RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 19 GENNAIO 2021

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RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI

19 GENNAIO 2021

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

Non in un Utopia, sotterrati campi,

né in qualche isola nascosta, sa il cielo dove

ma in questo mondo, che è il mondo

di noi tutti, –  è il mondo dove infine

o troveremo la nostra felicità, o non la troveremo del tutto

William Wordsworth, Il preludio, Mondadori, , 1994

 

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La redazione provvederà doverosamente ed immediatamente alla loro rimozione dal blog.

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SOMMARIO

Intelligenza artificiale … o no?
CINA: SORVEGLIARE E RIEDUCARE
MANK: IL CINEMA È UNA BUGIA
PER TORNARE A SPERARE DI POTER FARE L’AMORE
CASALEGGIO E MUCCIOLI 
Le relazioni russo-armene
I veri costruttori? Avvocati e servizi segreti a caccia di responsabili in Senato per Conte
AGENZIA DELLE ENTRATE COME CAPITOL HILL. LA PROFEZIA SULLA RISCOSSIONE DEI CREDITI
Giuseppe Conte e Gualtieri, partite 50 milioni di cartelle esattoriali: massacro fiscale
Invito evento del 27 01 2021 – RICORDO DEGLI AMICI ANDATI OLTRE
Magistratopoli, l’affaire delle indagini incrociate
IUS SOLI, UN PROBLEMA IRRISOLTO
trasformismo
Arrivano i tagli sulle pensioni Pronto lo scippo sugli assegni
IL NOSTRO FUTURO SI SCRIVE IN CINA, “TRA DIECI MINUTI”
ZUCKERBERG IL CINESE
CONTE: TRA VINCERE E PERDERE CERCA DI SOPRAVVIVERE
I COSTRUTTORI DEL CONTE TER
La fake news di Conte sullo Spread
Auto elettrica già fuori moda? Per l’ambiente è meglio l’idrogeno
COVID: un guarito su tre torna in ospedale entro cinque mesi e uno su otto muore

 

 

 

EDITORIALE

Intelligenza artificiale … o no?

Manlio Lo Presti – 20 gennaio 2021

https://restaurars.altervista.org/la-melencholia-albrecht-durer-un-enigma-ancora-risolvere/

La cosiddetta intelligenza artificiale è tutta da verificare!

Più realisticamente e prosaicamente, direi che stanno tentando di abbassare e di rimodellare i comportamenti cognitivi della popolazione per conformali pedissequamente alle procedure utili per fruire della megamacchina delocalizzata operante con terminali periferici (PC, robottini che muovono le ciglia per intenerire, domotica, droni, microchip, telecamere, riconoscimento facciale, auto elettroniche che camminano da sole).

La “pesatura” dell’azione sociale degli umani viene effettuata mediante una VALUTAZIONE DI OGNI COMPORTAMENTO AVENTE CIASCUNO UN PROPRIO PUNTEGGIO CHE DETERMINA L’INTERNAMENTO DELL’ASOCIALE DENTRO APPOSITI CAMPI DI RICONDIZIONAMENTO: https://www.mentinfuga.com/dalla-cina-a-baltimora-governare-sorvegliare-e-punire/ .

Infine: filosofia cyborg, transumanesimo, intraspecismo come fase avanzata del transumanesimo, ecc. ecc. ecc.

La “quaestio” va osservata da una prospettiva rovesciata:

PRIMA si crea una immensa mandria di miliardi di umanoidi TECHGLEBA condizionandola all’uso di procedure astruse, comandi manuali stupidi numerosi e parcellizzati, costrizione ad operare 76 ore al giorno con i sistemi elettronici mediante una selva infernale e autoriproducentesi di micro-programmini detti APP.

POI – mediante una titanica filiera persuasiva (come efficacemente spiegato dall’insuperato Bernays, Propaganda, Lupetti Editore) – tutta questa sceneggiata viene spacciata per INTELLIGENZA ARTIFICIALE!

Bisogna ammettere che, dietro a tutta questa titanica impalcatura tecnotronica, c’è del genio, c’è il lavoro oscuro di migliaia di ricercatori, professori universitari, operatori psicologici, psichiatri, tecnici della sovversione, del controllo comportamentale, studiosi, forze di polizia, sezioni speciali segrete, ecc. (cfr:

https://www.dettiescritti.com/editoriale/ogni-giorno-una-nuova-teoria-ci-detta-cosa-dobbiamo-fare-e-non-fare-lettera-scritta-ad-un-dotto-e-carissimo-amico/ ).

Ma per favore, cerchiamo di non credere alla favolistica narrazione di una intelligenza artificiale che risolverà tutti i nostri problemi come, ad esempio, la inedita mappatura del DNA, la riforestazione, la eliminazione della criminalità, la soluzione della scarsità alimentare e via elencando.

Anche questa volta, gli umani ricadono dentro la trappola della ricerca di una fideistica SOLUZIONE-MOLOCH per poi rimanere ogni volta delusi e affannati a ricercare altri mega-feticci

(cfr: https://www.dettiescritti.com/editoriale/gli-effetti-delle-pandemie-e-la-tecnoscienza-che-incombe/ ).

 

AUGURI!

TEMI TRATTATI

# intelligenzaartificiale #cognitivismo #behaviourismo #megamacchina #sergelatouche #boringhieri #PC #robottinichemuovonoleciglia #domotica #droni #microchip #telecamere #riconoscimentofaccial, #autoelettroniche #APP #filosofiacyborg #cyborg #mappaturaDNA #transumanesimo,#intraspecismo #techgleba #bernays #propaganda #intelligenzaartificiale #fideismotecnologico #A.I. #DNA #scarsitàalimentare #scarsitàrisorse #impoverimento #fideismo #messianismo #esseredallapartegiusta

 

 

 

 

IN EVIDENZA

CINA: SORVEGLIARE E RIEDUCARE

15 OTTOBRE 2018

Un milione di prigionieri internati in campi di rieducazione, un territorio sorvegliato al millimetro da dispositivi di sicurezza di ultima generazione, una popolazione minacciata da uno sterminio culturale architettato alla perfezione dalla macchina repressiva più efficiente del mondo contemporaneo. Succede in Cina, nella provincia nordoccidentale del Xinjiang, dove l’etnia locale uigura è oggetto di un mastodontico esperimento di rieducazione di massa. La conferma che l’ascesa mondiale della Repubblica procede di pari passo con la messa a punto di sempre più avanzati sistemi di controllo sociale, volti a sorvegliare e rieducare.

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Un milione di prigionieri internati in campi di rieducazione, un territorio sorvegliato al millimetro da dispositivi di sicurezza di ultima generazione, una popolazione minacciata da uno sterminio culturale architettato alla perfezione dalla macchina repressiva più efficiente del mondo contemporaneo. Gli intenti: sorvegliare e rieducare.
Succede in Cina, nella provincia nordoccidentale del Xinjiang, dove l’etnia locale uigura – originaria dell’Asia centrale e tradizionalmente musulmana – è oggetto di un esperimento di rieducazione di massa dalle dimensioni mastodontiche, cavia per testare fino a dove la nuova società del controllo messa a punto da Pechino sarà in grado di penetrare le vite e le menti di chiunque osi opporsi alle traiettorie di sviluppo emanate dal centro dell’Impero.
Il destino prospettato da anni agli undici milioni di uiguri residenti in Xinjiang ricalca quello analogo che ha interessato, in passato, la comunità tibetana
Nel caso degli uiguri però, comunità musulmana priva di quell’appeal spiritual-new age in grado di mobilitare i pesi massimi delle relazioni pubbliche internazionali, la minaccia dell’annientamento culturale prospettata da Pechino per anni ha faticato ad emergere nell’agenda dell’informazione mainstream, salvo rari eventi troppo eccezionali per essere ignorati.
Sin da prima del 1949, anno della fondazione della Repubblica popolare cinese, gli uiguri hanno manifestato volontà indipendentiste di matrice etnica, culturale, linguistica e religiosa.
Più affini alle popolazioni centrasiatiche a livello di storia, costumi, lingua e culto rispetto alla maggioranza etnica “han”, al pari dei tibetani gli uiguri hanno subìto una costante “sinizzazione” del proprio territorio.
Cinesi “han” sono stati incoraggiati da politiche governative a trasferirsi in Xinjiang per “fare fortuna”(dei 24 milioni di residenti nella provincia, oltre la metà sono oggi di etnia han), è stata attuata una progressiva sostituzione dell’idioma locale turco – uiguro – col cinese mandarino, grandi opere e centri urbani sono stati realizzati sulle macerie di quelle che furono tra le tappe più rigogliose ed evocative della fu Via della Seta o al posto delle bellezze naturali di un’aspra terra di frontiera (Xinjiang in mandarino si traduce proprio “nuova frontiera”).
L’avanzata del progresso con caratteristiche cinesi non è stata accolta senza sommosse popolari a difesa della specificità etnica locale, combaciate con l’introduzione, grazie al Patriot Act post 11 Settembre del presidente George W. Bush, dell’equazione “musulmano = terrorista”, fondativa del nuovo assetto securitario internazionale.
Un’idea sposata con entusiasmo dalla dirigenza di Pechino che nel 2009, in seguito a una serie di violenze di matrice etnica nella capitale provinciale Urumqi, si è ritrovata nella posizione ideale per perseguire i propri intenti: “pacificare” il Xinjiang nel nome della “lotta al terrorismo internazionale”.
Dal 2009 in avanti la presenza di apparati militari cinesi in Xinjiang è aumentata esponenzialmente, tramutando l’intera provincia in uno stato di polizia.
Dal 2013, con l’elezione del presidente Xi Jinping e l’inaugurazione del progetto Nuova Via della Seta, l’importanza di un Xinjiang “armonizzato” e centro nevralgico del network commerciale internazionale cinese ha portato alla creazione dei primi “centri di de-estremizzazione”, strutture dove uomini uiguri e kazaki sospettati di simpatie indipendentiste e/o estremiste islamiche venivano rinchiusi per seguire programmi di rieducazione culturale: studio dei pregi del sistema marxista-leninista declinato alla cinese, mandare a memoria canzoni patriottiche, ripudiare la cultura uigura abbracciando i tratti linguistici, culinari, politici e anti-religiosi perno dell’unità nazionale concepita dal Partito.
Metodi non dissimili dal sistema di rieducazione in vigore durante la Rivoluzione Culturale negli anni Sessanta ma che ora, avvalendosi di intelligenza artificiale e sistemi di controllo sopraffini gestiti dagli amministratori cinesi, sono pronti a fare il salto nell’era moderna della sorveglianza digitale.
L’introduzione di meccanismi orwelliani nell’esperimento biopolitico uiguro promosso dal Partito comunista cinese si deve al nuovo segretario (del Pcc in Xinjiang) Chen Quanguo, trasferito nel 2016 da un Tibet, grazie a lui, ormai completamente soggiogato alle volontà di Pechino.
Kate Cronin-Furman, professoressa di diritti umani alla University College of London, parlando del “genocidio culturale” in corso in Xinjiang, spiega su «Foreign Policy»: «L’operazione portata avanti dalla Cina richiede un enorme network di intelligence in grado di monitorare ogni abitazione di uiguri nel Paese e di raggiungere all’estero i membri della diaspora, una tecnologia biometrica in grado di identificarli e di seguirne i movimenti, la costruzione di un gigantesco sistema di campi per rinchiuderli, e personale di polizia per controllarli durante la detenzione e sovrintendere alla loro “rieducazione”».
Si tratta di un assetto che, grazie all’ingente esborso di fondi garantito dal governo al segretario Chen, in Xinjiang è già realtà e in funzione a pieno regime.
Le autorità cinesi per mesi ne hanno negato l’esistenza, derubricando le denunce riprese dalla stampa internazionale come illazioni volte a screditare l’opera di Xi Jinping e, al contempo, rendendo impossibile l’uscita dal recinto Xinjiang di informazioni giornalisticamente comprovabili.
Ne è esempio l’incredibile reportage pubblicato lo scorso luglio dal magazine tedesco «Der Spiegel», firmato da Bernhard Zand: una cronaca minuziosa del clima di terrore, sospetto e controllo avanzato imposto dalle autorità cinesi in Xinjiang grazie a un capillare sistema di videosorveglianza, riconoscimento facciale, monitoraggio di social network e telefoni cellulari e un dispiegamento di forze – specie in borghese – che non ha pari in nessun altra località della Repubblica.
Secondo una ricerca accademica compilata da Adrian Zenz, considerato il massimo esperto mondiale del sistema di rieducazione al momento attivo in Xinjiang, gli uiguri rinchiusi in campi di rieducazione cinese oscillano tra le centinaia di migliaia e il milione, forbice di approssimazione piuttosto ampia ma dovuta all’impossibilità di ottenere cifre ufficiali in merito.
Se dovessimo prendere per buona la stima più alta, significherebbe che oggi quasi un uiguro su dieci è detenuto in uno dei 73 centri realizzati ad hoc dall’amministrazione cinese, per una spesa pari a 85 milioni di euro.
La somma non comprende le spese di gestione delle strutture né gli stipendi del personale impiegato nei centri di rieducazione, presumibilmente in crescita esponenziale come il resto dell’apparato di polizia impiegato in Xinjiang: sempre Zenz, in un precedente intervento pubblicato dalla Jamestown Foundation, indicava che nel solo 2016 il governo locale ha pubblicato 31.687 annunci di lavoro nel settore della sicurezza, il triplo rispetto all’anno precedente.
Due ex detenuti in campi di rieducazione in Xinjiang hanno raccontato al «Washington Post» come si svolge una giornata tipo nel centro: alzabandiera alle 6:30; recita collettiva di uno o più canti “rossi” che celebrano la rivoluzione comunista; colazione; dieci minuti di ringraziamento collettivo al Partito comunista e a Xi Jinping per aver fornito ogni cosa, cibo e acqua compresi; studio di materie come “lo spirito del diciannovesimo congresso del Partito”; ancora canti di lode al presidente Xi; addestramento militare; e infine redazione del rapporto giornaliero da consegnare alle autorità del campo.
Tra le punizioni inflitte ai disobbedienti i due ex detenuti, ora in Kazakistan, hanno elencato: privazione del sonno, water boarding, obbligo di mangiare maiale e bere alcol.
I detenuti, che variano tra sospettati di estremismo a uomini colpevoli di visitare troppo spesso la moschea o ricevere troppe telefonate dall’estero, vengono chiusi nei campi senza alcun processo né accesso ad avvocati; solitamente, vengono prelevati di notte o all’alba dalle loro case o per strada e, semplicemente, spariscono.
Dopo aver negato per mesi l’esistenza di un tale apparato di controllo, di recente il governo cinese ha ufficializzato alcune modifiche alle normative anti estremismo in vigore in Xinjiang, introducendo a norma di legge l’istituzione di strutture dove persone “affette da pensieri estremisti” potranno frequentare dei corsi di “vocational skill training” e sessioni di “psychological counseling” per «aiutarle a rientrare nella società e nelle proprie famiglie».
Si tratta di un’ufficializzazione ex post di strutture che rappresentano l’ultimo ingranaggio di un sistema di controllo e rieducazione mai così pervasivo nella travagliata storia della Repubblica popolare.
Annuncio, non a caso, arrivato in tandem all’inaugurazione di una campagna “anti-halal” promossa dall’amministrazione statale: i funzionari locali sono stati invitati a «intensificare la battaglia ideologica» contro la diffusione del marchio “halal” – “permesso”, nell’Islam, al contrario di “haram”, “vietato” – affibbiato a beni di consumo dalla comunità musulmana locale.
Tra sorveglianza, incarcerazioni arbitrarie e processi di rieducazione presentata come “de-estremizzazione”, come già accaduto per la comunità tibetana, anche gli uiguri fronteggiano la minaccia di un sistematico e costante annientamento culturale, un genocidio perpetrato non più sui corpi delle minoranze etniche, ma direttamente sulle loro menti.
In una recente lezione tenuta presso il Fairbank Center for Chinese Studies dell’università di Harvard, il professor Adrian Zenz ha spiegato: «L’obiettivo delle campagne di rieducazione sulla popolazione uigura, su quella kazaka e su altre minoranze etniche è il cambiamento forzato e profondo dell’essenza dell’essere umano, cambiare veramente e completamente le persone nel profondo».
Azat, uiguro intervistato da Bbc per lo speciale dedicato dall’emittente britannica ai campi di rieducazione in Xinjiang lo scorso mese d’agosto, così ha riassunto le condizioni dei detenuti incontrati durante una visita in uno dei campi:
«Era l’ora di cena. C’erano almeno 1200 persone con in mano ciotole di plastica vuote. Erano obbligati a cantare canzoni pro Cina per ricevere del cibo. Erano come robot. Sembrava avessero perso la propria anima. Conoscevo bene molti di loro, spesso cenavamo insieme. Ma ora non mi sembravano più normali. Si comportavano come se non fossero al corrente di ciò che stavano facendo. Come se avessero perso la memoria in un incidente stradale».
Le fonti:

