NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI 9 GENNAIO 2019

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NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI

9 GENNAIO 2019

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

Nessuno si occupa mai di come è fatta un’altra persona.

Arthur Schnitzler, La signorina Else

In: FRANCA ROSTI, Tra virgolette. Dizionario di citazioni, Zanichelli,1995, pag. 204

 

http://www.dettiescritti.com/

https://www.facebook.com/Detti-e-Scritti-958631984255522/

 

Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.

 

Tutti i numeri dell’anno 2018 della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com 

 

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SOMMARIO

 

Jfk, Luna e 11 Settembre. 1               

Fate scendere donne e bambini

Il diavolo veste Cheney: correte a vedere Vice, se volete capire come ci hanno fregati negli ultimi trent’anni 1                   

Ha nevicato tutta la notte                

Razzista                    

Visibilità per quadrisex e femministe

Moiso: ecco perché l’Italia è in coda, nella libertà di stampa. 1

Il caso Huawei tra guerra commerciale, tecnologica, geopolitica ed intelligence. 1

La sinistra coi migranti, i gialloverdi con i Gilet Gialli europei 1                      

Il consumatore cinese

L’esplosione della bolla Bitcoin. 1 Un’autopsia. 1

Dal crac alla beffa: niente rimborsi per i risparmiatori di Mps che hanno perso tutto. 1

Decreto sicurezza: i sindaci rispettino il principio di legalità. 1

Il reddito di cittadinanza come Jobs Act 2. 1

Non facciamo gli schizzinosi: ecco tre cose che ci piacciono del reddito di cittadinanza. 1

Rammaricato. 1

Spaventosa futura distruzione del Bacino dei Caraibi 1

Quando la politica era la politica. E aveva un re: Giulio Andreotti 1

 

 

IN EVIDENZA

Jfk, Luna e 11 Settembre

Ci prendono in giro da 50 anni

Scritto il 05/1/19

Quali sono per me i tre argomenti di controinformazione più importanti, di cui occuparsi? Be’, per me il più importante in assoluto è stato l’11 Settembre. Ci ho dedicato praticamente dieci anni di lavoro: per dieci anni ho studiato solo quello. Ho fatto tre film, su quell’argomento. Ho cominciato nel 2006, a cinque anni dall’evento, e l’ultimo lavoro l’ho fatto nel 2013, quindi dopo 12 anni; per cui sicuramente l’11 Settembre è l’argomento più importante, semplicemente perché determina il modo in cui viviamo oggi. Non c’è evento al mondo, nella geopolitica e anche nel privato personale (che ci riguardi tutti direttamente) che non abbia in qualche modo che fare con la bugia dell’11 Settembre. Quindi per questo lo ritengo l’evento più importante (almeno per noi per noi ci viviamo, in questo periodo storico). Poi, allargando un po’ la visione, c’è l’omicidio Kennedy. Secondo me è il prototipo della bugia universale Cioè: è la prima volta, nella storia– e siamo nel ‘63 – che la bugia viene diffusa a livello universale. Viene “comprata” immediatamente, a occhi chiusi, da tutti i media occidentali. E nessuno la mette in discussione – se non vent’anni dopo, perché arrivano i ricercatori. Ma per tutti i telegiornali del mondo, subito e per sempre, è stato Oswald a uccidere Jfk.

E quella è stata la prima volta, storicamente, che la bugia si è diffusa contemporaneamente in tutto il mondo con una sola voce, quella della versione governativa americana. Direi che è stato il primo caso, quindi è importante per questo. Poi c’è quello degli allunaggi, dove  ovviamente la presa per il culo è globale: perché se tu provi solo a ipotizzare che già allora, nel ‘69, c’erano mezzo miliardo di persone

 

Continua qui: http://www.libreidee.org/2019/01/jfk-luna-e-11-settembre-ci-prendono-in-giro-da-50-anni/

 

 

 

 

Fate scendere donne e bambini.

Charlotte Douprée  06 01 2019

 

Questa la proposta di Di Maio. No grazie. I negrieri pretendono che l’intero equipaggio della Sea Watch sbarchi in un porto italiano. Perché? Sono gli accordi presi con gli scafisti. Hanno pagato per trasferirli nella Sea Watch. Ogni volta succede così: gli scafisti si accordano con i negrieri delle navi ONG per incontrarsi in un punto preciso del Mar libico in una determinata ora. Più sono i clandestini più la ONG guadagna, a patto che tutti i clandestini sbarchino nella destinazione stabilita, che quasi sempre è l’Italia. Se ciò non dovesse accadere per qualsiasi motivo (chiusura dei porti italiani) la ONG non metterebbe in saccoccia nulla. No sbarco in Italia no party.

E’ così che funziona, checché ne dicano i buonisti alla don Ciotti. Nel 2017 le procure siciliane e quelle calabresi stavano per scoperchiare il pentolone dei loschi giri d’affari che ruotano attorno alla navi ONG. Provvidenzialmente le inchieste sono state fermate in tempo.

Veniamo alla proposta di De Magistris, che vorrebbe accogliere i clandestini nel porto di Napoli, scavalcando in questo modo prerogative che spettano al Ministero delle Infrastrutture e a quello dell’Interno. L’FBI da qualche mese indaga sugli strani traffici finanziari tra gli Stati Uniti e Castel Volturno. Ha scoperto che il tratto costiero Napoli-Gaeta funge da scalo di clandestini provenienti dall’Africa destinati al traffico della prostituzione, della droga e del traffico d’organi. Lo smistamento avviene da anni lungo il litorale campano ed è gestito dalla cosche della mafia nigeriana, che proprio a Castel Volturno ha il suo quartier generale.

Le ragazze ridotte in schiavitù per prostituirsi e gli immigrati destinati all’esporto, volontario o meno, degli organi, secondo l’FBI provengono quasi tutti dal traffico di esseri umani che via mare sbarcano in Italia. Detto in parole chiare, ogni volta che un clandestino sbarca in Italia ha una buona probabilità di finire dentro la rete della droga, del traffico d’organi, della prostituzione e, aggiungo io, della pedopornografia. Così stanno le cose.

Fico, il prete mancato, sermoneggia: “non si lascia solo chi fugge da dolore e morte”.

Ma Fico, che vive in una bolla di idealismo avulsa dalla realtà, che cosa ne sa della storia e dei vissuti degli immigrati che sbarcano in Italia? Solo per fare un esempio, che farebbe venire la pelle d’oca a chi ha veramente a cuore il destino dell’umanità: le ragazze africane che si mettono in viaggio per raggiungere via mare l’Italia contraggono con gli scafisti un debito di 10-20 mila Euro. Una volta arrivate in Italia le ragazze devono restituire il debito contratto. Come? Principalmente prostituendosi per anni.

Spiegate alla gente perbene, che ha ancora un briciolo di cuore e una due neuroni collegati, come stanno veramente le cose.

 

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ARTE MUSICA TEATRO CINEMA

09 gennaio 2019

Il diavolo veste Cheney: correte a vedere Vice, se volete capire come ci hanno fregati negli ultimi trent’anni

Il film di Adam McKay, con uno straordinario Christian Bale, è il riassunto perfetto della parabola politica che ci ha regalato la crisi economica e Trump: la politica subalterna all’economia, i media come mezzi di propaganda, il caos come dottrina per governare il mondo. Qualcosa non ha funzionato

Intrappolati in un presente dove ogni centimetro quadrato è un luogo di conflitto, siamo troppo occupati a sopravvivere all’incendio quotidiano per fermarci a riflettere sul senso generale degli avvenimenti. Così la realtà finisce per sembrarci una concatenazione di eventi casuali, indipendenti l’uno dall’altro, azzerando la nostra coscienza critica e spalancando le porte ai mostri. È questo il senso – o uno dei sensi – di Vice, il film scritto e diretto da Adam McKay per cui Christian Bale, nei panni dell’ex vice Presidente americano Dick Cheney, ha appena vinto il Golden Globe come miglior attore in una commedia.

Chiariamoci: se in Vice si ride lo si fa amaramente, proprio come amaramente si rideva in The Big Short, il precedente film dell’autore e regista americano che nel 2015 spiegò meglio di tutti la crisi dei mutui subprime. Stavolta l’obiettivo è ancora più ambizioso: spiegare come, all’inizio degli anni ’80, nella politica americana sia balenata una scintilla da cui derivano le fiamme che divampano ovunque nel mondo di oggi. Non ci sono complotti svelati o clamorosi scoop: McKay si limita a unire i puntini, mettendo in fila fatti noti e meno noti, per dimostrare come il filo rosso di un periodo storico che parte da Nixon e arriva fino a Donald Trump sia proprio quel Dick Cheney che, grazie a una riservatezza andreottiana, era riuscito finora a passare quasi inosservato.

