacciono

 

 

IN EVIDENZA

Con la legge Zan arriva lo psicoreato di transfobia

Oggi il Parlamento si pronuncerà per varare la legge Zan-Scalfarotto-Boldrini per perseguire il reato di omotransfobia. Una parola composta che emette un suono disarmonico, un fonema recalcitrante alla musicalità gradevole, ma la dissonanza preoccupante attiene alla costituzionalità di un’innovazione legislativa che riconduce ad una minoranza l’immunità dal dissenso, comprimendo la libertà di parola. Il nostro ordinamento già punisce l’insulto, la diffamazione e l’aggressione e chiunque si renda responsabile di tali atti è suscettibile della misura sanzionatoria disposta dalle regole vigenti. La legge Zan-Scalfarotto si propone di infliggere una pena a chi esprime un’opinione critica, equiparandola ad una manifestazione discriminatoria.

La maggioranza rossogialla ispira provvedimenti finalizzati a scomporre, in una lettura relativistica dei valori fondanti la nostra civiltà culturale, la famiglia naturale nel tentativo di compiacere i gemiti della deriva nichilista con il suo corredo di consumismo e mercimonio emotivo.

Difendere, argomentando, il patrimonio della nostra tradizione, in base alla legge in discussione, rischia di diventare un abuso con le conseguenti penalità.

Così la libertà di espressione è minacciata dalla dittatura linguistica del politicamente corretto, che sanziona l’opinione sconfinante dal suo rigido e invalicabile perimetro lessicale. Per essere autorizzati a manifestare il proprio pensiero occorre avere il preventivo assenso della cupola del politically correct che rilascia la licenza di parola a chi ne osserva la professione di fede. In caso contrario si viene indagati per insubordinazione ai suoi precetti con l’aggravante di essere ascritti di imperio nella lista di proscrizione dei nostalgici antidemocratici. Si anticipano sentenze di condanna con l’accusa sommaria di fascismo, applicando, loro sì, il sistema fascista della repressione di parola. In nome della libertà si emanano norme liberticide, profanando il bene supremo della libertà. Siamo al bipensiero di orwelliana memoria: sostenere (simulando) un principio e contestualmente il suo contrario. Se voglio dissentire su uno stile di vita rivendico il diritto di esprimere il dissenso senza temere la rappresaglia di una legge ingiusta, che non difende dalla discriminazione essendone, semmai, la celebrazione apologetica. Ogni cittadino deve vivere nel pieno godimento di esercizio della libertà di opinione, senza subire linciaggi e intimidazioni dagli apostoli del pensiero unico, nel rispetto delle inclinazioni sessuali degli individui che hanno la libertà di vivere i propri rapporti emancipati dai pregiudizi.

FONTE:https://www.nicolaporro.it/legge-omotransfobia-lo-psicoreato-di-orwelliana-memoria/

 

 

Magaldi: gli apprendisti stregoni del Covid hanno già perso

«Gli apprendisti stregoni che hanno provato a usare il Covid come cavallo di Troia per cinesizzare l’Occidente possono rassegnarsi: hanno già perso, anche nel caso in cui il loro nemico numero uno, Donald Trump, non dovesse essere rieletto». Se lo dice Gioele Magaldi, sostenitore di Trump nel 2016 – quando si trattava di fermare Hillary Clinton – c’è da drizzare le antenne: significa che l’establishment Usa, anche quello anti-trumpiano, ha varcato il Rubicone. Ovvero: indietro non si torna. Fine dell’accondiscendenza illimitata verso lo strapotere di Pechino, “drogato” dal decisivo aiuto (occidentale, americano) fornito a suo tempo dai massoni reazionari della “Three Eyes”, in primis il fuoriclasse Kissinger, decisi a fare della Cina post-maoista una specie di Frankenstein, un mix di turbo-capitalismo di Stato in mano a un regime dittatoriale. Modello perfetto, per gli amanti dell’horror: il paradiso degli oligarchi, ideale per rimpiazzare la democrazia occidentale. Fino a ieri, c’erano riusciti truccando le regole: la Cina fu ammessa nel Wto senza obblighi democratici, senza sindacati, senza leggi a tutela dell’ambiente e con clamorosi aiuti in termini di know-how industriale. Il piano: farne la manifattura del mondo, mettendo in crisi i lavoratori occidentali e i loro diritti. Dumping spietato: concorrenza sleale, grazie a prodotti a bassissimo costo. Poi è arrivato Trump, con il suo “America First”. Cocente, l’umiliazione inflitta Xi Jinping con l’imposizione dei dazi. Un minuto dopo, è esploso il coronavirus a Wuhan. La notizia? Ormai l’hanno capito tutti, a cosa doveva servire il Covid.

Chi crede ancora alla Befana e ai giochini per la prima infanzia – Trump il puzzone, cattivo e razzista, combattuto da legioni di eroici paladini della giustizia – può fare a meno di seguire le esternazioni di Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt Gioele Magaldinonché frontman italiano del circuito massonico progressista sovranazionale. Nel saggio “Massoni”, uscito nel 2014 per Chiarelettere sulla scorta di 6.000 pagine di documenti riservati, ha chiarito qual è il campo di gioco: a tirare le fila sono una quarantina di superlogge mondiali, da cui discendono – a valle – le tante entità paramassoniche (dal Bilderberg alla Trilaterale, dalla Chatham House al Council on Foreign Relations) erroneamente considerate onnipotenti. Ancora più sotto stanno governi, partiti, singoli leader. I loro margini operativi sono minimi: destra o sinistra, le decisioni che contano vengono prese a monte. Tra i grandi centri del potere visibile, aperto e contendibile con le elezioni, il più importante resta la Casa Bianca. «Trump è un “cavallo pazzo”, e siede a Washington grazie alla massoneria progressista che lo appoggiò perché, a differenza di Hillary, poteva sparigliare le carte, mettere fine all’ipocrisia finto-progressista dei democratici e tutelare i lavoratori americani massacrati da questa globalizzazione taroccata». Missione compiuta: ha tagliato le tasse, aumentato il deficit e realizzato la piena occupazione. Restava la mossa finale, fermare Pechino. Detto fatto: ed ecco il freno all’export cinese. Una dichiarazione di guerra, a cui gli oligarchi – dietro il paravento dell’Oms – hanno riposto con il virus e la sua gestione “terroristica”.

«La prima vittima dell’operazione-Covid – dice Magaldi, in web-streaming su YouTube – doveva essere proprio Trump, “colpevole” di aver fermato l’avanzata neo-imperiale della Cina. Nel mirino però c’era l’intero Occidente, dove si sperava di ridurre stabilmente la libertà con la scusa della sicurezza sanitaria». Magaldi però annuncia che ora il peggio è passato: «L’establishment Usa, non solo quello trumpiano, ha ormai compreso che non è possibile rassegnarsi all’egemonia politico-economica della Cina di Xi Jinping, dove non c’è ombra di democrazia». Un obiettivo storico: creare un “mostro” di efficienza economica che fungesse da modello per un Occidente non più democratico. «Di fronte allo “stop” imposto finalmente da Trump – accusa Magaldi – un minuto dopo è scattata la pandemia a Wuhan, sotto gli occhi dell’Oms: e ormai, nel potere Henry Kissingeramericano, tutti si sono accorti di questa clamorosa sincronicità». Magaldi è ottimista: «Indietro non si tornerà, neppure nel caso dovesse finire alla Casa Bianca l’evanescente Joe Biden: non rivivremo più la situazione pre-Covid, in cui alla Cina si consentiva di invadere impunemente i nostri mercati grazie al poderoso sostegno delle banche statali di Pechino».

Nella sua analisi, Magaldi ribadisce che Trump era (e resta) il primo obiettivo del “partito del Covid”: «Si erano illusi – dice – che bastasse abbattere l’attuale presidente, per ripristinare lo strapotere del network, anche occidentale e statunitense, che conta sulla Cina come modello alternativo al nostro, verso una società meno libera e dominata da una durissima disciplina sociale». Insiste il leader “rooseveltiano”: «Questi nemici di Trump, che sono massoni “neoaristocratici”, hanno già perso in partenza, anche qualora Trump dovesse mancare l’obiettivo della rielezione alla Casa Bianca». Certo, ci sarà comunque da ballare parecchio: «Prepariamoci a vivere un’estate ricca di colpi di scena, a livello mondiale ma anche europeo e italiano». A proposito di Belpaese: a Giuseppe Conte, nelle prossime ore il Movimento Roosevelt presenterà il suo “ultimatum”, lungamente annunciato: in pratica, si tratta di una serie di misure salva-Italia, applicabili subito. Il pacchetto di proposte sarà presentato «non appena sarà terminata questa grottesca messinscena dell’ultimo vertice Ue, che servirà solo a propiziare “botte da orbi” per il governo italiano». Magaldi boccia Conte senza riserve: «E’ un personaggio stucchevole, un narcisista che vive di superficialità assoluta e tradisce la sua imbarazzante insipienza. Oggi poi in Europa fa una voce grossa che non ha, ed è seduto su un ramo che gli stanno già segando».

In sintesi: «L’umiliazione non è di Conte ma dell’Italia, che ha un premier a cui non affiderei nemmeno un condominio». Scontato che torni a Roma con in mano un pugno di mosche, mentre nelle retrovie del grande potere – quello che conta – si segnala «l’altissimo profilo che sta tenendo Mario Draghi, candidato naturale alla successione a Mattarella». Non a caso, Papa Bergoglio ha appena inserito Draghi nella Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, prestigiosa consulta vaticana «retta da un prodiano», il bolognese Stefano Zamagni. Per Magaldi, il messaggio di Bergoglio è esplicito: «Promuovendo Draghi, il pontefice chiede a Romano Prodi – che brama il Quirinale, e per questo è pronto a “riabilitare” persino Berlusconi, sperando di procacciarsene i voti – di dimostrarsi all’altezza dell’ex presidente della Bce, che nell’ultimo anno è stato capace di ammettere i Prodisuoi gravi errori, mettendosi a disposizione di un progetto di rinascita nazionale, socio-economica e democratica». Lo storico liquidatore dell’Iri resta ben lontano dalle vette toccate da Draghi: «Romano Prodi è un massone conservatore e oligarchico, quindi un contro-iniziato di lusso», afferma il presidente “rooseveltiano”, Gran Maestro del Grande Oriente Democratico.

«Come Draghi, l’ex leader dell’Ulivo ha partecipato alla disastrosa privatizzazione dell’Italia e all’instaurazione dell’ordoliberismo eurocratico fondato sull’austerity, ma a differenza di Draghi – che se n’è emendato, giungendo a cambiare casacca impegnandosi con la massoneria progressista – Prodi non ha mostrato la capacità di ammettere i suoi errori: anzi, nel suo ambire al Quirinale (per la terza volta) dimostra solo di essere dominato dal desiderio, che in termini esoterici è la base della cattiva stregoneria». Per Magaldi, «Prodi resta un nemico di abbattere, a meno che non si arrenda e compia una conversione come quella di cui è stata capace Christine Lagarde, altra esponente della massoneria reazionaria passata al fronte progressista». Quanto a Conte, pesce piccolissimo nell’acquario del potere visto che «si limita a eseguire ordini», nelle prossime ore riceverà “l’ultimatum” del Movimento Roosevelt. «Conterrà indicazioni precise su come agire, in modo immediato, per evitare in autunno il disastro socio-economico della nazione. Qualora non ci ascoltasse – avverte Magaldi – ConteConte se la vedrà con la Milizia Rooseveltiana, nelle piazze: se gli “apprendisti stregoni” del Covid e la loro “polizia sanitaria” speravano di trasformare gli italiani in pecore ubbidienti, si accorgeranno di dover fare i conti con lupi gagliardi e determinati».

