NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI 21 GENNAIO 2019

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NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI

21 GENNAIO 2019

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

Libro: pastasfoglia di idee.

GÓMEZ DE LA SERNA, Sghiribizzi, Bompiani, 1997, pag. 154

 

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Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.

 

Tutti i numeri dell’anno 2018 della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com 

 

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SOMMARIO

 

Giornate delle memorie

Politica Identitaria = Genocidio dei Bianchi 1

Il nuovo trattato franco-tedesco sarà firmato il 22 gennaio. L’asservimento dell’Italia. 1

Debka e il maccartismo che agita Israele 1

Cospirazionismo e analisi 1

“Vice”, i neocon e l’indicibile 1

Sulla fondazione dell’Eventualismo 1

Il «grande gioco» delle basi in Africa 1

Ci possiamo ancora fidare degli alleati statunitensi? 1

Psicofobie e dinamiche dell’odio nell’età dello smarrimento 1

L’India costituisce la Defense Cyber Agency. 1

Perché la linea dura sull’immigrazione illegale deve essere inflessibile 1

Il cordone sanitario intorno all’Italia (per ora) tiene 1

La Crisi delle 3 Banche 1

Popolare Bari, nuovo caso di crisi. Rumors: ipotesi spezzatino. Il piano. 1

BCE: OVVERO ARBITRIO, CORRUZIONE E INCOMPETENZA. 1

Asserviménto

LA UE UCCIDE I GRECI (E ACCOGLIE I NEGRI) 1

Il Consiglio d’Europa: “Picchi di Hiv, boom di disturbi mentali, sanità pubblica sull’orlo del collasso. L’austerità in Grecia viola i diritti umani” 1

Ammuina britannica e altre questioni continentali 1

Torna Che Guevara, le élite non capiscono. 1

 

EDITORIALE

Giornate delle memorie

Manlio Lo Presti – 21 gennaio 2019 

I genocidi più importanti della storia sono i seguenti, con cifre per approssimazione perché la esatta contabilità della morte non si saprà mai e la lista non è completa:

  • 300. 000.000 di bambine uccise in culla dal maoismo perché non adatte ai lavori pesanti;
  • 100.000.000 di russi uccisi di cui 25 milioni dalla II Guerra mondiale e 75 milioni dalle persecuzioni staliniste;
  • 182.000.000 di morti per la realizzazione dell’impero inglese;
  • 50.000.000 di pellerossa sterminati dalla colonizzazione del c.d. Nuovo Mondo;
  • 20.000.000 di imperi azteco, Maya, Incas, olmechi, toltechi;
  • 3.000.000 di vittime vietnamite con 1.000.000 di amputati dalle bombe a pressione e ad esplosione sospesa, inventate da Von Neumann e da R. S. McNamara;
  • 12.000.000 di morti per le 26 guerre del precedente presidente “democratico” USA Nobel per la pace;
  • 1.500.000 su 4 milioni di cambogiani uccisi da Pol Pot (quasi il 30% della popolazione!);
  • 6.000.000 di tibetani sterminati dalla Cina;
  • 7.000.000 di armeni triturati dalla contesa dei pozzi petroliferi.

Come direbbe Cetto Laqualunque, A NESSUNO FREGA UNA BEATA M..CHIA DI COSTORO.

 

Per loro non ci sono commemorazioni e non sono considerati olocausti, sebbene alcuni di loro abbiano una magnitudine 30/40 volte superiore.

Per la storia, hanno sofferto solo gli ebrei.

 

NON SAREBBE IL CASO DI RISARCIRE QUESTI GENOCIDI, OGNUNO CON UNA PROPRIA “GIORNATA DELLA MEMORIA?

Ma questo non accadrà, perché queste sono non-persone che provoca imbarazzo ricordare.

 

SOLO POCHISSIMI SI SONO PRESI IL DIRITTO DI URLARE E GIUSTAMENTE, PIANGERE I PROPRI MORTI DAL DOPOGUERRA.

 

IL RESTO NON CONTA NIENTE, IL RESTO È MATERIALE FECALE.

 

 

 

IN EVIDENZA

Politica Identitaria = Genocidio dei Bianchi

 17 Gennaio 2019 – PAUL CRAIG ROBERTS


paulcraigroberts.org

 

Il sovvertimento della scienza e della cultura basata sui fatti da parte dall’ideologia esclusivamente emotiva della Politica Identitaria sta gettando le basi per il genocidio delle popolazioni bianche. Sembra un’affermazione stravagante. Tuttavia, deriva in modo logico dalla sua identificazione dei Bianchi con la violenza, l’oppressione e tutti i mali del mondo.

In un certo numero di articoli ho riportato esempi di attacchi a scienziati, rei di aver concluso, sulla base delle loro ricerche, che razza, genere e intelligenza hanno una base genetica. Poiché non sono un esperto di genetica, non posso attestare la verità, la falsità o la reale entità delle differenze genetiche. Il mio interesse è limitato alla [denuncia della] soppressione delle scoperte scientifiche da parte dell’ideologia.

Stiamo rivivendo l’occultamento delle prove da parte della Chiesa Cattolica e la punizione di quelli che le avevano presentate (p.e. che la Terra ruota intorno al sole e non viceversa).

Stiamo rivivendo la credenza dell’esistenza delle streghe, che aveva portato all’uccisione di persone innocenti a Salem, nel Massachusetts, nel 1692-1693. Stiamo rivivendo la distruzione della genetica sovietica da parte di Trofim Lysenko e di Stalin.

E gli scienziati e gli studiosi sono troppo intimiditi per parlare.

Considerate, ad esempio, il caso di James D. Watson, a cui era stato giustamente conferito il premio Nobel per la sua scoperta, insieme a Francis Crick, della struttura a doppia elica del DNA, la molecola che contiene i geni umani. Non era stata un’impresa da poco. Si potrebbe pensare che uno scienziato del genere avrebbe avuto il diritto alla propria opinione, che cioè esiste una base genetica per l’intelligenza. Nel mondo di un tempo poteva anche essere stato così, ma non in quello di oggi della Politica Identitaria.

Watson è stato privato dei suoi titoli di Cancelliere Emerito, Oliver R Grace, Professore Emerito, e Amministratore Onorario del Cold Spring Harbor Laboratory, che aveva diretto a lungo e portato alla notorietà, per il semplice fatto di aver espresso le proprie conclusioni, e cioè che è l’eredità genetica la causa delle differenze nei punteggi medi dei QI fra le varie razze.

Sappiamo che esistono differenze di QI tra Asiatici, Europei, Neri ed Ebrei. Un gran numero di studi è arrivato a questa conclusione. Ma l’ideologia basata sull’emotività della Politica Identitaria sostiene che questa differenza è causata dall’ambiente, e il QI medio inferiore dei Neri è dovuto ad un ‘ambiente’ di “oppressione bianca“. Non è chiaro come questa giustificazione delle differenze medie dei QI fatta dalla Politica Identitaria possa spiegare come mai i QI medi degli Asiatici e degli Ebrei sono più alti della media dei Neri.  Asiatici ed Ebrei non sono razze che la Politica Identitaria associa all’oppressione dei Neri.

La spiegazione delle differenze QI dovute all’ambiente è stata definita, in modo puramente assertivo, la “spiegazione scientifica”. Ci sono alcuni risultati ottenuti in modo scientifico, o che si dice siano stati ottenuti in modo scientifico, secondo cui l’ambiente spiegherebbe completamente, o in parte, le differenze di QI. Normalmente, la procedura scientifica vorrebbe che  due diversi risultati fossero messi a confronto sulla base delle prove e del potere di persuasione delle opposte teorie. Però, invece di essere accusato di inesattezze scientifiche, Watson è stato definito un bigotto razzista e le sue opinioni sono state ritenute inaccettabili. Il Cold Spring Harbor Laboratory ha dichiarato che le conclusioni di Watson sono “riprovevoli“, “azzardate” e “non supportate dalla scienza“. In un certo senso, uno scienziato che ha scoperto la struttura del DNA non ha il diritto di esprimere la propria opinione. [link]

Questa è un’interferenza estremamente seria da parte dell’ideologia nel campo della ricerca scientifica. Ciò che è successo a Watson è la stessa cosa che era capitata ai genetisti sovietici. Oggi, come avevo già fatto notare in un precedente articolo, gli scienziati che studiano le differenze genetiche devono farlo di nascosto, proprio come operava il Samizdat durante l’era sovietica.

Come si collega tutto ciò alla frase di apertura di questo articolo?

Che cosa ha a che fare la soppressione dell’indagine scientifica con il genocidio dei Bianchi?

La risposta è che la stessa politica Identitaria, che interferisce con l’indagine scientifica per poter addossare la colpa dei bassi punteggi medi del QI dei Neri all’”oppressione bianca,” crea una serie di altri “fatti” che demonizzano le popolazioni bianche.

 

Le popolazioni che vengono demonizzate, come sta succedendo ai Bianchi sudafricani per opera dei Neri, e come è stata fatto con successo nei confronti dei Palestinesi dagli Israeliani, che hanno convinto gli Americani che ogni palestinese è un terrorista intento ad uccidere Ebrei, sono predisposte affinché capitino loro cose veramente brutte. (Vedete, per esempio, qui e qui).

 

Ormai è pratica comune che i Bianchi vengano messi alla berlina, anche da altri Bianchi, solo per aver innocentemente utilizzato parole, termini o allusioni di uso comune ma che, secondo la Politica Identitaria e il politicamente corretto, hanno assunto ora nuovi significati razzisti o sessisti.

 

I classici vengono rimossi dagli scaffali a causa di un “linguaggio inappropriato.” 

 

Le persone vengono licenziate, come era capitato ad un dipendente anziano di Google, per aver affermato l’evidenza, che cioè “uomini e donne hanno caratteristiche diverse e rendono meglio in ​​attività differenti.

 

Tutti devono essere uguali, indipendentemente dalla realtà.

 

Infatti, se un uomo vuole autoidentificarsi come donna o una donna come uomo, questo è un loro diritto. Quando un campione di tennis aveva dichiarato che non era sportivo che una persona dotata di pene potesse autodefinirsi donna ed essere autorizzata a partecipare a gare sportive femminili, aveva poi dovuto scusarsi. Le persone che devono fare ammenda e che vengono punite per aver affermato verità lapalissiane si trovano in una posizione estremamente debole.

Questo è quello che è successo ai Bianchi. Sono stati messi in posizione tale da non potersi difendere senza essere marchiati con l’appellativo di “suprematisti bianchi“, che provoca ancor più demonizzazioni nei loro confronti. Molti Bianchi sono stati sottoposti al lavaggio del cervello e costretti a scusarsi per il solo fatto di essere bianchi.

 

Mentre è sempre più pericoloso per un Bianco fare dichiarazioni, contro i Bianchi si può dire di tutto. Ad esempio, una pubblicazione studentesca della Texas State University riportava che il DNA dei Bianchi è un abominio e che i Bianchi sono oppressori a cui non dovrebbe essere permesso di esistere. L’autore, un Ispanico, aveva scritto che “la morte dei Bianchi significa liberazione per tutti.”  Quindi, abbiamo un giornale dell’Università del Texas che dice esattamente le stesse cose della leadership dei Neri estremisti del Sud Africa, che invoca la “morte dei Bianchi” e che durante i raduni politici canta canzoni sull’uccisione dei bianchi.

Immaginate che cosa succederebbe ad una persona bianca se dichiarasse che il DNA dei Neri è un abominio e che ai Neri non dovrebbe essere permesso di esistere.

Ho riportato molti esempi del doppio standard attualmente esistente. Il problema di questi doppi standard è che creano una sottoclasse di persone colpevoli per definizione e che quindi non sono in grado di difendersi, anche in assenza di prove della loro colpevolezza.

Quando la demonizzazione dei Bianchi non viene contrastata, diventa ancor più estrema. Nel 2018 una donna di colore, Lisa Anderson-Levy, Decano Associato degli Affari Accademici e Professore Associato di Antropologia al Beloit College, aveva tenuto una conferenza ad invito all’Università del Minnesota in cui aveva spiegato che “la bianchezza” era una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti

 

Continua qui: https://comedonchisciotte.org/politica-identitaria-genocidio-dei-bianchi/

 

 

 

 

Il nuovo trattato franco-tedesco sarà firmato il 22 gennaio. L’asservimento dell’Italia.

Maurizio Blondet  17 Gennaio 2019

Apparentemente sembra un progetto perdente: la UE cade a pezzi, la Brexit, la Francia in insurrezione,  il gruppo di Visegrad,  gli economisti di Berlino  che parlano di un’uscita dall’euro… Ma non è affatto detto  che non  basti (e avanzi) per  inserire l’Italia come terra subalterna e paese di spoliazione nel Progetto di metamorfosi dell’UE  che rapidissimamente stanno concludendo Macron  e Angela Merkel, e che firmeranno già il 22 gennaio:  il Trattato Franco-Tedesco di  Aix-La –Chapelle.

Questo trattato è, né più né meno, la “fusione” dei due paesi e prime economie della UE in un blocco unito. Sancisce la convergenza di Francia e Germania in “politica estera, difesa, sicurezza interna ed estera, diplomazia, giustizia, polizia, politica energetica, ricerca, persino esportazione  di armamenti”.

Il testo del Trattato è stato pubblicato da La Tribune.   Consta di 28 articoli. Vi delinea la  creazione di un “Consiglio dei ministri franco-tedeschi”, “ di un consiglio franco-tedesco di difesa e sicurezza”,   di un “Consiglio franco-tedesco di  esperti economici”   che concordano “una unità comune in vista di operazioni in paesi terzi” .