Arrivato a Washington negli anni ’70 dal Wyoming – lo Stato americano in cui non solo le armi sono più diffuse, ma il cui tasso di diffusione è triplo rispetto allo Stato secondo in classifica – l’allora trentenne Cheney sale le scale della politica in modo fortunoso, e tra un arresto cardiaco e l’altro, a cavallo del nuovo decennio, si ritrova membro della Camera dei Rappresentanti. Per l’America – e per il resto del mondo – si tratta di un momento fondamentale: fino a quel momento, uomini di Stato come Henry Kissinger hanno esercitato il potere in modo contradditorio e a tratti terribile, ma hanno sempre avuto come bussola l’interesse della Nazione.

La generazione successiva ha un’idea diversa: credendo ciecamente nella capacità del mercato di autoregolamentarsi, vuole mettere lo Stato al servizio delle grandi corporation, piegando sistematicamente l’interesse nazionale a quello dei privati. In cambio anche, ovviamente, di giganteschi emolumenti personali. Ed è qui che Cheney capisce prima di tutti quello che gli altri capiranno negli anni o nei decenni successivi: se le cose dovessero andare nel verso sperato, l’America entrerebbe in una fase nuova, con regole del gioco completamente diverse. Il mondo si trasfomerebbe in un castello di carte – o una torre di tazzine da caffè, come mostrato nel film – dove sarebbe impossibile fare previsioni. Uno scenario caotico, insomma, in cui lui potrebbe diventare l’uomo più potente della Terra.

Il primo atto – la prima tazzina della torre – è la campagna per l’abrogazione della “fair doctrine”, una legge del 1949 per cui in un programma TV ogni tema di pubblica rilevanza deve essere rappresentato in modo “onesto, equo e bilanciato”. L’abrogazione della “fair doctrine” è epocale: la nascita di Fox News, avvenuta subito dopo, segna l’inizio dell’Età della Propaganda, il mondo in cui ogni fatto, anche il più insignificante, viene raccontato attraverso la lente deformante dell’ideologia. Con la crisi dell’Urss e il toro di Wall Street scatenato, l’obiettivo successivo si chiama riforma fiscale: per tutto il decennio l’amministrazione Reagan (un Presidente a misura di propaganda) si impegna da un lato ad abbassare la pressione fiscale su multinazionali e grandi patrimoni, dall’altro a liberalizzare i capitali che tali multinazionali e grandi patrimoni possono investire per finanziare le campagne elettorali.

L’incesto tra politica ed economia diventa così ufficiale (e bipartisan): Cheney viene nominato Ceo di Halliburton, una delle più grandi corporation del petrolio. Sono gli anni ’90, e quello che soltanto un decennio prima pareva

 

Continua qui: https://www.linkiesta.it/it/article/2019/01/09/vice-dick-cheney-christian-bale-golden-globe-recensione/40667/

 

 

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

Ha nevicato per tutta la notte.

Alf Picca 07 01 2019

 

Stamattina alle 08:00 faccio un uomo di neve.

  • 8:10 passa una femminista e mi chiede perché non ho fatto una donna di neve.
  • 8:15 faccio una donna di neve.
  • 8:17 la femminista si lamenta del seno voluminoso della donna di neve perché dipinge le donne di neve come oggetti.
  • 8:20 una coppia gay che vive lì vicino mi guarda storto lamentandosi del perché non ci sono due uomini di neve.
  • 8:22 un transessuale passando mi dice che avrei dovuto fare un uomo di neve con parti rimovibili.
  • 8:25 dei vegani che abitano in fondo alla via si lamentano della carota come naso dicendo che è cibo e non una decorazione per pupazzi.
  • 8:28 alcuni musulmani sull’altro lato della strada chiedono che la donna di neve indossi un burka.
  • 8:40 arriva la polizia dicendo che alcune persone si sono offese…
  • 8:42 un’amica della mia vicina femminista si lamenta per la scopa che raffigura la donna umiliata e costretta a svolgere lavori domestici.
  • 8:43 un funzionario del Ministero per le Pari Opportunità arriva e mi minaccia di denuncia.
  • 8:45 due giornalisti si avvicinano chiedendomi che differenza c’è tra l’uomo e la donna di neve. Io rispondo “le palle” e mi accusano di sessismo.
  • 9:00 finisco al TG come sospetto terrorista, razzista, omofobo e intenzionato a sollevare problemi durante il maltempo.
  • 9:10 mi chiedono se ho dei complici.
  • 9:15 mi arrestano insieme a tutte le persone di buon senso, e adesso andranno ad interrogare tutti coloro che hanno letto fin qua.

 

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RAZZISTA

Francesco Erspamer 07 01 2019

 

Chi usa a sproposito l’epiteto di razzista è un vero liberista. Perché un razzista è un vincente o sogna di esserlo, e si sente superiore agli altri e per questo li disprezza e vuole imporre la propria cultura, i propri valori (che ovviamente considera universali o addirittura “umani”), il proprio stile di vita.

Mentre uno xenofobo è un debole che rifiuta la competizione e si sente inferiore, minacciato, e cerca di impedire ad altri di imporgli la loro cultura, i loro valori, il loro stile di vita.

Certo che ci sono anche razzisti in Italia ma sono pochi; aumenteranno però, se tutti i provinciali, gli introversi e i conservatori verranno etichettati in quel modo.

Non vedere la differenza fra razzista e xenofobo significa insomma aver completamente assorbito il dogma del neocapitalismo e credere che l’esistenza sia e debba essere una gara individuale e individualista per il successo, in cui il passato va rottamato, le tradizioni dimenticate, le comunità dissolte, le leggi ignorate a piacimento (la famosa deregulation, che altri chiama disobbedienza civile): e che chiunque difenda, per qualunque motivo, un passato, una tradizione, una comunità, chiunque chieda il rispetto della legge, possa o debba venire messo a tacere in quanto, nel migliore dei casi, inutile residuo di un tempo andato, nel peggiore, appunto, in quanto fascista. In modo che le differenze culturali scompaiano, l’omogeneizzazione consumista e la mobilità sociale si affermimo indisturbate e i più furbi, svincolati da qualsiasi morale e consuetudine, possano imporsi.

 

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BELPAESE DA SALVARE

VISIBILITA’ PER QUADRISEX E FEMMINISTE

OSCURITA’ PER I PADRI SEPARATI: DEVONO MORIRE E SPARIRE!

Gerolamo Cardano 07 01 2029

 

Molti di noi sono rimasti disorientati quando si sono resi conto che il DDL della speranza era stato messo da parte e non ha alcuna possibilità di diventare legge dello stato in questa legislatura.

 

Le ragioni le abbiamo documentate in precedenza. La manifestazione nazionale dei “papà separati” dell’8 dicembre rispetto a quelle di LGBT e postfemministe del 10 novembre ha avuto un impatto mediatico nullo, fallimentare circa la questione in gioco, perché è andata a confluire nella manifestazione della lega.

 

Anziché la lega dar manforte ai papà separati dai loro figli, i papà hanno dato manforte alla lega, con la Bongiorno (=codice rosso) sul palco e Pillon (= DDL 735) lontano dai microfoni, che abbiamo visto vagare tra le associazioni, per confortarle e per ricevere conforto, anche lui rattristato dall’ imposizione del silenzio (ci rendiamo conto! Pillon non può lottare apertamente (né conferenze stampa, né interviste, né articoli) per il suo, il nostro DDL per obbedienza di partito!).