Chi crede alla Befana può anche continuare a illudersi che Giuseppe Conte sia una specie di leader, anziché un cameriere destinato a sparire dalla scena senza lasciare traccia. Può pensarlo chi è così cieco da immaginare che sia un semplice incidente, l’enormità del lockdown mondiale: un cortocircuito epocale, senza precedenti nella storia, con ripercussioni mostruose sugli equilibri economici, sociali e geopolitici del pianeta. E sono ancora le famose fette di prosciutto davanti agli occhi a suggerire, ai non vedenti, l’idea che il premier olandese Mark Rutte, «massone reazionario», sia davvero frenato in qualche modo dalla collega e “sorella” Angela Merkel, che finge di mediare tra falchi e colombe con l’unico obiettivo di inguaiare l’Italia, cioè l’unico peso massimo europeo rimasto senza aiuti, con imprese alla canna del gas e un governo-fantasma, agli ordini delle direttive “cinesi” dell’Oms. Uno spettacolo penoso, dal finale scontato: il disastro economico. «Proprio per questo – chiosa Magaldi – c’è chi sogna una “seconda ondata” per poter imporre in autunno un nuovo lockdown». Ma ha fatto male i suoi conti, avverte il leader “rooseveltiano”: ogni mossa, in questa recita drammatica, avrà un prezzo carissimo. E in ogni caso, “lassù”, la decisione è presa: Trump o non Trump, il “partito del rigore” (ieri finanziario, oggi psico-sanitario) non riuscirà a trasformarci in neo-sudditi orwelliani.

FONTE:https://www.libreidee.org/2020/07/magaldi-gli-apprendisti-stregoni-del-covid-hanno-gia-perso/

 

 

 

Il Recovery Fund è un MES che ce l’ha fatta. Ecco come funziona

Luglio 21, 2020 posted by Giuseppe Palma

Il normale strumento di finanziamento di uno Stato è rappresentato dalla collocazione dei titoli del debito pubblico sul mercato primario (i titoli di stato battuti mensilmente dal Tesoro), con una Banca centrale a garanzia che funga da prestatrice illimitata di ultima istanza. Esattamente come avviene negli Stati Uniti d’America, in Giappone e in Gran Bretagna. A dire il vero, seppur limitato al mercato secondario (per i titoli già in circolazione, oggetto di trattative tra privati), è ciò che sta facendo anche la Banca centrale europea negli ultimi anni.

Quel debito rappresentato dai titoli di stato, con una banca centrale a garanzia, in sostanza non è debito. Semmai, nella peggiore delle ipotesi, lo Stato non restituisce mai il capitale, ma solo gli interessi. Se dopo dieci anni l’investitore rivuole il capitale, lo Stato rivende quel titolo ad un altro investitore, cosicché l’esborso in conto capitale è zero. Idem se l’investitore rinnova il titolo. In entrambi i casi lo Stato paga solo gli interessi.

Con la formula dei prestiti, invece, la musica cambia. Che si chiami MES o Recovery Fund, il meccanismo è più o meno lo stesso. Lo Stato prima si indebita e poi deve restituire i soldi presi in prestito fino all’ultimo centesimo. Da dove li va a prendere i soldi se non garantisce una Banca centrale? Facile: erodendo la ricchezza privata, tagliando le voci di spesa pubblica più sensibili (in primis sanità e pensioni) e facendo consolidamento fiscale, cioè massacro delle partite Iva.

Ma v’è di più. L’accordo raggiunto da Conte questa notte al Consiglio europeo prevede un piano di circa 82 miliardi di aiuti a fondo perduto, più 127 miliardi di prestiti. I soldi a fondo perduto non vanno restituiti, ma ci verranno dati a rate e ogni rata sarà subordinata alle riforme che l’UE ci dirà di fare. E’ come il padrone che dà il biscottino al cane se questo corre a prendere il bastone e lo riporta indietro. Per i restanti 127 miliardi (i prestiti), anche questi ci verranno versati a rate e solo se faremo le riforme che l’UE ci chiederà di fare. I 127 miliardi dovranno però essere restituiti. La domanda che si pone è sempre la stessa: da dove li andrà a prendere i soldi lo Stato se non garantisce una vera Banca centrale? Anche la risposta è sempre la stessa: erodendo la ricchezza privata, tagliando le voci di spesa pubblica più sensibili (in primis sanità e pensioni) e facendo consolidamento fiscale, cioè massacro delle partite Iva.

In tutto questo, i primi soldi arriveranno nel 2021 (quindi per ora nulla), fino al 2023. Che affarone!

Eppure la soluzione più ragionevole era a portata di mano: l’Italia avrebbe potuto collocare tutti i titoli di stato necessari sul mercato primario, con garanzia della Bce (come di fatto sta avvenendo sul mercato secondario dall’inizio della pandemia). Non vi sarebbe stata alcuna sorveglianza da parte di nessuno e nessuna riforma ci sarebbe stata imposta. E soprattutto – nella sostanza – non ci saremmo indebitati (per i motivi spiegati sopra). Ma qualcuno, sia fuori che in casa, ha voluto che all’Italia fosse messo un cappio al collo per almeno i prossimi vent’anni.

Insomma, Conte ci ha portato la Troika in casa, tra i festeggiamenti dei media di regime e della maggioranza di governo. Sostanzialmente il Recovery Fund è un MES che ce l’ha fatta.

Giuseppe PALMA

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Consigli letterari:

di Paolo Becchi e Giuseppe Palma, “DEMOCRAZIA IN QUARANTENA. Come un virus ha travolto il Paese“, Historica edizioni.

Qui i link per l’acquisto:

http://www.historicaedizioni.com/libri/democrazia-in-quarantena/

FONTE:https://scenarieconomici.it/il-recovery-fund-e-un-mes-che-ce-lha-fatta-ecco-come-funziona-di-giuseppe-palma/

 

ATTUALITÁ SOCIETÀ COSTUME

TOSCANA, SCANDALO MASCHERINE

Video Fuori dal Coro: “Prodotte da cinesi fra i topi”

 – Fabio Belli

Toscana, scandalo mascherine. Video Fuori dal Coro: “Prodotte da cinesi fra i topi”, 9 milioni di euro investiti dal governatore Rossi.

Giordano Mascherine.png

Mario Giordano a “Fuori dal Coro” su Rete 4 pone l’accento sullo scandalo mascherine che starebbe travolgendo la Regione ToscanaCome molte altre regioni italiane, anche la Toscana si è trovata in difficoltà, mentre la pandemia da coronavirus aveva raggiunto il suo apice, nel produrre mascherine e nel fornire ai cittadini un adeguato numero di presidi sanitari. Aver cercato di sopperire a questa carenza in corsa sembra abbia portato a problematiche piuttosto serie. Innanzitutto Giordano sottolinea un problema che non riguarda solo la Toscana ma in generale tutta l’Italia e in particolare il commissario all’emergenza, Domenico Arcuri: “20 milioni di euro, vostri soldi, in mascherine già comprate dall’Italia sono ancora fermi negli aeroporti di Canton e Shanghai“, ha sottolineato Giordano. La gara risale al 29 aprile, poi sono susseguiti una serie di ricorsi andati a vuoto.

“MASCHERINE PRODOTTE A PRATO SENZA GARANZIE IGIENICHE”

Ma lo scandalo più grande secondo quanto raccontato a “Fuori dal Coro” investirebbe la Regione Toscana del Governatore Enrico Rossi. Impressionante il video che viene mostrato nella trasmissione di Rete 4, tra gli scatoloni dell’azienda di Prato, gestita tra l’altro dalla numerosa comunità cinese locale, dove vengono fabbricate migliaia di mascherine, si aggirano visibilmente dei topi che fanno pensare a condizioni igienico-sanitarie del tutto incompatibili con le necessità produttive. Le mascherine sarebbero dunque state stipate in un capannone dove i ratti passeggiando indisturbati, il tutto ad un costo non indifferente per i contribuenti. La Regione Toscana avrebbe infatti investito ben 9 milioni di euro per la produzione di queste mascherine ordinate ad un’azienda cinese di Prato che sembra però ben poco attenta all’igiene: inutile e addirittura paradossale raccomandarsi di non toccare la mascherina con le mani quando poi può potenzialmente arrivare da una fabbrica piena di topi.

FONTE:https://www.ilsussidiario.net/news/toscana-scandalo-mascherine-video-fuori-dal-coro-prodotte-da-cinesi-fra-i-topi/2037221/

 

 

 

BELPAESE DA SALVARE

Perché il sindaco di Milano propone stipendi pubblici diversi

21 07 2020
“Se un un dipendente pubblico, a parità di ruolo, guadagna gli stessi soldi a Milano e a Reggio Calabria, è intrinsecamente sbagliato, perché il costo della vita in quelle due realtà è diverso”.⁣

Queste le parole del sindaco di Milano Beppe Sala, che hanno scatenato non poche polemiche. Dietro questa proposta c’è una storia antica: Sala propone di fatto l’introduzione nel settore pubblico di uno strumento, detto “gabbie salariali”, che è stato a lungo presente in Italia nel settore privato – e abolito ormai 30 anni fa in favore di strumenti di contrattazione collettiva.⁣

L’idea alla base dell gabbie salariali è semplice, ed è sostanzialmente proprio quella espressa dal sindaco di Milano: gli stipendi devono essere parametrati al costo della vita delle città in cui sono percepiti. Se pagare affitti, bollette, cibi e servizi costa fino a quasi il 30% in più al nord, significa che – a parità di stipendio nominale, cioè quello dichiarato in busta paga – chi è pagato al nord riceve effettivamente fino al 30% di salario in meno. Se con la stessa cifra posso comprare meno cose, in termini reali sono più povero.⁣

La proposta di Sala è divisiva perché apre una ferita tra nord e sud mai del tutto rimarginata. In realtà, la questione delle differenze di salari reali è più complessa anche in termini geografici: per esempio, il costo della vita è sempre più alto nelle città più grandi rispetto a paesi e province minori. Le differenze sono quindi più granulari rispetto alla “sfida” nord-sud, cui spesso le riconduce il dibattito pubblico.⁣

I detrattori della proposta di Sala rispondono che la differenza nel costo della vita è spesso compensata nella differenza della qualità dei servizi: è vero, ad esempio, che un insegnante del sud è più ricco in termini reali di uno del nord, ma è altrettanto vero che è spesso esposto a servizi di peggiore qualità e di più difficile accessibilità. La discrepanza negli stipendi sarebbe in qualche modo “compensata” da questi maggiori costi.
FONTE:https://www.facebook.com/willmediaITA/photos/a.153415176211586/182313276655109/

Coronavirus Romania: l’Italia trema per il boom contagi nel Paese dell’Est

21 Luglio 2020

La Romania è sotto osservazione in Europa per l’aumento di contagi giornalieri nelle ultime settimane. Il picco di positivi del Paese minaccia direttamente l’Italia, dove colf e badanti romene lavorano senza misure di controllo.

Prima il Bangladesh, ora la Romania: il coronavirus che avanza in Paesi stranieri fa tremare anche l’Italia. Perché il boom di contagi dello Stato dell’Est è un grave rischio per la nostra nazione?

L’allarme è scattato per la massiccia presenza di lavoratori romeni nel Belpaese. La comunità dello Stato dell’Est conta oltre 1 milione di persone che vivono nelle nostre città.

Le frontiere aperte tra i due Paesi sono ora nel mirino e preoccupano gli italiani, soprattutto per il settore assistenziale: sono davvero molte le colf e le badanti romene impiegate nelle nostre famiglie. Cosa aspettarsi?

Di certo, senza dovuti controlli, il coronavirus in Romania mette a rischio l’Italia.

Il coronavirus in Romania spaventa l’Italia: ecco perché

Con più di 38.000 positivi a livello nazionale e con picchi giornalieri di oltre 600 contagiati, la Romania sta diventando protagonista delle cronache da coronavirus.

La massima allerta è scattata a luglio, quando il focus epidemia del Vecchio Continente si è concentrato a Est, con i Balcani in piena emergenza. Ora, lo Stato romeno rischia addirittura di diventare il Brasile europeo.

Questo scenario, considerando che al momento non sono state imposte misure restrittive eccezionali dal Governo, spaventa l’Italia. La ragione è semplice e concreta: dalla Romania arrivano molti cittadini nel nostro Paese, sia per ricongiungimento familiare, sia per lavorare nei campi e soprattutto nell’assistenza domiciliare.