“Un membro del governo di uno dei due stati prende parte, almeno una volta a trimestre e in alternanza, ai consigli dei ministri dell’altro stato”.

Non è nemmeno il caso di far notare come ciò cambi totalmente la natura della cosiddetta “Unione” Europea. Gli altri stati membri nemmeno esistono: Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, non sono invitato nei “consigli francotedeschi” e  si intende che dovranno semplicemente obbedire alle decisioni che ne usciranno. Nessuna uguaglianza di diritti politici e di sovranità.  La situazione sarà tenuta sotto controllo da governi (come quello Tsipras) che andranno ad ascoltare il diktat tedesco, parleranno tedesco, e poi porteranno le disposizioni in patria.

E’ davvero la “ricolonizzazione” che vede in corso Thierry Meyssan, dove ad essere colonizzati, tramite governi collaborazionisti fabbricati da partiti-civetta, sono Italia, Spagna, Grecia, Portogallo – domani Ungheria e Polonia.

Questa metamorfosi della UE è evidente alla lettura del Trattato.

L’articolo 1 (“Affari europei”) prescrive che “i due stati approfondiscono la loro cooperazione in materie di politica europea. Agiscono in favore di una politica estera e di sicurezza comune efficace e forte, e rinforzano ed approfondiscono l’Unione economica e monetaria. …Il Mercato Unico e una Unione competitiva, “promuovendo la convergenza economica, fiscale e sociale in tutte le dimensioni”.

E’ palese qui che bisognerà “convergere” secondo le norme e i dettami tedeschi (che hanno già fatto tanto male ai paesi del Mediterraneo), e che gli italiani (o gli spagnoli) non avranno alcuna voce in capitolo  né possibilità di influenzare le decisioni – nemmeno vi parteciperanno per finta (come oggi). E   nemmeno i francesi, perché Macron debolissimo ed odiato in patria, non ha altra via d’uscita dalla rivoluzione dei Gilet Gialli e dalle dimissioni, che aggrapparsi alla Merkel e alle condizionalità tedesche. Allo stesso modo un governo  “del Colle” con Draghi al timone.

Ciò è perfettamente confermato all’articolo 3:

i due stati approfondiscono la cooperazione in  materia di politica  estera. Difesa, di sicurezza estera ed interna (!) …per rafforzare la capacità di azione autonoma d’Europa. Essi si consultano per definire posizioni comuni in tutte le decisioni importanti” –   si consultano loro due in tutto ciò che riguarda la UE; senza gli altri stati membri. Ciò sancisce nel modo più plateale che nella UE esistono stati di serie A, e altri di serie B. o C. Come vuole il Colle, stati che non devono “mercanteggiare” per esempio i bilanci europei. Devono pagare e zitti.

Articolo 4

…i due stati “si prestano aiuto e assistenza con tutti i mezzi di cui dispongono, compresa la forza armata” . Contro i nemici esterni, certo, come no. “Solo che subito dopo il trattato detta”: i due stati approfondiscono la loro cooperazione in materia di politica estera, di difesa, di sicurezza estera – e interna”.  Insomma non escludono di mandare le truppe nei paesi di serie B e C che si ribellassero.

Allarmante il punto tre: “Entrambi i paesi svilupperanno un approccio comune alle esportazioni di armi per quanto riguarda i progetti comuni”. L’esportazione di armi diventa la loro priorità? Dove siete,  pacifisti italioti?

Con l’articolo 5, praticamente, la Francia di Macron consegna in condominio il seggio permanente al Consiglio di Sicurezza, tanto fortemente voluto da Berlino:

“.. Stabiliranno scambi all’interno delle loro rappresentanze permanenti presso le Nazioni Unite a New York, in particolare tra le loro squadre del Consiglio di sicurezza, le loro rappresentanze permanenti presso l’Organizzazione del trattato del Nord Atlantico e le loro rappresentanze permanenti presso le Nazioni Unite. Unione europea, nonché tra gli organismi dei due Stati responsabili del coordinamento dell’azione europea.

Infatti, detta l’articolo 8,

L’ammissione della Repubblica Federale di Germania come membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è una priorità della diplomazia franco-tedesca”.

Senza che gli altri europei possano obiettare o fare domande.

Articolo 20

“i due stati   approfondiscono l’integrazione delle loro economie al fine di stabilire una zona economica franco-tedesca con regole comuni. Il Consiglio economico-finanziario franco-tedesco promuove l’armonizzazione bilaterale della loro legislazione, in particolare nel campo del diritto commerciale, e coordina regolarmente le politiche economiche tra la Repubblica francese e la Repubblica federale di Germania per promuovere la convergenza tra i due stati e migliorare la competitività delle loro economie”.

Di nuovo: armonizzazione “bilaterale” –  privatamente  a due, escludendo gli altri  –  che sono lasciati nella posizione di satelliti o colonie.

Leggete voi il resto:

https://www.latribune.fr/economie/union-europeenne/le-nouveau-traite-franco-allemand-qui-sera-signe-le-22-janvier-804036.html

Mi manca l’animo di proseguire.  Visto come si  adeguano gli italiani  al Colle

 

Continua qui: https://www.maurizioblondet.it/il-nuovo-trattato-franco-tedesco-sara-firmato-il-22-gennaio-lasservimento-dellitalia/

 

 

 

 

Debka e il maccartismo che agita Israele

15 gennaio 2019

 

“Un paese straniero” vuole interferire nelle prossime elezioni israeliane che si svolgeranno nel prossimo aprile”. Questo il grido di allarme lanciato l’8 gennaio scorso nel corso di una pubblica conferenza da Nadav Argaman, nuovo capo dello Shin Bet.

 

Il maccartismo d’Israele

Un allarme che si è propagato nei media israeliani, sui quali è iniziata la caccia all’untore che, ovviamente, ha dato un risultato univoco: il Paese al quale avrebbe fatto riferimento il capo dell’intelligence militare sarebbe la Russia.

Nel riferire la notizia, e i suoi sviluppi, Debka, sito che ha fonti nell’intelligence israeliana, ironizza sulla vicenda, ricordando che nell’occasione, rispondendo a una domanda, Argaman aveva fatto cenno a Iran ed Hezbollah.

Debka irride il “panico selvaggio” provocato dai media israeliani contro la Russia, che in realtà “non è stata accusata da nessuno”.

Nel tentativo di raffreddare gli animi, lo Shin Bet ha rilasciato un comunicato nel quale affermava che “Israele e i suoi servizi di intelligence sono in grado di gestire qualsiasi attacco informatico”, comprese potenziali azioni, ad oggi fantomatiche, di Teheran o di Hezbollah.

Rassicurazioni non rassicuranti

Una rassicurazione che però non ha fermato il maccartismo di ritorno. Come in nessun conto è stata tenuta la smentita del portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov, pur riportata sui media.

Tutto ciò è avvenuto senza che nessuno abbia saputo “spiegare quale interesse abbia Putin nel provocare il caos alle elezioni” israeliane, prosegue Debka.

Nessuno “ha sollevato dubbi”. E nessuno sembra dare importanza a un particolare certo non secondario, ovvero che “Israele non sono gli Stati Uniti e Benjamin Netanyahu [presunto destinatario dell’aiutino di Mosca, ndr.] non è Trump”.

Infatti, spiegazione d’obbligo, Netanyahu non ha un eccessivo feeling con Putin, per usare un blando eufemismo. Basta stare alla accese controversie sulla Siria e sull’Iran che da tempo dividono i due leader politici.

Peraltro, prosegue il sito israeliano, “per la strategia globale di Putin, Israele non è cruciale”.

Né si comprende come possano i presunti hacker russi manipolare le elezioni,

Continua qui: http://piccolenote.ilgiornale.it/38512/debka-maccartismo-israele

 

 

 

 

Cospirazionismo e analisi

Secondo Thierry Meyssan, oggi in Francia le relazioni internazionali sono escluse dal dibattito democratico – è la dottrina del «campo riservato al presidente della Repubblica». Di conseguenza, ogni analisi che si discosti dalla linea ufficiale è bollata come «cospirazionista». Ebbene, il ruolo dei veri giornalisti non è fare da cassa di risonanza alla comunicazione presidenziale, e nemmeno d’interpretarla, bensì cercare fatti e analizzarli.

Rete Voltaire | Damasco (Siria) | 17 gennaio 2019

 

VIDEO QUI: https://youtu.be/OdqZ3TXPwFU

 

Prima che la NATO bollasse come «cospirazionista» ogni ricerca sugli attentati dell’11 settembre 2001, gli interrogativi di Thierry Meyssan erano considerati legittimi. Questa è una trasmissione del 2002 della catena d’informazione continua LCI.

Domanda/Edizioni Demi-lune: Innanzitutto, grazie Meyssan per aver accettato quest’intervista, il cui obiettivo è spiegare ai suoi lettori, e non solo, la coerenza della sua produzione editoriale. In seguito alla pubblicazione di Sotto i nostri occhi, abbiamo ritenuto importante rieditare L’Effroyable Imposture 2, un’opera fondamentale purtroppo esaurita; la nuova edizione è uscita a ottobre scorso, sicché i suoi ultimi tre lavori sono ora disponibili nella collezione Résistences. Gli internauti che leggono Rete Voltaire conoscono l’importanza del suo lavoro e ne sanno valutare la cospicua portata; ma per gli altri lei è il “polemista” dell’11 Settembre e, per i suoi detrattori (ossia i media atlantisti nel complesso o, per essere più precisi, i direttori di giornale, i capo-redattori e gli editocrati), un pericoloso «cospirazionista», addirittura il «gran sacerdote delle teorie del complotto». Lei come si definirebbe?

Thierry Meyssan: Un analista di relazioni internazionali. Provengo dal mondo politico francese. Per 12 anni sono stato segretario nazionale di un partito di governo, quello di Jean Moulin. Come lui sono radicalmente repubblicano, nel senso di «votato all’interesse generale». Per questo motivo non ho taciuto quando il governo di George W. Bush ha presentato la sua versione degli attentati dell’11 Settembre. Sono stato immediatamente oggetto di pressioni, cui mi sono rifiutato di sottostare. Inizialmente ho avuto la fortuna di beneficiare della protezione del presidente Chirac; dopo l’elezione di Nicolas Sarkozy, invece, uno dei servizi di Stato ha ricevuto l’ordine di eliminarmi. Piuttosto che chinare la testa, ho preferito lasciare tutto e andare in esilio. Dopo qualche mese, ho cercato di capire a quale potere avessi dato fastidio. Ho coltivato relazioni già consolidate con leader come il presidente venezuelano Hugo Chavez e ne ho allacciate altre, per esempio con il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. A poco a poco ho acquisito riconoscimento in ambienti professionali – diplomatici, militari e politici – del mondo intero. Certamente ci sono moltissimi esperti migliori di me, ma operano all’interno di governi e non pubblicano i propri lavori. Sono l’unico ad aver avuto esperienze di governo in diversi Paesi e ad avere scritto sulla stampa di molti Paesi.

Domanda: Ci vuole malafede inaudita per definire «teorici del complotto» quanti mettano in dubbio la versione ufficiale degli attentati; una versione che asserisce che gli attentati terroristi contro gli USA sono stati appunto risultato di un complotto, di cui il responsabile è Al Qaeda di Bin Laden! Si può dire senza pericolo di esagerare che, secondo i media, chiunque non aderisca ciecamente alla versione di un’amministrazione criminale – che ha fatto due guerre illegali, instaurato la detenzione permanente e la tortura, nonché mentito compulsivamente e ripetutamente all’intera comunità mondiale – è un «teorico del complotto».

Thierry Meyssan: Sin dall’inizio non ho accettato la tesi che a far cadere le Torri Gemelle fossero stati aerei di linea; che un aereo avesse colpito il Pentagono; che individui che non risultavano sulle liste d’imbarco avessero piratato degli aerei; che una terza Torre fosse crollata per mimetismo. Il mio atteggiamento sin dall’inizio non collima con quello che, prima dell’11 Settembre, gli universitari definivano «teoria del complotto», ossia il rifiuto, per principio, che gli avvenimenti possano essere in contraddizione con la propria visione del mondo. È la volontà di resistere, non razionale ma ragionevole, che mi ha spinto a riflettere.

Domanda: Tuttavia, il sottotitolo dell’ultimo libro, Dall’11-Settembre a Donald Trump, sembrerebbe dare ragione ai suoi nemici, che si compiacciono a presentarla come un teorico del complotto con una fissazione per gli attentati dell’11 Settembre… Ed è un fatto innegabile, benché si abbia talvolta la tendenza a dimenticarlo, che questi attentati hanno «cambiato il mondo».

Thierry Meyssan: Tutti gli storici sono concordi nell’affermare che l’11 Settembre ha segnato un cambiamento radicale nella politica internazionale, altrettanto importante della dissoluzione dell’Unione Sovietica.