 

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CYBERWAR SPIONAGGIO DISINFORMAZIONE

Moiso: ecco perché l’Italia è in coda, nella libertà di stampa

Scritto il 09/1/19

Secondo “Reporters sans frontières” l’Italia è solo al 46esimo posto, nel mondo, per libertà di espressione. Include la libertà di pensiero, spesso limitata da precise linee editoriali. Nel suo articolo su “Rolling Stone” contro Antonio Maria Rinaldi, a mio avviso l’autore – Steven Forti – sembra appartenere al pensiero unico, che vede sempre contrapposta una sedicente destra (che non si accorge di come il neoliberismo stia fagocitando le piccole e medie imprese) e una sedicente sinistra (che si occupa solo di diritti civili, ma si lamenta di chi rivendica la sovranità del popolo). Ora, vedendo per chi scrive Forti – riviste come “Left” e “Micromega” – mi viene in mente Che Guevara, che forse sarà proprio un idolo di Forti: mi viene in mente come proprio il Che rivendicasse la sovranità del popolo e delle Nazioni Unite. Curioso che oggi l’idea di sovranità venga criticata da chi scrive nel circuito dell’intellighenzia di sinistra. Mi sembra quasi un controsenso, anche perché senza sovranità non esiste democrazia: e se non è il popolo, a essere sovrano, sicuramente sarà sovrano qualcun altro. A una persona come Forti, che si dice appartenente a una certa corrente, mi viene da domandare: a chi, se non al popolo, dovrebbe appartenere la sovranità?

Nel suo articolo, Forti rinfaccia a Rinaldi il fatto di aver criticato la gestione dell’obbligo vaccinale introdotta in Italia – quasi che di certi argomenti non ci si potesse occupare, come cittadini. Mi chiedo allora come mai, dalle pagine di “Rolling Stone”, che è una rivista di musica, ci si debba occupare di politicain maniera così superficiale. In realtà deve essere sempre possibile pronunciarsi liberamente su ambiti che non siano di specifica pertinenza professionale: si può parlare di vaccini, eccome, pur non essendo dei medici. E grazie a Dio, in Italia viene ancora data un’educazione che permette ai ragazzi di spaziare su diversi temi. Mi sembra che l’articolo di “Rolling Stone” sia frutto della solita incoerenza di un mondo, quello della sedicente sinistra, che ha smesso di avere senso critico. E ha smesso di avere la capacità di districarsi nella complessità del mondo attuale. Lo si vede sul tema dell’Europa, dove oggi chi si sente europeista non può che condannare delle istituzioni assolutamente tecnocratiche, economicistiche e antidemocratiche. Chi crede nell’Europadei popoli non può non criticare questa Unione Europea. Idem come sopra: chi crede nella democrazianon può non rivendicare la sovranità del popolo.

A luglio, in Europa, sembrò sventato il tentativo del commissario Oettinger di mettere un bavaglio al web con la scusa del copyright. In realtà poi a settembre – sempre con l’alibi della riforma del copyright – il Parlamento Europeo ha di fatto legalizzato una sorta di censura preventiva (con l’introduzione della cosiddetta “link tax” e della responsabilità assoluta per le piattaforme come YouTube e Facebook, nonché un meccanismo di filtraggio dei contenuti caricati dagli utenti). C’è chi ha considerato questo intervento una vera e propria pagina nera per la democraziae la libertà dei cittadini, dal punto di vista dell’informazione. A livello europeo c’è quindi una vera e propria stretta, sul web. Quanto all’Italia, il nostro paese continua a non godere di una posizione privilegiata per ciò che riguarda la libertà d’informazione. Quest’anno si è attestata al 46° posto, su 180 paesi esaminati. E quando si parla di libertà di informazione non si parla solo di divieti

 

Continua qui: http://www.libreidee.org/2019/01/moiso-ecco-perche-litalia-e-in-coda-nella-liberta-di-stampa/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il caso Huawei tra guerra commerciale, tecnologica, geopolitica ed intelligence

Scritto da Aldo Giannuli.

Nel caso Huawei confluiscono aspetti di diverso ordine che si incastrano fra loro: commerciale, tecnologico, geopolitico e di intelligence.

In primo luogo, c’è la guerra commerciale fra Usa e Cina per la conquista di quote di mercato.

Come si sa Trump ha dato il via alla guerra commerciale con la Cina (e con l’Europa) per sostenere l’industria automobilistica americana e mantenere le promesse elettorali agli stati del rust belt che gli avevano consegnato la vittoria nel 2016.

Poi nel summit di Buenos Aires, era venuta fuori una tregua dei 90 giorni nell’applicazione dei dazi doganali, ma in quella stessa serata, era partito il mandato d’arresto per Meng Wanzhou, direttrice finanziaria del gruppo, prontamente eseguito dallo zelante suddito canadese cui era immediatamente rivolta la domanda di estradizione. Come dire che l’accordo era momentaneo e limitato, solo una momentanea tregua su un singolo tratto del fronte, mentre la guerra proseguiva (e con rinnovato slancio) in altra parte di esso.

Gli Usa non accettano l’idea di essere scalzati dalla Cina in settori decisivi sia sul piano commerciale che strategico e sono pronti ad una guerra senza limiti per impedire che ciò accada.

In secondo luogo, c’è la delicatissima partita per il dominio tecnologico. In questi trenta anni, la Cina è enormemente cresciuta grazie ad esasperate pratiche di reverse engineering ma anche grazie ad accordi commerciali con le aziende occidentali che decidevano di delocalizzare nel loro paese e che prevedevano l’obbligo cella condivisione dei segreti tecnologici.

Oggi la Cina non è più la grande fabbrica per prodotti low cost del mondo: non più jeans, giocattoli e mattoni a buon mercato, ma anche prodotto high tech ed a livelli decisamente buoni. E la Huawei è un fiore all’occhiello: nel mercato dei cellulari i suoi prodotti sono al secondo posto mondiale, immediatamente dietro la sudcoreana Samsung e precede la Apple. In questo c’è tanto l’effetto dello spionaggio industriale quanto lo sviluppo della ricerca locale, senza dimenticare l’accesso privilegiato alle terre rare, indispensabili per questi prodotti e delle quali la Cina detiene circa il 90% dei giacimenti attualmente attivi.

In terzo luogo, c’è l’aspetto geopolitico che non si limita allo scontro con l’Iran al quale Trump ha voluto rinnovare le sanzioni, ribaltando le decisioni del suo predecessore.

Dentro c’è una questione particolare di grande importanza: gli Usa pretendono che le loro leggi abbiano una efficacia extraterritoriale, e, per esempio, ritengono che anche soggetti di altri paesi siano tenuti ad applicare le norme di embargo decise unilateralmente.

Il presupposto è che, siccome le transazioni internazionali sono eseguite in dollari ed il dollaro è moneta Usa, questo implica che ogni soggetto debba accettare le sanzioni Usa per poter usare i dollari necessari alla transazione e poter accedere alla clearing house dove registrare l’accordo.

Nel caso specifico, sembrerebbe che la Huawei abbia fornito all’Iran, attraverso una società di comodo, materiale coperto da sanzioni della comunità internazionale. Può anche darsi, come può darsi che i prodotti contenessero elementi di tecnologia americana, ma, anche in questo caso, in base a quale principio giuridico il mandato d’arresto per Meng Wanzhou è stato emesso da una Procura americana? E tanto più, in base a quale norma debba essere un tribunale americano a giudicarla? Quale altro paese potrebbe fare la stessa cosa?

Da questo punto di vista, la mossa americana non è rivolta solo contro una importante manager cinese (ed, attraverso essa, contro la Cina), ma ha un contenuto di “avvertimento” all’Europa ed al Giappone. Sin qui c’erano stati casi simili (prevalentemente sanzioni economiche contro banche europee che avevano concesso crediti al’Iran in violazione alle norme sull’embargo), ma non erano stati toccati soggetti delle altre due grandi potenze mondiali, Cina e Russia.

Ora, con questa mossa, gli Usa esigono il tacito riconoscimento di super potenza mondiale anche dalla Cina. La cosa acquista particolare peso e significato ove si tenga presente che nelle prossime settimane l’Europa dovrà decidere se rinnovare le sanzioni alla Russia per la questione ucraina e, a questo proposito, la crisi del mar d’Azov è giunta come il cacio sui maccheroni, con i russi che sono cascati pienamente nella provocazione tesagli.

Il messaggio del caso Huawei serve anche nei confronti dei governi italiano e tedesco, semmai volessero farsi promotori della fine o anche solo di una attenuazione delle sanzioni. E questo conferma che gli Usa hanno nel Dipartimento della Giustizia il loro braccio operativo nella guerra economica, strumento attraverso il quale gli Usa esercitano un dominio anche politico.

Infine, l’aspetto dell’intelligence. La Huawei si muove su un terreno di diretto interesse politico e militare, avendo accesso ai nodi delle comunicazioni attraverso la fornitura di parti della componentistica (per l’Italia la questione riguarda la rete Sparkle che serve la Telekom) il che ovviamente significa la possibilità di tenere sotto controllo le comunicazioni sia istituzionali che private di ben più di mezzo mondo.

