NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI 22 GENNAIO 2019

https://www.lintellettualedissidente.it/societa/ospitalita-omero-franz-kafka/

NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI

22 GENNAIO 2019

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

V Principio del Potere: aggredire la solidarietà

NOAM CHOMSKY, Le 10 leggi del Potere, Ponte alle grazie, 2014, Pag. 69

 

http://www.dettiescritti.com/

https://www.facebook.com/Detti-e-Scritti-958631984255522/

 

Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.

 

Tutti i numeri dell’anno 2018 della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com 

 

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IN EVIDENZA

Francia-Italia, Iwobi: “Parigi ha 14 ex colonie africane, accolga i migranti”

Il vicepresidente della Commissione Esteri del Senato Tony Iwobi: “La Francia ha rapporti con 14 ex colonie africane: perché non accoglie i migranti?”

di Lorenzo Lamperti – 21 gennaio 2019

“La Francia ha convocato l’ambasciatore italiano? Non commento a caldo nel merito, mi limito a fare una domanda: perché la Francia, che ha 14 ex colonie africane con le quali continua ad avere rapporti, chiude le sue frontiere ai ragazzi che vengono da questi Paesi?”. Tony Iwobi, vice presidente leghista della Commissione Esteri in Senato, interviene su Affaritaliani.it nella querelle tra Italia e Francia nata dopo le dichiarazioni del vicepremier Luigi Di Maio sul franco CFA e le politiche francesi in Africa, a cui hanno fatto seguito la convocazione da parte di Parigi dell’ambasciatore italiano Teresa Castaldo.

“La Francia continua ad avere legami con gli Stati africani ma chiude le sue frontiere, come mai?”, si chiede Iwobi. “Il mondo occidentale, non tutto ma una sua parte, ha sfruttato e depredato l’Africa per secoli. E lo fa ancora. Prima l’Africa è stata depredata delle sue risorse naturali, oggi viene depredata delle sue risorse umane”, prosegue il vicepresidente della Commissione Esteri del Senato. “L’Africa deve essere aiutata nel suo sviluppo interno”, conclude Iwobi. “Per far sì che gli arrivi dei migranti diminuiscano bisogna andare lì e aiutare gli Stati africani ad autosvilupparsi. L’Europa deve stare attenta e guardare la verità in faccia”.

http://www.affaritaliani.it/politica/geopolitica/francia-italia-iwobi-parigi-ha-14-ex-colonie-ma-non-accoglie-i-migranti-583048.html

 

 

 

 

PER LA RUSSIA, PRONTO UN “PIANO KIVUNIM”

www.maurizioblondet.it

Gestire la dissoluzione della Russia” (Managing Russia’s Dissolution) è  il titolo di uno studio  apparso su The Hill. A  firma  di Janusz Bugajski,  propugna il progetto di “perseguire attivamente lo smembramento della Russia”.

Il signore esordisce ammettendo che le sanzioni alla Russia, in quanto “limitate”, hanno solo rafforzato  nel  Cremlino la convinzione “che l’Occidente è debole e ripetitivo”. Occorre dunque una nuova strategia: “rendere più nutrito il declino della Russia  e gestire le conseguenze internazionali della sua dissoluzione.

Janusz Bugajski

Si può approfittare della “frammentazione etnica e regionale” di cui è composto questa federazione, deplorevole moralmente e fragile in quanto “costruzione imperiale”, e “nutrirla” (seminando zizzania) grazie alla “mancanza di dinamismo economico” di cui soffre.  Aggravando il “deterioramento delle condizioni economiche” e “senza democratizzazione all’orizzonte”, “la struttura federale diventerà sempre più ingovernabile”.

Date   le 106 componenti etniche e religiose della Russia, il gioco sarà facile.

Palesemente il Bugajski propone l’applicazione alla Russia del “Piano “Kivunim”, dal nome della rivista ebraica che nel   dal 1982  propugnato   la spaccatura di di tutti gli stati di religione islamica  “secondo le loro linee di   frattura etniche e  religiose”.