FONTE: https://www.idiavoli.com/it/article/cina-sorvegliare-e-rieducare

 

 

 

 

ARTE MUSICA TEATRO CINEMA

MANK: IL CINEMA È UNA BUGIA

17 12 2020

Girato in un bianco e nero digitale tanto splendido quanto falso, “Mank”, l’ultimo film di David Fincher rilasciato da Netflix, sembra essere un omaggio alle vecchie pellicole, ai proiettori e alle sale per la visione collettiva. In realtà è un film contro il cinema, inteso come apparato ideologico nell’epoca in cui, sotto il dominio del capitalismo delle piattaforme, il cinema stesso muore.

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«Quando sento parlare di cultura, metto mano al libretto degli assegni» dice il produttore Jerry Prokosch (Jack Palance) al regista Fritz Lang (Fritz Lang) in una memorabile scena meta-cinematografica di Le Mépris (Il disprezzo, 1963) di Jean-Luc Godard. Ed è questa la prima cosa che viene in mente al termine della visione di un altro capolavoro di meta-cinema come Mank di David Fincher, uscito in questo dicembre di pandemia per Netflix.
 
A suggellare, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la morte del cinema, a prescindere dalla morte delle sale cinematografiche. A svelare, dopo che già era stato svelato innumerevoli altre volte, che il cinema è un grande inganno. Una bugia. E per fare cinema, bisogna solo raccontare storie, appunto: bugie.
 
Basato su una sceneggiatura scritta da suo padre, il nuovo film di Fincher è un trattato polisemico sul cinema, il suo linguaggio e i suoi ingranaggi. Un saggio politico e psicoanalitico sull’inganno dell’immaginazione e sul potere dell’ideologia, sul condizionamento dei desideri e sulla manipolazione dei sogni. E non a caso prende spunto dal famoso saggio Raising Kane di Pauline Kael, critica cinematografica del «New Yorker», una delle più importanti studiose del ruolo politico dell’immaginario cinematografico e dei relativi effetti.
 
Nel saggio, Kael, che ha scritto altre e migliori cose sulla settima arte, sosteneva che la sceneggiatura di Citizen Kane (Quarto Potere, 1941) non fosse stata scritta dal regista Orson Welles, che per quel capolavoro si aggiudica proprio l’Oscar alla sceneggiatura, ma dal derelitto e alcolizzato Herman Mankiewicz, il “Mank” del titolo, autore di diversi testi per i fratelli Marx e a sua volta fratello maggiore del poi ben più famoso Joseph L. Mankiewicz, autore di opere intramontabili come A Letter to Three Wives (Lettera a tre mogli, 1949) e All About Eve (Eva contro Eva, 1950).
Ma non è importante che la storia raccontata da Kael sia vera o meno, anche perché è stata abbastanza smentita da successive e documentate analisi (di Peter Bogdanovich e Robert Carringer). Anzi, forse quello che conta di più è proprio che non lo sia. Perché la costruzione del paradosso per cui un inganno viene svelato attraverso un altro inganno, è cinema all’ennesima potenza.
 
Il film di Fincher, in cui un immenso e meraviglioso Gary Oldman interpreta Herman Mankiewicz nei quaranta giorni in cui, con una gamba rotta, sdraiato a letto, capace di alzarsi solo per prendere bottiglie di alcool o presunte tali, scrive la sceneggiatura di Citizen Kane per cui – come da contratto – non sarà accreditato, attraverso una lunga serie di flashback ci introduce nel fantastico mondo di Hollywood tra la fine del proibizionismo e il dispiegarsi del new deal roosveltiano.
 
E nel teatro di posa dei sogni incontriamo il magnate della stampa William Randolph Hearst (Charles Dance) cui il Kane di Welles (e la sceneggiatura di Mankiewicz, almeno secondo Fincher) è chiaramente ispirato, e la sua compagna Marion Davies (Amanda Seyfried) prigioniera del castello dei sogni. Incontriamo anche il boss della Mgm Louis B. Mayer (Arliss Howard) e lo scaltro produttore Irving Thalberg (Ferdinand Kingsley), lo sceneggiatore Charles Lederer (Joseph Cross) e il regista Shelly Metcalf (Jamie McShane). Si capisce, fin da subito, che è un film sui rapporti di potere nel e del cinema, ben oltre la querelle sulla paternità di una sceneggiatura.
 
A proposito di Marion Davies va detto che il sogno, o incubo che sia, qui è svelato mediante le immagini, mentre in Citizen Kane è solo raccontato, come ricordo, attraverso le parole. L’intento è aumentare il rimando degli incroci cinefili e dei giochi di specchi tra realtà e finzione, come se fossimo, appunto, in una pellicola di Orson Welles. Come se fossimo nella scena finale del capolavoro The Lady from Shanghai (La signora di Shanghai, 1947). Ma i sogni sono fatti della materia di cui è costituito il potere, e i rapporti di potere nel cinema sono quelli imposti dal dio denaro e dalla liturgia delle parentele.
 
C’è chi possiede i mezzi di produzione e chi ne è escluso, chi da un manufatto completo trae fama e guadagno (il produttore) e chi marxianamente non vedrà mai la propria opera completa (registi, sceneggiatori, costumisti, montatori, attori, direttori della fotografia, maestranze varie) riuscendone solo a controllare il pezzetto a lui destinato dalla catena di produzione: rimanendo, quindi, alienato dalla realtà.
 
D’altronde Hollywood è una pura industria di osservanza capitalista e di matrice fordista, e ne replica pedissequamente i meccanismi. Oltre a questo, Hollywood è anche la fabbrica dei sogni, e quindi un apparato ideologico capace di produrre da sé, e per sé, l’alienazione della merce sulla merce che vende: cioè il pubblico. È questo il cuore del film, esplicitato in maniera evidente nella frase in cui Herman Mankiewicz spiega come il cinema serva ad arricchire il produttore e a creare bisogni nello spettatore. Bisogni la cui promessa di essere soddisfatti è sempre spostata più in là, prodotto dopo prodotto, permettendo all’imprenditore di arricchirsi ad libitum.
 
Girato in un bianco e nero digitale tanto splendido quanto falso, come plasticamente false sono le famose bruciature di sigaretta (in realtà i minuscoli tagli impressi sulla celluloide dalle graffette in fase di montaggio) alla fine di ogni scena, Mank è un omaggio al vecchio cinema delle pellicole, dei proiettori e delle sale per la visione collettiva, nel momento storico apicale in cui il cinema muore. Un’arte che fuori dalla catena di montaggio fordista non regge più il confronto con sé stessa e con l’ego dei suoi autori, basti pensare ai film usciti appositamente per le piattaforme come The Irishman, Da 5 Blood, Marriage Story, I’m Thinking of Ending Things, The Trial of the Chicago 7: progetti mastodontici e totalmente fuori controllo, meravigliosi e inguardabili.
E Mank è anche un film contro il cinema, vecchio e nuovo, inteso come apparato ideologico costruito per mercificare lo spettatore. Il sintomo non espresso, il cuore nero mai illuminato, la vera opera attorno cui ruota tutto il film di Fincher non è infatti il Citizen Kane di Orson Welles ma la pellicola voluta da Randolph Hearst e da Louis B. Mayer (e girata dal regista Shelly Metcalf, che poi forse si uccide per questo, perché ha scoperto di aver il parkinson) per distruggere l’astro nascente della politica: il pericolosissimo Upton Sinclair che rischia seriamente di diventare il primo governatore socialista della California.
 
E degli Stati Uniti, pochi anni dopo la rivoluzione bolscevica in Russia. Ossia quando tutti, nel mondo libero occidentale, sono terrorizzati dal pericolo rosso e ancora preferiscono gettarsi tra le braccia di Hitler e Mussolini.
 
È questo il potere del cinema, come sapevano benissimo tutte le dittature dell’epoca, che fossero burocratiche, totalitarie, borghesi o liberaldemocratiche. Il potere della settima arte è la sua capacità di interpellare le masse in senso althusseriano, ovvero di produrre ideologia, di indirizzarle nei bisogni e nei desideri.
 
Poiché forse non è nemmeno vero che Herman Mankiewicz fosse un socialista e sostenesse Sinclair, come invece appare in Mank, così come è improbabile che sia stato lui da solo a scrivere per intero la sceneggiatura di Citizen Kane, ecco che David Fincher sceglie di scrivere il miglior epitaffio possibile sulla tomba del cinema come lo abbiamo conosciuto nel ventesimo secolo: una bugia che si smaschera attraverso un’altra bugia.
 
E Mank, con la sua struttura (la famosa sceneggiatura?) sincopata e contraria a ogni regola narrativa, piena di flashback e dialoghi fuori tempo e fuori sesto, è forse uno dei film più bugiardi di sempre. Come l’amore per il cinema, e la sua morte nell’epoca del capitalismo delle piattaforme.