E, infatti, la Huawei lavora a stretto contatto sia con l’Armata Popolare di Liberazione cinese sia con i vari organismi di intelligence del paese e, proprio per questo, ha ripetutamente goduto di quei sostanziosi aiuti bancari, incoraggiati dal governo, che ne hanno consentito la rapida ascesa.

Dunque, non stupisce che essa fosse nel mirino dei servizi americani ben prima del caso di questi giorni ed è del tutto intuitivo che, attraverso la Huawei, la Cina eserciti una massiccia opera di spionaggio a livello mondiale. Sin qui gli americani non hanno torto nell’avvertire il pericolo, se non fosse che loro non sono affatto da meno sullo stesso piano: ci siamo dimenticati della faccenda di Echelon? O di quando venne fuori che la Cia spiava i cellulari di tutti i capi di governo europei, compresa la Merkel? O i cento altri casi di spionaggio di massa dei servizi Usa?

Il fatto è che agli americani non dà per nulla fastidio lo spionaggio, quello che non gli sta bene è che a farlo siano altri.

Tutto questo premesso, si capisce bene quale sia la portata dell’episodio che non va disgiunto dalla questione dei dazi o da altri aspetti della guerra economica.

Qui, però, si pongono altre domande: chi ha deciso l’azione contro Huawei, perché e perché proprio quel giorno.

Ci sono tre ipotesi:

  1. il Presidente d’accordo con i suoi apparati di intelligence(ed il Dipartimento della giustizia è

Continua qui: http://www.aldogiannuli.it/caso-huawei-guerra-commerciale-intelligence/

 

 

 

DIRITTI UMANI – IMMIGRAZIONI

La sinistra coi migranti, i gialloverdi con i Gilet Gialli europei

Scritto il 09/1/19

Leoluca Orlando e Luigi de Magistris si schierano coi migranti, mentre Luigi Di Maio (e Matteo Salvini) tifano per i Gilet Gialli, provocando l’Eliseo. Posizioni speculari: i titolari della sedicente sinistra difendono gli africani disperati, mentre gli esponenti gialloverdi scelgono gli europei che stanno male, italiani e francesi. «Gilet gialli, non mollate!», scrive Di Maio sul “Blog delle Stelle” a sostegno del movimento che da otto settimane protesta contro Emmanuel Macron. «Sappiamo cosa anima il vostro spirito e perché avete deciso di scendere in piazza per farvi sentire», scrive il vicepremier grillino. «In Francia, come in Italia, la politicaè diventata sorda alle esigenze dei cittadini che sono stati tenuti fuori dalle decisioni più importanti che riguardano il popolo. Il grido che si alza forte dalle piazze francesi è in definitiva uno: “fateci partecipare!”». Fa eco il leghista Salvini, che da parte sua assicura «sostegno ai cittadini perbene che protestano contro un presidente che governa contro il suo popolo». Un vero e proprio affronto, per Nathalie Loiseau, ministro francese degli affari europei, che replica piccata: «La Francia si guarda bene dal dare lezioni all’Italia. Salvini e Di Maio imparino a fare pulizia in casa loro».

La Francia non ci dà lezioni? «Proprio Macron ci aveva paragonato alla lebbra», la rimbecca Di Maio. Ha ragione: il primo ad attaccare fu proprio Macron, che non esitò a insultare l’Italia. Il suo partito dichiarò «vomitevole» la politicagialloverde sui migranti. C’è dell’altro, naturalmente: Di Maio si spinge a offrire ai Gilet Janunes la piattaforma Rousseu dei 5 Stelle per aggregare singoli e gruppi. All’orizzonte, naturalmente, una possibile alleanza in vista delle europee. Jacline Mouraud, tra i rappresentanti dell’ala moderata del movimento francese, annuncia di lavorare alla creazione del proprio partito politico: lo rivela “France Info”. Obiettivo del partito (battezzato “Les Emergents”, gli emergenti) è una grande riforma fiscale e il «ritorno del sociale» nell’agenda politica. Gilet Gialloverdi? Sicuramente utile, la protesta francese, per ridare fiato al governo Conte, costretto alla resa da Bruxelles sul deficit 2019. Un passo indietro, nella speranza di tornare all’attacco dopo le elezioni di maggio? Applaudire i Gilet Gialli – ostili a Macron, detestato dagli italiani – aiuta certamente i gialloverdi nostrani, impantanati nella palude delle promesse impossibili da mantenere, per via dell’intransigenza austeritaria dell’oligarchia tecnocratica europea.

Sul fronte opposto, l’ex sinistra brancola nel buio: sposando la causa dei migranti, punta tutto sui diritticivili (e mette in ombra i dirittisociali confiscati proprio dal poteredi Bruxelles, lo stesso contro cui si agitano i Gilet Gialli ora sostenuti anche dall’Italia). Intestandosi la “rivolta dei sindaci” contro il rilancio securitario di Salvini, osserva Carlo Formenti su “Micromega”, le sinistre spostano ulteriormente il baricentro dell’iniziativa politicasul tema dei diritticivili (con priorità assoluta al problema dei migranti) sperando così di dimostrare la propria superiorità morale nei confronti della controparte. In questo modo, non solo non indeboliscono l’avversario, ma – come dimostrato dall’esperienza anche recente – rischiano di rafforzarlo. La sinistra, dice Formenti, è diventata antistatalista: i gruppi più radicali «concepiscono lo Stato nazionale come un nemico in quanto tale, perché sinonimo di gerarchia, autoritarismo, se non di totalitarismo». Poi ci sono le rivendicazioni di autogoverno di una “società civile” «identificata, di volta in volta, con questa o quella istituzione locale (Comuni, Province, Regioni o altro), per definizione “più vicina ai cittadini”», fino alle “cyber utopie” anarco-capitaliste «che hanno visto i social network (governati da imprese giganti!) scalzare progressivamente le prime comunità virtuali come candidate alla costruzione di forme di democraziadiretta alternative a partiti e corpi intermedi».

Avendo sposato queste ideologie, aggiunge Formenti, «non stupisce che le sinistre coltivino l’utopia di una Unione Europeariformata, in cui si creerebbero le condizioni per una governance realmente democratica, e in cui

 

Continua qui: http://www.libreidee.org/2019/01/la-sinistra-coi-migranti-i-gialloverdi-con-i-gilet-gialli-europei/

 

 

 

ECONOMIA

Il consumatore cinese

Francesco Erspamer 08 01 2019

 

“La lotta per i consumatori cinesi” è il titolo di un editoriale di oggi del New York Times, scritto da un investitore finanziario cinese di successo, dunque per definizione intelligente. Invece è di una banalità e autoreferenzialità sconcertanti: come un tempo la teologia, la finanza si basa su alcuni dogmi indimostrabili e anzi smentiti dai fatti e dalla logica, da accettare dunque per fede, e costruisce tutto il resto su di essi. Il principale, in sostituzione della vita eterna, è l’eternità del mercato, ossia la miracolosa possibilità di una crescita perpetua e dunque illimitata in un mondo limitato. Crescita economica e crescita demografica, entrambe indispensabili al capitalismo e dunque trasformate in realtà più reali della realtà ordinaria, così come era Dio per i teologi (parlo al passato perché, da credente, non mi faccio illusioni: fra le vittime del liberismo non ci sono solo le culture e le tradizioni, anche le religioni). In questo mondo dominato dal denaro e dalla necessità della sua moltiplicazione perenne, i popoli scompaiono e così le persone fisiche, con le loro aspirazioni, le loro fragilità, le loro abitudini e idiosincrasie, i loro sogni e le loro memorie, le loro differenze: restano solo astratti consumatori, proiezioni statistiche, big data, equivalenti alle anime di un tempo, che erano nostre (anzi, eravamo noi) ma in effetti non ci appartenevano.

Purtroppo, l’autoreferenzialità impedisce l’autocritica, anzi il suo primario scopo è renderla impossibile: non possiamo aspettarci la salvezza dalla finanza e dagli economisti finanziari, e tanto meno dai loro padroni, i banchieri e gli investitori che

 

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FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI

L’esplosione della bolla Bitcoin.