Come  nella rivista  Kivunim  (“Direttive” in ebraico) l’autore Oded Yinon passava in rassegno uno per uno Irak, Siria,  Libia,  Iran, e le  minoranze etnico-religios sulla cui insoddisfazione far leva  per provocarne la dissoluzione in staterelli nazionalisticamente omogenei”, così Bugajski  mette in rilievo che “l’ingombrante federazione è composta di 85 ‘soggetti federali’, di cui 22 repubbliche che  rappresentano etnia non russe, tra  cui il Caucaso settentrionale e il Volga medio, e numerose regioni con identità distinte che si sentono sempre più estraniate da Mosca. In estremo oriente, regioni come Sakha e Magadan e in Siberia, con la loro notevole ricchezza di minerali, potrebbero essere Stati di successo senza lo sfruttamento di Mosca”. Lì, dove cresce il malcontento per i governatori russi e la “russificazione” dettata da Putin,  le infrastrutture fatiscenti fanno sì “che i residenti della Siberia e della Russia dell’Estremo Oriente saranno ancora più separati dal centro, incoraggiando così le richieste di secessione e sovranità”.

Infatti, “la Russia non è riuscita a diventare uno stato nazionale con una forte identità etnica o civica. Rimane una costruzione imperiale a causa della sua eredità zarista e sovietica”.

Per Janusz si tratta di rendere pan per focaccia: Putin, sostiene,  “cerca di dividere l’Occidente e di frantumare l’Unione Europea e la NATO sostenendo partiti nazionalisti e separatisti in Europa”;  altrettanto  “ Washington ha bisogno di tornare ai principi fondamentali che hanno accompagnato il crollo dell’Unione Sovietica sostenendo la democratizzazione, il pluralismo, i diritti delle minoranze, il decentramento e l’autodeterminazione regionale” onde seminare la discordia fra le  minoranze e creare movimenti separatisti.

“Alcune repubbliche nel Caucaso del Nord, nel Medio Volga, in Siberia e nel lontano oriente potrebbero diventare stati completamente indipendenti e stringere relazioni con Cina, Giappone, Stati Uniti ed Europa”.

Alla fine, altre [di queste] “regioni potrebbero “ricongiungersi a paesi come Finlandia, Ucraina, Cina- e il Giappone, di cui Mosca in passato s’è appropriata di territori con la forza”. Insomma, non tanto “autodeterminazione” quanto smembramento ed annessione agli Stati vicini.   Nessuna speciale riflessione è dedicata alla distribuzione fra questi staterelli nuovi e con conti da regolare, gestiti da nazionalisti accesi, delle 6800 testate atomiche oggi centralizzate nelle mani di Mosca.

Evidentemente per Janusz ci sono nazionalismi buoni, da distinguere dai sovranismi cattivi, gestiti da nazionalisti malvagi, quelli dei sovranisti europei, che esistono solo perché istigati da Putin.

Solo, “per evitare improvvisi sobbalzi geopolitici e possibili scontri militari, Washington deve monitorare e incoraggiare una rottura pacifica e stabilire collegamenti con entità emergenti”.

Il rinnovato apparato neocon incistato nel governo USA

Bugajski non parla di privato opinionista che esprime una personale veduta. Egli è dirigente del  Center for European Policy Analysis,   che non è uno dei tanti think-tanks (pensatoi)  di Washington  dove le varie lobbies elaborano proposte politiche con cui influenzare il governo, per così dire da fuori. Il Center (CEPA) è finanziato direttamente da sostenitori che sono il Dipartimento di Stato, il Pentagono, il National Endowment for Democracy  che diffonde  il verbo della “democrazia”  (sovversione) in Europa dell’Est e  finanzia i “democratici” separatisti, ed è un braccio del governo Usa;   altri amici  “privati” del CEPA sono la “US Mission to NATO” e Raytheon, Bell Helicopter, Lockheed ,  Textron, BAE Systems, praticamente tutto il complesso militare-industriale.