FONTE: https://www.idiavoli.com/it/article/mank-il-cinema–una-bugia

 

 

 

ATTUALITÁ SOCIETÀ COSTUME

PER TORNARE A SPERARE DI POTER FARE L’AMORE

Per tornare a sperare di poter fare l’amoreChi non lavora, non fa l’amore cantava Adriano Celentano negli anni Settanta. A lavorare passiamo gran parte della nostra giornata. Al lavoro dedichiamo gran parte delle nostre energie psico-fisiche. È grazie al lavoro che riusciamo a guadagnare il denaro che ci permette di vivere, di realizzare i nostri sogni, di occuparci delle nostre esigenze e delle esigenze della nostra famiglia. Quando manca il lavoro è come se ci mancasse la terra sotto i piedi. Il lavoro ci gratifica e ci rende vivi. La mancanza di lavoro ci fa sentire dei falliti, senza meta e senza dignità. Disoccupato, esodato, licenziato: termini che in tempi pandemici ricorrono frequentemente. Termini che sottintendono una condizione psichica di ansia, depressione, disperazione. Senza lavoro ci si sente senza dignità, senza valore. Ivano, Marco, Giovanna, Sabrina sono solo alcuni nomi della moltitudine, di uomini e donne, che oggi invocano la possibilità di avere un lavoro, che gridano forte la loro disperazione e il bisogno di poter dimostrare a se stessi e agli altri di essere utili, capaci, affidabili. Chi è senza lavoro ha certamente il portafoglio vuoto ma è soprattutto il vuoto interiore che genera il vissuto di “povertà”.

Negli anni Novanta il regista Peter Cattaneo mise in scena gli effetti della crisi economica in Gran Bretagna nel film “Full monty”. Cattaneo pose l’accento sulla negazione come meccanismo di difesa che la mente mette in atto per non affrontare la cruda realtà. Mentre gli operai si disperavano per il quotidiano, ma in qualche modo facevano resistenza alla depressione, il loro capo, un colletto bianco, usciva ogni giorno di casa in giacca e cravatta e non osava dire alla moglie che non aveva più un lavoro. Se ne vergognava, come se fosse colpa sua. La vergogna contribuisce a creare il senso di spaesamento, di emarginazione che spesso accompagna il vissuto psichico di chi si trova a vivere la disperata condizione di vuoto lavorativo. Vergogna, senso di colpa, solitudine e sentimenti di rivalsa e vendetta, sono i vissuti dolorosi di chi non trova una prima occupazione o di chi la perde. Oggi la disoccupazione può essere vista alla stregua di una vera emergenza sanitaria, non è soltanto un problema di bilanci o conti pubblici ma, come dimostrano recenti studi di psicologia sociale, è altissima la correlazione tra inoccupazione, lavoro precario e l’insorgenza di ansia, depressione, attacchi di panico, abuso di sostanze, condotte devianti e auto-distruttive, disturbi nella sfera affettiva e relazionale.

Troppo spesso le pagine dei giornali e le notizie dei telegiornali ci presentano storie drammatiche che hanno come protagonisti il dolore e la disperazione di persone che hanno perso il lavoro e che non riescono più a tollerare la frustrazione di percepirsi ed essere percepiti dei “parassiti”, dei “nullafacenti”, dei “pesi per la società”. Se chi è senza lavoro riuscisse a concepire che la disoccupazione rappresenta un vissuto emotivo simile ad un lutto, forse riuscirebbe a chiedere aiuto, a farsi aiutare ad elaborare i sentimenti di angoscia, disperazione, impotenza, vergogna e colpa che soffocano la speranza e la fiducia nelle proprie capacità. La fiducia è elemento indispensabile per poter tornare a sperare, è elemento indispensabile per poter tornare ad ascoltare i propri bisogni e a ridare vitalità alle proprie risorse ed energie. Risorse ed energie che l’imprenditore milionario Chris Gardner non esitò a mettere in campo quando, negli anni Ottanta, visse giorni di intensa povertà, senza casa e con un figlio a carico. La storia del milionario disperato è stata riprodotta nel film “La ricerca della felicità”. Una ricerca difficile ma anche possibile se si seguono le orme di Chris e se si sceglie di “combattere” e non di soccombere, se si sceglie di condividere e non di isolarsi, se si sceglie di affrontare e non di far finta di niente, se si sceglie di andare e non di rimanere fermi, se si sceglie di concepire che “non vi è alcun sentiero verso la felicità: la felicità è il sentiero” (Buddha). Il sentiero che una società può provare a tracciare in questo momento pandemico potrebbe essere quello di creare opportunità di sostegno psicologico, che possa fornire alle donne e agli uomini in difficoltà lavorativa un contesto di condivisione e scambio. Prendersi cura della salute mentale dei lavoratori in difficoltà è creare le basi per promuovere un circuito virtuoso, di speranza e fiducia, contro l’isolamento e la disperazione.

(*) Psicoanalista e docente universitario di Psicologia generale

FONTE: http://opinione.it/societa/2021/01/19/maura-ianni_adriano-celentano-disoccupato-depressione-negazione-denaro-parassiti-nullafacenti-rivalsa-emergenza/

 

 

 

BELPAESE DA SALVARE

CASALEGGIO E MUCCIOLI 
Rosanna SPADINI – 16 01 2021
Di Marco Canestrari – Se non avete ancora visto #SanPa, la miniserie Netflix che racconta la storia della comunità di San Patrignano, fatelo. Quella storia dice molto di noi, di come l’Italia (non) affronta i problemi, di come si affidi sempre a stregoni, guru, guaritori vari.
Io, data la mia esperienza personale, ci ho visto tanto della vicenda di Gianroberto Casaleggio e del Movimento 5 Stelle. Se ci pensate, Casaleggio era una sorta di Muccioli della politica. Un po’ di esperienza nel proprio settore con la moglie, passione per l’esoterismo, forti convinzioni basate sostanzialmente sul nulla, tendenze autoritarie, scarsa conoscenza e scarso rispetto per le norme del comune vivere civile (meglio note come leggi), l’intuizione che sarà il suo successo e la sua rovina.
La miniserie è divisa in cinque puntate, che voglio ripercorrere per fare un parallelo con la storia di Casaleggio e del Movimento. Del resto, entrambi si definiscono comunità.
NASCITA
Chi era Muccioli? Chi era Casaleggio? Due visionari dediti ad aiutare gli altri o due stregoni che si sono approfittati del disagio e della mancanza di alternative da parte delle Istituzioni?
Certo il background culturale dei due non era sovrapponibile. Casaleggio aveva ricevuto una buona istruzione, aveva costruito una rispettabile carriera ed era un uomo di ottime letture. Muccioli, al contrario, viene descritto come persona senza particolari doti, conoscenze, capacità o aspirazioni. Senza una chiara professione, si dedica all’amministrazione dell’albergo della moglie mentre coltiva la sua curiosità verso l’esoterismo e vive allevando galline nella casa di campagna. Organizza sedute spiritiche, si propone come guaritore (pare sia così che conosce Gian Marco Moratti, anche se non sono chiare le circostanze) e, negli anni settanta, aiuta qualche decina di ragazzi a disintossicarsi. Nel farlo, rifiuta la cosiddetta “medicina tradizionale” (cominciate a trovare qualche filo rosso, vero?) e propone un metodo di comunità facendo lavorare i ragazzi nella cascina di famiglia sulle colline di Coriano.
Il contesto storico in cui nasce San Patrignano è molto diverso da quello in cui Casaleggio decide di fondare il proprio partito, ma ci sono alcuni tratti comuni su cui vale la pena soffermarsi.
Se negli anni Settanta la crisi dei valori porta molti a cercare un senso nelle droghe (lo so, è semplicista messa così, ma cercate di seguirmi), negli anni Duemila la crisi delle ideologie e quella economica ultraventennale che colpisce l’Italia crea le condizioni favorevoli al santone di turno.
Casaleggio non è carismatico come Muccioli, ha un aspetto anche un po’ stravagante, però è capace di proporre soluzioni facili a problemi complessi, proprio come il guaritore romagnolo. Problemi veri, soluzioni affascinanti, in alcuni casi – poi usati come promozione – efficaci.
Gianroberto Casaleggio capisce il cambio di scenario politico, economico e sociale che la rivoluzione tecnologica sta causando. Capisce anche che c’è in atto una tendenza: l’Italia è uno dei paesi con la minore scolarizzazione avanzata, la minore produttività e le maggiori barriere all’ingresso della partecipazione politica e sindacale. Un mix fatale che lui vede come una opportunità: dare l’occasione di facile riscatto a un esercito di scappati di casa, in cambio di eterna fedeltà (e in seguito trecento euro al mese).
Casaleggio e Muccioli, almeno all’inizio, erano guidati da buone intenzioni? Vai a saperlo. Di certo avevano un lato del carattere molto simile, determinante per l’esito delle rispettive iniziative: non accettavano alcuna critica. Si percepivano come unici portatori di una verità rivelata, di una missione per conto di Dio che dovevano portare a termine, a qualsiasi costo.
CRESCITA
Quando sei disperato, reietto e nessuno ti offre soluzioni è facile accettare l’aiuto del primo che offra qualcosa. Anche fosse un regime semicarcerario sostanzialmente violento, come viene raccontato fosse la San Patrignano degli anni Ottanta.
Lo Stato non aveva una strategia per affrontare il problema delle tossicodipendenze, Muccioli offriva una via di uscita soprattutto alle famiglie che non sapevano come salvare i propri figli, diventati violenti. Una via d’uscita che però era sul filo della legalità. I processi hanno portato alla luce veri e propri sequestri di persona ai danni degli ospiti della comunità che cercavano di scappare. Violenze morali e fisiche per distruggere la personalità dei “drogati” e costruirne una sostitutiva fornita da Muccioli.
Come molti hanno detto: il metodo San Patrignano non esiste. La cura era Muccioli. E Muccioli era di fatto un fascista inconsapevole.
Casaleggio non era fisicamente violento ma lo era moralmente. La violenza si manifestava nel modo in cui puniva chi, a suo insindacabile giudizio, metteva in discussione le sue scelte. Proprio come faceva Muccioli.
Ne hanno fatto le spese molti collaboratori della prima ora (Piero Ricca, per esempio) e membri del partito. Spesso con modalità brutali, come quando pubblicò una conversazione privata per minacciare un consigliere regionale che si era permesso di dubitare alcune scelte o quando espulse interi gruppi locali con un PS. Del blog.
Le fasi di crescita delle due realtà condividono aspetti non secondari che vorrei sottolineare.
Come Muccioli ha contato sull’aiuto dei Moratti per i finanziamenti, di Red Ronnie per la visibilità mediatica e di alcuni palcoscenici per acquisire credibilità, così Casaleggio ha contato sui suoi sponsor.
Beppe Grillo, anzitutto: come Red Ronnie un popolare presentatore televisivo disposto a bersi e sponsorizzare qualsiasi minchiata gli fosse proposta. Epoca diversa, ovviamente: non sulla tv ma in Rete Grillo ha fatto esplodere il metodo Casaleggio.
Antonio Di Pietro, il Moratti di Casaleggio: politico di lungo corso che ha potuto finanziare per anni la creatura di Casaleggio sotto forma di consulenze per il proprio partito, che verrà poi abbandonato al momento più opportuno.
E che dire dei palcoscenici? Le aule di tribunale per Muccioli, gli appuntamenti elettorali per Casaleggio e il Movimento 5 Stelle.
Ma c’è un aspetto ancora più importante che credo sia comune ai due personaggi. Abbiamo già detto della loro totale incapacità di accettare critiche o mettere in discussione le proprie scelte. Come di declinava questo aspetto nelle due realtà?
Muccioli si è sempre rifiutato di sottoporre a un’analisi scientifica il metodo San Patrignano. Perché, a detta di chi si occupa oggi di dipendenze, i risultati sarebbero devastanti. Quando è stato tentato un simile studio, i dati forniti erano di fatto truccati e quindi non scientificamente validi. Il santone, a quanto pare, non voleva si dimostrasse la validità delle proprie intuizioni.
Casaleggio si è sempre rifiutato di sottoporre ad analisi scientifica le soluzioni proposte dal suo partito. Dal reddito di cittadinanza ai maggiori tassi di partecipazione alla politica che, secondo lui, comportava l’uso di piattaforme tecnologiche per il voto, nulla sappiamo sui reali effetti delle sue proposte.
Ancora, il rapporto con la legge. Guardando SanPa si capisce chiaramente il fastidio per il codice penale che aveva Muccioli, quando questo cozzava con la sua visione di educazione. Allo stesso modo, Casaleggio aveva un modo tutto suo di rapportarsi alla legge. Ricordo una sua telefonata furiosa con un povero funzionario della sua banca, quando una norma voluta da Tremonti aveva imposto la disponibilità per lo stato per la liquidità sui cosiddetti conti dormienti. Casaleggio si rifiutava di capire perché la banca dovesse obbedire a una legge dello Stato, dato che il contratto l’aveva stipulato col correntista.
FAMA
Nella terza puntata della serie, SanPa è una realtà in forte crescita. Crescono gli ospiti, crescono i finanziamenti, cresce la popolarità di Muccioli. Molti descrivono questa crescita troppo veloce.
Quando è alto il ritmo di crescita è alto il numero di decisioni che si devono prendere. Può Muccioli gestire tutto da solo? Ci prova. E per un certo periodo ci riesce pure, a costo dell’inasprimento delle regole che governano la comunità.
Chi segue i miei scritti sarà già forse andato con la mente al 2013. Il Movimento 5 Stelle nel giro di pochi mesi passa dal 4-5% al 25%. Quasi duecento parlamentari vengono eletti col voto politico di quell’anno. Tutte persone senza esperienza, a cui viene delegato un potere grandissimo. Casaleggio, per mantenere l’ordine, minaccia ed espelle parlamentari violando le sue stesse regole, saltando qualsiasi procedura.
Come a Muccioli sfugge di mano la comunità, così a Casaleggio sfugge di mano il partito.
Nel caso del Movimento, c’è un fatto in più che complica le cose. Se Vincenzo Muccioli era esplicitamente il padre padrone della sua creatura, Casaleggio viene allo scoperto relativamente tardi. Non tutti nel partito e tra gli eletti lo conoscono e comprendono il suo ruolo. Anche per questo c’è grande confusione.
DECLINO
Anche Casaleggio affronta il declino, così come lo dovette affrontare Muccioli. Le loro creature sono cresciute senza i fondatori che si sono fatti fisicamente carico delle tensioni e delle difficoltà, arrivando ad ammalarsi.
Qui però le storie divergono. Muccioli fu protetto e sostenuto dalle persone a lui vicine, mentre Casaleggio fu di fatto esautorato dai parlamentari che, imponendo nel 2016 il famoso direttorio, spostarono l’asticella del potere da Milano a Roma.
Forse, questo diverso esito è dovuto al diverso modo in cui Muccioli e Casaleggio hanno affrontato la popolarità e il potere acquisito. Il primo abbracciando il proprio ruolo pubblico, cavalcando l’onda del successo; il secondo rifiutando la visibilità che, in sintesi, lo fece apparire debole. Lo era, ma per via della malattia. Se si fosse sottoposto a un minimo di controllo democratico, forse la storia sarebbe stata scritta in maniera diversa.
CADUTA
Ma con la caduta le vicende tornano ad assomigliarsi.
Le due comunità sono cresciute, come dimensioni e come modalità di amministrazione, e sono sopravvissute ai propri fondatori. Ereditate dai figli, persone totalmente inadeguate al ruolo, lontane anni luce dalle capacità, qualsiasi fossero, dei genitori.
Soprattutto, troviamo in entrambe le storie la retorica dei traditori.
Questo, più di ogni altra cosa, mi ha colpito e di fatto spinto ad argomentare le similitudini tra le due realtà.
Il figlio di Muccioli, come quello di Casaleggio, chiama traditori gli ex collaboratori che, avendo dedicato molto della propria vita alla comunità, se ne sono allontanati non condividendone le derive. La categoria del tradimento è propria delle sette. Ma come il Movimento non è una setta così non lo è San Patrignano. Eppure delle sette hanno usato e usano i metodi.
Personalmente, reputo che questo sia dovuto alle tendenze all’esoterismo dei due fondatori. Credo che né Muccioli né Casaleggio credessero alle panzane di cui erano appassionati ma che sia l’uno che l’altro ne avessero capito la potenza.
Casaleggio, forse, facendo un passo in più: capendo che, in fondo, è la semplificazione di concetti complessi ciò che permette ai maghi e ai guaritori di avere successo. Le persone non vogliono fare fatica, non hanno tempo e voglia di studiare, comprendere, valutare. Vogliono soluzioni pronte all’uso, di semplice applicazione, di grande appeal.
Sei tossicodipendente? In comunità, isolato finché non ti passa la crisi di astinenza. Poi che fai? Resti lì, a lavorare per la comunità. Funziona? Boh.
Hai difficoltà economiche? Reddito di cittadinanza. Poi che fai? Ti viene cercato un lavoro. Funziona? Boh.