Un’autopsia

Marcello Minenna

3 Gennaio 2019

Il 2018 si è chiuso con un crollo su tutta la linea delle criptovalute, la capitalizzazione complessiva è passata dal picco di 830 miliardi di dollari a inizio anno ai 130 attuali. Ma non è detto che nel 2019 non risorgano.ilsole24ore.it

Ad un anno di distanza esatto dal picco del prezzo di Bitcoin a 19.100 $, è possibile apprezzare in retrospettiva la magnitudo della bolla sulle valute digitali e la violenza della sua esplosione nel 2018. Da dicembre 2017 il prezzo ha ceduto l’85%, il secondo calo mai registrato, anche per un asset non convenzionale che ha mostrato storicamente cicli di boom & bust molto accentuati. Nel 2011 il prezzo declinò del 93% a 2 $ da un massimo di 39$, mentre nel 2013 in poche settimane il prezzo esplose a 1.151 $ per declinare a 177 $ nell’arco di 12 mesi.

Non è certo che stavolta si sia toccato il fondo: storicamente alla fase di rapido declino segue una stagnazione del prezzo che può anche durare anni definita in gergo come “crypto-winter”.

Nell’economia della bolla speculativa le c.d. alt-coins si sono rivelate, a prescindere da qualsiasi valutazione tecnica, semplici varianti più volatili e meno liquide di Bitcoin, correlate quasi perfettamente tra loro. Questa caratteristica ha reso futile qualsiasi tentativo di diversificazione del rischio tra diversi crypto-assets.

Tra le alt-coins una menzione specifica va ad Ethereum; si tratta della valuta digitale al secondo posto come livello di capitalizzazione che è stata sfruttata come piattaforma tecnica per la proliferazione delle c.d. ICO (Initial Coin Offering). Queste in sostanza sono vere e proprie offerte pubbliche di acquisto mascherate, che sono state utilizzate per raccogliere risorse finanziare al riparo dei regulators e finanziare progetti di dubbia efficacia. Gran parte di queste iniziative hanno invariabilmente distrutto risorse economiche o si sono rivelate vere e proprie truffe in cui il potere di difesa degli investitori era sostanzialmente azzerato.

Ex-post il pattern del prezzo durante la bolla Bitcoin ha seguito con precisione l’andamento asimmetrico dei suoi cugini storici, a partire dalla bolla dei tulipani del 1637, passando per quella della South Sea Company fino al più recente burst della bolla .com del 1999-2000. Dopo una fase di moderata ascesa, è seguita una rapidissima fase maniacale di crescita verticale del prezzo di circa 9 mesi con un finale folle nel dicembre 2017, mese in cui il prezzo è più che raddoppiato partendo da una base già altissima. Il vertice si è toccato con un classico “doppio picco” a gennaio 2018, sincronizzato – non a caso – con il raggiungimento dei massimi sui mercati azionari globali ed il picco della liquidità immessa nell’economia dalle principali banche centrali del mondo. Da allora il prezzo Bitcoin ha avuto un declino pressoché ininterrotto, con crolli molto rapidi e brevi riprese sempre meno convinte, con massimi relativi discendenti.

Qual è il floor di questa incredibile discesa? Sul tema c’è da considerare che Bitcoin, i suoi cloni ed il resto delle valute digitali non hanno un proprio valore intrinseco. I prezzi sono determinati semplicemente dall’incrocio di domanda e ed offerta sui singoli mercati di scambio; si tratta di prezzi spesso altamente illiquidi, diversi tra loro anche di centinaia di euro senza che sia possibile un efficace arbitraggio tra i vari mercati per i limiti strutturali di Bitcoin e delle piattaforme di regolamento. Dunque è assai difficile pensare di determinare quale possa essere il fair value. Spesso per i trader che operano su questi mercati l’analisi tecnica è l’unico strumento guida per interpretare i movimenti del prezzo. Ciò paradossalmente fa sì che la dinamica del prezzo, determinata dalle azioni collettive dei trader, segua a volte i pattern previsionali dell’analisi tecnica.

Con questo quadro d’insieme è possibile isolare i principali driver dell’ascesa e vertiginoso declino di Bitcoin e, a cascata, di tutte le altre alt-coins. Nella fase di forte ascesa del prezzo tra marzo e dicembre 2017 è stato preponderante il ruolo svolto dalla stablecoin Tether. Una stablecoin è una valuta digitale ancorata con un cambio fisso ad una valuta fiat scambiata sul mercato FOREX, come il Dollaro o l’Euro. La sua esistenza è giustificata dal fatto che – allo stato attuale – la conversione tra valute fiat e valute digitali è lenta e farraginosa dato che richiede il trasferimento di fondi dalle banche tradizionali alle crypto-exchange attraverso bonifici transfrontalieri, il cui regolamento può richiedere diversi giorni. La conversione tra valute digitali è invece istantanea e permette ai trader di proteggersi tramite le stablecoin dall’elevatissima volatilità delle quotazioni di Bitcoin ed affini. Naturalmente 1 Tether non equivale ad un Dollaro perché non può essere convertito liberamente, sebbene la stessa società ha sempre dichiarato di detenere una riserva di Dollari corrispondente alla quantità di Tether emessa e circolante sulle exchanges. Tuttavia per i trader svolge la stessa funzione, quindi è irrilevante che ci sia o meno convertibilità.

A dicembre 2018 esistono almeno 5 diverse stablecoin sul mercato che offrono questo servizio, ma nel 2017 Tether ha gestito sostanzialmente un monopolio che ha influenzato pesantemente l’andamento dei prezzi sui vari exchange, come evidenziato da un’analisi statistica dell’Università di Austin, Texas. Molto è dipeso dal fatto che la società che emetteva i Tether era de facto controllata dalla più grande crypto-exchange dell’Asia, Bitfinex.

 

Si nota come l’andamento del prezzo di Bitcoin (e delle altre alt-coins) nella fase di pump della bolla sia perfettamente correlato all’immissione di Tether sulle exchanges. Come la ricerca citata evidenzia, è statisticamente probabile che l’exchange Bitfinex abbia alimentato artificialmente il manic buying di valute digitali attraverso quantità crescenti di Tether. In una fase di rialzo esponenziale del prezzo questa strategia permette di “emettere allo scoperto” Tether senza adeguata copertura in Dollari al fine di acquistare valute digitali, contando sul fatto di poterle rivendere ad un prezzo maggiore in un secondo momento e ricostituire le riserve. L’effetto segnale di forti aumenti del prezzo in tempi sempre più accelerati ha contribuito alla crescita dell’hype su Bitcoin che ha attirato nella fase terminale della bolla a fine 2017 speculatori ed investitori poco esperti di asset digitali ed inconsapevoli dei rischi.

La lunga contrazione dei prezzi, forse non ancora terminata, è stata causata da 2 principali fattori operanti in due fasi temporali distinte. Nel periodo gennaio-aprile 2018, il calo è stato demand-driven e dunque determinato dalla fuga di investitori speculativi dell’ultim’ora, fortemente esposti per via dell’acquisto a prezzi molto elevati e spaventati dall’improvviso turn-around

 

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Dal crac alla beffa: niente rimborsi per i risparmiatori di Mps che hanno perso tutto

08 gennaio 2019

Nella manovra sono previsti i rimborsi per risparmiatori, obbligazionisti e azionisti delle banche finite in liquidazione. Ma dal perimetro sono rimasti fuori coloro che hanno perso tutti i propri risparmi dopo l’ultimo tracollo del Monte dei Paschi di Siena

 

La platea dei beneficiari del fondo per i “truffati” delle banche fallite è ancora da definire. Ma quello che emerge è che il governo del cambiamento, alla fine dei conti, potrebbe discriminare i piccoli risparmiatori di crac disastrosi come quello di Mps. Il fondo previsto nella manovra è stato aperto anche agli azionisti, salendo a 1,5 miliardi in tre anni. Sono previsti i rimborsi per risparmiatori, obbligazionisti e azionisti delle banche finite in liquidazione tra il 16 novembre 2015 e prima del 1 gennaio 2018. Ma dal perimetro sono rimasti fuori coloro che hanno perso tutti i propri risparmi dopo l’ultimo tracollo del Monte dei Paschi di Siena, anche se la banca non è andata in liquidazione.