Aaron Wess Mitchell

Quanto al presidente- direttore generale, che si chiama Aaron Weiss Mitchell, attualmente è nel governo Trump. Vi è stato nominato (Da Rex Tillerson) “Assistente segretario di Stato per gli affari europei ed eurasiatici” ossia “responsabile delle relazioni diplomatiche con 50 paesi “ Europa ed Eurasia, e con la NATO, l’UE e l’OSCE”.

Victoria Nuland (Nudelman) sposata Kagan

E’ esattamente la posizione che ha tenuto Victoria Nuland  (Nudelman) sposata Kagan, e  nella quale la signora ha finanziato con 5 miliardi di dollari la rottura di Kiev dalla federazione russa, con gli eccidi di Maidan e dei russofoni di Crimea,  con il noto impiego di sniper professionisti georgiani  addestrati dalla Polonia, come rivelato qui dai reporter italiani:

http://www.occhidellaguerra.it/ucraina-le-verita-nascoste-parlano-cecchini-maidan/

La Nuland  non fece che estendere  il Piano Kivunim, originariamente pensato per  gli stati musulmani,  all’Ucraina,   infiammando anche qui la linea di faglia etnica, contro  gli abitanti della Crimea e del Donetsk parlanti russo. Ferita tuttora aperta e sanguinante con episodi bellici di Kiev per rendere miserabile e pericolosa la vita delle popolazioni  “secessioniste” del Don.

Varrà la pena di non dimenticare che anche la guerra che la Georgia “indipendente” di Saakashvili intentò contro le provincie separatiste dell’Ossezia del Sud e dell’Abkazia (russofone),  il  Saakashvili le operò grazie ad addestratori,  armamenti, e strateghi  forniti da Israele.

http://www.pinonicotri.it/2008/08/i-burattinai-che-muovono-il-presidente-georgiano-saakashvili/

http://www.effedieffe.com/index.php?option=com_content&task=view&id=5486&Itemid=100021

Dunque nel governo USA c’è di nuovo una solida rete di neocon in posizioni poco visibili, ma decisive,  come i viceministri ai tempi dell’11 Settembre, quando lanciarono la superpotenza  contro tutti i nemici anche vagamente potenziali di Israele. E dunque  il nuovo Assistente per gli Affari Europei non farà che proseguire le strategie e tattiche della Nuland, facendo tesoro dell’esperienza accumulata in quelle sovversioni.  Coadiuvato da questo Janusz Bugajski, di cui penso a questo punto sarà  inutile  chiedere la nazionalità .

Egli è un “polacco” arrivato in USA  nel 1986; prima, è stato “analista-capo” a Radio Free Europe (la voce della Cia verso l’Est) ed attualmente è il presidente del “ programma di studi di area dell’Europa centro-meridionale presso il Foreign Service Institute del Dipartimento di Stato”. Quindi è in veste di un dirigente del ministero Esteri  che espone la sua idea. Non dubito quindi che presto vedremo sorgere spontanei movimenti separatisti nella Federazione russa, a  chiedere a gran voce “democrazia e autonomia” per passare poi alla lotta armata, appassionatamente abbracciati nella loro causa  dalle nostre inviate speciali Rai. Il Piano Kivunim, e dai ministri della UE.

Non occorre sottolineare  il velenoso avventurismo di questo progetto: lo smembramento e spartizione della  Federazione è una di quelle prospettive per scongiurare la quale davvero Mosca scenderebbe in guerra – sul territorio stesso dell’Europa occidentale.

Che dire. Gesù dichiarò beati “i costruttori di pace”. Sulla  maledizione che incombe su  tali “seminatori di discordia” e mai sazi “distruttori di pace” , possiamo solo immaginarla.   