FONTE: https://www.facebook.com/rosanna.spadini/posts/4196016133759861

 

 

 

Le relazioni russo-armene

FONTE: http_www.madrerussia.com/?url=http%3A%2F%2Fwww.madrerussia.com%2Fle-relazioni-russo-armene%2F

 

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

I veri costruttori? Avvocati e servizi segreti a caccia di responsabili in Senato per Conte

Sopra all’imponente portone di piazza Cairoli 6, a Roma, sventola la bandiera russa. La sede dell’ufficio culturale russo, distaccamento diplomatico dell’ambasciata di Mosca, sta al piano nobile del palazzo. Dietro alla bandiera, disposti su due piani, gli uffici dove per anni ha esercitato l’avvocato Giuseppe Conte, ora divisi tra Studio Alpa e Studio Di Donna. Due studi legali diversi, formalmente. Ma quando lo cerchiamo, scopriamo che c’è uno stesso numero di telefono per Guido Alpa e per Luca Di Donna, l’avvocato che starebbe effettuando per conto del presidente del Consiglio qualche telefonata di sondaggio, chiamiamolo così, con i senatori ancora indecisi, in quella terra di mezzo che per Conte può diventare Terra promessa. È da quelle stanze che si tirano le reti per la pesca miracolosa della fiducia a Palazzo Madama.
Abbiamo cercato Di Donna. La segretaria che risponde al telefono chiede per quale pratica stiamo chiamando: l’avvocato è sempre impegnato al telefono. Per l’appunto. Quando diciamo di essere giornalisti però ci liquida: “Scriva una mail”. Scriviamo, senza esito.
Hanno calato l’elmetto, nella trincea di piazza Cairoli. Impossibile parlare con il mentore di Conte, Alpa. Il giurista e dominus dello studio è stato a lungo a capo del Consiglio nazionale forense, la potente cabina di regìa dell’avvocatura italiana. Molte voci lo tirano in ballo ancora in questi giorni: il suo rapporto con il premier è sempre stato stretto. Già a bottega da Alpa, Conte sostenne nel 2002 un concorso a cattedre come ordinario per l’Università di Caserta, e nella commissione giudicante si ritrovò a dimostrare quanto appreso nello studio Alpa davanti al titolare del medesimo. Il coordinatore dell’Organismo congressuale forense, Giovanni Malinconico precisa il perimetro di gioco: «Potrebbero esserci stati movimenti, non lo escludo. Ma Alpa e Mascherin, va precisato, non rappresentano più i vertici dell’avvocatura. Chi oggi alza il telefono, lo fa a titolo personale».
«Quello che si legge sui giornali lascia senza parole», dice Michele Anzaldi. «In questo finale di partita ci sono già troppe ombre, a partire dalla inquietante vicenda dell’hackeraggio che avrebbe subìto il presidente del Consiglio sui canali social, circostanza che Facebook Italia ha smentito». Sul punto il deputato di Italia Viva ha presentato una interrogazione parlamentare. «Trovo anche molto inquietante leggere che vi sarebbero ambienti vicini ai vertici della Finanza dietro a qualche pressione. Sarebbe opportuno che sulla questione venisse convocato subito il Copasir». Le barbe finte sarebbero già in campo, a leggere in giro. Perfino il Prefetto Gennaro Vecchione, capo del Dis, sarebbe nella war room, secondo voci insistenti. Tra lui e Conte c’è più di una collaborazione istituzionale. Di sicuro c’è una grande amicizia anche personale, facilitata dalla consuetudine tra le consorti. E agli atti c’è la scivolosa frequentazione da parte del Generale della Link Campus, l’università vicina ai Cinque Stelle da cui provengono almeno due dei ministri di Conte. Lo fa notare chi punta sull’insistenza del premier a tenere stretta la delega ai servizi, delega che solo ieri Conte avrebbe deciso di destinare; non c’è ancora ufficialità, ma dovrebbe andare al segretario generale della Presidenza, Roberto Chieppa. La GdF smentisce tutto: «Il presunto coinvolgimento di generali della Finanza per allargare la maggioranza è privo di fondamento». Tutto infondato, tutto inesistente: ma i telefoni dei Senatori “conquistabili” squillano in continuazione. Le ombre si allungano, i misteri si confondono. Le profferte di posti di potere si sovrappongono. «Ricostruire il Paese? Saranno utili i compassi, per la sua ricostruzione», accenna malignamente Giorgia Meloni in aula, guardando Conte negli occhi.

FONTE: https://www.ilriformista.it/i-veri-costruttori-avvocati-e-servizi-segreti-a-caccia-di-responsabili-in-senato-per-conte-189610/

 

 

 

ECONOMIA

AGENZIA DELLE ENTRATE COME CAPITOL HILL

LA PROFEZIA SULLA RISCOSSIONE DEI CREDITI

Agenzia delle Entrate come Capitol Hill: la profezia sulla riscossione dei creditiSolo una decina di giorni di tregua, di respiro, prima che la valanga di cartelle esattoriali (ed atti giudiziari vari) investano inesorabilmente gli italiani. Una sorta di soluzione finale, di regolamento di conti tra Stato e partite Iva, che dovrebbe definitivamente condurre alla chiusura le attività che barcollavano già prima della pandemia. Come anche l’ultimo spintone, per far cascar giù definitivamente tutti quei cittadini indebitati e che, con affanno, pagano mutui ed adempiono alle tante incombenze familiari e personali. Uno staccar la spina ai cittadini malconci per salvare quelli ancora economicamente in normali o buone condizioni? Sembrerebbe così. E ben sappiamo che questi provvedimenti vengono solo firmati da Governi e ministri: i veri ispiratori sono i conciliaboli tra giuristi, alti dirigenti di stato e poteri economici.

Intanto il 2021 è appena iniziato ma economicamente è già finito. Almeno per quel sessanta per cento della base imponibile che trae reddito dal cosiddetto pulviscolo imprenditoriale: ovvero attività commerciali ed artigianali con meno di cinque dipendenti, fatturato annuo pre-Covid sotto i duecentomila euro, costi fissi per mutui, affitti e rate per macchinari e strumenti vari di produzione. Si tratta della maggior parte dei negozianti, artigiani e professionisti che hanno già vissuto l’incubo del film di terrore “non aprite quel cassetto”, direttamente ispirato dalla trovata del “cassetto fiscale”: infatti commercialisti e tributaristi d’esperienza raccomandavano la clientela di non farsi prendere dalla curiosità, perché l’apertura del cassetto avrebbe interrotto i termini prescrizionali di ogni pendenza presso l’Agenzia delle Entrate. Perché quest’ultima funge da bacino di raccolta di tutti i contenziosi in danaro tra cittadino ed enti locali, Stato centrale e spese varie tra giustizia civile ed amministrativa. Ora il vicolo cieco per milioni d’italiani è bello e costruito: da un lato si blocca emostaticamente l’economia per tutto il 2021, dall’altro l’alta dirigenza di stato chiede che non vi siano rinvii nel recapito delle cartelle esattoriali, e sono più di cinquanta milioni di atti per una cifra a dir poco astronomica. Di fatto, questa situazione rompe la pace fiscale tra cittadini non pubblici dipendenti e stato, rendendo risibili eventuali aiuti che il governo avrebbe già stanziato per l’emergenza Covid. Di fatto il 2021 si apre con l’obbligo alla ripresa dell’attività dell’Agenzia delle Entrate: entro il 31 gennaio 2021 verranno recapitate più del trenta per cento delle cartelle in pancia all’Agenzia. L’obbligo è chiaro per i contribuenti: regolarizzare la propria posizione nei confronti del Fisco (dopo la sospensione approvata a marzo 2020, e fino al 31 dicembre 2020) entro sessanta giorni dalla notifica; in caso contrario scattano i pignoramenti veloci, con loro tutte le limitazioni europee (introdotte su input della Banca centrale europea) sull’uso di conti correnti e sul blocco di castelletti bancari, fidi e prestiti. Di fatto è finita la moratoria approvata in emergenza Covid con l’obiettivo di far tirare un sospiro di sollievo alle imprese colpite negli incassi dai ripetuti lockdown. Tecnicamente le attività di invio delle cartelle esattoriali (e di tutti gli atti di notifica di Agenzia delle Entrate ed enti vari) sono già riprese dai primi di gennaio, ma la riscossione effettiva ha inizio dal 31 gennaio 2021.