 

Domanda: Comunque sia, per i più, che siano supporter o detrattori, lei rimane il giornalista che ha diffuso a livello planetario il dubbio sulla responsabilità dei fatti, colui che ha affermato che nessun Boeing è caduto sul Pentagono… Nella riedizione de L’incredibile menzogna non abbiamo ripreso questa frase choc dell’edizione originale: ci è sembrato che avrebbe sminuito l’obiettivo generale dell’opera, ben più vasto e ricco. Infatti, sin da marzo 2012, ossia un anno prima dell’invasione illegale dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, lei aveva previsto quanto stava per accadere: dall’invasione dell’Iraq all’avvio della «guerra senza fine». Il men che si possa dire è che non gliene è stato riconosciuto il merito…

Thierry Meyssan: Innanzitutto, il mio lavoro fu sottovalutato negli Stati Uniti, dove la gente ha aspettato parecchi anni prima di porsi i quesiti che io mi sono immediatamente posto. E poi distinguiamo due cose: il mezzo che ho usato per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sulla menzogna dell’amministrazione Bush e lo studio della direzione imperialista che quest’amministrazione stava imboccando.

L’aereo sul Pentagono non era il soggetto del mio libro

Dimostrare a tutti che nessun aereo aveva colpito il Pentagono era un mezzo semplice e verificabile per mettere in risalto la manipolazione dell’amministrazione Bush. Non era però il soggetto del mio libro. Il vero soggetto era l’imposizione negli Stati Uniti di un sistema di sorveglianza, il Patriot Act, e il perseguimento di una «Guerra senza fine», secondo l’espressione usata dallo stesso Bush; guerra che da allora vediamo imperversare sotto i nostri occhi.

Mi mancavano molti elementi, che solo in seguito ho potuto analizzare, ma ne avevo a sufficienza per prevedere quel che sta accadendo oggi. Molti sono stati infastiditi, non dal mio ragionamento, ma dalle mie conclusioni. Per esempio, Le Monde mi ha rimproverato di sostenere solo per «antiamericanismo» che Washington avrebbe attaccato Bagdad. Secondo il quotidiano, gli Stati Uniti avevano già attaccato l’Iraq con Bush padre ed era una mia fissa credere che lo avrebbero rifatto. Dimenticando le accuse della prima ora, lo stesso giornale oggi mi accusa di essere filo-Trump, quindi «filo-americano».

In particolare, alcuni dei miei detrattori hanno tratto conclusioni assurde dalle mie opere, che probabilmente non hanno letto: rifiutando il fatto che Al Qaeda fosse l’ideatrice degli attentati, cercavo di minimizzare la minaccia islamista. L’ultimo mio libro, Sotto i nostri occhi, dimostra esattamente il contrario: penso che bisogna combattere gli islamisti per quanto fanno, e non per quanto gli viene falsamente attribuito. Per «islamista» non intendo i credenti di religione mussulmana, bensì l’ideologia politica della Confraternita dei Fratelli Mussulmani.

Domanda: Difatti, sembra che nessuno abbia preso sul serio il presidente Bush quando dichiarava che gli Stati Uniti avrebbero ingaggiato una «guerra contro il terrore» che, diversamente dalle guerre moderne, avrebbe potuto durare un’intera generazione, persino oltre. Sembrava un’idea delirante, ebbene eccoci qui, 17 anni dopo, in un mondo in cui i conflitti e i teatri di guerra non hanno fatto che accumularsi.

Thierry Meyssan: Allora non si conoscevano i lavori dell’ammiraglio Arthur Cebrowski. Certo, egli già teneva conferenze in tutte le accademie militari USA, ma il suo pensiero è stato divulgato pubblicamente nel 2003 da Vanity Fair e, soprattutto, per mezzo di un libro del suo assistente, Thomas Barnett, pubblicato nel 2004.

L’idea generale è che, scomparsa l’Unione Sovietica, non ci saranno più amici o nemici, solo persone che accettano o non accettano di entrare in affari con gli Stati Uniti. Il Pentagono non dovrà più fare guerre contro grandi potenze, bensì instaurare un ordine mondiale compatibile con la globalizzazione finanziaria. Cebrowski divide il mondo in due parti: da un lato gli Stati stabili, inseriti nell’economia globale, dall’altro i rimanenti; stabilisce che gli Stati Uniti non faranno più guerre per accaparrarsi risorse, al contrario presidieranno l’accesso da parte dei Paesi globalizzati alle risorse naturali delle zone non globalizzate. Conclude che basterà infine distruggere le strutture statali della parte del mondo che può essere sfruttata per impedirle di difendersi.

Quando ho letto il libro di Barnett – che ci gira intorno prima di arrivare alla conclusione – non volevo crederci. Era cinico e crudele. Quando, dopo qualche anno l’ho riletto, vi ho trovato descritto quello che vedevo con i miei occhi: la distruzione del Medio Oriente Allargato.

Domanda: Ne L’incredibile menzogna lei ricordava che il rovesciamento dei talebani e l’invasione dell’Afghanistan, presentati come risposta agli attentati, in realtà erano stati concepiti e preparati prima.

Thierry Meyssan: Tutti hanno notato che il leader tagiko Ahmed Chah Massoud è stato assassinato appena prima degli attentati. Ma nessuno ha avuto tempo di chiedersi il perché: gli avvenimenti incalzavano, gli attentati avevano colpito gli Stati Uniti e già Washington e Londra attaccavano l’Afghanistan. In realtà, nei mesi precedenti, a Berlino e a Ginevra, c’erano stati negoziati, che però erano falliti. Rientrando a Islamabad, il rappresentante del Pakistan aveva annunciato che il Paese doveva prepararsi perché la guerra con l’Afghanistan era inevitabile. Washington e Londra hanno ammassato truppe nella regione. Poi è arrivato l’11 Settembre: la giustificazione ritenuta da tutti sacrosanta della guerra coloniale già in preparazione.

Domanda: Anche le dichiarazioni del generale Wesley Clark, a marzo e ottobre 2007, sui sette Paesi che dovevano essere attaccati e distrutti dagli Stati Uniti, rivelano che la lista era stata stilata all’indomani degli attentati. Ebbene, ognuno di questi Paesi (Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e Iran) è stato poi vittima di una guerra, di un tentativo di rovesciamento di regime, o di un’invasione, di bombardamenti, di distruzioni, di smembramenti, di destabilizzazioni o di embargo… Le dichiarazioni di Clark, ex comandante supremo della NATO, che i media non potevano certo accusare di “cospirazionismo”, sono passate sotto silenzio; soltanto i siti alternativi le hanno riportate. Il che equivale a dire che il grande pubblico ne è stato tenuto all’oscuro…

 

VIDEO QUI: https://youtu.be/0V16oYOQvk8

Registrazione nel 2006 della prima testimonianza pubblica del generale Wesley Clark, ex comandante supremo della NATO, sui piani del Pentagono per gli anni a venire.

Thierry Meyssan: Clark si riferiva a una discussione avvenuta al Pentagono subito dopo l’11 Settembre. Si trattava, di fatto, dell’applicazione della dottrina Cebrowski al Medio Oriente Allargato. Anche Clark al momento non vi ha creduto, l’ha capito a cose fatte.

Scrissi degli orrori di cui era responsabile Clark quando bombardava la Jugoslavia. Ho scoperto in seguito che era un uomo rispettabile che aveva fatto carriera in un sistema mostruoso. Nel 2011 mi ha salvato la vita.

Domanda: Rivedendo questo video, sono stato colpito da quanto affermato da Clark all’inizio (e alla fine) senza giri di parole! Parla letteralmente di un colpo di Stato politico che c’è stato subito dopo l’11 Settembre, a opera dei membri del PNAC. È un’affermazione non dissimile dalla sua analisi, salvo che lei pensa che il colpo di Stato sia stato l’11 Settembre stesso…

Thierry Meyssan: Il generale Clark pensava di presentarsi alle elezioni presidenziali. Quindi non era libero di parlare con franchezza.

Domanda: Dal 2002 lei non esiste più per i media e i politici francesi… L’hanno bandita dal dibattito pubblico. Ne riparleremo dopo, a proposito delle fake news. Altro punto essenziale affrontato ne L’incredibile menzogna è il ruolo che, all’indomani dell’11 Settembre, la religione ha improvvisamente assunto nella (geo)politica statunitense…

Thierry Meyssan: No. Per i responsabili politici francesi io continuo a esistere. La maggior parte di loro mi combatte, però con molti ho relazioni epistolari.

Per quanto concerne il ruolo della religione, questa ha sostituito le ideologie politiche della Guerra Fredda. Siamo più attenti al ruolo del giudaesimo e dell’islam che a quello del buddismo o dello scintoismo, però sono tutte religioni che oggi fungono da vettori di ambizioni politiche.

Non parliamo degli evangelici che, in nome del proprio credo, sostengono qualunque decisione del Likud, citando passaggi dell’Antico Testamento; questi temi però nei Vangeli non ci sono. O anche dei mussulmani che condannano i crimini di Daesh, pur considerandola un’organizzazione mussulmana.

Domanda: Il controllo delle risorse energetiche fossili ha giocato un ruolo fondamentale nella decisione d’invadere l’Iraq (poi la Libia e anche la Siria). L’amministrazione Bush-Cheney era allora certa dell’imminenza del picco petrolifero. Wesley Clark si è espresso sulla questione, lo ha fatto anche Alan Greenspan, ex direttore della Federal Reserve («Rimuovere Saddam Hussein era fondamentale per l’approvvigionamento mondiale»). In Sotto i nostri occhi, non senza ironia, lei ricorda che il primo nome dato all’invasione dell’Iraq fu Operation Iraqi Liberation, ma che, a causa dell’acronimo troppo rivelatore (oil significa petrolio), fu subito rinominata Operation Iraqi Freedom. Tuttavia, per l’inconscio collettivo giornalistico, così come per la Storia e, in ogni caso, per la narrazione ufficiale, questa guerra è stata sia frutto di errori di giudizio (per non dire di menzogne) sulle armi di distruzione di massa della coppia Bush-Blair, sia della cecità politica nel «voler esportare la democrazia in Iraq».

 

VIDEO QUI: https://youtu.be/ds5qBk-LCDI

Alan Greenspan, ex direttore della Federal Reserve, prende atto che le armi di distruzione di massa furono un pretesto per fare la guerra all’Iraq. Secondo Greenspan, se il movente era altrove, il petrolio era comunque un elemento centrale.

Thierry Meyssan: Non in quello consistettero gli errori di giudizio. La guerra all’Iraq non ha alcuna relazione con le giustificazioni pubblicamente dichiarate. Il ricordo stesso che abbiamo è alterato.

Le ragioni esposte dal segretario di Stato Colin Powell alle Nazioni Unite non consistevano soltanto nelle pretese armi di distruzione di massa irachene, una diretta minaccia agli Stati Uniti, ma anche nella responsabilità dell’Iraq negli attentati dell’11 Settembre. Questa menzogna è stata sradicata dalla memoria collettiva, è una giustificazione che ricordiamo solo per la guerra all’Afghanistan.

Certamente la posta in gioco nelle guerre d’Iraq, Libia e Siria è il petrolio. L’amministrazione Bush pensava che ci sarebbe stata penuria di petrolio a breve, entro due o tre anni. Questo timore oggi è sparito. I dirigenti statunitensi erano acciecati dal malthusianesimo, che professano dai tempi del Club di Roma.

Questi conflitti non erano guerre per accaparrarsi risorse per gli Stati Uniti. Del resto, nella frase da lei citata, Greenspan parla di garantire l’approvvigionamento mondiale, non quello degli Stati Uniti, e nemmeno dei loro alleati, come invece fece il presidente Carter nel 1979. Si tratta della dottrina Cebrowski: il controllo da parte del Pentagono dell’accesso dei Paesi ricchi (Cina e Russia comprese) alle risorse naturali della regione.

I giornalisti sono il clero della religione dominante

Domanda: Insomma, tutto il piccolo mondo mediatico e politico francese sembra dimenticare (o finge d’ignorare) che per il diritto internazionale questa guerra era illegale! È una delle principali ragioni che mi hanno indotto a pubblicare Les Guerres illégales de l’OTAN, dello storico Daniele Ganser. I media francesi semplicemente non prendono mai in considerazione il concetto di diritto internazionale (e questo vale anche per le guerre contro la Libia e la Siria).

Thierry Meyssan: È molto difficile per un governo alleato degli Stati Uniti qualificare illegali le guerre USA. Charles De Gaulle se lo permise nel discorso di Phnom Penh, Jacques Chirac ha preferito sottolineare che le guerre

 

Continua qui: https://www.voltairenet.org/article204742.html

 

 

 

ARTE MUSICA TEATRO CINEMA

“Vice”, i neocon e l’indicibile

15 gennaio 2019

“Ringrazio Satana di avermi dato ispirazione per interpretare il mio ruolo”.

 

Così Chistian Bale ha salutato il premio che gli è stato tributato al Golden Globe per l’interpretazione di Dick Cheney nel film Vice.

 

Vice

Una frase che ha suscitato sdegno e il malizioso elogio della Chiesa di Satana. Ma non detta a caso: l’attore ha voluto esprimere, un po’ confusamente magari, quanto aveva nel cuore durante le riprese.

La pellicola ripercorre la vita del più importante Vice-presidente che gli Stati Uniti abbiano avuto nella loro storia, dove il vice ha sempre contato nulla.

Per Cheney fu diverso, dato che seppe sfruttare l’opportunità dell’attentato dell’11 settembre per ritagliarsi un ruolo presidenziale.

Grazie all’opportunità, Cheney riuscì ad accentrare su di sé tutti i poteri, usando allo scopo interpretazioni indebite delle norme americane.

Non solo, egli riuscì a piazzare suoi uomini in tutti i gangli dell’Amministrazione, esautorando quelli che Bush padre aveva affiancato all’imbelle figlio George W.