Dopo essere tornati nelle loro famiglie romene nel periodo più buio dell’epidemia italiana, ora tanti sono tornati e stanno rientrando in Italia. Proprio per riprendere il lavoro, specialmente di colf e badanti.

Con quali controlli? Sulla carta nessuno. Dalla Romania non è previsto alcun blocco dal Governo italiano e le persone possono atterrare senza vincolo di quarantena (diversamente da quanto accade per Serbia, Montenegro, Kosovo).

Questo significa che assistenti per malati e anziani, categorie fragili e ad alto rischio per il coronavirus, stanno lavorando nelle case italiane senza essere sottoposte a controlli di sicurezza, come i tamponi.

Più controlli su colf e badanti romene

L’appello al ministero della Salute per affrontare questo grave rischio epidemiologico che arriva dalla Romania è stato lanciato dall’Associazione nazionale dei datori di lavoro domestico.

Sulle pagine de Il Messaggero, il vicepresidente Andrea Zini ha sottolineato che:

“Non ci sono norme che tutelano le famiglie e questi lavoratori sono a contatto con soggetti fragili. Siamo preoccupati, non c’è una soluzione chiara.”

Il monito è diretto al Governo e al ministro Speranza, affinché si possano adottare misure precauzionali come, per esempio, quelle imposte da Zaia in Veneto. Il governatore ha ordinato isolamento e tampone per i lavoratori nell’assistenza da Paesi extra-UE (non dalla Romania).

Evitare altri focolai da importazione è fondamentale per l’Italia. La nazione romena, purtroppo, minaccia la nostra sicurezza sanitaria, considerando anche che circa metà dei 2 milioni di lavoratori domestici nel Belpaese proviene dall’Europa dell’Est.

Il coronavirus in Romania rischia di avere profonde ripercussioni in Italia, come il diffondersi di nuovi focolai.

FONTE:https://www.money.it/coronavirus-romania-italia-trema-per-boom-contagi

 

 

 

CULTURA

La lunga memoria degli antichi cinesi

Nel rapporto con la Cina ci sono vecchi sentieri che la politica occidentale ha ricalcato e che anche oggi non porterebbero a nulla di buono. Storicamente l’Italia ha sempre perso dall’assenza di stabili relazioni con Pechino e in questa fase della vita internazionale, tra post Covid e altre emergenze umanitarie, dobbiamo fare insieme uno sforzo di comprensione e di ricerca dell’armonia

Non è facile, di questi tempi, parlare di Cina. Provo a parlarne comunque, anche perché ritengo che la posta in gioco – un irrigidimento nei confronti della Cina – rappresenterebbe, ancora una volta, per l’Occidente, un’occasione persa in estremo Oriente. Una premessa mi pare però necessaria. Anche se ci chiudiamo nella nostra dimensione occidentale e anche se vogliamo relegare la Cina nella sua realtà geografica e politica, è inevitabile che nella vita di tutti i giorni finiremo sempre di più per imbatterci in diverse sue manifestazioni: nell’economia, nella politica internazionale, nelle scienze, nella moda, e persino nella ristorazione.

Il problema è che non sempre possediamo gli strumenti culturali per affrontare e capire questa ormai diffusa realtà cinese. Anzi, commettiamo spesso l’errore di valutarla utilizzando i parametri logici della nostra filosofia, nata dall’esperienza greca, mentre le categorie di quel pensiero sono fondate sul confucianesimo, sulla ricerca quindi di un’“armonia” universale, di un’intesa, di un accordo. Il problema di fondo rimane che, nella nostra recente educazione scolastica, alla Cina non è stato mai concesso un posto significativo. Dal 1949 in poi, e soprattutto alla fine degli anni 60, quando la rivalità fra Mosca e Pechino era al culmine, l’Italia scelse di allinearsi con le posizioni dell’URSS, abbandonando, salvo pochi ed isolati casi di lungimiranti politici e imprenditori, ogni tentativo di stabilire un costruttivo rapporto con la Cina.

È nell’esperienza di chi è più anziano che dal dopoguerra in poi nei libri di testo delle scuole superiori le informazioni sulla Cina divennero sempre più sporadiche. Se ne parlava soltanto come di una estesa realtà geografica, dall’impressionante e inquietante crescita demografica (negli anni Sessanta i cinesi erano già 800 milioni) ma poco o nulla si diceva delle origini e della storia di questo complesso Paese. Nei libri scolastici del tempo, qualche riferimento alla Cina in realtà rimaneva, ma era spesso limitato alla nostra partecipazione, nel 1900, alla difesa delle Legazioni straniere a Pechino durante la rivolta dei Boxer e alla contrapposizione politica e militare, tra il 1927 e il 1950, fra il rivoluzionario Mao Zedong e il nazionalista Chiang Kai-shek. La vicenda della “Lunga Marcia” dei comunisti, nel 1934, era però appannaggio del bagaglio culturale degli specialisti. Venne così a quel tempo steso, sulla realtà cinese, un velo di opaco silenzio, che ancor oggi abbiamo difficoltà a rimuovere. Solo la letteratura e una certa cinematografia internazionale mantenevano il ricordo della Cina, anche se spesso deformato e impreciso. Le difficoltà “cognitive” di gran parte dell’opinione pubblica occidentale erano iniziate nel 1840, quando le eccedenze della produzione dell’oppio indiano ricercarono, con la forza militare inglese, sbocchi sul mercato cinese. Poiché, malgrado avesse subito una prima disfatta, Pechino continuava a opporsi all’importazione dell’oppio, nel 1860 gli inglesi, che stavolta coinvolsero i francesi, riportarono la guerra in Cina e simbolicamente distrussero lo storico e monumentale Palazzo d’Estate, orgoglio dell’Imperatore. Da quel momento, anche per noi italiani, i cinesi divennero una massa culturalmente indistinta, dedita a traffici di ogni tipo. Tranne poche eccezioni, solo i missionari cristiani, sia cattolici che protestanti, mantennero un atteggiamento più sensibile al dialogo fra le due culture.

D’altra parte, nel 1610 era morto a Pechino un gesuita italiano, Padre Matteo Ricci, simbolo, per i cinesi, dell’unica civiltà, quella romana, degna di confrontarsi con quella cinese. Scienziato e letterato, Ricci aveva colto nel segno. La sua prima opera in cinese, del 1595, fu un trattato sull’“Amicizia”: un concetto difficile, ma non impossibile, da realizzare in Cina, ricercando specifiche basi filosofiche comuni che permettano, oggi come allora, la costruzione di un ponte fra le due civiltà. L’opera complessiva di Matteo Ricci – che gode ancor oggi di grandissima considerazione fra i cinesi, tanto che la sua immagine, assieme a quella di Marco Polo, è riprodotta nel bronzo di un colossale monumento fatto erigere, nel 2000, dal Presidente Jiang Zemin per celebrare gli storici artefici della Cina che entrava nel Terzo Millennio – non è purtroppo adeguatamente conosciuta dal grande pubblico italiano, ma neanche da molti nostri politici, che non conoscono una figura che, da sola, permetterebbe di rivendicare per l’Italia una posizione di maggior considerazione.

Quando nel 2010, all’inizio del mio mandato di Ambasciatore nella Repubblica Popolare Cinese, presentai le credenziali all’allora Presidente della Repubblica Hu Jintao, fui successivamente ricevuto con simpatia dai vertici del loro Ministero degli Esteri. Ancora una volta constatai che i cinesi non dimenticano. Dopo un’esposizione di molti positivi giudizi sul nostro Paese, mi fu infatti gentilmente ricordato l’improvviso e non concordato annullamento, ai tempi di Tangentopoli, dell’imponente accordo finanziario, per più di trecento miliardi di vecchie lire, concessi dalla Cooperazione italiana per la realizzazione urbanistica e infrastrutturale dell’area di Pudong, fra l’altro con notevoli vantaggi per le imprese italiane. Lasciammo così il posto ai tedeschi. I cinesi dunque non dimenticano. Per circa duecento anni, il loro Paese, che nel 1912, con la deposizione dell’ultimo Imperatore mancese Pu Yi, divenne una Repubblica, e da allora lo è sempre rimasto, aveva dovuto subire un’ingombrante presenza commerciale e militare straniera che, a seguito dell’atteggiamento ambiguo dell’Imperatrice Ci Xi, aveva dato fuoco, come noto, alle polveri della Rivolta dei Boxer. Fra le otto potenze che si incaricarono di reprimerla vi era anche l’Italia. Molte persone mi hanno confessato di non essere riuscite a seguire sino in fondo, da un punto di vista storico, il susseguirsi degli eventi descritti nel film “L’ultimo Imperatore” di Bernardo Bertolucci. Non dimentichiamo che fra le due guerre mondiali l’Italia appoggiò Chiang Kai-shek, al quale, grazie al favore di Galeazzo Ciano – in quel momento Ministro degli Esteri, ma, in precedenza, diplomatico italiano in servizio nel 1927 a Pechino, nel 1930 a Shanghai e nel 1931 Ambasciatore a Pechino – fornì aerei da combattimento e strutture a terra. Ma la nostra alleanza con il Giappone fu successivamente vista con sospetto sia dallo stesso Chiang Kai-shek che dal leader comunista Mao Zedong.

Nel 1943 i giapponesi presero il controllo della concessione italiana di Tientsin (Tianjin di oggi), e rinchiusero in campo di concentramento, sino al 1945, gli italiani – compreso l’Ambasciatore – che non avevano fatto atto di sottomissione. È vero che non è sempre facile, specialmente in una trattativa politica o commerciale, riuscire a sintonizzarsi intellettualmente con la logica cinese. È la scoperta che fa chi, per la prima volta, va a lavorare in Cina. Ma non è questo un buon motivo per arroccarsi su posizioni che non tengono conto del dipanarsi di quella Storia, parallelamente alla nostra. Dall’ignoranza nasce la diffidenza. Ancora negli anni Novanta le autorità centrali italiane ritenevano poco realistiche le richieste di visto per turismo avanzate da cittadini cinesi ai nostri Consolati (“I rivoluzionari non vanno in vacanza”) e temevano invece che esse nascondessero vie illegali di immigrazione clandestina. Con il risultato che, fino al 2010, c’erano più turisti cinesi in Svizzera che in Italia. Questo timore verso l’Oriente, manifestato spesso anche dai più alti esponenti politici del nostro Paese, rischia di portarci ad una contrapposizione che penalizzerà entrambe le parti. È vero che l’esplosione economica della Cina ha rimesso in discussione i punti di riferimento di quella che sembrava essere una ben consolidata economia mondiale.

Attilio Massimo Iannucci, già Ambasciatore d’Italia presso la Repubblica Popolare Cinese.

FONTE:https://www.ilgiornale.it/news/cultura/lunga-memoria-degli-antichi-cinesi-1878519.html

 

 

 

ECONOMIA

Il nodo dei prestiti del Recovery Fund

L’interminabile round negoziale del Consiglio europeo ha partorito, al termine di quattro giorni e quattro notti di trattative, un Recovery Fund di compromesso nella cui definizione, si può dirlo, a conti fatti l’Italia non ha perso (o non duramente come i fatti lasciavano intendere), mentre l’Olanda di Mark Rutte è da annoverare tra i vincitori.

L’Aja, assieme agli altri Paesi frugali (ma sarebbe meglio definirli “avari”) spunta un riequilibrio dei fondi di NextGen Eu a favore dei prestiti e un taglio degli aiuti a fondo perduto. Dal piano negoziale scompare Solvency Support Instrument da 26 miliardi di euro che era stato pensato per salvare le imprese strategiche in difficoltà a causa della pandemia di Covid-19, mentre, come fa notare Il Fatto Quotidiano, vengono completamente depauperati i principali programmi di investimento: “i tagli penalizzano anche i fondi Nge destinati a potenziare HorizonEurope, il programma per la ricerca, che passano da 13,5 a 5 miliardi. Anche InvestEu, erede del piano Juncker, passa da 30,3 miliardi a 2,1 miliardi”. Tutto questo mentre i rebate, i rimborsi che i Paesi pro-austerità reclamavano, saranno confermati e rafforzati.