A conti fatti, l’Agenzia ha censito in invio cinquanta milioni di atti. La notifica riguarderà tutti i contribuenti che hanno una posizione debitoria nei confronti dell’Erario, compresi quelli che rientravano nella moratoria 2020 approvata durante l’emergenza Covid. Dei 50 milioni di atti inviati dall’Agenzia delle Entrate, ben 35 milioni sono atti di riscossione (cartelle, ipoteche, fermi amministrativi) sospesi nel corso del 2020. Altre quindici milioni di cartelle sono state lavorate a gennaio 2021, e riguardano accertamenti, lettere di sollecito e sospetti di morosità: anche queste verranno notificate dal 31 gennaio. Di fatto, il rinvio al 31 gennaio è una mancata sospensione di cartelle esattoriali e notifiche da parte dell’Agenzia: anche in considerazione del prolungamento dello stato d’emergenza e dell’introduzione di nuove restrizioni col “decreto gennaio”. Il Governo, prima delle difficoltà politiche, era intenzionato a correre ai ripari con una nuova rottamazione. Ma questa scelta non godrebbe il placet d’una parte delle sinistre e dell’alta dirigenza di Stato: in molti vedono nella rottamazione “saldo e stralcio” una sorta di condono tombale sui debiti pregressi contratti con la pubblica amministrazione dagli imprenditori. Ne deriva che, difficilmente l’approvazione del decreto “Ristori 5” potrebbe contenere una nuova rottamazione. Perché molti vertici influenti della burocrazia non ravvedono la necessità di far pagare i debiti all’Erario, tramite un piano a rate: un saldo e stralcio che ricorderebbe non poco le “cartelle zoppe” in uso alle esattorie comunali fino agli anni Ottanta. Ne deriva che tra burocrazia e cittadini è ormai gelo, e la stagione non aiuta in tutti i sensi. Questo per molti osservatori è il tallone d’Achille della governabilità: Capitol Hill d’Italia potrebbero rivelarsi (dopo il 31 gennaio) i vari uffici pubblici di riscossione, soprattutto le sedi dell’Agenzia delle Entrate.

FONTE: http://opinione.it/economia/2021/01/18/ruggiero-capone_capitol-hill-pandemia-governi-partite-iva-cartelle-esattoriali-covid-notifica/

Giuseppe Conte e Gualtieri, partite 50 milioni di cartelle esattoriali: massacro fiscale

La pandemia non salva gli italiani dalle cartelle esattoriali. E così alla preoccupazione per il virus si aggiunge quella per il Fisco. Durante quella che è stata definita una crisi socioeconomica senza precedenti, con i ristori che tardano ad arrivare e tasse sempre puntuali, L’Agenzia delle Entrate ha inviato 50 milioni di cartelle esattoriali. Come spiega il Giornale, da una parte ci sono gli atti di riscossione – 35 milioni – e dall’altra accertamenti e lettere di compliance, ovvero comunicazioni bonarie con cui l’ amministrazione finanziaria comunica al contribuente alcune irregolarità, per invitarlo a regolarizzare la sua posizione con il Fisco. Finora era stato dato un po’ di respiro agli italiani, adesso la tregua è finita. E mentre la maggioranza non sa ancora cosa fare – i 5 stelle parlano da settimane di una rottamazione quater – l’opposizione si scatena contro il governo. “Pace fiscale, rottamazione, saldo e stralcio. Basta con litigi e chiacchiere, se c’ è un governo governi e aiuti gli italiani, se non sono capaci si facciano da parte”, ha dichiarato Matteo Salvini. Forza Italia, invece, propone la sospensione delle cartelle esattoriali per tutto il 2021. Intanto è già stata prevista la possibilità di rateizzare gli importi, ma è chiaro che a molti non basta. Un nuovo rinvio delle scadenze poteva essere inserito nella legge di Bilancio, ma ci si è limitati a fare questa concessione fino a fine 2021 solo alle zone terremotate.

FONTE: https://www.liberoquotidiano.it/news/economia/25740393/giuseppe-conte-gualtieri-fisco-50-milioni-cartelle-esattoriali-1-gennaio.html

 

 

 

 

EVENTO CULTURALE

Invito evento RICORDO DEGLI AMICI ANDATI OLTRE

 

GIUSTIZIA E NORME

Magistratopoli, l’affaire delle indagini incrociate

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 21-07-2020 Roma, Italia Cronaca Consiglio Superiore della Magistratura CSM – riunione commissione disciplinare caso Palamara Nella foto: Luca Palamara arriva alla sede del Csm Photo Mauro Scrobogna /LaPresse July 21, 2020  Rome, Italy News Superior Council of the CSM Magistracy – meeting of the disciplinary committee in the Palamara case In the photo: Luca Palamara arrives at Csm

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 21-07-2020 Roma, Italia Cronaca Consiglio Superiore della Magistratura CSM – riunione commissione disciplinare caso Palamara Nella foto: Luca Palamara arriva alla sede del Csm Photo Mauro Scrobogna /LaPresse July 21, 2020  Rome, Italy News Superior Council of the CSM Magistracy – meeting of the disciplinary committee in the Palamara case In the photo: Luca Palamara arrives at Csm

Ricapitolando. La Procura di Roma, nel 2016, indaga alcuni professionisti che hanno legami molto stretti con diversi magistrati. Fra loro c’è l’avvocato Pietro Amara, uno dei principali protagonisti del “Sistema Siracusa”, il sodalizio di magistrati e avvocati finalizzato a pilotare le sentenze al Consiglio di Stato e ad aggiustare i processi, e l’imprenditore Fabrizio Centofanti. Quest’ultimo, grande organizzatore di eventi formativi per le toghe, viene accusato di aver messo a libro paga Luca Palamara: in cambio di viaggi e cene l’ex presidente dell’Anm sarebbe stato a disposizione per nomine ed incarichi al Csm.
I pm di Roma trasmettono per competenza a maggio del 2018 il fascicolo a Perugia. Perugia iscrive Palamara per corruzione. Secondo una testimonianza avrebbe ricevuto 40mila euro per nominare Giancarlo Longo procuratore di Gela. La nomina non avverrà, l’accusa finirà nel cestino, ma tanto basta per intercettarlo con il trojan. Nel frattempo il pm romano Stefano Rocco Fava, a marzo del 2019, presenta un esposto al Csm per il modo in cui alcuni fascicoli vengono trattati dal procuratore Giuseppe Pignatone e dall’aggiunto Paolo Ielo. Si parla di mancate astensioni.
Una fuga di notizie fa saltare l’indagine di Perugia e la nomina del nuovo procuratore di Roma, votata in Commissione per gli incarichi direttivi il 23 maggio 2019, di Marcello Viola, procuratore generale di Firenze. Viola viene votato anche da Piercamillo Davigo che poi cambierà idea.
Il 29 maggio successivo, RepubblicaCorriere e Messaggero aprono sull’inchiesta di Perugia a carico di Palamara con tre pezzi identici: Repubblica titola: “Corruzione al Csm: il mercato delle toghe”; il Corriere: “Una inchiesta per corruzione agita la corsa per la Procura di Roma”; il Messaggero: “L’accusa al pm Palamara complica i giochi per la Procura di Roma”.
Il seguente sequestro del telefono di Palamara permette la conoscenza del contenuto delle ormai celebri chat: centinaia di magistrati che chiedevano nomine e favori di ogni genere. Palamara viene espulso dalla magistratura dopo un turbo processo, sei consiglieri si dimettono, i rapporti di forza fra le correnti al Csm cambiano. Abbandonato dai suoi ex fedelissimi, Palamara si rivolge alla Procura di Firenze per far luce sulla fuga di notizie dell’indagine di Perugia.
La fuga è avvenuta quando le indagini erano in corso. Saranno chiuse, infatti, solo l’anno dopo.
Il procuratore di Firenze, competente per gli illeciti eventualmente commessi dai colleghi di Perugia, però, finisce a sua volta sotto inchiesta.
Giuseppe Creazzo, che sta conducendo in questo periodo una delle indagini più importanti, quella sulla fondazione Open che vede indagato tutto il Giglio magico, da Matteo Renzi a Maria Elena Boschi, è oggetto di una segnalazione da parte della pm della Dda di Palermo Alessia Sinatra.
Finita nelle chat, la dottoressa Sinatra aveva scritto a Palamara che Creazzo era un “porco”. Interrogata avrebbe affermato di essere stata oggetto di avances da parte del numero uno della Procura toscana mentre si trovava con lui in un ascensore. La magistrata non aveva sporto querela ma il comportamento tenuto da Creazzo sarebbe comunque oggetto di valutazione da parte del Csm e della Procura generale della Cassazione.
Tutto ciò avviene a pochi giorni dalle decisione del Tar del Lazio sul ricorso contro la nomina di Michele Prestipino a procuratore di Roma, presentato da Creazzo, Francesco Lo Voi, procuratore di Palermo e “prima scelta” di Pignatone come suo successore, e Viola.
Le perplessità su alcune modalità di conduzione delle indagini di Perugia da parte del Riformista hanno spinto la scorsa settimana Raffaele Cantone, capo della Procura umbra, a richiedere al Csm una pratica a tutela. Sul fronte nomine al Csm proseguono le note dinamiche correntizie ed il giudice amministrativo continua con gli annullamenti. L’ultimo caso clamoroso riguarda i componenti della Scuola superiore della magistratura. E per concludere, sempre dal fronte Csm, dopo oltre un anno e mezzo dallo scoppio del Palamaragate, non risultano esserci ancora criteri univoci per valutare le condotte dei magistrati che chattavano con Palamara.
In questo caos totale, la prossima settimana si inaugura l’anno giudiziario 2021 in Cassazione alla presenza del capo dello Stato.

FONTE: https://www.ilriformista.it/magistratopoli-laffaire-delle-indagini-incrociate-189523

 

 

 

IMMIGRAZIONI

IUS SOLI, UN PROBLEMA IRRISOLTO

Anna D`Amicis – 19 01 2021

Ad inaugurare l’avvento dell’anno nuovo è intervenuto il dibattito, riaperto con lo slogan “No allo ius soli“.

L’Italia è chiamata nuovamente ad affrontare il tema del riconoscimento della cittadinanza, per i nati nel territorio dello Stato, indipendentemente dalla cittadinanza posseduta dai genitori.

Occorre anticipare che tra i modi di acquisto della cittadinanza, la Legge n. 91 del 1992 contempla lo ius soli come modo d’acquisto automatico della cittadinanza, ancorché limitato ai figli di ignoti, di apolidi, o ai figli che non seguono la cittadinanza dei genitori. Tuttavia, un provvedimento varato dal Consiglio dei ministri, nel 2006, ha introdotto una  nuova ipotesi di ius soli ammettendo la previsione  dell’acquisto della cittadinanza italiana da parte di chi  è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri di cui uno almeno sia residente legalmente in Italia, senza interruzioni da cinque anni al momento della nascita.

Ma come viene normativamente descritto lo ius soli, in termini di “appartenenza” ad un territorio e in che modo il nostro Stato tutela i suoi cittadini?

L’articolo 1, della L.n.91 del 92 “Nuove norme sulla cittadinanza“, integra le disposizioni vigenti in materia di acquisizione di diritto della cittadinanza, ampliando il novero dei casi in cui la cittadinanza è attribuita in base al criterio dello ius soli.

L’ordinamento italiano riconosce il criterio di acquisizione della cittadinanza basato sullo ius soli, in via residuale nei seguenti casi:

– per coloro che nascono nel territorio italiano e i cui genitori siano da considerarsi o ignoti (dal punto di vista giuridico) o apolidi (cioè privi di qualsiasi cittadinanza) (art. 1, co. 1, lett. b);

– per coloro che nascono nel territorio italiano e che non possono acquistare la cittadinanza dei genitori in quanto la legge dello Stato di origine dei genitori esclude che il figlio nato all’estero possa acquisire la loro cittadinanza (art. 1, co. 1, lett. b);

– per i figli di ignoti che vengono trovati (a seguito di abbandono) nel territorio italiano e per i quali non può essere dimostrato, da parte di qualunque soggetto interessato, il possesso di un’altra cittadinanza (art. 1, co. 2).

In altri casi, alla nascita sul territorio deve accompagnarsi la residenza legale ininterrotta fino alla maggiore età per poter acquistare la cittadinanza, facendone richiesta entro un anno dal compimento della maggiore età (art. 4, co. 2).

L’acquisto della cittadinanza per nascita, dunque, contempla due ipotesi sostanziali.

In primo luogo lo ius soli contempla l’ipotesi di chi sia nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno è regolarmente soggiornante in Italia da almeno un anno. Tale requisito deve sussistere al momento della nascita del figlio (art. 1, comma 1, lett. a)) e la norma considera che il periodo di soggiorno regolare decorra dalla data di rilascio del permesso di soggiorno.

In secondo luogo, un’altra ipotesi prevede che l’acquisto della cittadinanza per nascita, sia riservato a chi sia nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno nato in Italia. Questa seconda ipotesi, non contempla alcun requisito aggiuntivo (soggiorno, residenza, ecc.), ma richiede degli estremi da cui si evinca l’esistenza di un rapporto inscindibile con il territorio.

Per quanto riguarda il procedimento, la cittadinanza si acquista mediante dichiarazione di volontà espressa da un genitore ma non necessariamente del genitore che risponde ai requisiti richiesti; talvolta viene valutata l’opportunità di estendere il potere di dichiarare la volontà del minore, in mancanza del genitore, a chi esercita la responsabilità genitoriale (analogamente a quanto disposto all’art. 2).

Sebbene la normativa appaia ormai chiara e ben convinta di ammettere la cittadinanza italiana, nei termini e modi esposti innanzi, l’opinione pubblica è frequentemente interessata da episodi di particolare natura, che tengono vivo il dibattito tra chi richiede un riconoscimento automatico e chi, fermamente, dice “No allo Ius Soli”. Il dì 1 gennaio 2021, infatti, ha inaugurato l’arrivo del nuovo anno con le parole di un esponente della regione Liguria che non ammette la possibilità di “definire italiano, né ligure, chi nasce sul nostro territorio da genitori stranieri” ribadendo che “per essere italiani e liguri sia necessario intraprendere un percorso ben definito e quindi richiedere successivamente la cittadinanza, secondo quanto previsto dalle norme vigenti”.