L’ascesa di Cheney e dei suoi, ripercorre la pellicola, ebbe come corollario l’introduzione di norme liberticide  e la guerra all’Iraq, il cui petrolio faceva gola ai lobbisti pro Vice.

Neocon nuovi ed antichi

Una lettura piana, limitativa di quanto accadde davvero, eppure coraggiosa, dato che l’indicibile si può solo accennare, come ha fatto Bale alla consegna del premio.

Perché limite del film, pur benvenuto, è che, pur elencando il clan di Cheney, non evoca quel che accomunava quei potenti, ovvero la loro partecipazione all’ambito neoconservatore.

Il perché di tale oblio è ovvio, dato che quella cabala è ancora potente e prepotente, come evidenzia lo smisurato potere che ha assunto nell’amministrazione Trump il Consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, del quale si accenna fugacemente nel film.

Quel Bolton che al tempo, dal suo scranno all’Onu, guidò le Nazioni Unite alla guerra in Iraq, dopo l’indecoroso show di Colin Powell sulle armi di distruzione di massa di Saddam (che il Segretario di Stato Usa, spiega il film, non voleva fare).

Insomma, per non suscitare troppo contrasto, gli ideatori del film hanno deciso di limitare la loro denuncia nel tempo e circoscrivere il tutto al solo Cheney.

Di certo interesse la parte iniziale, nella quale si vedono il duo Cheney-Rumsfeld impegnati, al tempo di Nixon (dopo la defenestrazione di Kissinger), a sabotare i tentativi di dialogare con la Russia.

Nulla è cambiato da allora: lo stesso ambito sta agendo (finora con successo) in maniera analoga nell’amministrazione Trump.

L’indicibile

Ma le parole di Bale al golden Globe aggiungono, perché accenna l’indicibile, il sostrato culturale dell’ambito neocon, che fu allora di Cheney e dei suoi e ora di Bolton e compagni (che son legione anche nei democratici: peraltro il

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Sulla fondazione dell’Eventualismo

Un convegno sull’avanguardia sperimentale

 

HOPEFULMONSTERS – 08 GENNAIO 2019

 

Sergio Lombardo

 

si inaugura al Museo Macro di Roma il convegno Underground Eventualista – La ricerca estetica in Italia 1972-2019. Sette incontri, a cura di Miriam Mirolla, per delineare una mappatura aperta dell’eventualismo, incontrare i protagonisti storici ed esaminare l’apporto delle nuove generazioni. Per l’occasione pubblichiamo la relazione di Sergio Lombardo, il fondatore dell’eventualismo, che aprirà il convegno oggi, martedì 8 gennaio alle 17.00 (via Nizza, 138) Qui il calendario completo degli appuntamenti.

  1. Il contesto artistico romano prima del 1964

Dopo il Trattato di Roma del 1957 e nei primi anni Sessanta Roma era immaginata come una capitale culturale in grado di far rinascere un’Europa quasi rasa al suolo dopo la Seconda guerra mondiale. Roma era un mito internazionale, un palcoscenico carico di storia in cui tutti venivano a respirare l’aria della decadenza e della rinascita, a sondare l’immaginario di un futuro «democratico» ancora tutto da costruire. Erano gli anni del «boom» economico e della «dolce vita».

Sulla scena romana, grazie all’intelligenza, alla personalità e al coraggio di Palma Bucarelli, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma svolgeva un ruolo di primo piano nel campo dell’avanguardia internazionale. A Roma inoltre operavano nella ricerca d’avanguardia: la galleria La Tartaruga, gestita da Plinio de Martiis, la galleria La Salita, gestita da Giantomaso Liverani, e la cattedra di Storia dell’Arte Moderna dell’Università La Sapienza, retta da Giulio Carlo Argan. Ma la cultura ufficiale odiava l’avanguardia internazionale e si stringeva compatta intorno al Realismo Socialista. La mia prima mostra risale al Premio Cinecittà nel 1958 in cui conobbi Lo Savio, Schifano, Mambor e Tacchi. Gli organizzatori della mostra erano membri del Partito Comunista, che all’epoca gestiva la cultura italiana: Venturoli, Micacchi, Mazzullo, Del Guercio e Morosini. Del Guercio esordì nella conferenza stampa inaugurale dicendo che i miei quadri (Monocromi) erano stati esposti solo «per far vedere come non si deve dipingere». Mi invitarono esplicitamente ad abbracciare il Realismo Socialista altrimenti la mia carriera artistica sarebbe stata stroncata, i miei quadri sarebbero stati scartati da ogni mostra pubblica, dato che io, secondo loro, ero «un nemico di classe» (Fagiolo dell’Arco 1993). Poco dopo mi avvicinai a quella che poi sarebbe stata la Scuola di Piazza del Popolo, conobbi Plinio de Martiis, i suoi amici americani Leo Castelli ed Ileana Sonnabend, insieme a molti artisti internazionali, fra cui Marcel Duchamp, Tristan Zara, Andy Warhol. La cultura ufficiale italiana (che sarebbe stata gestita dal partito comunista per altri quarant’anni) ci ignorava, considerandoci quasi «sovversivi». L’accostamento del mio lavoro alla Scuola di Piazza del Popolo e alla galleria La Tartaruga riguarda, però, esclusivamente il periodo che va dal 1958 al 1964, stancamente protratto fino alla mia personale del febbraio 1966. In quel periodo formai il gruppo «Lombardo, Mambor, Tacchi» che l’8 aprile del 1963 presentai sotto forma di tre personali (Lombardo 1963), dando un notevole impulso avanguardistico alla linea della galleria La Tartaruga. Cesare Vivaldi nel 1965 scrisse «Sergio Lombardo apparve due o tre anni fa in una mostra alla Tartaruga di Roma… Le sue sagome nere su fondo bianco ebbero un considerevole effetto shock sulla giovane pittura romana» (Vivaldi 1965). Alla Scuola di Piazza del Popolo si percepiva chiaramente la competizione fra Roma, che rappresentava l’Europa, e New York, che rappresentava gli Stati Uniti d’America (Vivaldi 1963). Infatti, all’inizio degli anni ’60 Plinio de Martiis aveva ricevuto la proposta di entrare in società con Leo Castelli e Ileana Sonnabend per lanciare da Roma quella che poi sarebbe stata la Pop Art americana, ma Plinio, che non voleva farsi condizionare dalla potenza economica e politica americana, non accettò. Questo rifiuto ebbe conseguenze importanti per la Scuola di Piazza del Popolo. Ileana in seguito si avvicinò alle gallerie torinesi, dove, anche per suo impulso, alcuni anni dopo sarebbe nata l’Arte Povera. Plinio non amò mai l’Arte Povera, infatti, nel 1967, per dimostrare quanto fosse superficiale quella corrente artistica, ideò il «Teatro delle mostre». Quando Plinio mi invitò a partecipare, mi disse che faceva quella manifestazione per dimostrare che: «Di mostre come quelle che fanno a Torino se ne può fare una al giorno», perciò non volli partecipare. Già dopo la Biennale di Venezia del 1964 Plinio aveva perso l’entusiasmo per l’avanguardia. La Biennale aveva ribaltato in favore degli Stati Uniti la precedente supremazia europea sul mercato dell’arte e sulla cultura internazionali. Da allora iniziò il declino della cultura di vecchio stampo europeo, che si rivelò sempre più debole di fronte alla pervasività del mercato globale americano gestito anche come arma da guerra (Cockcroft 1974, Paterson 1979, Eudes 1982, Guilbaut 1983, Stonor Saunders, 1999).

  1. Il contesto artistico romano dopo il 1964

Per reazione alla decadenza del primato europeo, dopo il 1964 Plinio e la critica ufficiale romana abbandonarono progressivamente la competizione all’interrno delle avanguardie internazionali, ritirandosi polemicamente nel Primitivismo, nell’Anacronismo e nel Passatismo (Lombardo 1990, 2014). A causa di questo voltafaccia teorico ed estetico, dopo il 1964 il mio rapporto con Plinio iniziò ad incrinarsi ed il gruppo della Scuola di Piazza del Popolo si disperse. Il continuo tentativo della critica romana di reinterpretare i miei lavori del 1961-’64 come «figurativi» e di volerli ricondurre all’interno di «antiche tradizioni» poetiche nazionali, mi faceva orrore. Ritirai e nascosi (Di Stefano 2004) tutti i miei quadri colorati che Cesare Vivaldi leggeva come figurativi e li trovava «ribollenti di passione pittorica» (Vivaldi 1964), quando invece io adottavo l’astinenza espressiva dipingendo secondo un programma concettualmente predeterminato. Cesare Vivaldi, quando vide i «Supercomponibili» geometrici che esposi alla galleria La Salita scrisse che avevo «bruscamente sterzato» (Vivaldi 1968). In realtà, quando dopo il 1964 Plinio de Martiis volle abbandonare l’avanguardia per tornare all’Anacronismo e alla tradizione poetica decadentista, mi distaccai dal gruppo della Scuola di Piazza del Popolo per non soggiacere all’interpretazione neopassatista, in chiave antiamericana, che con Plinio, anche Calvesi, Vivaldi, Fioroni, Festa, Schifano, Angeli e Ceroli stavano adottando. Il pensiero anacronista di Plinio influenzò Ceroli, Giosetta Fioroni, Schifano, Festa e Angeli. Al contrario la mia ricerca verso un’ulteriore apertura dell’avanguardia era condivisa da Kounellis, Bignardi, Pascali e Mattiacci. Insieme abbandonammo La Tartaruga e ci avvicinammo a L’Attico di Fabio Sargentini, che subito organizzò una mostra al Museo di Wiesbaden in Germania: «Bignardi, Kounellis, Lombardo, Mattiacci e Pascali» (Boatto 1968). Poco dopo Kounellis e Pascali, confluirono nell’Arte Povera, quindi formai un nuovo gruppo con Maurizio Mochetti ed Ettore Innocente e mi rivolsi alla galleria La Salita di Giantomaso Liverani, dove esposi iSupercomponibili (1967, 1968), la Sfera con Sirena (1969), i Progetti di morte per Avvelenamento (1970), i Concerti Aleatori (1972) e gli Esperimenti di Psicocinesi con il lancio di dadi (1974).

  1. Nessuno spazio per la ricerca

Nel 1972 ormai l’arte «americana» (Pop Art, Minimal Art, Land Art), si era imposta in tutto il mondo e la storia dell’arte si faceva e si scriveva in America. Perciò il problema degli artisti era quello di inserirsi nel mercato globale, o isolarsi. Per me si imponeva la scelta se aderire all’Arte Povera, vista come ricostruzione politica di un’arte «italiana» (national) da inserire nel mercato globale – le lettere da parte di Germano Celant (1968-1971), però non mi avevano convinto – oppure proseguire isolatamente la mia ricerca nata come autonoma evoluzione scientifica dell’avanguardia futurista. Non che io fossi rimasto indifferente alla ricerca americana, che anzi amavo, ma c’era un problema di autonomia dell’arte e io non potevo accettare la supremazia del mercato finanziario sulla teoria e sulla cultura. Una supremazia scientificamente pianificata e perseguita dalla politica statunitense (Skinner 1963, Skinner et al. 1970). Inoltre il sistema dell’arte americano si era rivelato poco disponibile verso l’arte «italiana». Ad esempio, a New York la mostra «Young Italians» (Pistoletto, Paolini, Castellani, Kounellis, Pascali, Lo Savio, Lombardo, Bonalumi, Grisi, Mambor, Ceroli e Adami) organizzata nel 1968 proprio da Alan Solomon, lo stesso curatore che nel 1964 aveva presentato l’arte americana alla Biennale di Venezia, era stata astiosamente stroncata sul New York Times, determinando la fine dei nostri giorni di gloria (Canaday 1968). Il problema non era banale, perché, qualora avessi scelto di aderire al mercato, avrei dovuto aderire alla richiesta di merce esteticamente orientata secondo il gusto delle gallerie d’arte, ma non c’era nessuna galleria, o istituzione, che finanziasse, o sostenesse, la ricerca sperimentale. Anche se in quel periodo iniziavano a nascere teorie orientate scientificamente, come il Concettuale o il Fluxus, io non mi legai alle gallerie internazionali. Inoltre, essendo io stesso un teorico dell’arte, mai avrei potuto diventare l’esecutore di una committenza altrui. La stessa Ileana Sonnabend, che era disposta ad esporre il mio lavoro, mi chiedeva 600 quadri da regalare ai musei prima di iniziare un rapporto commerciale, un rapporto che mi avrebbe vincolato per sempre allo stile richiesto dal mercato. Ovviamente, fra le due alternative scelsi di proseguire la mia ricerca, abbandonai il mondo dell’arte e mi avvicinai a quello universitario. Ero sostenuto solo dai consigli di Palma Bucarelli che, ormai anche lei isolata, si era vista bocciare la proposta di far acquistare alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna la mia Sfera con Sirena. In Italia per l’arte di ricerca non c’era più spazio. Alla Biennale di Venezia del 1970, la mia sala personale «7 Sfere con Sirena» era stata proposta per il premio, ma all’ultimo momento la Commissione decise di abolirlo (Lombardo 1975). Nel 1971, nella mostra Italienische Kunst Heute organizzata da Palma Bucarelli a Vienna, due delle opere esposte – Progetto di morte per avvelenamento di Sergio Lombardo e Merda d’artista di Piero Manzoni – vennero contestate dal Parlamento italiano con interpellanza del 01/04/1971 (Bernardi 1971). Palma Bucarelli, che aveva fatto conoscere l’avanguardia italiana degli anni Sessanta a tutto il mondo, fu messa sotto accusa e il suo prestigio cominciò a scemare, mentre avanzavano il Postmoderno e l’Anacronismo.