Andiamo per ordine. Per chiudere i disastri bancari di Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti, la manovra prevede un fondo per il ristoro di tutti coloro che avevano investito negli istituti. Compresi gli azionisti di Banca Etruria, l’unica quotata delle sei. Nella norma sono previsti rimborsi fino al 95% per le obbligazioni e del 30% per le azioni, fino a una soglia di 100mila euro. Usando come base di calcolo il prezzo di acquisto dei titoli e non, come richiesto da diverse associazioni

 

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GIUSTIZIA E NORME

Decreto sicurezza: i sindaci rispettino il principio di legalità

di Luigi Oliveri –  3 Gennaio 2019

 

La disgregazione del Paese assume tante forme. Ormai da anni un “classico” elemento di questo fenomeno è costituito dai sindaci che in modi più o meno clamorosi si arrogano poteri dei quali non dispongono, per fini condivisibili o meno, commendevoli o no.

Di recente abbiamo visto alcuni casi clamorosi: il “modello Riace”, mandato avanti dal sindaco Lucano con apprezzabili risultati di integrazione sociale ma a costo di illegittimità commesse nella combinazione di matrimoni e di assegnazioni di appalti a cooperative del posto, senza gara. Oppure, la delibera del comune di Lodi che aveva condizionato le agevolazioni dei bimbi delle scuole elementari all’acquisizione dai Paesi di origine di documenti a comprova della loro situazione economica.

Esempi, questi, finiti all’attenzione della magistratura, sia amministrativa, sia civile, sia penale, con esiti in alcuni casi ancora da definire, anche se un risultato è molto chiaro: l’esasperazione della tendenza al “diritto fai da te” di molti, troppi sindaci, che si ritengono alla stregua di capi di enti indipendenti e in grado, quindi, di produrre norme, regole e comportamenti anche in contrasto con le norme di legge.

È esattamente il caso che si ripropone ora, con l’idea del sindaco di Palermo di “disapplicare” il decreto sicurezza, fondando l’iniziativa sulla base dei diritti costituzionali da garantire a tutti coloro che vivono nel nostro Paese.

Sul piano strettamente giuridico, muovere rilevanti dubbi di legittimità costituzionale del decreto sicurezza ha un serio fondamento.

Ricostruiamo, prima, i fatti. Il d.l. 113/2018, convertito nella legge 132/2018, ha da un lato abrogato le norme che consentivano al richiedente protezione internazionale ospitato nei centri di accoglienza di iscriversi nell’anagrafe della popolazione residente; dall’altro lato stabilisce che il permesso di soggiorno rilasciato ai richiedenti asilo “non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223 e dell’art. 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”.

Bisogna ricordare che nel nostro ordinamento, la residenza è considerata un diritto/dovere. Il diritto trova fondamento nell’articolo 16 della Costituzione, ai sensi del quale

Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche. Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge

Il dovere è imposto dall’articolo 2, comma 1, della legge 1228/1954:

È fatto obbligo ad ognuno di chiedere per sé e per le persone sulle quali esercita la patria potestà o la tutela, la iscrizione nell’anagrafe del comune di dimora abituale

È, dunque, ragionevole dubitare della legittimità costituzionale di una legge che di fatto elimina un diritto costituzionalmente definito e rafforzato in un obbligo richiesto dalla legge, giustificato dall’evidente necessità che uno Stato abbia piena cognizione di chi sono le persone che soggiornino nel proprio territorio, per ragioni di sicurezza, fiscali e di definizione dei potenziali utenti dei vari servizi.

Detto questo, tuttavia, per un comune, ente che non dispone di poteri legislativi ma svolge funzioni amministrative, vige il principio di legalità: i provvedimenti dei comuni debbono rispettare sempre le leggi. Anche laddove vi sia da dubitare della loro costituzionalità.

Non spetta ai comuni il sindacato sulla legittimità costituzionale delle leggi, che la Costituzione rimette esclusivamente alla Corte costituzionale.

Rispettare la Costituzione significa non solo evidenziare possibili elementi di contraddizione di leggi con essa, ma anche evitare di adottare comportamenti e decisioni che contrastino con le norme. Va benissimo che il sindaco di Palermo ed altri sindaci promuovano nelle sedi e con le modalità opportune questioni di legittimità costituzionale del decreto sicurezza. Ma essi non dispongono in alcun modo del potere di sospendere o disapplicare tale decreto.

Peraltro, si deve considerare che iniziative di questa natura mettono in estrema difficoltà gli apparati tecnici. Sono, infatti, i funzionari e non i sindaci ad effettuare le iscrizioni anagrafiche, nel caso di specie. Un ordine o

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LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI

Il reddito di cittadinanza come Jobs Act 2

Mauro Gallegati

2 Gennaio 2019

Per come è stata formulata la misura detta “reddito di cittadinanza” non è altro un sussidio temporaneo di disoccupazione con un certo guadagno per le imprese: in pratica un Jobs act 2. La filosofia è la stessa: come aiutare la flex-security senza usare la leva fiscale a fini redistributivi.

Il 2018 è stato un anno orribile per il reddito di cittadinanza, ritirato in quasi tutti i Paesi che lo avevano sperimentato per via di costi insostenibili se non sono accompagnati da adeguate politiche redistributive. Eppure economisti e imprenditori nelle élite della tecnologia lo considerano una risposta adeguata alla disoccupazione tecnologica – le perdite di posti di lavoro causate dall’automazione.

L’idea è che tutti i cittadini ricevano una certa quantità di denaro dal governo per le spese di cibo, alloggio e abbigliamento – indipendentemente dal reddito o dalla condizione lavorativa come “reddito di base incondizionato”, ovvero modulato se reddito di cittadinanza. I sostenitori dicono che aiuterà a combattere la povertà dando alle persone la flessibilità di trovare lavoro e rafforzare la loro rete di sicurezza, o che offre un modo per supportare le persone che potrebbero essere negativamente influenzate dall’automazione. Per i detrattori favorisce l’ozio a spese di quanti lavorano.

La notizia per quanto allarmante non deve però preoccupare il Governo. Quello che loro definiscono “reddito di cittadinanza” è in realtà un “sussidio temporaneo di disoccupazione”.

Il sussidio di disoccupazione è stato introdotto per la prima volta in

 

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Non facciamo gli schizzinosi: ecco tre cose che ci piacciono del reddito di cittadinanza

Gli incentivi alle imprese, l’ambizione di rilanciare le politiche attive, lo sforzo per la digitalizzazione: il reddito di cittadinanza può non piacere, ma vedere tutto nero è sbagliato e ideologico

09 gennaio 2019

 

Che la povertà possa essere abolita con uno stanziamento da 6,1 miliardi di euro è un’idiozia anche solo pensarlo. Figuriamoci proclamarlo. Figuriamoci sbandierarlo da un balcone. Quella scena, con Di Maio e i suoi, festanti da Palazzo Chigi, ha contribuito a rendere fazioso tutto il dibattito sul reddito di cittadinanza. Come spesso è successo in passato, il Paese si è spaccato su una misura che prometteva la rivoluzione e che invece è poco più che un potenziamento del vecchio Reddito d’Inclusione.

Questa nuova e più modesta prospettiva però può essere utile per giudicarla senza eccessi di emotività. Stiano tranquilli gli imprenditori spaventati e non si illudano i tanti bisognosi che in questi anni si sono sentiti lasciati indietro: il Reddito di Cittadinanza non è una misura rivoluzionaria, non porterà il paese sul baratro e nemmeno lo salverà. È un piccolo intervento che ha dentro di sé anche tante cose buone.

La prima è la dotazione: 6,1 miliardi per il 2019, 7,75 miliardi nel 2020, 8 miliardi nel 2021 e 7,84 miliardi nel 2022. Per molto tempo il RdC è stato criticato perché ritenuto uno sforzo di puro assistenzialismo troppo oneroso per il paese. Ma se le poste in gioco sono queste e se vale la garanzia data all’Europa che queste cifre non saranno sforate, allora non si può parlare di sforzo eccessivo. Se anche si trattasse, come dicono molti detrattori, di assistenzialismo allo stato puro, 7 o 8 miliardi di euro sarebbero alla portata di un paese che è pur sempre la settima potenzia mondiale (Confindustria, 2018), con un Pil di 1600 miliardi di euro. Anzi, se il Rei introdotto dal governo Gentiloni aveva un difetto era proprio lo stanziamento di 3 miliardi: ridicolo rispetto alle ambizioni di quella che si proclamava come la prima misura universale di contrasto alla povertà. Perciò cominciamo da qui: questo reddito di cittadinanza è poco diverso dal reddito di inclusione ma raddoppia la dotazione del fondo. E questo non può essere un male.