L’Italia, a conti fatti, evita il potere di veto dell’Olanda e dei suoi alleati sulla concessione degli aiuti a fondo perduto, perde 3,5 miliardi di sussidi a fondo perduto e ne guadagna 35 di prestiti. Ora il nuovo equilibrio parla di 209 miliardi di euro destinati all’Italia, dei quali 81,4 come trasferimenti diretti di bilancio e 127 come prestiti. Sul primo fronte prima di cantare vittoria bisognerà verificare, come ha sottolineato Guido Salerno Aletta, che la quota di contribuzione in eccesso richiesta all’Italia per il bilancio europeo 2021-2027 non ecceda i contributi a fondo perduto. Ma il vero nodo sono i prestiti.

Come per uno strano scherzo del destino, l’aumento di prestiti del Recovery Fund copre pressoché interamente la quota di 36 miliardi di euro che l’Italia avrebbe potuto ricevere attingendo al Mes. La Commissione, forte di un rating pregiato sui mercati, può finanziarsi a bassi costi e dunque c’è da attendersi un pacchetto di prestiti a basso tasso d’interesse. I prestiti saranno a lungo o lunghissimo termine, da da rimborsare fra il 2026 e il 2056.

Resta da capire un tema fondamentale: quanto approfondite saranno le tabelle di marcia e le riforme richieste ai governi nazionali beneficiari del finanziamento. Perché sul fronte del Recovery Fund è fondamentale proprio comprendere la ratio che guiderà lo scrutinio comunitario. Sull’iter di approvazione dei piani nazionali, scrive Il Secolo XIX, “alla fine l’ha spuntata Mark Rutte, che ha incassato il cosiddetto “freno di emergenza” per poter congelare l’erogazione dei fondi verso un Paese in caso di non rispetto della tabella di marcia delle riforme. Resta al Consiglio il potere di approvare (a maggioranza qualificata) i piani nazionali”. Niente diritto di vetoma una sorta di “golden power” sulla fattibilità dei programmi richiesti ai Paesi membri. Con un piano che prevede anche una remissione in brevissimo tempo in caso di mancate riforme per quanto riguarda i sussidi.

E proprio analizzando il complesso impianto del fondo promosso dal Consiglio Europeo si capisce come, una volta di più, i termini della questione per l’Italia non cambieranno: servirà presentare un progetto nazionale ben rodato e coeso, piani di lungo periodo e iniziative strategiche sull’utilizzo dei fondi per non trasformarli nell’ennesimo vincolo comunitario. Giuseppe Conte deve capire che la vittoria non è misurabile nell’aver ottenuto i fondi, ma sarà data dalla capacità di utilizzarli rompendo eventuali trincee che i capofila dei “falchi” opporranno per censurare l’afflusso di denaro verso il nostro Paese. Ricordando che i prestiti saranno un debito verso la Commissione, fatto che potrebbe spostare gli equilibri verso Bruxelles se la partita non sarà giocata nel migliore dei modi.

FONTE:https://it.insideover.com/economia/il-nodo-deil-prestiti-del-recovery-fund.htm

 

 

 

Recovery fund: arriva l’Unione sovietica europea

21 07 2020

FILMATO

Raggiunto a Bruxelles l’accordo sul Recovery fund: un’intesa per commissariare l’Italia. Ecco perché…

FONTE:https://www.nicolaporro.it/recovery-fund-arriva-lunione-sovietica-europea/

 

 

 

FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI

Intesa dà il via al valzer tra le banche

Con forti rialzi in Borsa il mercato riapre il dossier delle aggregazioni. Al centro Mps

Con la svolta nell’operazione di Intesa Sanpaolo su Ubi, avvenuta venerdì scorso, ha ripreso vita il risiko bancario.

La decisione del gruppo guidato da Carlo Messina di alzare la posta, riconoscendo agli azionisti di Ubi oltre al previsto scambio azionario (17 titoli Intesa Sanpaolo ogni 10 azioni Ubi) anche una parte in contanti (0,57 per ogni azione Ubi), ha portato alle agognate adesioni dei soci storici del gruppo bergamasco come la Fondazione CariCuneo, la Fondazione del Monte di Lombardia e molti degli azionisti riuniti nel patto bresciano.

Dopo mesi di schermaglie l’operazione appare ora in discesa. Ieri Intesa poteva contare sul 5,229% del capitale di Ubi (oltre ad adesioni dichiarate per circa il 20% del capitale). D’altro canto, l’offerta già prima attraente, a questo punto diventa irrinunciabile a giudizio di Equita (tra gli advisor di Intesa) secondo cui, a questi livelli, Ubi è valutata 0,52 volte il patrimonio netto (rispetto alle 0,44 volte precedenti al ritocco al rialzo). Il maggior esborso per Intesa, calcolato dal broker in 650 milioni in caso di adesioni all’offerta al 100%, non dovrebbe avere impatti sostanziali posto che potrà essere compensato dai capital gain (350 milioni) già previsti dal piano industriale di Ubi stand alone e che è confermata una crescita dell’utile per azione del 6% al 2023. In questo scenario Intesa ha chiuso la seduta a 1,85 euro (in rialzo dell’1,2%), mentre Ubi ha preso il volo a 3,73 euro (+14%).

E non è finita qui. In seguito al deal Intesa-Ubi, lo scenario M&A è esploso e qualsiasi operazione sembra possibile nota Fidentis. In Piazza Affari ci si interroga su quali possano essere i prossimi gruppi finanziari a convolare a nozze. L’attenzione è concentrata sul Monte dei Paschi (controllata al 68% del capitale dal Tesoro) dopo la nomina ad advisor di Mediobanca, già consulente di Intesa nell’offerta su Ubi. E che il Tesoro guardi avanti lo ha ribadito, a pochi giorni fa, anche il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri sottolineando che il governo rispetterà la scadenza del 2021 per uscire dall’azionariato del Monte dei Paschi e che Rocca Salimbeni sarà in grado di ritornare ai privati probabilmente in una operazione di consolidamento.

In lizza, dopo che per anni si era ventilato di una possibile alleanza con Ubi, rimarrebbe Banco Bpm, anche se ha ripreso a circolare l’idea di un’operazione a tre che, oltre alla banca senese e al banco, coinvolga anche Bper. Indiscrezioni di stampa riportano poi di un avvicinamento tra Unicredit e Banco Bpm nonostante Jean Pierre Mustier, alla guida del gruppo di Piazza Gae Aulenti, abbia finora sempre smentito ogni velleità di shopping. È difficile vedere un cambio di strategia in Unicredit nota in merito Mediobanca che comunque ha calcolato come una simile unione possa portare a un incremento vicino al 10% dell’utile per azione di Piazza Gae Aulenti. La riluttanza di Mustier spinge invece Fidentis a puntare su una unione tra Banco e Bper che, con il previsto acquisto di sportelli che seguirà l’operazione di Intesa su Ubi, è pronta a diventare il terzo polo bancario italiano. Comunque vada Mps ha ingranato la quinta chiudendo a 1,8 euro (+15%), seguito da Banco Bpm (+5,5% a 1,48 euro). Al palo Unicredit (+0,3% a 8,8 euro), mentre ha viaggiato in controtendenza Bper (-2% a quota 2,49).

FONTE: https://www.ilgiornale.it/news/economia/intesa-d-valzer-banche-1878576.html

 

 

GIUSTIZIA E NORME

Borsellino e i Messina Denaro, lo ‘schiaffo’ al giudice

Borsellino chiese misure nei confronti del padre del Superlatitante, ma si sentì rispondere che Francesco Messina Denaro non aveva fatto nulla

 

 

 

La Kyenge sconfitta in tribunale: in Italia dire “negra” non è un insulto razzista

sabato 18 luglio 2020

In Italia non è un insulto razzista definire “negra” una persona di colore. Lo ha stabilito, in merito a una denuncia presentata dall’europarlamentare Cecyle Kyenge, la procura di Macerata, chiamata in causa per un commento, su Fb, del vicesindaco di Civitanova Fausto Troiani.

La vicenda riguardava un post su Facebook, nel quale il politico, dopo aver condiviso un articolo sull’ex ministro, aveva aggiunto il commento “Rimane negra”. Per questo, Fausto Troiani, non nuovo a toni forti e provocatori sui social, era stato accusato di diffamazione con l’aggravante dei motivi di odio razziale, aggravante che aveva spalancato per lui un procedimento penale per direttissima. La Kyenge, che da sempre si batte contro la violenza verbale e i toni razzisti usati contro di lei, si è vista però negare la condanna del suo presunto oltraggiatore dal tribunale.

La procura di Macerata aveva chiesto la condanna a sette mesi di reclusione ma il legale del vicesindaco, Gian Luigi Boschi, ha argomentato su due punti: la mancanza di una prova certa che il commento fosse partito da un accounto certamente riconducibile a Troiani, ma anche il fatto che la definizione di “negra”, al contrario dei paesi anglosassoni, non ha un’accezione negativa. Alla fine il collegio con il giudice Daniela Bellesi ha condiviso gli elementi sollevati dalla difesa e ha assolto l’imputato, ritenendo non del tutto provata l’accusa a suo carico e dunque dichiarandolo innocente.

FONTE:https://www.secoloditalia.it/2020/07/la-kyenge-sconfitta-in-tribunale-in-italia-dire-negra-non-e-un-insulto-razzista/

 

 

 

IMMIGRAZIONI

Per i migranti il governo studia un “sussidio di sostentamento”

Walter Ricciardi, consulente del ministro Speranza, invoca un sostegno economico per gli immigrati che sono in quarantena. Per gli italiani che non seguono le regole, invece, chiede il pugno di ferro

Pugno di ferro per gli italiani stremati da mesi di isolamento domiciliare e colpiti da una crisi economica i cui primi effetti si sono già palesati all’orizzonte e, contestualmente, una sorta di “premio” per gli immigrati clandestini che non rispettano l’obbligo della quarantena.

Questo non è uno scherzo ma, come riportato oggi dalla Verità, una brillante proposta avanza da Walter Ricciardi, consigliere del ministro Speranza per il coordinamento con le istituzioni sanitarie internazionali, divenuto molto noto al grande pubblico in questi mesi segnati dall’emergenza coronavirus. A parti invertite si sarebbe gridato al razzismo e alla discriminazione. Qualcuno magari sarebbe sceso in piazza e si sarebbe inginocchiato. Ma visto che Ricciardi vuole riservare il bastone agli italiani e la carota per gli irregolari, allora tutto va bene. Nessuna voce si è alzata per protestare, nessuno ha fatto notare la disparità di trattamento che è alla base di questa idea.

Come è nata la proposta? Da un botta e risposta con un giornalista sulla questione coronavirus e sbarchi. “Stanno riprendendo gli sbarchi, il virus arriva anche da lì?”, ha chiesto a Ricciardi un cronista della Stampa. E lui senza batter ciglio: “Sì, per questo le persone che sbarcano sulle nostre coste vanno messe in quarantena”. “Ma molti migranti positivi non rispettano la quarantena. Come si risolve il problema?”, ha ribattuto l’intervistatore. È a questo punto che il consulente del ministro Speranza lancia il suo piano. “Non troverei scandaloso- dice- prevedere per loro un sussidio di sostentamento” perché “parliamo di persone che se non lavorano non mangiano”.

Forse Ricciardi non sa che anche gli italiani non fanno magie e che se non lavorano non guadagnano e, di conseguenza, se non guadagnano non mangiano. Però, a differenza dei clandestini, sono obbligati a pagare le tasse. E il governo giallorosso, di cui lui è consulente, non ha sentito ragioni e non ha concesso la proroga per le scadenze fiscali fissate ieri. Il che ha significato che tutti i titolari di partita Iva e le imprese dovranno versare al fisco quanto dovuto. Senza dimenticare che da ieri fino a fine mese scade il termine per ben 246 appuntamenti fiscali, per la grande da ieri maggioranza versamenti a titolo di acconto o saldo. Non si sa se su questo Ricciardi si sia espresso. Si potrebbe obiettare che non è un economista ma allora perché quella proposta di sussidio per gli irregolari?