La Nuland distribuisce dolcetti a Kiev. Maggio 2015. Riferì al Congresso che per staccare l’Ucraina dalla Russia aveva speso 5 miliardi di dollari.

 

https://www.maurizioblondet.it/per-la-russia-pronto-un-piano-kivunim/

 

 

 

 

 

 

Africa ancora dominata dalla Francia: dal franco CFA agli interventi militari

Dal franco CFA allo sfruttamento di uranio, oro e petrolio fino agli interventi militari e ai colpi di Stato

di Lorenzo Lamperti – 21 gennaio 2019

GLI AFFARI DI PARIGI NELLA FRANçAFRIQUE

Tempo fa è stata ribattezzata Françafrique. Si tratta di quell’estesa area di influenza della Francia in territorio africano. Un’influenza politica, economica, militare. Un legame costruito nei secoli con l’attivismo coloniale di Parigi che, a differenze di altre ex potenze occidentali, non ha mai reciso del tutto i suoi legami con l’Africa. Dal franco CFA alle ingerenze negli scenari politici. E non si parla solo della Libia, dove la decisione di rovesciare Gheddafi e il successivo appoggio al generale Haftar e non al governo del primo ministro al Sarraj, tanti problemi hanno creato e stanno creando. Ci sono anche tanti altri Paesi nei quali, indisturbata, la Francia continua con ostinazione a curare i propri interessi nel menefreghismo (o ignoranza) altrui.

L’INFLUENZA POLITICA E MILITARE DELLA FRANCIA IN AFRICA

Il peso dell’influenza francese in Africa è impressionante. Coinvolta in oltre 40 interventi militari alle più svariate latitudini del continente, Parigi ha più volte mostrato di ritenere l’Africa come il giardino di casa propria. Spesso gli accordi di natura difensivo-militare sono stati sbandierati dagli inquilini dell’Eliseo di turno come scusa per tutelare i propri interessi. Sono decine gli interventi militari di Parigi in difesa di regimi filo-francesi e quelli, più o meno dichiarati, di sostegno a forze di opposizioni o ribelli a quelli che invece si dimostravano ostili al vecchio padrone. Un esempio quello accaduto in Costa D’Avorio il tentato colpo di Stato ai danni dell’ex presidente Gbagbo, assolto dalla Corte Penale Internazionale la scorsa settimana dopo le incriminazioni per la guerra civile esplosa dopo le elezioni presidenziali del 2010. Ma gli esempi sono molteplici. Interventi militari della Francia diretti si sono verificati, tra gli altri casi, in Gabon, Togo, Mauritania, Mali, Ciad, Repubblica Centrafricana, Tunisia, Ruanda, Comore, Libia. D’altronde il continente africano ospita in pianta stabile oltre cinquemila militari francesi, con basi disseminate a tutte le latitudini, dal Gibuti al Gabon, dal Niger alla Repubblica Centrafricana. Presenza intensificata negli scorsi anni per le missioni antiterrorismo, per esempio in Mali, Niger, Burkina Faso e Mauritania. Interventi però spesso studiati e messi in atto, secondo i non pochi critici, per difendere gli interessi geostrategici della Francia in Africa, dallo sfruttamento delle risorse naturali alla protezione delle proprie multinazionali.