  1. La trasformazione del mio studio in laboratorio sperimentale aperto dal 1972

In controtendenza, continuai a fare ricerca, malgrado fosse ormai totalmente assente l’approccio istituzionale rispetto all’arte d’avanguardia. Dal 1972 eseguii i Concerti Aleatori e altri esperimenti sui metodi aleatori, trasformando il mio nuovo studio di via dei Pianellari in un laboratorio sperimentale aperto. Palma Bucarelli mi suggerì di creare un’associazione che si occupasse di ricerca «sui problemi dell’arte». Durante questo periodo iniziai a formulare l’estetica eventualista con una serie di scritti teorici sul mio lavoro (Lombardo 1972, 1973, 1975, 1976). Lo storico Giorgio de Marchis mi definì l’unico artista «sopravvissuto al naufragio dell’avanguardia» (De Marchis 1974). Nel 1977, con due studenti della facoltà di medicina, Anna Homberg e Cesare Pietroiusti, cogliendo il suggerimento di Palma Bucarelli, fondai l’associazione Jartrakor «spazio sperimentale di studi sui problemi dell’arte» e nel 1979 iniziammo a pubblicare la Rivista di Psicologia dell’Arte, che è ancora oggi il laboratorio scientifico della ricerca eventualista.

La Teoria Eventualista

  1. Le radici futuriste. L’eventualismo nasce dall’evoluzione di alcune fondamentali innovazioni estetiche del Futurismo e dall’uso del metodo scientifico al servizio della ricerca artistica. L’artista eventualista è uno scienziato che, partendo da una definizione operativa dell’arte e della bellezza, crea eventi estetici. L’opera d’arte è definita come uno stimolo rivolto al pubblico allo scopo di provocare nel pubblico il più ampio e diversificato spettro evocativo. Lo spettro evocativo è un «evento» instabile, soggetto a decadimentosaturazione. Per comprendere l’Eventualismo bisogna rileggere alcuni valori estetici già impliciti nel Futurismo:
  2. a)L’avanguardia del Novecento ha creato progressivamente una serie di nuovi valori estetici dai quali non si può tornare indietro. Uno di questi è l’interazione, che si deve far risalire al Futurismo e in particolare alle «serate futuriste» (1909) così citate da Marinetti: «Bisogna assolutamente distruggere ogni logica negli spettacoli del Teatro di Varietà… Introdurre la sorpresa e la necessità d’agire fra gli spettatori della platea, dei palchi e della galleria. Qualche proposta a caso: mettere della colla forte su alcune poltrone… Vendere lo stesso posto a 10 persone… offrire posti gratuiti a signori o signore notoriamente pazzoidi, irritabili o eccentrici… Cospargere le poltrone di polveri che provochino il prurito, lo starnuto, ecc» (Marinetti 1913).
  3. b) Espressione del pubblico.«Nelle serate futuriste chi veramente dava spettacolo facendo buffissima mostra di sé, era il pubblico», affermava Cangiullo (Cangiullo 1921). Si tratta di un approccio quasi opposto, a quello delle altre avanguardie storiche come il Surrealismo, o il Dadaismo, che chiedevano all’artista di esprimere i propri contenuti inconsci per mezzo dello spontaneismo (Lombardo 1997). Il Futurismo, al contrario, si aspettava la spontaneità dal pubblico e considerava lo spettatore come un collaboratore attivo, magari da convincere, o perfino da provocare, ma comunque con un ruolo di interlocutore e coautore.
  4. c) Assenza di contenuti. Prima del Futurismo l’opera d’arte veniva usata per trasmettere un messaggio edificante, ideologico e prefissato. Lo spettatore lo doveva capire. Se non lo capiva c’era lo storico, o il critico, che glielo spiegava. Lo spettatore era considerato un apprendista passivo dei superiori contenuti ideologici, o moralistici, preconfezionati dall’artista o dalla committenza. Il Futurismo, al contrario, iniziò a considerare lo spettatore come un collaboratore attivo, con un ruolo di interlocutore e coautore.
  5. d) Imprevedibilità dell’evento. Il ruolo improvvisato, ma determinante, attribuito allo spettatore trasforma la stimolazione futurista in un evento incontrollabile che innesca reazioni a catena sempre diverse e imprevedibili.
  6. e) Realtà dell’evento. Le reazioni del pubblico, che sono la parte fondamentale dell’evento artistico, avvengono nella realtà immediata e fattuale, nell’ hic et nunc, senza che il pubblico si debba immedesimare nelle realtà fittizie, virtuali, immaginate, create o raccontate dall’artista.
  7. La costruzione dello stimolo

L’artista eventualista opera come uno scienziato che costruisce stimoli allo scopo di ottenere il più ampio e variegato campione di risposte da parte del pubblico, attenendosi ai principi di minimalità, astinenza espressiva, strutturalità, spontaneità, interazione, eventualità e profondità.

  1. a) Minimalità: la minimalità richiede di usare il metodo più diretto e più semplice nella costruzione dello stimolo e di evitare scelte arbitrarie o non necessarie.
  2. b) Astinenza espressiva: non è richiesta l’identità stilistica personale e va evitata l’espressione dei contenuti personali dell’artista. L’artista non deve esprimere se etesso, ma rendere maggiormente evidente l’espressione dei fruitori con le loro differenti e contraddittorie interpretazioni.
  3. c) Strutturalità: nel costruire lo stimolo l’artista deve lavorare come uno scienziato, deve dichiarare in anticipo il metodo e lo scopo. La strutturalità è opposta al talento manuale e alla creatività arbitraria.
  4. d) Spontaneità: per evidenziare l’espressione del pubblico, lo stimolo estetico deve provocare comportamenti spontanei nel pubblico. Commettere errori non voluti, battere un record, sognare, produrre invenzioni scientifiche, reagire in situazioni d’emergenza sono esempi di spontaneità.
  5. e) Interazione: se la reazione del pubblico è espressiva, spontanea e valutabile dall’ampiezza dello spettro evocativo, c’è stata un’interazione eventualista.
  6. f) Eventualità: l’eventualità obbliga il pubblico ad agire sul livello della realtà in modo imprevisto e involontario. In tale situazione ciascuna persona si comporta in modo diverso dagli altri, originale e spontaneo.
  7. g) Profondità: questo concetto estetico, che non può essere completamente definito a priori, richiede che l’evento modifichi la personalità di chi interagisce con lo stimolo, indirizzandola verso ideali culturali nuovi, più complessi e più raffinati.
  8. Instabilità dell’arte e della bellezza.L’Eventualismo rifiuta l’idea tradizionalista di una bellezza eterna ed immutabile, esso considera la bellezza come epifania di nuovi sistemi di valori nascenti che la cultura storica ancora non riesce né a identificare, né a definire. Questi valori nascenti vengono percepiti come bellezza dalle persone che, anche inconsciamente, si identificano con essi, altrimenti vengono percepiti come stranezza e perfino come scandalo. Essendo rappresentativa di valori situati nel futuro, la bellezza è fondamentalmente instabile, soggetta ai conflitti dell’evoluzione storica e degli scontri fra culture. La bellezza è un attrattore sociale, perché contiene un ideale nascente situato nel futuro. Il futuro è instabile, imprevedibile, stocastico, situato in un Universo infinito, infinitamente elastico, senza centro e senza contorno, soggetto a trasformazione continua.
  9. L’evento estetico.Se fra lo spettatore e l’opera d’arte (lo stimolo) avviene un’interazione imprevedibile, sempre diversa da persona a persona e sempre diversa in tempi diversi anche nella stessa persona, allora questa interazione è un «evento estetico». L’evento è instabile e irripetibile come la realtà, non è stabile come la rappresentazione della realtà. L’evento inoltre è reale, mentre la rappresentazione (fotografica, pittorica, letteraria, poetica, teatrale, cinematografica) della realtà è virtuale. L’evento è misurabile attraverso l’ampiezza e la varianza dello «spettro evocativo» che lo stimolo provoca sul pubblico, o su un campione di persone. Lo spettro evocativo può consistere in proiezioni di contenuti o di intenzioni, interpretazioni, reazioni fisiche o psicologiche, induzione di sogni, errori involontari, percezioni conflittuali.
  10. L’arte è un evento instabile che la storia delle civiltà ricostruisce e ridefinisce continuamente(Lombardo 1987). Non tutti sono d’accordo con questo semplice enunciato. La maggior parte degli studiosi crede, o almeno finora ha creduto, che l’arte sia esente dall’evoluzione storica: se è arte lo è per sempre. Così ad esempio Gombrich (1971). Ma anche Feyerabend, rifacendosi a Rigl, ritiene che l’arte sia incommensurabile e inconfrontabile, quindi non si evolve e non invecchia (Lombardo 1998). Feyerabend, rifacendosi a Riegl,ritiene che l’arte sia incommensurabile e inconfrontabile, quindi non si evolve e non invecchia (Lombardo 1998). Feyerabend sostiene che sia incommensurabile, inconfrontabile, quindi inevolvibile, non solo l’arte, ma anche la scienza (Feyerabend 1984). L’eventualismo, al contrario, considera l’arte una creazione sociale temporanea, estremamente fluttuante. Tale fluttuazione ha natura stocastica non essendo conseguenza di un’evoluzione lineare della storia, ma piuttosto di conflitti ideologici fra culture stabilizzate e nuove culture nascenti. Le nuove culture poi si stabilizzano, o scompaiono, ma influenzano i valori ideali dell’umanità, cambiandone l’ordine d’importanza, aggiungendo nuovi valori ed eliminandone altri, rimescolando continuamente il senso della realtà e della vita. Ne consegue che ciò che è arte per alcune persone non lo è per altre, ciò che è arte oggi può non esserlo più domani e viceversa, inoltre lo stesso oggetto può diventare arte in certe occasioni – evento –e ridiventare un oggetto banale in altre – decadimento – (Lombardo 1991). Fondamentalmente l’evento artistico è una creazione psicologica collettiva imprevedibile e irripetibile, analoga alle percezioni studiate dalla psicologia proiettiva e ai processi onirizzanti (Lombardo 1981). Qualcosa è arte, o non è arte, solo all’interno di una cultura storicamente definita, un’arte assoluta ed eterna, valida per sempre e per tutti, non esiste.
  11. L’arte non è definibile attraverso le sue caratteristiche formali, tecniche, o stilistiche, ma solo attraverso la sua funzione storica, in quanto evento rappresentativo di nuovi valori, che funzionano da catalizzatori di nuove culture nascenti. La funzione sociale dell’arte è quella di costruire modelli rappresentativi dei nuovi valori ideali delle culture nascenti. L’arte funziona socialmente come rivelatore di valori nuovi e costruttore di nuove identità culturali, contribuendo all’evoluzione dell’umanità. La funzione sociale dell’arte all’interno della storia evolutiva delle civiltà è analoga alla funzione del sogno all’interno della storia evolutiva dell’individuo(Lombardo 1991, 2014). Se una persona non sognasse, o facesse sempre lo stesso sogno, non potrebbe evolversi.
  12. L’artista non è tale per una sua speciale capacità, o talento, né per il tipo di opere che produce, né perché si definisce artista, ma solo perché le sue opere sono rappresentative dei valori caratteristici di una cultura storica. L’artista eventualista non è un artigiano, né un professionista che esegue un lavoro specialistico su commissione, ma uno scienziato che fa ricerca sperimentale sull’arte e sull’estetica. Una persona diventa artista se e quando le sue opere vengono riconosciute come un campione rappresentativo dei nuovi valori di una cultura nascente. Ma tale cultura probabilmente si affermerà dopo molto tempo. La definizione di artista è dunque una definizione conferitadalla storia dell’arte ex post, quando l’evento sarà ormai saturato (Lombardo 2001, 2014). Ne consegue che gli artisti, creando determinate opere, oppure i musei, esponendo determinati artisti, scommettono contro la storia.
  13. Terminologia eventualista

La teoria eventualista ribalta i ruoli tradizionali della relazione artista-pubblico, attribuendo al pubblico un ruolo attivamente espressivo e all’artista il ruolo di inventore degli stimoli rivolti a sollecitare l’espressività del pubblico e di valutatore per fini di ricerca della profondità espressiva raggiunta attraverso le risposte. Sviluppata specialmente attraverso la Rivista di Psicologia dell’Arte, fondata nel 1979 dallo scrivente, essa definisce l’opera d’arte materiale come stimolo capace di provocare eventi nel pubblico. Lo stimolo eventualista richiede la creatività del pubblico per essere interpretato e costruito come opera d’arte. Il processo creativo è considerato analogo, ma

Continua qui: https://operavivamagazine.org/sulla-fondazione-delleventualismo/

 

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

Il «grande gioco» delle basi in Africa

di Manlio Dinucci

Creata nel 2017 a seguito di uno studio israeliano, l’AfriCom (Comando degli Stati Uniti per l’Africa) non è mai riuscito a stabilire sul continente il proprio quartier generale. Dalla Germania, questa struttura organizza – con il concorso della Francia nella regione del Sahel – operazioni antiterroriste. In cambio, le società transnazionali USA e francesi si assicurano un accesso privilegiato alle materie prime africane.

Rete Voltaire | Roma (Italia) | 16 gennaio 2019

I militari italiani in missione a Gibuti hanno donato alcune macchine da cucire all’organizzazione umanitaria che assiste i rifugiati in questo piccolo paese del Corno d’Africa, situato in posizione strategica sulla fondamentale rotta commerciale Asia-Europa all’imboccatura del Mar Rosso, proprio di fronte allo Yemen.