Un altro punto su cui forse il Ricciardi non ha riflettuto. Si darebbe un sostegno economico, pagato dagli italiani in difficoltà, a chi ha violato le regole venendo nel nostro Paese da clandestino per evitare che gli stessi commettano un secondo reato? Perfino lui ammette che “dobbiamo prepararci a una transizione lunga” e dunque “il problema dei costi non può essere ignorato”. E allora, nell’ipotesi del sussidio ai clandestini, da dove si prendono le risorse? Ecco che il Ricciardi spara un’altra idea geniale: aumentare le multe per chi sta al bar o in spiaggia. In pratica, tartassare ancora gli italiani. Gli stessi italiani che hanno avuto pochi sostegni economici da parte del governo.

Chissà se questa di Ricciardi sia una gaffe fatta per leggerezza. Lui, del resto, non è un economista. Quello medico è più il suo campo. Del consulente del ministro Speranza ci si ricorda anche perché, in passato, diceva che le mascherine per le persone sane erano inutili e criticava i tamponi. Ora la trovata geniale del sussidio di sostentamento.

FONTE:https://www.ilgiornale.it/news/politica/ricciardi-sussidio-sostentamento-immigrati-che-non-lavorano-1878637.html

 

 

 

LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI

Per una teoria generale dello sfruttamento

Forme contemporanee di estorsione del lavoro

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Sarenco, Poetical licence (dettaglio), 1971.

Proponiamo un estratto dal libro Per una teoria generale dello sfruttamento. Forme contemporanee di estorsione del lavoro di Christine Delphy, appena uscito per ombre corte, a cura e con una postfazione di Deborah Ardilli e con una prefazione di Mélissa Blais e Isabelle Courcy. Pioniera del movimento di liberazione delle donne in Francia ed esponente di punta del femminismo materialista francofono, Delphy riprende in questo volume gli assi portanti della critica dell’economia politica del patriarcato che ha elaborato a partire dagli anni Settanta. In una fase che vede la maggior parte del movimento femminista orientato ad analizzare il lavoro domestico in termini di riproduzione sociale di forza-lavoro e a promuovere una “democrazia della cura”, la sociologa francese mette invece in evidenza i limiti delle rivendicazioni relative alla conciliazione lavoro-famiglia e alla divisione dei compiti all’interno della coppia eterosessuale. Per individuare questi limiti e rilanciare l’azione politica femminista su binari più promettenti occorre anzitutto concettualizzare il lavoro domestico come un rapporto sociale di produzione a base familiare, sorretto da una serie di coadiuvanti istituzionali che garantiscono agli uomini di beneficiare dello sfruttamento — dell’appropriazione diretta — del lavoro delle donne. La società moderna, per Delphy, è caratterizzata dalla coesistenza di due modi di produzione — capitalistico e patriarcale — e dunque da due sistemi di classe. Riconoscerne soltanto uno, quello capitalistico, e negare o attenuare gli antagonismi che sorgono sul terreno dello sfruttamento domestico significa contribuire a naturalizzare l’edificio della disuguaglianza “privata”.

Gli uomini, in quanto gruppo, estorcono tempo, denaro e lavoro alle donne grazie a una serie di meccanismi, ed è in questa misura che costituiscono una classe. La situazione attuale delle donne in tutti i paesi occidentali è che la maggior parte di loro convive con un uomo – con un membro della classe antagonista – ed è nel quadro di questa convivenza che si realizza gran parte dello sfruttamento patriarcale; non la sua totalità, dato che anche le donne che non convivono con un uomo vengono sfruttate. Le donne che abitano con un uomo, in generale, non vivono la propria situazione in termini di sfruttamento – in termini di sistema –, ma capiscono che gli uomini sono in debito di tempo e di denaro verso di loro e vorrebbero recuperare questo debito. Si è visto che non riescono a farlo individualmente, nel quadro delle “negoziazioni di coppia” tanto vantate da alcune autrici. Esigere il proprio debito non è possibile nel quadro della coppia.

Bisogna osservare che sembra impossibile farlo anche sul piano militante: il movimento femminista riesce senz’altro a dire che le donne sono oppresse, ma contestualmente si rifiuta di dire che gli uomini godono di privilegi, per definizione indotti, e che bisogna toglierglieli. Le soluzioni proposte in genere consistono nel trovare una terza parte che paghi, che parifichi dall’alto la situazione dei due gruppi, in modo che il cambiamento sia benefico per le donne senza recare danno agli uomini. Ora, come si vede nella discussione attuale sulle pensioni, ciò è impossibile: se non si vuole che siano i/le salariati/e a pagare, allora deve farlo il padronato e viceversa.

Il movimento femminista deve avere finalmente il coraggio di dire che gli uomini hanno troppo, in ogni caso più di quanto spetti loro.

È possibile distruggere il risultato finale di un sistema, senza attaccarne le basi? È possibile concentrarsi esclusivamente sui risultati subiti e percepiti, sul debito degli uomini? Si tratta di un interrogativo più generale, che vale sia per la politica sia per la medicina, e in definitiva per tutte le situazioni che desideriamo modificare senza tuttavia intaccarne l’eziologia. Non possiamo risolvere qui una questione che, in ultima analisi, è più filosofica che politica. In compenso, possiamo cercare di sopprimere alcuni degli elementi che sostengono il sistema, senza essere in grado di prevedere quale effetto ne sortirà. Ma quali?

La negoziazione non funziona. Le donne condividono con gli uomini l’idea che il tempo degli uomini sia più prezioso, che valga di più del tempo delle donne. L’esperienza quotidiana le conferma in questa convinzione, poiché possono osservare che, per lo stesso tempo di lavoro, il loro compagno riceve un compenso maggiore del loro. Infine, il lavoro familiare non è considerato un vero lavoro, ma qualcosa privo di valore. Si considera lavoro familiare come qualcosa che appartiene alla natura delle donne, che fa parte dei loro obblighi, perché fa parte dell’essere una donna. Di modo che, laddove si esercita l’estorsione del lavoro domestico, all’interno di rapporti interindividuali, la situazione per il momento è bloccata.

Il sistema-fratello, l’altro pilastro dello sfruttamento economico delle donne, il mercato del lavoro, che è strettamente collegato al sistema propriamente domestico, dimostra la stessa forza di inerzia. È impressionante confrontare le statistiche dei vari paesi europei. Quali che siano le leggi antidiscriminatorie, anche laddove esistono – e non è il caso della Francia, che ha delle leggi, ma non delle sanzioni per la loro violazione – le differenze salariali sono le stesse, e restano costanti sul medio e persino sul lungo periodo. Cambiamenti sul mercato del lavoro e il recupero di posti e salari di cui le donne vengono derubate rovescerebbero la situazione domestica, se avessero luogo e se si sapesse come provocarli. Per il momento, anche questa via sembra bloccata. Poiché l’ingresso dal lato delle negoziazioni individuali, al pari di quello dal lato del mercato, produce risultati tanto miseri, forse è tempo di volgersi verso i coadiuvanti istituzionali, in particolare statali, della “non-divisione dei compiti”, un eufemismo che denota lo sfruttamento del lavoro domestico delle donne.

Sgombriamo subito il campo dalla rivendicazione irrealistica – fondata su un’analisi falsa – secondo cui sarebbe necessario ridurre il tempo di lavoro degli uomini. Questa rivendicazione continua a essere avanzata. Si tratta di un argomento che è stato utilizzato in Francia da alcuni gruppi militanti, come i sindacati o le associazioni di disoccupati/e, per dare una giustificazione “femminista” alla riduzione del tempo di lavoro (le “trentacinque ore”). Abbiamo visto che agli uomini non manca il tempo, certamente non più che alle donne. Avanzare questa rivendicazione significa sottendere che le donne, per parte loro, possono lavorare ottanta ore a settimana (è la media reale attuale), ma che gli uomini non potrebbero lavorare sessanta ore (questa sarebbe la media per uomini e donne, se gli uomini facessero la loro parte). Questo argomento incorpora implicitamente il desiderio di salvaguardare i privilegi maschili e assomiglia terribilmente all’argomento padronale secondo cui occorre moltiplicare per due i profitti prima che i salari siano moltiplicati per 1,3: “ti darò cinque soldi quando avrò dieci franchi”.

E poi fino a che punto, allo stato attuale delle cose, andrebbe ridotto il tempo di lavoro degli uomini? Bisognerebbe ridurlo a zero. Perché è soltanto da disoccupati che gli uomini fanno la loro metà di lavoro domestico. A essere realmente in gioco non è il tempo di lavoro degli uomini, ma il loro tempo libero – e quello nessuno vuole toccarlo. Qui si toccano i limiti della combattività delle donne e anche delle femministe. Ora, se le donne vogliono lavorare meno, bisognerà che gli uomini lavorino di più a casa – e questo indipendentemente dal tempo di lavoro salariato.

Che cosa rimane nella lista dei fattori che determinano quella che viene chiamata “non divisione dei compiti domestici”, su cui si può agire? Rimane ciò che pertiene alla sfera delle politiche pubbliche, ciò che è maggiormente sensibile all’azione politica. Dunque tre grandi ambiti: il sistema di protezione sociale (assicurazione malattia e pensioni), il sistema fiscale e l’insieme delle prestazioni sociali, che devono essere analizzati e corretti dal punto di vista del ruolo che svolgono nella conservazione del patriarcato.

Per il momento, lo Stato paga una parte del debito degli uomini. In effetti, lo Stato non diminuisce il carico di lavoro familiare delle donne, né il loro carico finanziario, ma rende possibile il lavoro retribuito delle donne sostituendo una parte del lavoro e del denaro che gli uomini dovrebbero fornire alle loro famiglie. Lo Stato permette un certo grado di indipendenza economica alle donne, un grado relativo, ma di un’importanza su cui non si potrebbe insistere troppo. Tuttavia, facendosi carico della parte degli uomini, lo Stato libera il loro tempo per il lavoro retribuito, per gli svaghi, per la creatività e per la televisione. Migliora anche il loro livello di vita, permettendo loro di avere due famiglie consecutive e di fare altri figli quando si risposano.

Ci si può chiedere, allora, se proporre più servizi e più prestazioni non equivalga a proporre che gli uomini siano ulteriormente deresponsabilizzati, ulteriormente sovvenzionati. D’altra parte, gli aiuti di Stato mettono alcune donne, anche se oggi sono poche, nelle condizioni di non dipendere da un uomo per allevare uno o più figli. Quindi come fare in modo che anche gli uomini si assumano la loro parte, senza imporre a nessuno la coabitazione, sia questa eterosessuale o omosessuale? Per le coppie che già convivono si potrebbe enunciare questa nuova regola: se gli uomini non vogliono fare la loro parte di lavoro familiare, allora devono pagarla, invece di farsela pagare dal resto della società.

Abbiamo visto che, in materia di salute e di pensione, i diritti delle donne sono in gran parte derivati. Ora, il modo abituale di porre la questione dei diritti delle donne non arriva alla radice del problema, che è lo sfruttamento patriarcale. Con l’appello ai diritti universali vengono proposte soluzioni che non fanno pagare i beneficiari dello sfruttamento, gli uomini. Queste soluzioni da una parte non modificano di una virgola i fattori strutturali grazie ai quali gli uomini sono nella condizione di approfittare del lavoro gratuito delle donne e, dall’altra parte, conservano o aggravano il carico della collettività. Avendo l’impressione di acconsentire a questi sacrifici per “provvedere alle donne”, la collettività gliela fa pagare. Ciò che potrebbe essere oggetto di una rivendicazione, non in sostituzione, ma a complemento di un sistema di protezione sociale fondato sull’universalità dei diritti, è la soppressione di tutti i vantaggi degli uomini che hanno una moglie casalinga […].

Bisognerebbe anche ripensare i sussidi e i servizi esistenti: sostituiscono il lavoro di chi? A chi servono? Chi dovrebbe fare quel lavoro? Chi dovrebbe pagarlo? Quando un servizio o una prestazione sostituiscono – in natura o in denaro – la parte degli uomini, allora quel servizio o quella prestazione non sono a vantaggio delle donne, per le quali si tratta di un gioco a somma zero. In compenso la società sovvenziona il tempo libero degli uomini, ma anche la loro disponibilità per il lavoro retribuito. Le donne pertanto pagano due volte, se non tre, queste prestazioni e questi servizi: pagano la parte non sovvenzionata (dei nidi, per esempio), pagano in lavoro familiare e pagano in discriminazione sul mercato del lavoro.