Sicché, mentre in punto di diritto il legislatore e la giurisprudenza continuano a delineare minuziosamente il profilo dell’avente diritto allo ius soli, nella pratica quotidiana la prospettiva di un abbraccio tra la terra Italiana e i suoi abitanti, cittadini e non, appare ancora lontana.

FONTE: http://www.salvisjuribus.it/ius-soli-un-problema-irrisolto/

 

 

 

LA LINGUA SALVATA

trasformismo

Enciclopedia on line

trasformismo Termine con cui la pubblicistica italiana definì la prassi politica, inaugurata da A. Depretis, consistente nel formare di volta in volta maggioranze parlamentari intorno a singole personalità e su programmi contingenti, superando le tradizionali distinzioni tra destra e sinistra. Di tipo trasformistico fu considerata anche la concessione di favori alle consorterie locali in cambio del sostegno parlamentare praticata da F. Crispi e G. Giolitti.

Con riferimento alla politica contemporanea, il termine è stato assunto a significare, con tono spregiativo o comunque polemico e negativo, sia ogni azione spregiudicatamente intesa ad assicurarsi una maggioranza parlamentare o a rafforzare la propria parte, sia la prassi di ricorrere, invece che al corretto confronto parlamentare, a manovre di corridoio, a compromessi, a clientelismi, senza più alcuna coerenza ideologica con la linea del partito.

FONTE: https://www.treccani.it/enciclopedia/trasformismo/

 

 

 

LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI

Arrivano i tagli sulle pensioni Pronto lo scippo sugli assegni

In arrivo le prime erogazioni pensionistiche del 2021 ma c’è la grande “botta”: tagli fino a 170 euro per alcune categorie di pensionati a causa dei nuovi coefficienti di calcolo. Vediamo quali

A giorni saranno pagate le prime pensioni del nuovo anno ma le notizie non sono buone: secondo i calcoli della Uil (Unione Italiana del Lavoro), sono previsti tagli tra 100 e 170 euro per il rateo mensile a causa del coefficiente di trasformazione su cui si basa il sistema contributivo integrale.

 

Come funziona

Qualche giorno fa, sul Giornale.it (clicca qui per il pezzo), ci siamo occupati della vicenda spiegando come siano a rischio tutti quei pensionati che godranno di una pensione calcolata integralmente con il sistema contributivo. Ed ecco dunque le cifre: la stangata si aggira su una riduzione dello 0,33% e dello 0,72% sui valori dei coefficienti. A rischiare maggiormente sono coloro i quali hanno scelto l’uscita dal mondo del lavoro con l’opzione donna: a 67 anni, ad esempio, si rischia un taglio di 101 euro. In questo modo, l’importo totale (con una pensione di 1500 euro lordi) che per il 2020 era di 19.614 euro, passerebbe a 19.513.

Ovviamente, con l’aumentare dell’importo mensile lievita anche la quota “scippo”. Infatti con un assegno di circa 2000 euro lordi mensili si rischia una stangata di 136 euro sull’importo complessivo previsto per il 2021 se rapportato a quello del 2020. Andando avanti con i calcoli, come sottolinea la Uil, con un assegno di 2500 euro lordi mancherebbero all’appello su base annuale circa 170 euro. Il tutto considerando sempre un addio al lavoro a 67 anni nel 2021.

Tagli immediati

Oltre al danno la beffa: l’Inps ci dice che il taglio alle pensioni può arrivare anche già a gennaio e febbraio 2021 per tutti coloro per i quali le ritenute erariali al 2020 siano state inferiori a quanto dovuto. “Laddove le trattenute siano state effettuate in misura inferiore rispetto a quanto dovuto su base annua, le differenze a debito saranno recuperate, come di consueto, sulle rate di pensione di gennaio e febbraio 2021. Nel solo caso di pensionati con importo annuo complessivo dei trattamenti pensionistici fino a 18mila euro, per i quali il ricalcolo dell’ IRPEF ha determinato un conguaglio a debito di importo superiore a 100 euro, la rateazione viene estesa fino alla mensilità di novembre (articolo 38, comma 7, legge 30 luglio 2010, n. 122)”, spiega un’analisi di Pensionipertutti.

La gestione pubblica

All’interno della comunicazione Inps sono riportati anche i tagli alle pensioni 2021 che riguardano la Gestione pubblica. “A seguito della verifica reddituale delle prestazioni collegate al reddito corrisposte in via provvisoria nel 2018, nel caso in cui, sulla base dei redditi esaminati, è risultato che sono stati corrisposti importi per prestazioni collegate al reddito superiori a quelli spettanti, è stato impostato a livello centrale il recupero a partire dalla rata di gennaio 2021“, si legge.

Il calendario

Dalle notizie negative a quelle piacevoli: nonostante i tagli, i pensionati potranno cominciare a ritirare le loro somme negli uffici postali a partire dal 25 gennaio ed in rigoroso ordine alfabetico per limitare il più possibile gli assembramenti in tempo di pandemia. La stessa cosa, ovviamente, avverrà anche a febbraio con il ritiro scaglionato su diversi giorni. Bisognerà consultare il calendario con la divisione per l’iniziale del cognome:

A-B lunedì 25 gennaio;
C-D martedì 26 gennaio;
E-K mercoledì 27 gennaio;
L-O giovedì 28 gennaio;
P-R venerdì 29 gennaio;
S-Z sabato 30 gennaio.

Chi, invece, aspetta l’accredito della pensione direttamente in banca, l’importo arriverà nel primo giorno utile bancabile del mese, in questo caso Lunedì 1 febbraio 2021. Per visionare l’esatto importo della pensione basterà collegarsi al portale Inps utilizzando il Pin, la carta nazionale dei servizi (CNS), la carta d’identità elettronica o lo Spid e cliccando poi su “prestazioni e servizi” e poi “cedolino Pensione”.

FONTE: https://www.ilgiornale.it/news/economia/pensioni-2021-ecco-tutti-i-tagli-arrivo-1916736.html

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

IL NOSTRO FUTURO SI SCRIVE IN CINA, “TRA DIECI MINUTI”

19 MAGGIO 2020

“Red Mirror” di Simone Pieranni indaga il capitalismo di sorveglianza cinese portandone a galla radici storiche e contraddizioni del presente. E a partire dalla Cina, dipana una riflessione urgente e globale sui dispositivi di controllo che stanno rimodellando le odierne società e mutando le esistenze di tutti noi. L’autore del libro, per dirla con Charlie Brooker, ci racconta «il nostro presente tra dieci minuti».

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Di seguito pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore e degli Editori Laterza, che ringraziamo, un estratto da Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina di Simone Pieranni, uscito il 14 maggio in libreria.
 
È un libro che ci sembra potente e indispensabile, capace di indagare con raro acume il capitalismo di sorveglianza cinese – da WeChat, l’app delle app, alle avveniristiche smart city – portandone a galla radici storiche e contraddizioni del presente. È un libro che, a partire dalla Cina, dipana una riflessione urgente e globale sui dispositivi di controllo che stanno rimodellando le odierne società e mutando le esistenze di tutti noi. Per dirla con Charlie Brooker, il creatore di Black Mirror, Simone Pieranni ci racconta «il nostro presente tra dieci minuti». Buona lettura.
 
***
 
1.1. Il mondo è dentro WeChat
 
Quando WeChat ha cominciato a diffondersi vivevo in Cina da cinque anni. Ricordo distintamente quando, con un certo stupore, gli stranieri residenti assistevano a uno spettacolo mai visto: i cinesi camminavano spediti parlando con lo smartphone, quasi appoggiandovi le labbra, come fosse una propaggine del mento. Mandavano messaggi vocali. Era il 2011. La comparsa di questa abitudine potrebbe segnare simbolicamente l’inizio dell’era WeChat in Cina.
 
Come tante altre cose che parevano assurde e che sono comparse per prime in Cina, i messaggi vocali sono diventati via via abituali anche in Occidente.
 
Inizia in quell’anno un periodo di grande cambiamento nel mondo della tecnologia cinese. Sappiamo che gli strumenti tecnologici che utilizziamo cambiano consuetudini personali, sociali, lavorative e nel caso del cellulare persino la nostra postura fisica (spalle leggermente curve, sguardo verso il basso). In Cina, il cambiamento avvenuto con l’avvento di WeChat ha modificato totalmente l’approccio alla rete e, di conseguenza, a poco a poco la vita quotidiana. Per esempio, ben presto sparirono le mail: Gmail non aveva alcun senso, non serviva a niente, se non a perdere tempo in attesa che le pagine si caricassero così lentamente da portare all’esasperazione.
 
Tutto ora passava su WeChat, che dimostrava di essere veloce, immediata, una scheggia. La superapp sostituì velocemente anche vecchie consuetudini con nuovi modi di relazionarsi. Ad esempio, un grande classico della Cina erano le business card: anche nel caso di attività piuttosto fantasiose e improbabili, era bene accreditarne l’esistenza con un biglietto da visita. E in Cina se ne possono stampare migliaia con pochi yuan di spesa. Anche gli stranieri imparavano in fretta: si riceveva il biglietto con due mani e lo si consegnava allo stesso modo. WeChat segnò la fine di un mondo: anche le business card sparirono. Divenne consuetudine, in sostituzione alle business card, scannerizzare Qrcode. E si cominciò a scannerizzare Qrcode ovunque e per ottenere qualsiasi cosa: per avere vantaggi, sconti o per partecipare a eventi. Si inaugurarono nuove danze sociali: avvicinare i cellulari e scannerizzarsi vicendevolmente i Qrcode, il modo per «connettersi».
 
Nuove abitudini e nuovi dilemmi: è più importante la persona che scansiona, o quella che si fa scansionare? Ma dopo tutto questo, arrivò il completamento del cambiamento in corso. E arrivò come fosse naturale, come se l’intero paese non aspettasse altro. A un certo punto fu possibile collegare il proprio account a un conto bancario cinese (ottenuto dagli occidentali grazie a non pochi equilibrismi burocratici nella fase iniziale di WeChat, mentre oggi è tutto più rapido, anche se esistono molte più limitazioni per gli stranieri) e finalmente poter comprare qualsiasi cosa con lo smartphone. Da quel giorno anche il portafoglio divenne inutile. Non serviva a niente.
 
Anche le carte di credito, per chi le possedeva, divennero inutili. WeChat lanciò la sfida ai cinesi su due concetti – il tempo e la velocità – trasformando una società clamorosamente dipendente da carta, timbri, passaggi burocratici in una società improvvisamente cashless e senza più la necessità di stampare e timbrare qualsiasi cosa. Ma, esattamente, cos’è WeChat?
 
Spiegarlo a un occidentale è complicato. Alcuni provano a descriverla così: WeChat, dicono, è l’«app delle app», contiene cioè al proprio interno quanto noi siamo abituati a utilizzare in maniera separata. Se vogliamo descriverla attraverso un paragone con il nostro mondo tecnologico, possiamo dire che è come un gigantesco contenitore che mette insieme Facebook, Instagram, Twitter, Uber, Deliveroo e tutte le app che utilizziamo. Si tratta di una spiegazione che ha una sua logica, ma non è completa. In primo luogo perché, ogni volta che si usa WeChat, si scoprono nuove funzioni appena sviluppate, nuovi utilizzi che si possono poi trasformare in nuove abitudini.
 
È ormai consuetudine, per esempio, prenotare visite mediche o pagare le tasse o le fatturazioni tramite WeChat; oppure incontrare, camminando per le strade delle metropoli cinesi, homeless che per ricevere l’elemosina mostrano ai passanti un cartello con un Qrcode. Anche l’elemosina, in Cina, oggi si fa via WeChat. Inoltre, se è vero che WeChat può anche essere descritta come una somma di app che noi già conosciamo e utilizziamo, contiene altresì una caratteristica davvero particolare rispetto alle nostre applicazioni: può essere utilizzata per pagare qualsiasi cosa.
 
Ogni account di WeChat è infatti collegato al conto bancario dell’utente e, attraverso la lettura dei vari Qrcode, è possibile comprare di tutto: da una corsa in taxi alla frutta in un negozio per strada, dai libri in uno store on-line allo snack postato – via WeChat – da un amico nella chat privata. Con WeChat si possono persino effettuare tutte le carte per il matrimonio. E anche divorziare: basta un tasto nell’applicazione per far partire le pratiche. WeChat sa tutto di chi la utilizza, conosce gli spostamenti tanto on line quanto off line, grazie alla possibilità di pagare in qualsiasi esercizio commerciale ed essere così «tracciati» anche quando si pensa di non essere nel cyberspazio. La superapp ha finito per creare una sorta di ecosistema all’interno del quale non serve altro, perché è capace di occuparsi di ogni aspetto della nostra vita quotidiana. In alcune città, il profilo WeChat si usa già come documento di identità. Tutto è dentro WeChat e questo significa che in Cina, se non hai «l’app delle app», sei completamente fuori dal mondo. Non scaricare WeChat è una vera e propria scelta di vita.
 