Qui l’Italia ha una propria base militare che, dal 2012, «fornisce supporto logistico alle operazioni militari italiane che si svolgono nell’area del Corno d’Africa, Golfo di Aden, bacino somalo, Oceano Indiano».

A Gibuti i militari italiani non si occupano, quindi, solo di macchine da cucire. Nell’esercitazione Barracuda 2018, svoltasi qui lo scorso novembre, i tiratori scelti delle Forze speciali (il cui comando è a Pisa) si sono addestrati, in diverse condizioni ambientali anche di notte, con i più sofisticati fucili di precisione capaci di centrare l’obiettivo a 1-2 km di distanza.

Non si sa a quali operazioni militari partecipino le Forze speciali, poiché le loro missioni sono segrete; è comunque certo che esse si svolgono prevalentemente in ambito multinazionale sotto comando Usa. A Gibuti c’è Camp Lemonnier, la grande base Usa da cui opera dal 2001 la Task force congiunta-Corno d’Africa, composta da 4000 specialisti in missioni altamente segrete, tra cui uccisioni mirate per mezzo di commandos o droni killer in particolare nello Yemen e in Somalia.

Mentre gli aerei e gli elicotteri per le operazioni speciali decollano da Camp Lemonnier, i droni sono stati concentrati nell’aeroporto Chabelley, a una decina di chilometri dalla capitale. Qui si stanno realizzando altri hangar, la cui costruzione è stata affidata dal Pentagono a una azienda di Catania già impiegata in lavori a Sigonella, principale base dei droni Usa/Nato per operazioni in Africa e Medioriente. A Gibuti ci sono anche una base giapponese e una francese, che ospita truppe tedesche e spagnole. A queste si è aggiunta nel 2017 una base militare cinese, l’unica fuori dal suo territorio nazionale. Pur avendo un fondamentale scopo logistico, quale foresteria degli equipaggi delle navi militari che scortano i mercantili e quale magazzino per i rifornimenti, essa rappresenta un significativo segnale della crescente presenza cinese in Africa.

Presenza essenzialmente economica, a cui gli Stati uniti e le altre potenze occidentali contrappongono una crescente presenza militare. Da qui l’intensificarsi delle operazioni condotte dal Comando Africa, che ha in Italia due

 

Continua qui: https://www.voltairenet.org/article204744.html

 

 

 

Ci possiamo ancora fidare degli alleati statunitensi?

24 dicembre 2019 di Antonio Li Gobbi

 

Yankee go home” urlavano una volta gli appartenenti a movimenti di sinistra di tutto il mondo. Tempi passati! Ora sono gli yankees che se ne vanno via, senza preavviso e lasciando spesso in balia di vendette coloro che (forse incautamente) si erano fidati di loro.

Il “We have defeated Isis in Syria” proclamato da Trump mi riporta alla mente il “Mission Accomplished” di un altro presidente USA, ricordato oggi quasi esclusivamente per le cantonate prese e le bugie dette in politica estera!

Successivamente, The Donald ha dichiarato anche l’intendimento di dimezzare il già limitato contingente USA in Afghanistan (14 mila uomini).

“Mad Dog” Mattis , fortemente contrario a questi ripiegamenti di forze (come gran parte del dipartimento della Difesa e di quello di Stato), si è dimesso. Non aveva altra scelta onorevole.

Ritengo che i ritiri in Siria e in Afghanistan siano due casi diversi, sia per i motivi alla base delle relative decisioni, sia per gli interessi in gioco nei due teatri.

In entrambi i casi, però, si può leggere “loud and clear” un messaggio politico a chi, in situazioni di crisi internazionali potrebbe pensare di farsi sostenere dagli Stati Uniti: non importa cosa Washington abbia promesso ma in caso di prioritari interessi nazionali legati magari solo a scadenze elettorali, gli Stati Uniti si ritirano più o meno repentinamente lasciando nei guai popoli, fazioni e milizie alleati che si fidavano dell’America.

In Siria il messaggio è stato indirizzato (in primis) ai Curdi, in Afghanistan alle autorità governative di Kabul.

Soprattutto in relazione al “tradimento” dei curdi, prima usati per combattere là dove non si voleva (e, in realtà, neanche si poteva) mandare a combattere i ragazzoni USA, si sono espressi molti noti commentatori.

In Afghanistan, la situazione è comunque simile. Chi ha creduto (e si è schierato) nella lotta contro Talebani e terrorismo islamista l’ha fatto convinto di poter contare sull’appoggio militare statunitense, almeno fino al raggiungimento dell’autosufficienza da parte delle autorità Governative nel settore della sicurezza (autosufficienza che, personalmente, non vedo all’orizzonte).

Queste decisioni statunitense mi fanno tornare alla mente le drammatiche immagini del decollo degli ultimi elicotteri dall’Ambasciata USA a Saigon, con una moltitudine di sudvietnamiti (cui forse era stata promessa la salvezza in Nord America) abbandonati a terra in attesa dell’inevitabile vendetta di vietcong e nordvietnamita.

In anni a noi più vicini, quante morti in Afghanistan o in Iraq possono essere attribuite a dichiarazioni di Bush (junior) o di Obama. Dichiarazioni, ad esempio, di scadenze entro cui gli USA si sarebbero ritirati o avrebbero, comunque, ridotto drasticamente i loro contingenti? Dichiarazioni che apparivano avventate, se viste nell’ottica del successo (militare e politico) delle operazioni in cui i soldati USA erano impegnati, ma che erano frutto di puri calcoli elettorali domestici.

In un precedente articolo evidenziammo che l’iter che porta alla Casa Bianca non tenda a dare rilevanza all’expertise in politica estera. È un fatto, e lo era purtroppo anche prima di Trump, aspetto che non fa ben sperare per il futuro.

Tali ritiri di forze avranno sicuramente un peso sulla credibilità di Washington come alleato militare affidabile. Non tanto per l’entità delle truppe ritirate (9.000 uomini in tutto tra Siria e Afghanistan), ma per le motivazioni utilitaristiche alla loro base e per le modalità della loro comunicazione.

In geopolitica, come in fisica, i vuoti lasciati vengono riempiti da altri. In Siria crescerà l’influenza di Turchia e Iran, si rafforzerà Assad e, soprattutto, si affermerà sempre più il ruolo della Russia.

In Afghanistan la situazione è più complessa, ma al fine di non far collassare il paese (ricco di risorse minerarie) ed evitare che torni al Medio Evo, non mi stupirei che altri attori subentrassero eventualmente con modalità diverse da quelle USA (Cina, Iran, forse non la Russia, ma chi lo sa?). Nel frattempo, o gli alleati NATO se ne vanno anche loro o l’Alleanza rischia di restare coinvolta chissà per quanto in un teatro operativo dove è intervenuta (direi quasi che è stata “trascinata”) su pressione USA e, essenzialmente, a salvaguardia d’interessi strategici prioritariamente statunitensi. Venendo a noi italiani ed europei, mi sembrano scaturire chiaramente alcune considerazioni che ci toccano da vicino.

L’instabilità nel Mediterraneo Allargato e le sue conseguenze dirette e indirette (terrorismo, migrazioni, ecc) sono percepite da gran parte degli italiani e degli europei del Sud come il maggior rischio per la sicurezza.

È chiaro che non vi sia all’orizzonte né un intendimento né una reale capacità politica degli USA per un impegno protratto negli anni per la soluzione di crisi presenti o future in tale Regione.

Non essendo né l’UE (per il momento e nel prossimo futuro) né le maggiori nazioni europee in grado di imporsi come punti di riferimento nel contesto di tali crisi che ci toccano da vicino (neanche la Francia da sola), occorrerà tener conto della ormai incontrastata credibilità politico-militare russa e di quella economica cinese (che si sta mostrando sempre più presente ed aggressiva) in gran parte del Mediterraneo Allargato. Dovremmo tenerne conto soprattutto nel definire i nostri rapporti (politici, diplomatici e, perché no, economici) con Russia e Cina.

L’atteggiamento statunitense adottato sino a oggi in relazione alla questione ucraina non fa certo pensare a un possibile sostanzioso impegno militare (boots on the ground)  in caso del concretizzarsi di una minaccia russa ai confini orientali di NATO ed UE . Per contro, in casi del genere, eventuali raid o lanci di missili quale pura dimostrazione di forza (come fatto da Trump in Siria) sarebbero solo pericolosi per la stabilità europea.

Indipendentemente dalle singole situazioni di crisi, nell’ottica delle minacce (reali o percepite che siano) sia da Sud che da Est, l’intero impianto organizzativo e decisionale della NATO, nonché i vincoli in termini di difesa

Continua qui: https://www.analisidifesa.it/2018/12/ci-possiamo-ancora-fidare-degli-alleati-statunitensi/

 

 

 

CULTURA

Psicofobie e dinamiche dell’odio nell’età dello smarrimento

di Barbara Palla – 16 GENNAIO 2019

Ansia, paura, rabbia e odio sono alcuni elementi principali del disagio psicologico nato e diffuso nelle società contemporanee. Secondo Christopher Bollas, teorico della psicoanalisi contemporanea, la nostra sarebbe l’Età dello Smarrimento, un’epoca in cui la perdita dei punti di riferimento psicologici ha dato vita ad un numero crescente di piscofobie e a nuove dinamiche di odio. Nel suo ultimo saggio, L’Età dello Smarrimento, Senso e Malinconia (Raffaello Cortina Editore, 2018), Bollas propone un’interessante analisi degli eventi storici più importanti che hanno portato all’emergere di questo particolare disorientamento contemporaneo, trovando un possibile antidoto in un nuovo pensiero democratico.

Ogni epoca è definita, secondo Bollas, da orientamenti psicologici sia individuali che di gruppo, ovvero da un particolare Sé collettivo nel quale si possono ritrovare gli stati d’animo di determinate società. Questo Sé collettivo è notevolmente influenzato dagli eventi storici esterni per cui è necessario ripercorrerne la storia per comprendere le origini del senso di smarrimento contemporaneo. Per lungo tempo tra il XIX e il XX secolo, il Sé è stato caratterizzato da una ricerca di significato profondo, un percorso introspettivo in cui l’esistenza e il suo senso erano protagonisti. In quell’epoca, il Sé era anche profondamente euforico, mosso dalla fiducia che il progresso della mente umana, della scienza e delle sue applicazioni fosse sempre positivo e capace di elevare l’uomo.

Sul finire del XIX secolo, quella euforia e quella fiducia fecero però emergere un Sé maniacale costretto a vivere a ritmi accelerati, la cui ricerca introspettiva fu soppiantata dalla glorificazione del singolo e delle masse. Le due Guerre Mondiali e i loro tremendi bilanci segnarono un momento di drammatica rottura. Dovendo affrontare un enorme lutto, il Sé collettivo si è progressivamente allontanato dal dolore. All’alba della globalizzazione, il Sé ha infatti iniziato a proiettarsi verso l’esterno. Rifuggendo l’interiorità, l’uomo ha preferito una vita sicura, priva di ansia scegliendo di identificarsi nel proprio benessere materiale e in attività ricreative invece che intellettuali.

L’avvento dell’era informatica, con le sue interconnessioni globali e immediate, ha accelerato questo procedimento di perdita di significato arrivando ad un progressivo svuotamento del Sé. Nonostante fosse riuscito ad avere tutto, ciò che gli rimaneva era sempre poco, il Sé è diventato preda del proprio benessere, malinconico e bramoso di avere anche ciò di cui è rimasto privo. Così si sono diffuse nuove

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CYBERWAR SPIONAGGIO DISINFORMAZIONE

L’India costituisce la Defense Cyber Agency

17 gennaio 2019

Il governo indiano, in associazione con le Forze armate. sta per inaugurare la Defense Cyber Agency. Attualmente nelle fasi finali, la struttura, una volta operativa, raccoglierà risorse (in tutto un migliaio di uomini e donne) dalle tre forze armate per affrontare le minacce nel dominio cibernetico.

L’agenzia, guidata da un generale di Divisione, risponderà al Presidente lavorando a stretto contatto con il National Cyber Security Advisor ma sarà posta alle dipendenze dell’Integrated Defence Staff (IDS), struttura interforze impegnata a promuovere il coordinamento e a consentire la definizione delle priorità tra le forze armate indiane.

La necessità di un’agenzia specializzata per la cyberdefence deriva dalla percezione di una crescente minaccia informatica e dal bisogno di una maggior preparazione per gli organi della Difesa dopo che diversi esperti hanno evidenziato lacune nel modo in cui il Paese

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DIRITTI UMANI – IMMIGRAZIONI

Perché la linea dura sull’immigrazione illegale deve essere inflessibile

14 gennaio 2019 di Gianandrea Gaiani

La soluzione del caso Sea Watch/Sea Eye, le navi delle Ong tedesca e olandese che si sono riuscite a imporre a 8 Stati europei di accogliere una cinquantina di migranti illegali raccolti dalle due navi direttamente dai trafficanti di fronte alle coste libiche lascia aperti molti interrogativi.

Oltre ad aver inasprito il confronto politico interno all’Italia e al suo esecutivo, la decisione del premier Giuseppe Conte di accogliere una decina di persone non modificherà probabilmente la linea dura dell’Italia voluta da vicepremier e ministro Matteo Salvini ma ha comunque la grave conseguenza di alterarne la percezione.