Oggi abbiamo conoscenze sufficienti sulla distribuzione dei compiti domestici nelle famiglie di ogni tipo: sappiamo quello che fanno le donne, sappiamo anche quello che gli uomini non fanno, in breve ne sappiamo abbastanza per mettere in campo un sistema per mezzo quale gli uomini che non faranno la loro parte saranno penalizzati finanziariamente.

In una fase in cui l’“ascensore sociale” non solo è in panne, specialmente per quanto riguarda i rapporti patriarcali, e in cui la situazione economica delle donne sul mercato del lavoro si deteriora a causa del neoliberalismo e della più generale controffensiva antifemminista in tutti i campi, qui si tratta soltanto di suggerire qualche proposta per rilanciare delle azioni rivendicative. Mi sembra importante riprendere l’iniziativa almeno in qualche ambito, quando in molti di questi, che si tratti di violenze o di mercato del lavoro, le poche conquiste di trent’anni di lotta femminista vengono rimesse in discussione, talvolta ferocemente, e le forze femministe in campo non riescono a impedire gravi sconfitte, subendo la demoralizzazione derivante dal fatto di trovarsi sulla difensiva.

FONTE:https://operavivamagazine.org/per-una-teoria-generale-dello-sfruttamento/

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

Il tribunale UE ha annullato la decisione della Commissione Europea 
15 luglio alle ore 16:25 
Ieri il tribunale UE ha annullato la decisione della Commissione Europea che aveva imposto all’Irlanda di farsi restituire dalla Apple 13 miliardi di imposte non riscosse.
La mossa della Commissione era volta a limitare la competizione fiscale suicida che si sta svolgendo da tempo nell’Unione Europea, dove, per poter avere il privilegio di ospitare aziende internazionali, capaci di portare posti di lavoro, alcuni paesi come l’Irlanda hanno sostanzialmente eliminato ogni tassazione per le multinazionali (le tasse annue pagate dalla Apple in Irlanda ammontavano allo 0,01% dei ricavi.)
Anche ai meno brillanti (purché non siano economisti di professione) non sfugge che una concorrenza fiscale al massimo ribasso, tra paesi appartenenti ad un medesimo mercato, finisce tendenzialmente per schiacciare gli introiti da tassazione sempre più verso il basso, fino a rendere uno Stato incapace di operare.
Esempi di ‘stato minimo’ con tassazioni ridotte fino all’inconsistenza per essere ‘accoglienti verso gli investimenti esteri’ esistono già. Sono quasi tutti brillanti nazioni del centro Africa, da cui scappano milioni di persone verso nord per venire a vivere il “sogno europeo”.
Siccome una condizione del genere in fondo non è raccomandabile neanche per i ceti affluenti europei, e dunque neanche per i tecnocrati di Bruxelles, la Commissione ha cercato di porre una pezza, intervenendo con i mezzi che riteneva di avere a disposizione.
Ora, chi fosse preso dall’impulso di dare fuoco al Tribunale UE, per quanto susciti magari la nostra umana simpatia, starebbe commettendo un’ingiustizia. Infatti nei termini della normativa europea la decisione è perfettamente corretta.
«Il Tribunale annulla la decisione in questione perché la Commissione non è riuscita a dimostrare in modo giuridicamente adeguato l’esistenza di un vantaggio anticoncorrenziale ai sensi dell’Articolo 107».
Di fatto la Commissione ha cercato di torcere le leggi esistenti, adattandole allo scopo, e per farlo ha cercato di argomentare che quella sconcezza suicida che è l’esistenza di un porto esentasse per le multinazionali – in grazie del loro potere contrattuale – fosse un’attività “anticoncorrenziale”.
Insomma un evento dovuto al parossismo della competizione fiscale senza limiti poteva e doveva essere sanzionato solo se dimostrato “anticoncorrenziale”.
Infatti nella concettualità malata che pervade la legislazione europea, qualcosa può essere male solo se ostacola la concorrenza.
Se invece consegna tutte le risorse nelle mani del grande capitale, mentre dissolve le funzioni pubbliche della stato democratico, è un tenero peluche.
Il problema è che la normativa europea è da parte a parte pervasa dal furore ideologico del neoliberalismo di trent’anni fa, e dunque, molto semplicemente, ha costruito un sistema in cui compito dello Stato è garantire e alimentare la competizione (approssimare la ‘concorrenza perfetta’); ha insomma costruito un grande schiaccianoci economico-legale dove la forza lavoro recita il grato ruolo della noce.
Oramai in molti si rendono conto, anche tra gli europeisti affluenti e i tecnocrati dell’establishment, che per evitare il collasso delle forze produttive, e disordini sociali come l’Europa non ne ha ancora conosciuti, è tassativamente necessario cambiare rotta, introducendo quanto meno elementi ‘keynesiani’, capaci di moderare il competitivismo decerebrato inscritto nei trattati. Se ne rendono conto, ma non sanno davvero come fare, perché i trattati possono essere piegati solo fino a un certo punto, e solo provvisoriamente, da un mutamento della volontà politica, ma alla fine, se non li si riscrive, sono destinati a ritornarci in faccia (come nel caso Apple in oggetto).
La morale della storia è vecchia, ma resta valida. I trattati fondativi dell’UE possono avere solo due sorti: possono essere riscritti radicalmente, svuotandoli del loro impianto neoliberale; oppure possono essere distorti e rappezzati con interpretazioni ad hoc, fino ad un punto di rottura, dopo il quale si passerà inesorabilmente al “si salvi chi può”.
Entrambi gli scenari presentano rischi ed opportunità, ma per farne opportunità bisogna partire da una consapevolezza di fondo: l’attuale impianto istituzionale e normativo dell’UE è una macchina impazzita che sta divorando sé stessa. Prima lo si capisce, meno male ci si fa (anche se farsi male sarà comunque inevitabile).

Popolazione mondiale in contrazione dal 2064.

Il “global consumer” è un essere che tende all’estinzione

Cristiano Puglisi – 20 luglio 2020

In Italia la denatalità ha fatto segnare un nuovo record negativo: nel 2019, infatti, i nuovi nati sono stati solamente 420.170, il 4,5% in meno rispetto al 2018, in cui comunque era già stato registrato il record negativo dall’unità nazionale (1861). I numeri li ha forniti l’ISTAT. Lo stesso istituto che, durante la pandemia ha spiegato, grazie a una proiezione, come, a causa del Covid, lo scenario per il 2020 e 2021 potrebbe essere ben più negativo, considerando l’impatto sia della crisi sanitaria che di quella economica: i nuovi nati potrebbero scendere infatti sotto la soglia “psicologica” delle 400mila unità, arrivando nel 2021 alla cifra di “396 mila”. L’istituto ha riportato come“in generale, il superamento al ribasso del confine simbolico dei 400 mila nati annui, che originariamente nelle previsioni Istat del 2019 sarebbe avvenuto solo nel 2032 nell’ipotesi più pessimistica (…) sembrerebbe invece possibile qualora si realizzasse un rapido raddoppio del tasso di disoccupazione, seguito da un ritorno ai valori precedenti di marzo 2020, secondo un percorso di rientro spalmato nell’arco di circa un biennio”.

E il peggio deve ancora venire: secondo uno studio realizzato dall’Institute for Health Metrics and Evaluation (IHME) alla School of Medicine dell’University of Washington, la popolazione italiana crollerà dagli attuali 60 milioni ai 30 del 2100, e questo anche considerando l’apporto dei flussi migratori. Un disastro demografico che, tuttavia, non riguarda solo il bel Paese. Ma tutto il mondo. A proposito del medesimo studio, riporta infatti ADN Kronos che “la popolazione mondiale potrebbe aver imboccato la strada che la porterà in poco più di 40 anni al giro di boa: secondo un maxi studio di modellizzazione pubblicato su ‘The Lancet’ si raggiungerà il picco nel 2064 a circa 9,7 miliardi di persone presenti sul pianeta e poi comincerà l’inversione di tendenza che farà scendere gli abitanti globali a quota 8,8 miliardi a fine secolo, con 23 paesi (…) che vedranno ridursi le loro popolazioni di oltre il 50%”. Alcuni esempi? Il Giappone vedrà un calo da 128 milioni di abitanti a 53, la Spagna da 46 milioni a poco più di 21 e la Corea del Sud da 52 a 24.

L’umanità, insomma, sembrerebbe aver imboccato la via dell’estinzione. Certo, il termine appare forte. Tuttavia bisogna considerare che, alla denatalità, si accompagneranno una serie di squilibri: chi pagherà le pensioni? Come sarà praticabile il garantire un accettabile livello di crescita economica (se mai questa sarà ancora possibile)? Domande che, di fronte ai dati proposti dallo studio, sembrano retoriche.

A far riflettere, però, deve essere il fatto che le conseguenze di questo scenario combaciano in maniera preoccupante con le cause: crescente disuguaglianza, concentrazione della richezza, restrizione dei diritti sociali, instabilità e precarietà. Del resto, che la situazione non sia più sostenibile lo ha illustrato nettamente anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che, due giorni fa, ricordando che “alle 26 persone più ricche del mondo appartiene lo stesso patrimonio che alla metà della popolazione mondiale”, ha sostenuto come “ancor prima della pandemia Covid-19, molte persone in tutto il mondo capivano che la disuguaglianza stava minando le loro prospettive e opportunità nella vita. Hanno visto che il mondo si era squilibrato. Si sono sentiti abbandonati al loro destino. Hanno visto come, a seguito della politica economica, le risorse siano dirette su verso una minoranza privilegiata”.

E, così, in un mondo segnato da crisi economiche, turbolenze finanziarie e dagli squilibri della globalizzazione (tra cui rientra anche l’attuale pandemia) mettere al mondo un figlio è diventata una sfida che atterrisce. Ancora di più se l’accento, dal punto di vista culturale, non è posto sul supporto alla famiglia, vista come un peso da cui “emanciparsi”, ma sulla competizione sfrenata tra individui e, quindi, sull’atomizzazione sociale come “conquista”. Così, mentre l’umanità invecchia, si esaltano l’aborto, le unioni omosessuali e, più in generale, tutti quei comportamenti che conducono verso una sterilizzazione dell’essere umano.

Posizioni ideologiche e culturali, queste, che concorrono alla realizzazione di quegli scenari malthusiani che sono alla base dell’ideologia sottostante al corrente ordine mondiale anglo-liberale. Un ordine mondiale il cui prodotto antropologico, l’homo oeconomicus, definibile anche come global consumer, è una creatura che, senza rendersene conto, avendo annientato ogni tensione comunitaria nel nome della competizione dura e pure con il prossimo, sta correndo dritto e (in)felice verso il burrone della scomparsa.

Come evitarla? L’unica possibilità che l’umanità ha di fronte a se è quella di una presa d’atto che il sistema ideologico anti-umano che, quasi incontrastato, ha retto le sorti del globo per l’ultimo trentennio (e che tutt’ora tende a imporsi nel dibattito come l’unica via possibile), non sia più desiderabile né accettabile. In caso contrario si potrà dire, senza paura di smentite, che il meglio è passato. Per sempre.

FONTE:http://blog.ilgiornale.it/puglisi/2020/07/20/popolazione-mondiale-in-contrazione-dal-2064-il-global-consumer-e-un-essere-che-tende-allestinzione/

 

 

Alle radici del problema olandese

L’Olanda è tra i membri fondatori della Comunità economica europea e una protagonista di lungo corso delle dinamiche politiche dell’Europa unita, prima e dopo la nascita ufficiale dell’Unione europea; proiettata nel progetto comunitario dopo il declino della sua esperienza di potenza coloniale causato dall’indipendenza dell’Indonesia dopo la seconda guerra mondiale L’Aja è stata sempre tra le protagoniste del progetto di integrazione economica e commerciale tra i Paesi del Vecchio Continente.