L’INFLUENZA ECONOMICA DELLA FRANCIA IN AFRICA

Gli interessi economici francesi in Africa sono infatti molteplici. Basti citare lo sfruttamento dell’uranio in Niger, dell’oro in Mali o del petrolio in Senegal. Ma anche la presenza dei colossi transalpini  in tutto il continente, da Bolloré a Total. Una mappa variegata che tocca anche l’Africa Occidentale e meridionale, dall’Uganda al Kenya, dall‘Angola al Mozambico fino al Sudafrica. D’altronde per quasi la totalità dei Paesi della Françafrique (vale a dire l’area Nord e centro occidentale del continente), la Francia è ancora il primo partner commerciale. Uno degli strumenti in cui si esplicita questo legame economico è il franco CFA, finito nel mirino del Movimento Cinque Stelle. Si tratta di una moneta stampata in Francia e utilizzata in 14 Paesi africani: Benin, Burkina Faso, Camerun, Ciad, Congo, Costa d’Avorio, Gabon, Guinea Bissau, Guinea Equatoriale, Mali, Niger, Repubblica Centrafricana, Senegal e Togo. Il franco CFA viene stampato in Francia e, pur non essendo una “tassa coloniale”, obbliga i 14 Paesi che lo utilizzano a depositare la metà delle loro riserve su un conto speciale del Tesoro francese, che esprime dei propri rappresentanti in seno alle due banche centrali di Dakar (Senegal) e Yaoundé (Camerun) dell’area CFA.

LA NASCITA DELLA CINAFRICA E LE CONTESTAZIONI CONTRO MACRON

L’ingerenza francese in Africa durerà per sempre? La risposta a questa domanda pare essere mai così in bilico. Macron dopo la sua elezioni ha ricordato che il franco CFA aiuta i Paesi che lo utilizzano a mantenere la stabilità, ma nonostante questo i critici aumentano. Nella Repubblica Centrafricana, per esempio, le manifestazioni contro il franco CFA, individuato come lo strumento dello sfruttamento “neocoloniale” francese nonché freno della crescita africana, si sono moltiplicate. In diversi Paesi, compresi Burkina Faso, Camerun e Senegal si sono creati dei veri e propri di movimenti di protesta antifrancesi. Il tutto mentre c’è un altro peso massimo che sta penetrando il continente da Oriente. Si tratta della Cina, che a differenza dei francesi offre investimenti senza in cambio pretendere ingerenze politiche. Uno scacchiere complesso nel quale anche l’Italia sta provando, con il governo Conte, a giocare un ruolo importante. L’impero silenziosamente costruito negli anni dalla Francia da De Gaulle in primis, e poi perpetrato nel tempo dai vari Chirac, Hollande e Macron non è più così al sicuro.

http://www.affaritaliani.it/politica/geopolitica/francia-africa-macron-sfruttamento-economico-politico.html

 

 

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

Libia, il generale Angioni: “Caos creato dalla Francia, ecco come intervenire”

INTERVISTA/ Il generale Franco Angioni: “Dopo Gheddafi il caos, in Libia abbiamo aperto le porte all’Isis. L’Europa deve affrontare il problema”

di Lorenzo Lamperti – 21 gennaio 2019

Il generale Franco Angioni, già comandante del contingente italiano nella missione di pace “Libano 2” e tra i massimi esperti italiani di geopolitica, analizza in un’intervista ad Affaritaliani.it la complessa situazione legata alla Libia.

Generale Angioni, gli arrivi di migranti dalla Libia sono tornati ad aumentare. Bisogna pagare più soldi ai libici per bloccare gli arrivi?

L’Italia non ha pagato, ha stipulato degli accordi, alcuni dei quali risalgono ancora al periodo di Gheddafi, grazie ai quali si faceva in modo che eventuali processi migratori avvenissero in maniera corretta e concorde. Con la caduta di Gheddafi è successo che la Libia è diventato un territorio frastagliato e molto pericoloso. La Libia oggi si è scomposta in tre grossi agglomerati, ognuno dei quali vuole comandare: Fezzan, Tripolitania e Cirenaica. L’assenza dello Stato in Libia si è fatta sentire.

Colpa della caduta di Gheddafi?

Con Gheddafi in Libia c’era un assetto dittatoriale ma che quantomeno manteneva l’ordine, in particolare nella parte settentrionale del Paese, quella più vicina all’Italia. Oggi ci sono diverse fazioni contrapposte e in questa confusione si è molto sviluppata la delinquenza. A questo aggiungiamo che la Libia è geograficamente la sponda naturale dalla quale si prendere il mare per arrivare verso l’Europa e abbiamo un quadro molto preoccupante.