Il ministro dell’Interno ha ottenuto che prima di accogliere i migranti illegali della Sea Watch, che saranno a carico della Chiesa Valdese (almeno finché non decideranno di fuggire come hanno fatto quasi tutti gli eritrei sbarcati dal pattugliatore della Guardia Costiera Diciotti nell’ottobre scorso), vengano reamente trasferiti ai partner europei almeno 200 clandestini sbarcati in Italia negli ultimi mesi a condizione che altri Stati se ne facessero carico, cosa che poi non hanno fatto.

L’aspetto grave non è solo che Conte abbia ceduto alle pressioni degli ambienti immigrazionisti italiani ed europei ma che abbia accettato uno sbarco di clandestini che rischia di compromettere la fruttuosa politica dei “porti chiusi” di Salvini.

Nell’anno appena conclusosi sono sbarcati sulle nostre coste 23.370 migranti, l’80,42% in meno rispetto al 2017 (quando furono 119.369) e l’87,12% in meno rispetto al 2016 (181.436).

Decremento ancora più considerevole se si prende in considerazione il solo numero di quelli provenienti dalla Libia: 12.977 dal 1° gennaio al 31 dicembre, l’87,90% in meno rispetto al 2017 e il 92,85% in meno rispetto al 2016.

Se si evidenzia che circa il 60 per cento degli sbarcati nel 2018 ha raggiunto l’Italia quando era ancora in carica il governo Gentiloni e che nel 2018 sono cresciute anche le espulsioni realmente effettuate dall’Italia il successo di Salvini è ancora più significativo.

Un successo ammesso anche dall’agenzia Ue per le frontiere Frontex che nel 2018 ha registrato “solo” 150mila immigrati illegali nel Mediterraneo (il livello più basso degli ultimi 5 anni con un – 92% rispetto al 2015) che per lo più hanno raggiunto la Grecia dalla vicinissima Turchia e la Spagna attraverso la rotta marocchina.

Rabat del resto sembra chiudere un occhio nei confronti delle partenze dalle sue coste, gestite da cosche malavitose concorrenti del clan libici, con il dichiarato obiettivo di ottenere dalla Ue gli stessi fondi (3+3 miliardi di euro) pagati dall’Europa alla Turchia per fermare l’esodo sulla rotta “balcanica”.

La chiusura dei porti quindi “paga” anche in termini di vite umane poiché l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha reso noto a fine anno che il numero di migranti morti cercando di attraversare il Mar Mediterraneo è sceso del 28% nel 2018 rispetto all’anno precedente: 2.262 contro 3.139.

Sul piano politico si può interpretare la decisione di Conte di accogliere alcuni clandestini imbarcati sulla Sea Watch come il tentativo di sabotare il successo di Salvini e della Lega ma in termini di sicurezza il fatto che diversi Stati europei si arrendano alle Ong preannuncia ben altri potenziali problemi.

Innanzitutto, l’Europa riconosce l’immigrazione illegale come un reato da combattere ma permette che venga gestito da soggetti privati e con interessi diversi dagli Stati quali sono le Ong.

Basti pensare che la soluzione che anche il governo tedesco subito aveva caldeggiato a Sea Watch, cioè sbarcare in Libia i migranti illegali che sarebbero stati accolti e rimpatriati dalle agenzie dell’Onu, è tato respinto dalle Ong come sempre determinate ideologicamente a portare i clandestini in Europa.

Inoltre, ora che è stato dimostrato che i porti italiani sono ancora “un po’ aperti” possiamo aspettarci altri arrivi di clandestini trasbordati direttamente sulle navi delle Ong dai trafficanti replicando quindi lo stesso schema adottato da Sea Watch e Sea Eye.

La convergenza di interessi tra Ong e trafficanti determinerà altri casi simili incoraggiando così il business dei criminali che riusciranno a vendere “altri biglietti” per il viaggio su barconi e gommoni e aumentando i rischi di frizioni interne al governo italiano.

Uno scenario preoccupante specie ora che le indagini sui “barchini fantasmi” salpati dalla Tunisia ci hanno fornito ulteriori conferme che con i clandestini arrivano dall’Africa in Italia anche molti fuorilegge e jihadisti. Cosa che sapevamo già da anni considerato che la prima a parlarne pubblicamente fu Emma Bonino, ministro degli Esteri del governo Letta nel novembre 2013.

 

Il ruolo del consenso

Sul piano del consenso, l’iniziativa di Conte di andare incontro le richieste Ue di condivisione del carico umano delle navi delle Ong Sea Watch e Sea Eye avrà forse strappato compiacimento al Quirinale e a Bruxelles, tra le opposizioni e presso le lobbies dell’accoglienza cattoliche e di sinistra ma non sembra certo essere stato gradito dall’elettorato pentastellato.

Almeno secondo un sondaggio commissionato alla società demoscopica IPSOS PA dal Corriere della Sera che ha sentito un campione di 1.001 italiani di diversa provenienza e opinione politica.

Per il 60% degli intervistati la maggiore responsabilità per il caso dei migranti illegali a bordo delle due navi delle Ong ricade sull’Unione europea, il 13% la attribuisce alle Ong stesse, il 12% al singolo Stato in cui sono giunte le imbarcazioni coi migranti clandestini (cioè Malta) e in 15% non risponde a conferma che una certa quota di opinione pubblica non segue le vicende legate all’immigrazione, ne è stufa o non si è fatta un’opinione.

Tra gli elettori di M5S è più alta la percentuale di chi accusa la Ue (70%), ancor più alta tra quelli del PD (80%) dei quali solo il 6% se la prende con le Ong e l’11% con Malta. Tra gli elettori della Lega il 61% accusa principalmente la Ue e il 17% Malta e una percentuale uguale le Ong.

Gli elettori di Forza Italia e Fratelli d’Italia puntano il dito sulla Ue per il 42% riservando un 26% di accuse a Malta e altrettanto alle Ong.

La linea intransigente sull’immigrazione tesa a impedire ogni sbarco è condivisa dal 51% degli intervistati che sale all’80 per cento tra gli elettori della Lega e al 70 tra gli elettori di M5S, a conferma che le aperture di Conte sembrano cozzare con l’opinione diffusa tra gli elettori pentastellati. Tra gli elettori di Forza Italia e fratelli d’Italia la linea dura è condivisa dal 61% ma anche

Continua qui: https://www.analisidifesa.it/2019/01/perche-la-linea-dura-sullimmigrazione-illegale-deve-essere-inflessibile/

 

 

 

ECONOMIA

Il cordone sanitario intorno all’Italia (per ora) tiene

Paolo Rebuffo – 14 gennaio 2019

 

Cattivissime notizie per il governo italiano, il cordone sanitario intorno al debito pubblico e privato (banche comprese) italiano sembra che per ora tenga.

Nonostante i Gilè Gialli, nonostante il rallentamento dell’economia tedesca continua ad esserci il peggior scenario possibile per l’Italia in ordine alla possibilità di ottenere un altro calcio al barattolo via BCE ovvero:

  • Il dominio del BUND a livello mondiale continua ad essere incontrastato, mentre scrivo un decennale tedesco rende lo 0.21% (nonostante Deutsche Bank che come tutti sanno… polverizzerà l’universo teutonico)
  • Il decennale francese rimane sotto i 50bps

Il secondo dato è quello decisivo. Come ho già avuto modo di spiegare la

Continua qui: http://funnyking.io/archives/3021

 

 

FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI

La Crisi delle 3 Banche

Paolo Rebuffo – 14 gennaio 2019

Immagino che per tutta la settimana non si parlerà quasi d’altro all’infuori di Battisti che finalmente dovrebbe concludere i suoi giorni nelle galere italiane. Quindi diciamo che per un pochino i (grossi) problemi di 3 banche italiane saranno affare di tecnici e cultori della materia.

Le 3 banche sono:

  1. Carige
  2. BMPS
  3. Popolare di Bari

Per Carige mi sono fatto una certa idea, ottenuta la garanzia dello Stato Italiano sulle emissioni obbligazionarie e dunque ripristinato l’accesso al mercato a costi accettabili, la famiglia Malacalza accetterà di fare l’ennesimo aumento di capitale sperando che finisca meglio dei precedenti. (non si può accusare i Malacalza di non essersi fatti separare dai loro soldi)

Visto da fuori a me sembra che tutta la vicenda del commissariamento Carige da parte di BCE e l’intervento carbonaro del governo sia un copione già scritto e concordato con tutte le parti in causa ( Malacalza, Governo e BCE ,eh si, che dopotutto non è così malvagia) per salvare Carige ad un costo almeno accettabile per l’azionista di maggioranza e senza spargimenti di soldi pubblici o bail-in.

Per BMPS il problema ha due nomi:

  1. Spread
  2. Mancata attuazione del piano industriale, o meglio fallimento del piano industriale nei suoi obbiettivi di rilancio.

BMPS è infarcita di titoli dello stato italiano e ne sta subendo la svalutazione in più le rosee aspettative di pronta rivincita con relativo ritorno della fiducia ( dei correntisti ) sulla banca sono state smentite dalla realtà.

BMPS è un problema molto più grande di Carige, il Governo potrebbe trovarsi nella posizione di nazionalizzare ulteriormente BMPS e fare una lunga trattativa con la BCE per evitare forme di Bail-In.

Poi c’è il mistero dei misteri: la Popolare di Bari, la cocca di Banca d’Italia  ( e io ogni tanto mi chiedo che segreti ci siano da quelle parti, cioè perché questo trattamento di iper favore da sempre ) :

da Affari Italiani

a Bari scoppia l’ennesima crisi che da tempo covava sotto la cenere e gli Jacobini sono tentati dal varare uno spezzatino per cercare di evitare il peggio.

Come ha segnalato l’agenzia Reuters, infatti, Banca popolare di Bari, da sempre facente capo alla famiglia Jacobini potrebbe dover varare un robusto aumento di capitale da 500 milioni di euro (300 milioni in nuove azioni, 200 milioni in bond subordinati) in vista della trasformazione in Spa alla

Continua qui: http://funnyking.io/archives/3012

 

 

Popolare Bari, nuovo caso di crisi. Rumors: ipotesi spezzatino. Il piano

In vista di un aumento di capitale da 500 milioni, l’istituto Banca Popolare di Bari potrebbe separare le attività e…

Venerdì, 11 gennaio 2019 – 14:14:00

Il 2019 potrebbe rivelarsi un anno “cruciale” per il settore creditizio italiano, ancor più di quanto non siano stati gli ultimi due anni: non solo la Bce deve decidere se rinnovare o meno i finanziamenti a tasso stracciato forniti con le ultime due Tltro (in scadenza a giugno e dicembre del prossimo anno), in più mentre si cerca una soluzione per Banca Carige, col governo che ha già stanziato tre miliardi per le garanzie sui futuri bond e 1,3 miliardi per l’eventuale ricapitalizzazione precauzionale, a Bari scoppia l’ennesima crisi che da tempo covava sotto la cenere e gli Jacobini sono tentati dal varare uno spezzatino per cercare di evitare il peggio.

Come ha segnalato l’agenzia Reuters, infatti, Banca popolare di Bari, da sempre facente capo alla famiglia Jacobini potrebbe dover varare un robusto aumento di capitale da 500 milioni di euro (300 milioni in nuove azioni, 200 milioni in bond subordinati) in vista della trasformazione in Spa alla quale sta lavorando Vincenzo De Bustis, ex top manager di Mps e Deutsche Bank Italia, già direttore generale dell’istituto tra il 2011 e il 2015, tornato coi gradi dell’amministratore delegato alla fine dello scorso anno per cercare di mettere in sicurezza i conti.

Piccolo particolare: le nuove azioni dovrebbero essere offerte al valor nominale (5 euro), senza sovrapprezzo e senza diritto d’opzione agli azionisti esistenti, che quindi subirebbero una pesante diluizione. Diluzione che segue, peraltro, il tracollo già registrato dai titoli, che teoricamente sarebbero scambiabili sul “mercatino” Hi-Mif, di fatto restano congelati in assenza di scambi perché non esiste alcun compratore interessato sebbene il prezzo di riferimento sia stato abbassato sino a 5,4 euro (e il limite minimo di inserimento degli ordini a soli 2,38 euro).

Ugualmente non trova quasi acquirenti il bond subordinato dell’istituto, per il quale gli scambi sono al lumicino nonostante renda ormai il 23% (contro il 13% offerto da Carige al fondo interbancario di tutela dei depositi per riuscire a far sottoscrivere 320 milioni del proprio bond Tier 2 a fine novembre). Eppure i livelli attuali dei titoli azionari, in particolare, sono già di un 40% inferiori rispetto agli 8,95 euro dell’ultimo aumento di capitale, da 350 milioni, varato nel marzo 2017.

Un’operazione che non bastò, come non bastarono le successive cartolarizzazioni di Npl assistite dalle garanzie statali (Gacs), a riportare i crediti marci entro una soglia accettabile dalla Bce. Alla fine del primo semestre 2018 (chiusosi con un rosso di 139 milioni) le sofferenze nette erano pari a 457 milioni su 8,5 miliardi di impieghi (il 5,35%) mentre i crediti deteriorati netti (Npl) toccavano il 18,4% (contro il 17,6% di fine 2017) e quelli lordi erano pari a quasi un quarto del totale: 2,57 miliardi contro 7,04 miliardi di crediti “in bonis”.