Negli ultimi decenni, tuttavia, l’Olanda è diventata via via un fattore di destabilizzazione dell’Europa. Il decennio di governo di Mark Rutte ha consolidato, ma non creato ex novo, le spigolature politiche che hanno condotto, più di recente, al consolidamento dell’Olanda come guida dei Paesi “frugali” e favorevoli alle politiche di austerità e di contenimento della spesa pubblica, riuniti nella Nuova lega anseatica.

L’Olanda ha sempre cavalcato con grande favore le politiche comunitarie che tendevano ad azzerare le barriere doganali e uniformare lo spazio economico comunitario, nonchè a favorire le complesse regole fiscali su cui si è basata la costruzione delle fortune moderne del Paese, vera e propria calamita per i profitti continentali di multinazionali di tutto il mondo. In questo ultimo campo ammonterebbe a 8,6 miliardi di euro, secondo Tax Justicela quantità di risorse drenate dal sistema fiscale olandese. Il cambio di passo per il Paese è arrivato quando dalle parti di Bruxelles, dopo la fine della Guerra Fredda, la commissione di Jacques Delors ha accelerato sull’idea di amplificare le comuni piattaforme istituzionali e compiere passi nella direzione di una più consolidata unione politica.

In Olanda, allora, scattarono le lezioni di una storia secolare. Nazione mercantile e aperta al commercio, caratterizzata da una cultura fortemente influenzata dall’etica protestante, individualista e meritocratica, e dalle ideologie economiche di stampo anglosassone, più occidentale che europea, l’Olanda ha sempre inteso la politica su scala continentale e sovranazionale come funzionale ai propri interessi economici. “Questo interesse è diventato ancora più forte quando i Paesi Bassi si sono trasformati in un’economia dei servizi con un ampio settore finanziario e una posizione cruciale nella logistica e nei trasporti, grazie al porto di Rotterdam e all’aeroporto di Schipol”, ha spiegato il politologo Jan Rood, docente a Leida.

Negli ultimi quindici anni, invece, due tracciati hanno preso a convergere contribuendo a far sorgere il problema olandese in sede all’Unione. L’Olanda si è infatti posta contro qualsiasi proposta di espandere il raggio politico di azione dell’Unione, come dimostrato dal compattamento dei falchi rigoristi contro le proposte di riforma dell’Europa di Emmanuel Macron, fattispecie che visto il ruolino di marcia della comunità europea non rappresenterebbe un problema di grande conto se L’Aja non avesse usato come arma l’ideologia economica del rigore contabile, dell’austerità e del moralismo nei confronti dei Paesi dell’Europa meridionale. Da quando nel 2005 i cittadini olandesi respinsero la bozza di Costituzione europea l’azione de L’Aja nel Vecchio Continente è stata sempre più spregiudicatamente autonoma

Interiorizzando i dogmi del Trattato di Maastricht su rapporto debito/Pil e deficit/Pil e sfruttando la sponda del ritorno in campo della Germania di Angela Merkel come sponsor dell’ideologia del rigore l’Olanda ha proposto una piattaforma politica estremamente originale, al cui interno viene elogiata la natura concorrenziale sul piano economico e commerciale delle relazioni economiche interne all’Unione, esaltata la spinta di matrice neoliberista a ridurre il peso degli Stati nel controllo dell’economia e consolidata una critica censoria, estremamente moralista, verso qualsiasi deviazione sul tema. Dalla crisi della Grecia nel 2010 al dibattito sulla manovra italiana nel 2018 l’Olanda è stata sempre il poliziotto cattivo dell’austerità.

A queste prese di posizione l’Olanda, specie nel corso del governo di Rutte, ha agito molto pragmaticamente per ottenere centralità d’azione nel Vecchio Continente. Lo stimolo alla competizione commerciale non ha impedito a L’Aja di ritenere fondamentale l’ottenimento del “rebate”, il rimborso legato allo sconto garantito al Regno Unito sulla sua contribuzione al bilancio europeo.

La Brexit ha segnato un cambio di passo nella rigidità olandese, dato che a lungo la presenza stessa del Regno Unito nell’Unione garantiva all’Olanda un partner di peso alla cui ombra ripararsi per lucrare concessioni. “Dopo l’uscita di fatto del Regno Unito dal dibattito europeo”, scrive Il Post, “i Paesi Bassi hanno perso il loro alleato più prezioso fra i paesi che ritengono che l’Unione Europea funzioni finché conviene”, e si sono messi alla testa di un ampio gruppo di Paesi, dall’Austria alla Svezia, per “combattere le loro battaglie come un’influente minoranza rumorosa, a colpi di veti e intransigenze, piuttosto che partecipare ai faticosi compromessi collettivi”.

L’Olanda in un certo senso riesce a muoversi con tanta sagacia in Europa perchè ne è l’emblema. Senza ipocrisia il governo olandese considera l’Unione un taxi, un mezzo di trasporto; società del benessere e dai valori in continua evoluzione, gli olandesi sono troppo pragmatici per credere davvero alla retorica del “sogno europeo”. E in questa Unione sguazzano perché ne sono lo specchio: dall’iper-competivitià commerciale al mito del primato dell’economia sulla politica, passando per lo sfruttamento sistemico di ipocrisie e doppi standard e per la difesa della trincea del rigore, non vi è atteggiamento olandese che le istituzioni comunitarie non abbiano, in passato, a loro volta cavalcato o manifestatamente propugnato. L’Olanda liberale di Rutte è il Frankenstein dell’Unione Europea, che incentivandone la deriva ne ha favorito la nascita.

FONTE:https://it.insideover.com/politica/alle-radici-del-problema-olandese.html

 

 

L’obiettivo nascosto dell’Olanda

Ha la quinta economia dell’Eurozona, alle spalle di Germania, Francia, Italia e Spagna, ed è il settimo Paese per popolazione. I dati forniti dal Better Life Index di Ocse fotografano un contesto quasi idilliaco, non del tutto esente da ombre. In Olanda la qualità della vita è alta, la disoccupazione rasenta il 3,4% e i cittadini sulla soglia della povertà raggiungono l’8%.

Merito dell’approccio di uno Stato che ha iniettato di steroidi il proprio settore economicotra vantaggi fiscali agevolati e diritti societari agevolati. Un binomio, questo, che negli ultimi decenni ha attirato ad Amsterdam e dintorni un’ingente quantità di multinazionali. Certo è, come hanno fotografato Bce e Commissione europea, le famiglie olandesi devono fare i conti con un debito privato che sfonda il tetto del 200% del reddito netto disponibile. Basti pensare che nella disastrata Italia tale percentuale si attesta al di sotto il 62%.

L’obiettivo di Mark Rutteil premier olandese che ha fatto imbestialire Giuseppe Conte, Angela Merkel ed Emmanuel Macron, è quello di trasformare il proprio Paese in una “piccola potenza” dell’Unione europea. Qualche anno fa L’Aia era considerata una sorta di satellite tedesco che faceva notare ai vari Paesi membri verità che la Germania pensava, ma che Berlino non poteva sottolineare con altrettanta aggressività. Oggi il piccolo nano olandese si è smarcato da ogni pressing e vuole prendersi una fetta più grande d’Europa.

L’asse franco-tedesco che infastidisce L’Aia

Ma quali prospettive può avere l’Olanda? A ben vedere, ha scritto Il Sole 24 Ore, l’obiettivo di Rutte non è affondare l’Italia. Certo, il premier olandese non si fida di Roma e non ha alcuna intenzione di “regalare” soldi a un Paese che potrebbe, a suo modo di vedere, sperperarli senza attuare riforme utili alla causa. Da qui nasce l’esigenza di imporre un potere di veto agli aiuti economici del Recovery Fund, ridimensionare la suddivisione tra sovvenzioni e prestiti e, più in generale, rivedere la governance del piano economico europeo.

Ma dietro al sipario, oltre al braccio di ferro tra frugali e inaffidabili, si nasconde un’altra verità. L’Olanda punta a scardinare l’asse franco-tedesco. Vuole distruggere l’unione d’intenti venutosi a creare tra Macron e Merkel e, soprattutto, evitare che il piano proposto dal tandem Berlino-Parigi possa comportare cambiamenti strutturali nel processo di integrazione mediante l’emissione congiunta di debito. Non solo: il piano di salvataggio dell’Europa comporterebbe, per non sforare i bilanci, un aumento delle risorse per finanziare il rimborso della spesa (dalla digital tax alla carbon tax) e un trasferimento delle stesse dai Paesi del Nord a quelli del Sud, o mediterranei.

Italia stretta tra due fuochi

Il Recovery Fund discusso in Consiglio europeo è frutto di un lavoro coordinato da Francia e Germania. Per motivi contrapposti, questi Paesi hanno spinto per creare un’Europa di responsabilità condivise, compresi rischi e solidarietà. Detto altrimenti, Berlino ha trovato la sponda di Parigi per salvaguardare il mercato unito e la moneta unica, i due pilastri che hanno consentito alla locomotiva tedesca di trascinare l’Eurozona.

Rutte vuole il diritto di veto sui piani di spesa nazionali e sogna un mercato unico efficiente. L’Italia, suo malgrado, si è ritrovata in mezzo a due fuochi, in una battaglia senza esclusioni di colpi. Francesi e tedeschi sono nello stesso schieramento italiano, ma l’Olanda non vuole cedere. L’Aia si sta aggrappando con tutte le sue forze al tema degli aiuti a fondo perduto per scardinare l’asse franco-tedesco. Ebbene, nel caso in cui Rutte dovesse avere la meglio, per Roma sarebbero guai seri.

Rutte non cede

Nel quarto giorno del Consiglio europeo la posizione di Rutte è apparsa più ammorbidita, anche se permangono notevoli distanze tra le richieste dei frugali e quelle degli altri Paesi membri dell’Ue. In mattinata il premier olandese ha parlato del “freno di emergenza”, cioè del meccanismo che consentirebbe a qualsiasi Paese di rallentare l’erogazione di fondi per la ripresa di fronte a una obiezione di uno dei leader in sede di Consiglio europeo. Rutte si è detto “contento” perché adesso c’è “un’ottima bozza del testo di questo meccanismo che, a mio modo di vedere, sta lentamente guadagnando consenso”.

In ogni caso, il negoziato Ue è andato avanti tutta la notte, senza portare a un esito definitivo. Si ragiona soltanto in termini di piccoli progressi, anzi di piccolissimi progressi. Dal punto di vista degli aiuti economici, Rutte ha intenzione di costruire una specie di ponte tra la quantità di denaro investito per le sovvenzioni e quello utilizzato per i prestiti. In sottofondo, ovviamente, resta la compattezza dei Paesi frugali, i quali non hanno alcuna intenzione di sacrificare i propri conti, così perfettamente in ordine. Il braccio di ferro sul Recovery Fund continua.

FONTE:https://it.insideover.com/economia/lobiettivo-nascosto-dellolanda.html

 

 

La verità dell’Ue sta in Rutte

Così parrebbe, nell’ora in cui scriviamo (le 15) che un pessimo compromesso sia stato raggiunto. Non ci sorprende, dacché esiste la Ue, e prima la Cee, vanno avanti a forza di compromessi al ribasso, che spostano le questioni senza affrontarle. La colpa, secondo gli zeloti adepti del culto europeistico, non starebbe nell’Ue stessa ma in qualche cattivo, non abbastanza folgorato dal sacro verbo: negli anni Ottanta era la Thatcher, poi sempre gli inglesi, qualche volta Berlusconi, naturalmente Orban.

È ora la volta di Mark Rutte, l’uomo nero che i mullah europeisti vorrebbero lapidare, e nello stesso tempo anche il vincitore di questa partita, se si concluderà come prevista, con una debacle imbarazzante di Conte, costretto a cedere di fronte a una netta decurtazione del Recovery fund e persino al cosiddetto freno di emergenza.

Certo il danno all’Italia sarà enorme. Ma questo non ci deve spingere al dalli all’olandese, come il povero GEC (Giornalista Europeista Collettivo) che, dopo aver esaltato per anni i Rutte e i socialisti svedesi e danesi come “argine contro i sovranisti” e persino la “figlia di due madri”, la premier finlandese, è costretto ora con espressione ebete ad ammettere che più sovranisti di loro non c’è nessuno.