Il reddito di cittadinanza è anche un gigantesco sforzo di digitalizzazione del paese che sarebbe sbagliato criticare per eccesso di ambizione. Possiamo organizzare le Olimpiadi, possiamo fare grandi opere, possiamo anche cercare di colmare il

 

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LA LINGUA SALVATA

Rammaricato

ram-ma-ri-cà-to

SIGNAmareggiato, addolorato, afflitto

propriamente, participio passato di rammaricare, derivato del latino amaricare ‘rendere amaro’.

Curioso: non si sente l’amaro, nel rammaricato. Cioè, si sente bene nel significato, sappiamo che vuol dire amareggiato; ma il raddoppio della ‘m’ non ce lo fa suonare nell’orecchio. Purtroppo i dizionari etimologici sono discordi sui passaggi esatti che portano l’amaricare latino al nostro rammaricare, ma sembra plausibile che questo rafforzamento della ‘m’ sia un accostamento al fenomeno che investe i composti muniti di prefissi ‘a-‘ o ‘ra-‘ (pensiamo a ‘rammentare’, ‘rammendare’, ‘rammodernare’), per quanto in questo caso la ‘a’ non sia parte del prefisso, ma del termine di base, del tema (amaricare); e credo la stranezza stia qui.

Ad ogni modo, una volta situata questa parola e i suoi derivati nella gang agguerrita dei termini che raccontano un sentire complesso attraverso una sensazione gustativa, possiamo apprezzare come lo scontro interno fra sinonimi sia a un livello altissimo, sottilissimo: che differenza c’è fra amareggiare e rammaricare, fra quando sono amareggiato e quando sono rammaricato, posto che fanno entrambi riferimento all’amarezza?

L’amareggiato è più aperto, sospeso; addirittura quel suo suffisso può suggerirci una

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PANORAMA INTERNAZIONALE

Spaventosa futura distruzione del Bacino dei Caraibi

di Thierry Meyssan

Mentre il presidente Donald Trump ha annunciato il ritiro delle truppe dal Medio Oriente Allargato, il Pentagono prosegue invece la messa in atto del piano Rumsfeld-Cebrowski. Adesso tocca agli Stati del Bacino dei Caraibi essere distrutti. Non si tratta, come negli anni Settanta, di rovesciare regimi filosovietici, ma di annientare le strutture statali della regione, senza distinzioni di amici e nemici politici. Thierry Meyssan segue la preparazione di questa nuova serie di guerre.

RETE VOLTAIRE | DAMASCO (SIRIA) | 8 GENNAIO 2019

In una serie di articoli precedenti abbiamo presentato il piano del SouthCom per provocare una guerra tra latino-americani e distruggere le strutture statali degli Stati del Bacino dei Caraibi [1].

Preparare questa guerra, che nella strategia Rumsfeld-Cebrowski dovrebbe seguire i conflitti del Medio Oriente Allargato, richiede un decennio [2].

Dopo un periodo di destabilizzazione economica [3] e di preparazione militare, l’operazione vera e propria dovrebbe iniziare nei prossimi anni, con un attacco al Venezuela da parte di Brasile (sostenuto da Israele), Colombia (alleata degli Stati Uniti) e Guyana (ossia il Regno Unito). Dopo di che dovrebbe toccare a Cuba e Nicaragua: la «troika della tirannia», secondo John Bolton.

Il piano iniziale potrebbe però subire modificazioni per il riaccendersi delle ambizioni imperiali del Regno Unito [4], che potrebbe condizionare il Pentagono.

Ecco il punto della situazione:

Evoluzione del Venezuela

Il presidente venezuelano Hugo Chavez aveva incrementato le relazioni con il Medio Oriente Allargato su una base ideologica. In particolare, si era avvicinato al presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad e al presidente siriano Bashar al-Assad. I tre presidenti avevano ipotizzato di fondare un’organizzazione intergovernativa, il Movimento dei Liberi Alleati, sul modello del Movimento dei Paesi Non-Allineati, ridotto all’immobilismo dall’allineamento agli Stati Uniti di alcuni Stati membri [5].

Se a parole Nicolas Maduro è sulla medesima linea di Chavez, ha in realtà optato per tutt’altra politica estera. Ha certamente continuato il riavvicinamento alla Russia e ha altresì accettato il posizionamento di bombardieri russi in Venezuela. Ha firmato un contratto d’importazione di 600 mila tonnellate di grano per fronteggiare la carestia. E, soprattutto, si accinge a ricevere 6 miliardi di dollari d’investimenti, di cui 5 nel settore petrolifero. Gli ingegneri russi prenderanno il posto lasciato vacante dai venezuelani.

Maduro ha riorganizzato le alleanze del Paese su nuove basi. Ha così allacciato stretti legami con la Turchia, Paese membro della NATO, le cui truppe occupano il nord della Siria: Maduro si è recato quattro volte a Istanbul, Erdoğan una volta a Caracas.

La Svizzera era un alleato di Chavez, di cui era stata consulente nella stesura della Costituzione. Paventando di non poter più raffinare l’oro venezuelano in Svizzera, Maduro ora lo manda in Turchia, dove il minerale grezzo viene trasformato in lingotti. In passato, l’oro rimaneva nelle banche svizzere, a garanzia dei contratti petroliferi. Oggi anche le liquidità sono state trasferite in Turchia, l’oro lavorato invece ritorna in Venezuela. Quest’orientamento di Maduro non può ritenersi fondato su un’ideologia, bensì su interessi prettamente economici. Si tratta di stabilirne la natura.

Il Venezuela è contestualmente oggetto di una campagna di destabilizzazione, iniziata con le manifestazioni dei guarimbas, continuata con il tentativo di colpo di Stato del 12 febbraio 2015 (Operazione Gerico), e poi con gli attacchi alla moneta nazionale e l’organizzazione dell’emigrazione. In simile contesto la Turchia ha consentito al Venezuela di aggirare le sanzioni USA. Nel 2018 gli scambi tra i due Paesi si sono moltiplicati di 15 volte.

Quale che sia l’evoluzione del regime in Venezuela, niente può giustificare quello che si sta preparando contro la sua popolazione.

Coordinamento dei mezzi logistici

Dal 31 luglio al 12 agosto 2017 il SouthCom ha organizzato una vasta esercitazione di oltre 3.000 uomini provenienti da 25 Stati alleati, tra cui Francia e Regno Unito. Lo scopo era preparare un rapido sbarco di truppe in Venezuela [6].

La Colombia

La Colombia è uno Stato ma non una nazione. La sua popolazione è separata geograficamente in armonia con le classi sociali, caratterizzate da enormi differenze di livello di vita. Pressoché nessun colombiano si è mai avventurato in un quartiere di una classe sociale diversa dalla propria. Questa rigida separazione ha favorito la moltiplicazione di forze paramilitari e, di conseguenza, di

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POLITICA

Quando la politica era la politica. E aveva un re: Giulio Andreotti

Giulio Andreotti avrebbe compiuto 100 anni il 14 gennaio prossimo, è morto il 6 maggio del 2013 a 94 anni

Morto il 6 maggio del 2013 alla già bella età di 94 anni, Giulio Andreotti ne avrebbe compiuto 100 il 14 gennaio prossimo. E ce l’avrebbe fatta a tagliare vivo il traguardo del secolo se non gli fosse toccato di vivere l’ultimo tratto della sua lunga esistenza e carriera politica nell’amarezza di un “prescritto”. Così ne parlano ancora i suoi avversari a causa della conclusione ibrida, diciamo così, del processo per mafia subìto fra il 1993 e il 2004: undici anni durante i quali egli si divise, con la puntualità che lo distingueva, fra gli impegni parlamentari e quelli di imputato.

La conclusione processuale fu davvero anomala, diversamente dalla chiara assoluzione dall’accusa di avere fatto addirittura uccidere nel 1979 Mino Pecorelli, un giornalista molto introdotto nei servizi segreti che lo attaccava da tempo, e lo aveva per primo chiamato con tono sarcastico “divo Giulio”: un antipasto del “Belzebù” affibbiatogli poi da altri.