Chi prova a resistere ha un’esistenza infernale. Zhu, un’avvocata di Shanghai, ha raccontato al magazine «Sixth Tone» di aver deciso di vivere senza l’applicazione. A motivare questa sua scelta c’è la certezza che i suoi dati saranno raccolti e usati, e non utilizzare l’applicazione è per lei un modo «per salvare la propria dignità». Ogni volta che riceve un nuovo cliente, Zhu deve avvertirlo della sua scelta, perché si dà per scontato che tutti abbiano WeChat. Quando Zhu viaggia all’estero con i suoi colleghi, gli altri possono facilmente connettersi su WeChat usando il WiFi disponibile, «ma se vogliono parlare con lei devono sborsare soldi per chiamare o mandare messaggi». Perfino i suoi genitori hanno provato a farla tornare sui propri passi e farle scaricare l’applicazione. Questo accade perché quando parliamo di We-Chat non parliamo di una semplice app: dentro We-Chat si naviga, come fosse WeChat stessa la rete: esistono infatti i «mini- programmi» (come ad esempio quello del ristorante mongolo dove ho pranzato o quello del negozio di robot), ovvero mini-siti inseriti dentro l’app, all’interno dei quali si svolge ormai la vita di tutto quanto il sistema internet cinese. E i servizi continuano ad aumentare, così come le app.
 
Ecco un esempio semplice di mini programma: il corrispettivo Instagram cinese non è un’app tra le tante, ma si trova dentro WeChat. Sembra una cosa da poco. Ma non lo è, in un’economia che si basa ormai sullo sfruttamento dei Big Data.
 
WeChat si è evoluta in una sorta di sistema operativo all’interno del quale girano tutti i programmi. È una porta d’accesso per tutto quanto si può fare con uno smartphone in rete e off-line, capace di canalizzare un’enorme mole di dati e soldi in diversi modi: con la pubblicità, anche, ma il grosso delle entrate dipende dai gadget e dai giochi presenti nell’applicazione, da servizi premium per gli utenti e soprattutto dalla percentuale che prende su ogni pagamento. Non solo: la mole di dati che l’azienda possiede fornisce ai suoi clienti business (i produttori dei «mini-programmi») una customizzazione sempre più mirata dei propri utenti.
 
WeChat è diventata la memoria storica dei gusti, delle passioni, delle idee, delle inclinazioni, del potenziale di spesa di un miliardo di persone. E di tutti questi dati sa cosa farne.
 
 
Simone Pieranni dal 2006 al 2014 ha vissuto in Cina, dove torna appena possibile. A Pechino ha fondato l’agenzia di stampa China Files e attualmente lavora a Roma al quotidiano «il manifesto». Tra le sue pubblicazioni: il romanzo Settantadue (Alegre 2016) nella collana “Quinto tipo” diretta da Wu Ming 1; Il nuovo sogno cinese (manifestolibri 2013); Cina globale (manifestolibri 2017); il podcast sulla Cina contemporanea Risciò (con Giada Messetti, Piano P 2017). Per Laterza è autore di Genova macaia (2017) e di Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina (2020)
FONTE: https://www.idiavoli.com/it/article/red-mirror-simone-pieranni-futuro-cina-tra-dieci-minuti

 

 

 

ZUCKERBERG IL CINESE
Rosanna Spadini – 18 01 2021
Molte delle applicazioni più popolari sulla rete della Repubblica Popolare sembrano copiate da quelle nate nella Silicon Valley californiana: Baidu per Google, Alibaba per Amazon, Youku per YouTube, Weibo per Twitter.
Ma da quando Mark Zuckerberg ha rivelato in un post pubblicato di recente che Facebook e le sue società satelliti come Instagram, Messenger e Whatsapp in futuro privilegeranno le comunicazioni private fra utenti rispetto a quelle pubbliche, la situazione è cambiato di colpo. In un gioco di specchi a ruoli invertiti, la strategia del guru di Menlo Park è sembrata improvvisamente trarre ispirazione da un copione scritto all’ombra della Grande Muraglia: precisamente quello ideato da Tencent, società creatrice di WeChat, l’app di messaggistica più famosa della Cina.
Zuckerberg ha scritto che Facebook vorrebbe diventare più simile a un “salotto digitale” rispetto alla piazza pubblica che ha rappresentato fino ad ora, integrando i suoi diversi servizi di messaggistica e aggiungendone altri per facilitare acquisti e pagamenti, dando ai suoi utenti un’esperienza più intima e spingendoli a restare il più possibile sulla piattaforma, anche a costo di scontentare gli inserzionisti pubblicitari che oggi rappresentano la maggiore fonte di guadagno di Facebook. Questo ricorda il modo in cui funziona WeChat, che per milioni di cinesi è diventata praticamente la principale porta d’ingresso a internet e assolutamente necessaria per la vita quotidiana.
Grazie ai diversi programmi contenuti nell’app, chiamati Mini Programs, oltre 900 milioni di cinesi ogni giorno possono pagare le bollette, giocare ai videogiochi, ordinare da mangiare, chiacchierare con gli amici, accedere al proprio conto in banca, chiamare un taxi, tenere una videoconferenza, sporgere denuncia alla polizia. I media di Stato e alcune agenzie hanno addirittura degli account ufficiali su WeChat con cui possono comunicare direttamente con gli utenti. E il portafogli digitale dell’app, chiamato WeChat Pay, consente di comprare praticamente qualsiasi cosa, sia tramite servizi di e-commerce che nei negozi reali senza usare né cash né carte di credito, ma semplicemente scannerizzando un codice QR.
Creata da Tencent nel 2011 come semplice app per comunicare, WeChat o Weixin per i cinesi, è diventata nel giro di pochi anni una specie di coltellino svizzero multiuso che raccoglie al suo interno una serie infinita di sottoprogrammi svilupparti da terzi e gestiti in remoto, in modo tale che gli utenti non debbano scaricarli occupando memoria sui propri device.
Naturalmente la posizione dominante conquistata dall’app ha beneficiato non poco del supporto del governo di Pechino, che ha favorito ufficialmente la sua crescita mentre imponeva divieti e censure ad altre app occidentali come Google, Facebook, Messenger o Whatsapp. Inoltre, la reputazione di questo software non è delle migliori dal punto di vista della privacy: nonostante le ripetute dichiarazioni da parte dei vertici di Tencent sull’importanza della riservatezza dei suoi utenti, in Cina quasi tutti danno per scontato che il governo abbia ampio accesso ai dati per monitorare chiunque acceda a WeChat.
E i post che trattano gli argomenti considerati politicamente più sconvenienti vengono regolarmente cancellati. I ricercatori dell’università di Hong Kong hanno trovato che, solo nel 2018, sono stati ben 11mila gli articoli rimossi da WeChat e la società basata a Shenzhen ha totalizzato un magro zero su cento in una classifica compilata da Amnesty International nel 2016 che analizzava vari social network e servizi di messaggistica, assegnando un punteggio per il rispetto della privacy e il crittaggio dei messaggi (tra parentesi Facebook, con Messanger e WhatsApp era prima con 73 punti su 100).
Ma dopo i vari scandali che hanno segnato i suoi ultimi sviluppi, chi potrebbe dire che Facebook sia completamente trasparente nella gestione delle informazioni e dei dati dei suoi utenti? Basta pensare al modo in cui una società privata come Cambridge Analytica ha potuto mappare le preferenze politiche di migliaia di persone a loro insaputa o la russa Internet Research Agency ha creato campagne di disinformazione sfruttando gli algoritmi del social network al fine di polarizzare l’elettorato occidentale.
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POLITICA

CONTE: TRA VINCERE E PERDERE CERCA DI SOPRAVVIVERE

Conte: tra vincere e perdere cerca di sopravvivereOsservando bene la metodologia posta in campo da parte del presidente del ConsiglioGiuseppe Conte, per affrontare questa crisi governativa e ripercorrendo a ritroso il percorso della sua azione, da quando è balzato alla ribalta della cronaca politica, non si può fare a meno di notare la mediocrità che ne ha contraddistinto e ne sta continuando a caratterizzare la rotta. Per cercare di capire e spiegare il metodo, per così dire contiano, basta considerare che esso è basato su di un presupposto cardine, molto più semplice di quello che si possa pensare, che si richiama banalmente a una citazione di Leon C. Megginson: “Non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, ma quella che si adatta meglio al cambiamento”. Il premier sembra aver fatto sua questa indicazione, riuscendo anche ad applicarla al meglio, almeno se si guarda ai fatti, basti pensare al Governo nato dapprima con la Lega e in seguito con il Partito Democratico, insieme ad Italia Viva. La conseguenza è che questa strategia può portare a dei risultati personali, in fondo anche di piccolo cabotaggio, ma è da chiedersi quanto questa poi porti seriamente a ciò che necessita, alla nostra nazione, per un rilancio serio e intelligente che ci consentirebbe di sopravvivere alla crisi economica italiana pregressa poi aggravata dal Covid-19. Il premier Conte avrebbe fatto meglio ad uscire da una strada politica lastricata solo da personalismi e conferenze stampa show da fine settimana, aprirsi al dibattito, anche sul Recovery, con tutti, anche con le imprese, perché ciò che troppe volte si dimentica è che proprio da queste si può rilanciare e far crescere l’Italia, scongiurando il rischio, sempre dietro l’angolo, di rimanere fermi al palo, con tutte le conseguenze che tutto questo comporterebbe, compreso l’eventuale dramma sociale sotto l’aspetto dell’occupazione. In tutto questo bailamme, al quale stiamo assistendo inermi, è interessante registrare chi, come Luigi Di Maio, oggi ministro degli Esteri, si lancia in rimbrotti che hanno, purtroppo, il sapore amaro, di quella doppia moralità che fa capolino solo in taluni tipici individui, di cui l’ex capo politico del M5S sembra esserne degno rappresentante, che applicano un metro di giudizio differente a seconda che si parli di sé stessi o della propria parte politica, o degli altri.  Sostiene: “Mi fa rabbia perder tempo con inutili crisi politiche che danneggiano l’Italia e i cittadini. Lunedì (oggi per chi legge) e martedì verrà presentato un progetto concreto e lungimirante, con una visione ambiziosa del nostro futuro. E proprio su questo progetto chiederemo il sostegno di chi crede di poter offrire il suo contributo alla ricostruzione dell’Italia. Ora è il momento di scegliere da che parte stare.Da un lato i costruttori, dall’altro i distruttori”.

Stando a queste parole, solo adesso, esisterebbe un “progetto concreto e lungimirante”, questo sconfesserebbe quanto finora fatto da questo Governo, starebbe a significare, in parole povere, che non vi era stata fino a questa fase nessuna strategia per il rilancio della nazione, ma solo una rincorsa sfrenata a far vedere agli italiani che comunque qualcosa si muoveva. Una precisazione è d’obbligo farla, di quale ricostruzione dell’Italia si parla, quando probabilmente agli italiani basterebbe che funzionasse meglio ciò che già c’è, senza grandi proclami, sviluppando i decreti attuativi che servono a dar seguito ai decreti emanati in precedenza, naturalmente tutto accompagnato da una visione di Paese che non da oggi, ma da ieri si doveva avere. Inoltre, forse, andrebbe spiegato a Di Maio che chi non la pensa come lui o Conte, non necessariamente deve essere lapidato nelle piazze e annoverato nella categoria dei “distruttori”. A rigor di logica, chi pone sul tavolo delle questioni, al di là del colore politico, probabilmente intende avvalersi di un diritto, tra l’altro anche ben conosciuto nelle democrazie occidentali, che corrisponde al diritto di critica, se questa critica poi non viene compresa, allora ci se ne fa una ragione, si ha tutta la piena libertà di questo mondo nel decidere di non condividere più un cammino insieme a qualcun altro. Può darsi che il senso di rabbia, al quale fa riferimento il ministro degli Esteri, sia la consapevolezza che qualcosa potrebbe scivolar di mano, con il triste epilogo che saltino equilibri politici e incarichi tanto agognati – anche questo sempre nell’interesse degli italiani – che fino ad oggi sono rimasti salvaguardati. Difatti, una eventuale conta al Senato, che non porterebbe l’attuale Governo a superare i numeri necessari per una maggioranza, metterebbe tutto in seria discussione.