E infatti cantiamo un grande elogio a Rutte.

1. La prima ragione è che, certo pro domo sua, ha dimostrato che la Ue non esiste. Non è cioè un’unione, ma un intreccio inestricabile di trattati e contratti tra Stati, che un solo paese, la Germania, e un altro ma in posizione subalterna, la Francia, sono riusciti talmente bene a sfruttare da acquisire una posizione nettamente egemone sugli altri. Ebbene, Rutte ha sfidato quest’egemonia, e da ruota di scorta della Germania come è sempre stata, l’Olanda ha acquisito uno status decisionale ben superiore alle sue dimensioni (anche se restiamo convinti che dietro Rutte vi fosse comunque la diabolica cancelliera).

L’emersione dei piccoli non è tuttavia una novità anzi è una modalità normale negli imperi in declino, come avvenne negli ultimi anni di quello asburgico e di quello ottomano, il cui sfaldamento fu una delle cause della Prima guerra mondiale. E niente ricorda più un impero in disfacimento quanto l’Unione europea.

2. La seconda ragione per cui dobbiamo elogiare il premier olandese è che, sempre pro domo sua, ha urlato “il Re è nudo”, ha smascherato l’ipocrisia della Ue. Come tutte le imprese ad alto tasso ideologico (e quella europeista è una ideologia diretta erede dell’Illuminismo, del socialismo e del comunismo) anche la Ue si fonda sulla ipocrisia. Gli ideologi vogliono costruire il mondo nuovo, quindi forzano quello esistente e per farlo devono nascondere, e raccontare una realtà diversa da quella che è. Una Unione fortemente ideologica era ad esempio l’Urss, a cui la Ue tende sempre più ad assomigliare: lì vigeva l’ipocrisia delle repubbliche sorelle mentre tutti sapevano che il bastone del comando l’aveva Mosca. Anche qui, tutti fratelli uguali, ma Germania e Francia più eguali degli altri.

La Ue afferma di essere un’unione che ha superato le nazioni, e invece Rutte ha mostrato essere solo un insieme di nazioni, in lotta per affermare la loro supremazia, o il loro interesse, sulle altre. Stamane, a chi gli chiedeva conto del suo comportamento, Rutte diceva “siamo qui per prenderci cura dei nostri paesi”. Che è l’affermazione più sovranista e quindi più democratica, che possa esserci; Rutte è stato eletto dagli olandesi, non dagli italiani e dagli spagnoli, assurdo chiedergli di rappresentate questi.

Sono state piuttosto le élite politiche, intellettuali, economiche italiane che per decenni sono andate a Bruxelles a prendersi cura … dei paesi degli altri, la Germania soprattutto ma anche la Francia. E hanno poco da irritarsi ora se qualcuno non vuole essere cameriere come sono stati e sono tutt’ora loro.

FONTE:https://www.nicolaporro.it/la-verita-dellue-sta-in-rutte/

 

 

 

POLITICA

Caso Berlusconi: tutti zitti sulle colpe di Napolitano

2 luglio 2020

Le trattative sono il fondamento della politica. Non però se sei Presidente della Repubblica, almeno del nostro ordinamento costituzionale. Qui tu dovresti rappresentare lo Stato non i partiti, e men che meno alcuni a discapito degli altri. Perciò i costituenti consigliavano che il ruolo di presidente dovesse essere ricoperto da figure estranee alle macchine di partito: ma non è quasi mai accaduto.

Se sei il presidente delle trattative, qualcosa insomma non funziona. E Giorgio Napolitano rischia di passare alla storia come tale. Due almeno, le trattative a cui il suo nome è associato; la cosiddetta Stato-mafia che fu nobile, perché il presidente in quel caso avrebbe tutelato la Ragion di Stato, attorno ad eventi in cui non era coinvolto in prima persona (ai tempi della supposta trattativa era solo Presidente della Camera dei deputati). Non a caso 5 Stelle e il gregge travagliaesco, che capiscono di Ragion di Stato come il sottoscritto di astrofisica, hanno attaccato Napolitano soprattutto per questo.

Ora però spunta una nuova trattativa, per certi aspetti più inquietante. Un cronista attento ed autorevole, come Augusto Minzolini, sul Giornale, scrive che, pochi mesi dopo essere stato rieletto, Napolitano in persona si sarebbe recato addirittura di persona presso lo studio dell’avvocato Coppi, legale di Berlusconi dopo la condanna della Corte di Cassazione, Napolitano – continua Minzolini – avrebbe concesso la grazia al Cavaliere solo se questi si fosse ritirato dalla vita politica. E in un’intervista alla Verità di oggi, Gaetano Quagliariello, allora ministro delle Riforme nel governo Letta e molto vicino al Capo dello Stato, conferma che ci fu una trattativa con il presidente della Repubblica.

Il pezzo di Minzolini è stato pubblicato ieri mattina. Reazioni? Zero. Nessun giornale l’ha ripreso, solo La Verità ha affrontato questo argomento con Quagliariello. Nessuna smentita, almeno pubblica. Ma possibile che solo a me paia un’accusa gravissima, se confermata? – e ripetiamo che Minzolini non inventa le notizie.

Il potere di grazia è una delle tante sopravvivenze monarchiche di cui i presidenti (non solo in Italia) sono dotati e come tale è una prerogativa che, però, non può essere sottoposta a mercanteggiamento, pena far perdere autorità al Presidente e senso stesso all’istituto della grazia. Nel caso specifico poi  il «delinquente» da  graziare era un tre volte presidente del Consiglio e leader di quella che dal 1994 al 2008 era stato sempre il primo partito del paese. Peraltro, il presidente della Repubblica «graziante» nei confronti del governo del Cavaliere nel 2011 non era stato affatto protettivo: anzi, assieme a MerkelSarkozy e Obama fu uno degli artefici della sua strana caduta – non a torto ancora oggi Berlusconi lo chiama «golpe»

La grazia in cambio della uscita di scena del Cavaliere, che contrariamente alle previsioni, nelle Politiche 2013 era andato tanto bene da sfiorare la vittoria. E capo del partito, con il Pd, reggente il governo Letta. La sua dipartita, magari per lasciare tutto in mano al suo delfino Alfano, sarebbe stata una ghiotta occasione per normalizzare l’anomalia italiana, creare una sorta di patto consociativo stabile tra la cosiddetta sinistra e il cosiddetto centrodestra e instaurare un regime duraturo. In cui il dominio sarebbe stato esercitato dalla sinistra, a cui Napolitano apparteneva, con un centrodestra privo di Berlusconi ridotto a portatore d’acqua ai post comunisti. Era certamente questo il disegno del capo dello Stato. Ma Berlusconi, plebiscitato solo pochi mesi prima alle elezioni, avrebbe dovuto andarsene, tradendo cosi il mandato di milioni di elettori, in cambio della libertà personale? Non so se ci si rende conto della gravità della trattativa.

L’operazione, per ragioni che forse sapremo più avanti, fallì. E diciamo fortunatamente, perché la normalizzazione dell’Italia avrebbe finito per renderla schiava ancor più di quello che non fecero Letta,  Renzi e Gentiloni, alla Ue e alla Germania di Merkel.

Cosi come fallimentare è stata tutta l’opera del Napolitano 2010-2015, il vero fondatore di questa sgangherata Terza Repubblica: le forzature provocarono solo la distruzione del sistema, senza che egli ebbe la forza, la volontà o il coraggio di portare a termine l’opera. Quando lasciò in anticipo sul suo secondo mandato, nel gennaio 2015, l’Italia era rimasta a metà del guado, per stare al titolo di un suo libro degli anni Settanta. Solo che, anche per responsabilità di Napolitano, ora rischia di affondare, tra i poteri abnormi del Quirinale, il parlamento trasformato in bivacco, i partiti ridotti a consorterie delegittimate di qualsiasi autorità. Il giudizio degli storici sul primo (e si spera ultimo) presidente di provenienza comunista, non potrà che essere molto severo.

FONTE:https://www.nicolaporro.it/caso-berlusconi-tutti-zitti-sulle-colpe-di-napolitano/

 

 

 

SCIENZE TECNOLOGIE

IL MONDO DEGLI ORRORI.
La multinazionale 3M fino al 3 aprile 2020 era detentore del brevetto di produzione dell’adrenochrome, la droga dell’elite ricavata dal sangue di giovanissime vite. Il 2 Aprile 2020 un tweet di Trump accende i riflettori sulla incredibile vicenda.
L’adrenocromo é un prodotto di sintesi derivante dall’ossidazione dell’adrenalina nel flusso sanguigno. La formula é C9H9NO3.
É un potentissimo ringiovanente oltre che un elisir psicotropo.
L’uomo produce fisiologicamente piccole dosi di adrenocromo come prodotto secondario del catabolismo dell’ormone surrenalico adrenalina.
In medicina l’adrenocromo viene somministrato per via endovenosa per curare soggetti epilettici. Sotto forma di adrenocromo monosemicarbazone (carbazocromo) e utilizzato come emostatico nelle emorragie capillari.
Nel libro Paura e delirio a Las Vegas e nel film a esso ispirato, Hunter S. Thompson parla dell’adrenocromo e lo descrive come uno psichedelico dagli effetti simili a quelli dell’LSD; nel film, il dottor Gonzo dice che “la mescalina al confronto è un gingerino”.Anche Aldous Huxley nel suo saggio, Le porte della percezione, riferisce che “l’adrenocromo può produrre dei sintomi osservati nell’intossicazione della mescalina”.
Ma l’adrenocromo riprodotto in laboratorio pare non sia nulla rispetto a quello naturale estratto da esseri in vita, si ottiene principalmente da bambini “donatori”.
Per ottenerlo é necessario che il donatore al momento del prelievo sia terrorizzato con consegiente scarica adrenalinica.
L’adrenocromo é largamente utilizzato da una parte di alcune elite legate alle super logge di derivazione satanica come “la cabala” per intenderci, di cui molte star di Holliwood fanno parte.
Qualche tempo fa eravamo riusciti a scovare il sito di una fantomatica adrenochrome association, era un sito molto criptico che si occupava anche di investimenti oltre che del traffico evidente di tale sostanza. Il sito al momento della stesura non è più online resta attivo il canale youtube con due video criptici quanto agghiaccianti e un videoi che era presente sul sito come spot pubblicitario.
Ecco il video:
Fonti:
La pagina è stata chiusa, resta attivo il canale youtube. Con 2 inquietanti video criptici https://www.youtube.com/channel/UCtDwEjZ2w7SacSalnuRN5QA
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Tags: 3mAdrenochromeTrump
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FONTE:https://www.databaseitalia.it/adrenochrome-la-droga-dellelite-e-il-tweet-di-trump/
Non si devono mandar via i brutti pensieri, non si deve lottare contro le cose che in noi non ci piacciono
Raffaele Morelli – 4 dicembre 2019
agendo così inneschiamo solo un conflitto interiore senza fine. Bisogna imparare a guardare, guardare e basta. Ad esempio, ci sono molti modi di affrontare l’inquietudine: puoi cercare di scacciarla; oppure puoi percepirla come un vento, un’energia che va accolta quando compare, senza alcun commento. Così l’inquietudine diventa un prezioso avviso proveniente dal mondo interno, che non usa le parole ma le emozioni, i sentimenti, i disagi, i disturbi.
L’insegnamento che viene da tutti questi stati dell’animo è di ricordarci che dentro di noi non esiste solo il personaggio che recitiamo sul palcoscenico della vita, ma che ci abitano tanti volti, tante sfaccettature della nostra personalità, che siamo ben altro rispetto a quel che sembriamo essere. I disagi e le inquietudini arrivano proprio per farci scoprire questi altri volti. Così possiamo vederci nuovi ogni giorno: dinamici, mutevoli, imprevedibili. Che cosa capita di nuovo ogni giorno? Questa è la domanda più importante da farsi. Di questo e di tanti altri argomenti parliamo sul numero di dicembre di Riza Psicosomatica, che trovate in edicola. Buona lettura!
Scopri di più su: https://bit.ly/2RiCH6U
FONTE:https://www.facebook.com/RaffaeleMorelliRiza/posts/2663521820399746

 

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