Fu una conclusione ibrida, quella del processo di mafia, perché, dopo l’assoluzione in primo grado, una sentenza d’appello, confermata dalla Cassazione, ribadì la bocciatura dell’accusa di concorso esterno ma estinse per prescrizione quella di associazione a delinquere, derubricatagli per fatti accertati, almeno agli atti giudiziari, ma avvenuti prima del 1980. E guai a fermarsi al grido trionfante della sua avvocata Giulia Bongiorno – “Assolto! Assolto! – senza ricordare la coda della prescrizione. Minimo minimo, si riceve una lettera puntigliosa di Gian Carlo Caselli: l’allora capo della Procura palermitana, ora in pensione dopo avere diretto la Procura di Torino, che ancora si vanta di avere indagato e fatto processare il politico fra i più famosi d’Italia. E non certo colpito da una damnatio memoriae neroniana, visto che nel centenario della sua nascita, quasi coincidente con quello appena celebrato dell’aula di Montecitorio realizzata da Ernesto Basile, gli sono dedicate due mostre: una nella Biblioteca Spadolini del Senato e un’altra nel complesso monumentale di San Salvatore in Lauro. Più che dimenticarlo, molti rimpiangono Andreotti, viste anche le prove date da molti dei suoi successori politici.

Non fu un capriccio o un abuso indagarlo e processarlo, scrive e dice Caselli contestando al “suo” imputato, anche da morto, di non avere rinunciato alla prescrizione, e di avere quindi accettato un verdetto che lo avrebbe inchiodato alle sue cattive frequentazioni in Sicilia. Dove la corrente andreottiana della Democrazia Cristiana era spesso un porto di mare, subentrando per consistenza a quella di Amintore Fanfani.

Ma Andreotti era diventato quello che era – senatore a vita, 7 volte presidente del Consiglio e 27 volte ministro, di cui 8 alla Difesa, 5 agli Esteri, 3 alle Partecipazioni Statali, 2 alle Finanze e una al Tesoro e all’Interno- senza bisogno della spinta delle tessere del partito raccolte dal suo luogotenente nell’isola Salvo Lima. Che fu peraltro assassinato proprio dalla mafia per ritorsione contro la conferma in Cassazione delle condanne del maxi- processo che aveva segnato davvero una svolta nella lotta a Cosa Nostra. Esso porta il nome di Giovanni Falcone, poi ucciso pure lui dalla mafia nella strage di Capaci.

Andreotti aveva creato le sue fortune politiche a Roma, la sua Roma, facendo la gavetta come sottosegretario e braccio destro di Alcide De Gasperi: ripeto, Alcide De Gasperi. Per la cui successione egli assistette, in disparte, alla lotta fra Amintore Fanfani e Attilio Piccioni, piegato quest’ultimo dalla disavventura giudiziaria del figlio Piero per la vicenda di Wilma Montesi, trovata morta sulla spiaggia di Torvaianica dopo un festino, vicino alla tenuta presidenziale di Castelporziano. L’assoluzione di Piero, al solito, arrivò a danni collaterali irreparabilmente compiuti.

La forza politica di Andreotti crebbe man mano non per le tessere – ripeto- della sua corrente, chiamata Primavera e poi confluita in altre più grandi, ma per le sue capacità di relazione, per il grande e sistematico seguito elettorale che raccoglieva, per la dimestichezza con la grande e piccola burocrazia, civile e militare, incontrata nella lunga attività ministeriale, per la fiducia di cui godeva in Vaticano, sotto tutti i Papi, ma soprattutto per la sua inconfondibile capacità di muoversi in Parlamento. Della cui vera “centralità” egli era un cultore: altro che quella quasi toponomastica – nel senso delle sedi della Camera e del Senato nel centro di Roma – alla quale si è ora ridotta, specie con l’approvazione forzata del bilancio del 2019 e l’inseguimento grillino della democrazia digitale.

La dimestichezza totale, fisica e politica, di Andreotti con la Camera la scoprì a sue spese nel 1955 l’allora segretario della Dc Fanfani. Che aveva candidato al Quirinale, per la successione a Luigi Einaudi, il dichiaratamente ateo presidente del Senato Cesare Merzagora, eletto al Parlamento in Lombardia come indipendente nelle liste democristiane.

Alle obbiezioni di Mario Scelba, presidente del Consiglio in carica, e dell’ex sottosegretario di De Gasperi, il segretario dello scudo crociato reagì a suo modo, irrigidendosi. Quando le votazioni a scrutinio segreto dimostrarono che la dissidenza democristiana era molto più numerosa e forte delle sue previsioni, Fanfani si accorse che il più attivo e astuto nelle operazioni di contrasto dietro le quinte era proprio Andreotti. Che pur di sbarrare la strada, a quel punto, a Merzagora non tanto come ateo ma come candidato inamovibile del segretario democristiano, si adoperò con destrezza e successo per l’elezione al Quirinale di un collega di partito di sinistra come il presidente della Camera Giovanni Gronchi, definito dal leader socialdemocratico Giuseppe Saragat “il Peron di Pontedera”, la città toscana dove Gronchi appunto era nato.

L’elezione di Gronchi a Camere naturalmente riunite avvenne alla quarta votazione – la prima nella quale sarebbe bastata la maggioranza assoluta, e non più quella dei due terzi – con ben 658 voti su 833 parlamentari presenti: “quasi all’unanimità”, commentò l’interessato con Indro Montanelli compiacendosi del fatto che quel risultato lo rendeva “indipendente da ogni partito e fazione”. Alla fine, quindi, Fanfani aveva dovuto non arrendersi ma capitolare. E ad Andreotti non gliela perdonò mai.

Uno scontro fra i due, e sempre sulla strada del Quirinale, si consumò anche alla fine del 1971, quando l’allora presidente del Senato Fanfani volle essere candidato alla Presidenza della Repubblica dalla Dc guidata da Arnaldo Forlani, cresciuto peraltro nella sua scuderia. I cosiddetti franchi tiratori contro il “nano maledetto”, come qualcuno scrisse sulla scheda annullata nello scrutinio, si sprecarono a tal punto che per disarmarli si dovette imporre ai parlamentari democristiani la pubblica astensione: essi dovettero sfilare più volte davanti alle urne di Montecitorio senza deporvi alcuna scheda, mentre dietro le quinte si trattava per un cosiddetto “cambio di cavallo”. L’unico a sottrarsi a quel rito umiliante fu l’ormai ex presidente della Repubblica Giovanni Gronchi votando dichiaratamente per Aldo Moro.

Furente, Fanfani affrontò alla buvette non solo il giornalista Vittorio Gorresio, della Stampa, avvertendo la mano e gli interessi della Fiat contro la propria candidatura, ma anche il braccio destro di Andreotti. Che era Franco Evangelisti: un uomo franco di nome e di fatto.

Peraltro in occasione della sconfitta di Fanfani nella corsa al Quirinale, chiusasi con l’elezione invece di Giovanni Leone, il capogruppo democristiano della Camera era proprio Andreotti, approdato a quella carica nel 1968 defilandosi dalle lotte scatenatesi nel partito dopo quasi un decennio di leadership morotea. Da capogruppo democristiano a Montecitorio Andreotti seppe instaurare col maggiore partito di opposizione, il Pci, un rapporto di grande sintonia personale e parlamentare, sopravvissuto non a caso anche alla breve fase politica in cui egli guidò, fra il 1972 e il 1973, un governo con i liberali di Giovanni Malagodi al posto dei socialisti di Giacomo Mancini.

Fu proprio negli anni di Andreotti alla testa del gruppo democristiano che maturò e fu varata una significativa riforma del regolamento della Camera sostanzialmente a quattro mani: le altre due furono quelle del capogruppo comunista Pietro Ingrao. Si deve anche o soprattutto a quei rapporti politici e alla sua padronanza dei meccanismi parlamentari se nel 1976, dopo un turno elettorale conclusosi con due vincitori – come disse Moro parlando appunto del suo partito e del Pci- incapaci ciascuno di realizzare una maggioranza contro l’altro e condannati quindi ad accordarsi per garantire la tenuta della democrazia, la Dc propose e i comunisti accettarono il ritorno di Andreotti a Palazzo Chigi. Erano tempi anche di grave crisi economica e di ordine pubblico.

Andreotti guidò fra il 1976 e la fine dell’orribile 1978 – orribile davvero, col rapimento di Moro e il suo barbaro assassinio per mano delle brigate rosse- non uno ma due governi di cosiddetta solidarietà nazionale, entrambi monocolori democristiani: uno sostenuto dai comunisti con l’astensione e l’altro con tanto di voto di fiducia negoziato su un programma. E curiosamente, ma non troppo considerando la sua abilità, tramontata la collaborazione parlamentare col Pci vissuta con particolare sofferenza dal Psi di Bettino Craxi, toccò proprio ad Andreotti guidare le ultime due edizioni del cosiddetto pentapartito condizionato dai socialisti. E prima ancora era toccato proprio ad Andreotti il

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