Un fatto è certo, Conte non può “andar in Paradiso a dispetto dei Santi”, questo lo dovrebbe ben sapere. Può darsi che confidi nel cielo, auspicando un miracolo che faccia, in questo caso, moltiplicare i numeri e non i pesci. Chissà? Però per i numeri si lascia il cielo e subentra un altro fattore, quello terrestre, la materia della matematica, ma si sa, si dice che questa non sia un’opinione. Il riferimento alla matematica era puramente casuale e non si voleva mettere il dito nella piaga del presidente del Consiglio, facendo riferimento al suo ex ministro per le Pari Opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti, in quota a Italia Viva, che ha abbandonato il governo e che, per uno strano gioco del destino, ha a che fare proprio con i numeri, essendo laureata in matematica. Eppure, il premier la soluzione l’avrebbe in tasca, da studente ha frequentato l’ottimo collegio universitario di Villa Nazareth il cui motto è “ut unum sint”, che significa “affinché siano una cosa sola”, gli basterebbe evitare cattivi consiglieri, chiamare Matteo Renzi ed applicare semplicemente le parole che recita la massima succitata, dando almeno un senso a quanto detto da Luigi Di Maio, “ora è il momento di scegliere da che parte stare”. Altrimenti è sola fuffa.

FONTE: http://opinione.it/editoriali/2021/01/18/alessandro-cicero_conte-pd-italia-viva-renzi-crisi-economica-covid-m5s-paese/

 

 

 

I COSTRUTTORI DEL CONTE TER
Rosanna Spadini – 16 01 2021
Ebbene martedì prossimo il presidente del Consiglio non dimissionario Giuseppe Conte, per quanto abbia perduto per strada due ministre e un sottosegretario, potrà vedere al Senato – dove i numeri ballano diversamente dalla Camera e si giocherà quindi la partita decisiva – se dispone ancora di una maggioranza.
Oltre a Clemente Mastella e moglie (benemeriti di un mega parcheggio sotterraneo a Benevento in cambio), il sottosegretario agli Esteri Ricardo Antonio Merlo ha messo a disposizione della causa di Conte il suo “Movimento associativo italiani all’estero”, noto in Parlamento con la sigla MAIE, per trasformarlo da modesta componente del gruppo misto del Senato in una scialuppa di salvataggio. Vi è già saltato dentro l’ex forzista Raffaele Fantetti con la sua associazione “Italia 23”, dall’anno della fine ordinaria della legislatura, che potrebbe diventare addirittura il nome di una lista di o per Conte, se il professore volesse partecipare alle prossime elezioni.
E’ questa scialuppa del Maie che ha acceso la fantasia dei giornalisti del Manifesto col titolo di prima pagina “Mai dire Maie”, e in cui potrebbero saltare dissidenti o transfughi da altri gruppi… quindi partecipare alla fiducia di martedì col requisito della non casualità o indeterminatezza chiesto da Mattarella, per travestire da maggioranza continua una maggioranza in realtà diversa, o discontinua. Ne è infatti appena uscita l’Italia Viva di Renzi, o ciò che ne resterà dopo questa operazione che potrebbe togliergli qualche senatore.
I senatori transfughi dall’opposizione – che con Berlusconi al governo, nel 2010, si guadagnarono insulti per la pretesa di chiamarsi “responsabili” e che ora, per non incorrere nello stesso inconveniente, hanno assunto il nome di “costruttori” – sarano probabilmente sufficienti a fare raggiungere e magari superare la soglia fatidica dei #161 voti a Palazzo Madama. Ma i “responsabili costano” e alla fine il governo Conte Ter ne uscirà indebolito… pronto per accettare sotto ricatto il MES, MES, MES.

FONTE: https://www.facebook.com/rosanna.spadini/posts/4196281623733312

La fake news di Conte sullo Spread

“È salito, danni notevoli”, e invece solo oscillazioni minime

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 18-01-2021 Roma Politica Camera dei Deputati – Comunicazioni del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte sulla situazione politica Nella foto Giuseppe Conte Photo Roberto Monaldo / LaPresse 18-01-2020 Rome (Italy) Chamber of Deputies – Communications by Prime Minister Giuseppe Conte on the political situation In the pic Giuseppe Conte

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 18-01-2021 Roma Politica Camera dei Deputati – Comunicazioni del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte sulla situazione politica Nella foto Giuseppe Conte Photo Roberto Monaldo / LaPresse 18-01-2020 Rome (Italy) Chamber of Deputies – Communications by Prime Minister Giuseppe Conte on the political situation In the pic Giuseppe Conte

Giuseppe Conte agita lo spettro dello spread sulla crisi di governo. Una crisi da irresponsabili, da incoscienti, fuori luogo insomma. “Questa crisi ha provocato profondo sgomento nel Paese – aveva detto ieri nel suo discorso alla Camera dei Deputati – rischia di produrre danni notevoli e non solo perché ha fatto salire lo spread ma ancor più perché ha attirato l’attenzione dei media internazionali e delle cancellerie straniere”. E invece non è così. Il governo ha ottenuto la fiducia a Montecitorio. La partita vera è però quella che si giocherà oggi a Palazzo Madama. Se i voti ballano però lo spread non fa una piega.

Come se i mercati non avessero creduto davvero alla crisi dell’esecutivo in Italia e aperta dalle dimissioni delle ministre dell’Agricoltura Teresa Bellanova e delle Pari Opportunità Elena Bonetti e del sottosegretario Ivan Scalfarotto. E a provarlo è proprio lo spread. Che cos’è, innanzitutto, lo spread? È il differenziale di rendimento tra i Btp italiani e i Bund tedeschi, simbolo dell’affidabilità politica e della fiducia nei suoi confronti degli investitori internazionali. Uno spettro e un termometro allo stesso tempo.

Conte ha agitato lo spread nell’ambito del riscoperto europeismo che il premier ha trovato, con il Movimento 5 Stelle, sulla via del passaggio dal governo con la Lega a quello del Partito Democratico. Lo spread, in verità, ha conosciuto oscillazioni davvero minime, irrilevanti. Il punto più basso registrato di recente è il 101,1 dell’8 gennaio. Il giorno del ritiro di Italia Viva dalla maggioranza, il 13 gennaio, è al 108,4, fino al 112,9 di ieri 18 gennaio. Dal 12 al 14 gennaio lo scarto è aumentato di circa lo 0,05%. I rendimenti sono da tempo ai minimi, intorno allo 0,6% per i titoli a dieci anni, un terzo circa rispetto al maggio del 2020. Niente di esiziale. Neanche paragonabile ai picchi registrati durante la prima fase della pandemia e neanche della scorsa estate (quando ha sfiorato diverse volte quota 160).

Solo minime oscillazioni al momento dunque. A sostegno di qualsiasi governo c’è infatti in questo momento la Banca Centrale Europea, e il Pandemic Emergence Purchase Plan, ovvero un trilione di euro a sostegno dei titoli di Stato dei Paesi membri. Una garanzia di stabilità. Le grandi banche d’affari, da Citigroup a Goldman Sachs, non escludono l’eventualità di un impennata in caso di caduta dell’esecutivo e di ricorso alle elezioni. Comunque non è ancora quel momento. Per il momento lo spread non è un fattore di criticità.

FONTE: https://www.ilriformista.it/la-fake-news-di-conte-sullo-spread-e-salito-danni-notevoli-e-invece-solo-oscillazioni-minime-189634/

 

 

 

SCIENZE TECNOLOGIE

Auto elettrica già fuori moda? Per l’ambiente è meglio l’idrogeno

Benedetta Vitetta 

Oltre a quelle legate all’emergenza sanitaria, tra le parole che ricorderemo di questo 2020 ci saranno sostenibilità, economia verde ma soprattutto idrogeno. La risorsa – completamente pulita visto che viene prodotta da fonti rinnovabili (eolico e solare) – che rivoluzionerà presto gran parte del nostro mondo. Anche quello dell’auto. Insomma quando ci sembrava di esserci quasi abituati alla transizione dai veicoli a benzina (sempre più puliti certo, ma pur sempre di benzina si tratta) a quelli elettrici, ecco farsi avanti l’ultima novità.

Proprio l’idrogeno, nel giro di qualche anno, potrebbe lasciare definitivamente ai box persino le tanto citate auto elettriche. E c’è già chi ha persino fissato al 2025 la data del funerale delle vetture “silenziose”: parliamo di Matthias Zink, Ceo Automotive presso il fornitore automobilistico e industriale tedesco Schaeffler: «Anche tra cinque anni, le auto elettriche non saranno competitive in termini di prezzo coi tradizionali veicoli a combustione. Oggi le crescenti vendite sono dovute per lo più agli incentivi». Ed è lo stesso manager a spronare politici a non concentrarsi troppo sull’elettromobilità a scapito di altre tecnologie di trazione basate sugli e-fuels e idrogeno: «Ci vuole molto tempo» ha precisato, «per ridurre le emissioni di CO 2 puntando solo sui nuovi veicoli elettrici».

A differenza di quelle elettriche, le auto a idrogeno hanno già notevoli vantaggi competitivi: dalla velocità di rifornimento – 4-5 minuti per un pieno da mille km – all’essere completamente pulite. Tra gli svantaggi, (che però non hanno impedito a colossi come Honda, Toyota e Gm di lavorare già a diversi modelli) il fatto che un motore a idrogeno oggi costa molto più di uno elettrico e che il prezzo dell’idrogeno è ancora elevato. Ma ora tutto può cambiare visto che proprio l’idrogeno è il settore al centro delle politiche energetiche della Ue che si è data l’obiettivo della neutralità carbonica (emissioni zero) entro il 2050. Non è quindi un caso se gran parte dei progetti (anche quelli italiani) legati al Recovery Fund puntino su questa risorsa.

Così come non è certo una coincidenza la corsa dei grandi gruppi industriali energetici mondiali a scommettere ed investire sull’idrogeno che da qui ai prossimi anni godrà di finanziamenti pubblici che sfioreranno i 500 miliardi. Proprio ieri, ad esempio, 7 grandi aziende leader mondiali hanno annunciato la creazione di un consorzio (Green Hydrogen Catapult) che punta ad accelerare la scala e la produzione di idrogeno verde di circa 50 volte nei prossimi sei anni e contribuire a decarbonizzare alcuni dei settori a più elevate emissioni di CO2. L’iniziativa vede protagonista anche l’italiana Snam. Nelle intenzioni del consorzio c’è anche il dimezzamento gli attuali costi dell’idrogeno, portandoli sotto i 2 dollari al kg. Prezzo che rappresenterebbe il punto di svolta per renderlo ideale per vari settori – dalla produzione di acciaio a quella di fertilizzanti, dalla generazione elettrica fino alla navigazione.

Sempre Snam, pochi giorni prima aveva ufficializzato l’avvio di progetti legati ai treni green d’intesa con Fs e Alstom. Ed è merito dell’idrogeno se per la prima volta lEni ed Enel collaboreranno per sviluppare elettrolizzatori. Anche Edison si è messa in mostra grazie all’efficientissima super turbina Monte Bianco, realizzata da Ansaldo per l’impianto di Marghera (Ve): sarà alimentata da a gas metano e da una rivoluzionaria miscela a base di metano e idrogeno. Si stima che l’idrogeno possa coprire fino al 25% della domanda energetica mondiale entro il 2050 diventando un mercato da 10 trilioni di dollari. Solo in Italia potrebbe avere un impatto sul Pil fino a 40 miliardi al 2050 e creare circa 500mila nuovi posti di lavoro.

FONTE: https://www.liberoquotidiano.it/news/economia/25487940/auto-elettrica-gia-fuori-moda-ambiente-meglio-idrogeno.html

COVID: un guarito su tre torna in ospedale entro cinque mesi e uno su otto muore

La statistica non conosce pietà. E quella prodotta dalla Leicester University e dall’Office for National Statistics (NS, equivalente britannico del nostro ISTAT), sentenzia l’impressionante dato secondo il quale almeno un terzo delle persone ricoverate per Covid-19 finiscono con il fare ritorno nelle strutture ospedaliere nel giro di cinque mesi e che il 12,13% del campione considerato non sopravvive.

Lo studio effettuato su 47.780 soggetti regolarmente dimessi lascia impressionati e non è certo rassicurante il pensiero che questi individui, dopo una media di 140 giorni, abbiano manifestato problemi di salute tali da determinare un rientro in nosocomio.

La circostanza ha permesso ai ricercatori di ritenere fondamentale il monitoraggio delle persone guarite (dalle nostre parti nessuno ne parla o quanto meno non lo fanno né il Commissario Straordinario Domenico Arcuri, né altri rappresentanti istituzionali impegnati su questo fronte) perché il rischio di ricaduta potrebbe rivelarsi fatale.

Il professor Khunti ha fatto presente che il suo team è stato sorpreso di scoprire che molte persone tornavano con una nuova diagnosi e parecchi soggetti avevano sviluppato problemi al cuore, ai reni e al fegato, oltre al diabete.

Non è ancora chiaro cosa succeda: il luminare dice che non si sa se il Covid-19 distrugga le cellule beta che producono insulina e favorisca l’insorgere di diabete di tipo 1, oppure se provoca insulino-resistenza e sviluppi diabete di tipo 2, ma sarebbe certo che le patologie cardiache ed epatiche vengono amplificate significativamente con riverberazioni non trascurabili su chi già ne soffre.

FONTE: https://www.infosec.news/2021/01/19/wiki-wiki-news/covid-un-guarito-su-tre-torna-in-ospedale-entro-cinque-mesi-e-uno-su-otto-muore/

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