Che fare, dunque? Secondo alcuni rumors raccolti da Affaritaliani.it l’ipotesi allo studio è un possibile “spezzatino”

Continua qui: http://www.affaritaliani.it/economia/popolare-bari-nuovo-caso-di-crisi-rumors-ipotesi-spezzatino-il-piano-581266.html

 

 

 

 

BCE: OVVERO ARBITRIO, CORRUZIONE E INCOMPETENZA

Maurizio Blondet  17 Gennaio 2019

 

VIDEO QUI: https://youtu.be/RStg2ZdHfKk

 

(DA VEDERE CON ESTREMA ATTENZIONELA BLACK ROCK DI SOROS HA

Continua qui: https://www.maurizioblondet.it/bce-ovvero-arbitrio-corruzione-e-incompetenza/

 

 

 

 

LA LINGUA SALVATA

Asserviménto

asserviménto s. m. [der. di asservire].

1. L’asservire, l’essere asservito: a. allo straniero.

2. Nella tecnica, collegamento tra due grandezze (o anche tra due elementi di uno stesso impianto), tale che una di esse (detta grandezza asservita) sia obbligata a seguire, secondo un’assegnata legge di dipendenza

Continua qui: http://treccani.it/vocabolario/asservimento/

 

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

LA UE UCCIDE I GRECI (E ACCOGLIE I NEGRI)

Maurizio Blondet  29 Dicembre 2018

Consiglio d’Europa: “Picchi di Hiv, boom di disturbi mentali, sanità pubblica sull’orlo del collasso. L’austerità in Grecia viola i diritti umani”

Allarmante report del Consiglio d’Europa svela gli effetti delle misure di austerity sulla

Continua qui: https://www.maurizioblondet.it/la-ue-uccide-i-greci-e-accoglie-i-negri/

 

 

 

 

 

 

 

Il Consiglio d’Europa: “Picchi di Hiv, boom di disturbi mentali, sanità pubblica sull’orlo del collasso. L’austerità in Grecia viola i diritti umani”

Un allarmante report del Consiglio d’Europa svela gli effetti delle misure di austerity sulla popolazione greca

(Huffington Post) By Claudio Paudice – 10/11/2018

Il 4 luglio scorso il Commissario Ue Pierre Moscovici annunciava senza nascondere un leggero autocompiacimento: “Alla fine dei tre programmi di salvataggio la Grecia è di nuovo un Paese normale dell’Eurozona”. Solo pochi giorni prima, il 29 giugno, la Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatović aveva concluso la sua missione in Grecia. Tre giorni fa è stato diffuso il report del suo viaggio e il responso è spietato: le misure di austerità attuate da Atene su ”richiesta” della Troika hanno integrato una violazione dei diritti umani. Dal 2010 al 2018 lo Stato ellenico ha beneficiato (si fa per dire) di 288,7 miliardi di aiuti da parte di Commissione Ue, Fmi e Bce, vincolati all’approvazione di quindici pacchetti di austerità da parte del Governo greco.

Secondo Moscovici, “le vaste riforme condotte hanno gettato le basi per una ripresa sostenibile”, consentendo alla Grecia di essere “di nuovo un Paese normale”. Per capire quanto sia “normale” la vita dei cittadini greci dopo l’iniezione violenta di austerità, in particolare nelle fasce più deboli della popolazione, bastano alcuni dati ben riassunti dall’indagine svolta dalla Commissaria Mijatović del Consiglio d’Europa, la principale organizzazione (estranea alle istituzioni di Bruxelles) in difesa dei diritti umani, democrazia e Stato di diritto.

Proviamo a metterli in fila: in sei anni il numero dei senzatetto è quadruplicato, passando da 11mila a 40mila; i furti di elettricità da parte di cittadini impossibilitati a pagare le bollette sono aumentati di quasi il 1000% dal 2008 al 2016; il sistema sanitario greco è gravemente sottofinanziato, con una spesa sanitaria pubblica di circa il 5,2% del PIL, molto inferiore alla media UE del 7,5%; più della metà dei greci nel 2017 soffriva di problemi di salute mentale, con stress, insicurezza e delusione tra le cause più citate; i suicidi

Continua qui:

https://www.huffingtonpost.it/2018/11/09/il-consiglio-deuropa-picchi-di-hiv-boom-di-disturbi-mentali-sanita-pubblica-sullorlo-del-collasso-lausterita-in-grecia-viola-i-diritti-umani_a_23584737/?ncid=tweetlnkithpmg00000001&ec_carp=124278840752272204&ec_carp=124278840752272204

 

 

 

 

Ammuina britannica e altre questioni continentali

da Federico Dezzani

Il Parlamento inglese ha inflitto una sonora sconfitta a Theresa May, affossando l’accordo Regno Unito-Unione Europea faticosamente redatto sin dalla primavera del 2017. La bocciatura dell’accordo era una condizione necessaria, ma non sufficiente, per arrivare alla No Deal Brexit, che Londra persegue segretamente sin dall’esito del referendum: tocca ora ai partiti paralizzare il Parlamento inglese sino al 29 marzo. Lo choc della No Deal Brexit infliggerà un durissimo colpo alla già debilitata Unione Europea, sempre più vicina alla recessione. Altri interessanti avvenimenti suggeriscono una politica angloamericana dall’inconfondibile sapore anti-continentale.

72 giorni alla No Deal Brexit

Buon anno nuovo, innanzitutto, ai lettori del blog: che anno sarà il 2019? Beh, l’unica certezza riguarda le proprie nostre azioni future. È nostra intenzione seguire gli avvenimenti dei prossimi dodici mesi con pochi articoli, che si dipaneranno partendo dalla nostra analisi di lungo periodo redatta lo scorso dicembre.

Partiamo con la clamorosa sconfitta di Theresa May al Parlamento inglese che, con 432 voti contrari e 202 favorevoli, ha sonoramente bocciato all’accordo per l’uscita ordinata del Regno Unito dall’Inghilterra: si trattava del frutto di lunghi e faticosi negoziati, avviati nella primavera del 2017, quando la stessa Theresa May aveva attivato l’articolo 50 del Trattato di Lisbona. Correva allora il 29 marzo 2017 ed erano previsti due anni per raggiungere una qualche forma di intesa: ne deriva che, sic rebus stantibus, l’Inghilterra uscirà comunque dall’Unione Europea il 29 marzo 2019. Con o senza accordo.

Come avevamo evidenziato nella nostra analisi di lungo periodo, l’obiettivo segretamente perseguito dall’Inghilterra sin dal referendum è proprio un’uscita senza accordo, un caotico divorzio del Continente che massimizzi i danni economici-finanziari e destabilizzi ulteriormente la già fragile e malconcia Unione Europea. Sul perché di tale strategia abbiamo già scritto e detto, ma è probabilmente opportuno rinfrescare la memoria del lettore: le potenze marittime angloamericane, con la svolta “populista-sovranista” del 2017, hanno dichiarato guerra alla loro ex-creatura, l’Unione Europea, nel timore che l’intera Europa centro-occidentale si integrasse con la Russia e la Cina, spostando definitivamente il fulcro del mondo dagli Oceani all’Eurasia. Per l’Unione Europea, perciò, è in serbo un futuro di caos, disgregazione, rigurgito di nazionalismi e (senza alcuna esagerazione), conflitti militari. Quando il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, asserisce che è interesse della Russia un’Unione Europea forte ed indipendente, non mente1: a Mosca sanno benissimo cosa significa la risurrezione dei nazionalismi appoggiati dagli angloamericani, avendolo prima sperimentato in Jugoslavia e poi in Ucraina.

Torniamo al voto sulla Brexit. Sin dalla Rivoluzione Inglese, la politica estera di Londra è sempre stata una e soltanto una: contro il continente. Il regime parlamentare permette di perseguire tale strategia in modo subdolo ed ingannevole: tory e whigh, imperialisti e liberali, conservatori e laburisti, pacifisti e guerrafondai, francofili e francofobi, germanofili e germanofobi, russofili e russofobi. Tutti costoro si alternano, litigano, strepitano, promettono, fanno e disfano. Ma la politica estera è sempre e soltanto una: contro il continente.

Nel caso in esame, tutto l’arco parlamentare mira segretamente alla No Deal Brexit, ma la vuole ottenere in modo quasi “accidentale”, cosicché la drammatiche conseguenze economiche e finanziarie sembrino il frutto non di un disegno lucido e preciso, ma del “caso”. Così, prima il voto sull’accordo è stato spostato dall’11 dicembre 2018 al 14 gennaio 2019, per ridurre di un mese il lasso di tempo per approntare una risposta. All’indomani della bocciatura dell’accordo UE-Brexit, la malconcia May, poco più che un cadavere politico, è stata mantenuta a Downing Street, sopravvivendo ad un voto di sfiducia (325 voti contro 306), ostaggio dell’ala più oltranzista del partito conservatore, quella che apertamente invoca il No Deal. Per i laburisti di Corbyn (che già si sente primo ministro), non ci può essere alcun negoziato finché i conservatori non rinunceranno all’opzione “No Deal”: ne scaturisce un insieme di veti incrociati che porterà il Regno Unito ad una rovinosa uscita dalla UE il 29 marzo, dopo un “facite ammuina” al Parlamento inglese lungo una settantina di giorni.

Il No Deal Brexit si abbatterà così sull’Unione Europea alle prese con:

  • una recessione economica alle porte, con conseguenze esplosive per la tenuta del sistema bancario dell’europeriferia e della stessa eurozona;
  • una Francia in balia della rivoluzione colorata dei gilet jaunes;
  • governi populisti in Italia e Polonia, pilotati a piacimento dagli angloamericani.

L’effetto di questa molteplicità di crisi sulla sovrastruttura europea è facilmente immaginabile.

Il rapporto Italia e Polonia merita un piccolo approfondimento. Nel mese di dicembre, il vicepremier Matteo Salvini stupì molti proponendo un asse Roma-Berlino: il senso dell’operazione era tentare di rompere l’asse franco-tedesco, sfruttando la palese debolezza di Macron, ed infliggere il colpo di grazia alla UE. Non ci può essere Unione Europea, infatti, senza collaborazione

Continua qui: http://federicodezzani.altervista.org/ammuina-britannica-e-altre-questioni-continentali/

 

 

 

 

 

POLITICA

Torna Che Guevara, le élite non capiscono

DI MASSIMO FINI – 18 gennaio 2019

ilfattoquotidiano.it

Quelli che stanno cambiando profondamente in questi anni, sotto i nostri occhi ma senza che noi quasi ce ne si accorga, sono gli assetti internazionali, e non solo, usciti dalla Seconda guerra mondiale. Grandi Paesi, come Cina e India, che a quella guerra non avevano partecipato, e quindi, a differenza dei vincitori, non ne avevano potuto cogliere i frutti, si sono affacciati con prepotenza sull’arengo mondiale accogliendo il modello di sviluppo occidentale che è riuscito a sfondare in culture antichissime che gli erano antitetiche, come appunto quella cinese e indiana. Ma se ciò ha aperto all’Occidente enormi mercati prima preclusi, praterie ancor più sterminate si sono presentate davanti a Cina e India che proprio in quell’Occidente una volta egemone si abbeverano mettendolo in gravi difficoltà.

Donald Trump, che è molto meno sprovveduto di quanto lo si faccia fermandosi alle sue ‘mise’ stravaganti, ha capito, e lo ha anche detto, che gli Stati Uniti non possono, e non vogliono, più essere i ‘gendarmi del mondo’. The Donald non farà mai guerre ideologiche, tipo Afghanistan o Iraq, per raddrizzare le gambe ai cani, per convincere, con le armi, certi Paesi riottosi ad adottare la democrazia, l’uguaglianza fra uomo e donna, il rispetto dei ‘diritti umani’ che sono da sempre, almeno a partire dalla Rivoluzione francese, il ‘core’ del pensiero occidentale. Ciò che interessa a Trump è conservare il primato economico o condividerlo con la Cina che al momento appare, su questo piano, l’avversario più pericoloso.

I tedeschi, con la copertura dei francesi, stanno cercando di ottenere un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu o quantomeno un seggio per l’Ue che sostituirebbe quello attualmente occupato dalla Francia. Cosa che era impensabile fino a pochissimi anni fa. E verrà anche il momento in cui sarà tolto alla Germania democratica il divieto di possedere l’Atomica, perché è fuori da ogni logica che quest’Arma, che è un deterrente decisivo per non essere spazzati via come fuscelli (Kim Jong-un insegna), ce l’abbiano oltre a Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna anche India, Pakistan, Israele, Corea del Nord e non il più importante Paese europeo. Del resto la Nato, che in teoria avrebbe dovuto garantire la sicurezza agli Stati membri, è in crisi come ha ammesso lo stesso Trump e l’Europa ha urgente bisogno di una difesa che non sia affidata solo alle armi convenzionali, che oggi stanno all’Atomica come un tempo la spada al fucile o la cavalleria ai carri armati. E l’Unione europea avrebbe dovuto cogliere al volo le incertezze di Trump sulla Nato per togliersi finalmente di dosso la pesante e pelosa tutela americana.

Ma, al di là di questo, il vero pericolo, per tutti, è un altro e si chiama Isis, ulteriore fenomeno nuovo che non era presente alla fine della Seconda guerra mondiale, che sconfitto a Raqqa e a Mosul risorge ovunque come un’Idra dalle mille teste, in Egitto, in Libia, in Mali, in Somalia, in Kenya, in Nigeria, in Pakistan, in Afghanistan e, sporadicamente, in alcuni centri nevralgici

 

Continua qui: https://comedonchisciotte.org/torna-che-guevara-le-elite-non-capiscono/

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