Che cosa dovrebbero fare Italia ed Europa per migliorare la situazione in Libia?

Bisognerebbe sostenere lo sviluppo di una forma di benessere nell’Africa centrale e settentrionale per incentivare le popolazioni a rimanere lì e ridurre l’emigrazione disordinata, delinquenziale, clandestina. Il processo era iniziato con il ministro Minniti, che aveva cercato di chiudere accordi per destinare importanti risorse economiche a questi Paesi. Ma ora la situazione è peggiorata sui due fronti: da una parte un’Europa attenta alle elezioni europee e non al trovare una soluzione per l’Africa e dall’altra parte un’Africa, in particolare una Libia, più disordinata. Siamo tornati indietro di 4-5 anni, bisogna ritornare al più presto a questo processo.

Ma l’Europa sta andando in questa direzione oppure no?

No, non ci sta andando. Coinvolgere tutti gli Stati membri è complicato e ci sono altri temi aperti, dalla Brexit alle elezioni europee. Insomma, il clima non è favorevole alla soluzione del problema. Ma l’Europa dovrebbe rendersi conto che la situazione è sempre più disperata e non migliorerà. Credere che non aiutare l’Africa a svilupparsi porti un risparmio di soldi è un grande errore perché ci ritroveremo in una situazione sempre peggiore che richiederà ancora più soldi. Ce ne accorgeremo quando vedremo masse di disperati arrivare in massa.

Quanta responsabilità ha l’Europa, e in particolare la Francia, sull’attuale situazione che si è creata in Libia?

L’Europa e in particolare la Francia hanno certamente delle colpe. Eliminare un dittatore come Gheddafi può sembrare un fatto positivo in linea di principio. Ma dopo aver eliminato un dittatore bisogna capire chi ne prende il posto. Al suo posto potrebbe arrivare un nuovo dittatore o, ancora peggio, crearsi il caos. La Francia è colpevole di aver eliminato una gestione sì dittatoriale ma che allo stesso tempo garantiva ordine.

Come si risolve il caos Libia? Chi è l’interlocutore con il quale interfacciarsi?

Prima di tutto busogna decidere che cosa si vuole e come lo si vuole ottenere. Si vuole garantire l’unità della Libia in un unico Stato sovrano? Oppure si vuole avere il coraggio di accettare la divisione della Libia in tre diverse entità statali? L’Europa deve avere il coraggio di darsi una risposta e seguire questo processo, non imporlo. Seguire il problema della Libia è necessario per aiutare a garantire una qualche forma di stabilità che in questo momento non c’è. Con la confusione che si è creata dopo Gheddafi abbiamo aperto le porte all’Isis, che ha messo radici soprattutto nella parte centromeridionale del Paese. L’Europa deve capire che il problema va affrontato perché rinviarlo non significa annullarlo, anzi significa peggiorarlo.

http://www.affaritaliani.it/politica/geopolitica/libia-generale-angioni-intervista-583053.html

 

 

 

 

Il dramma dei profughi non è solo umanitario ma militare e politico

Alberto Negri – 21 Gennaio 2019

La questione qui sollevata si può chiamare anche in un altro modo: mancanza di autoconsapevolezza nazionale. Se uno Stato non ha diplomazia o ha una diplomazia che non conta e che sbaglia le mosse vuol dire che quello Stato non ha alcun peso internazionale. L’Italia – forse perché ha conseguito la propria unità per volontà straniera (franco-inglese) – si è sempre mostrata psicologicamente subalterna alle strategie altrui, fossero quelle inglesi, francesi o tedesche. Il risultato è che mentre gli altri fanno i propri interessi contemporaneamente assolvendosi da ogni respoonsabilità, noi non siamo capaci di fare né l’una né l’altra cosa. Anche perché non abbiamo il coraggio, come dice Negri, di affrontare la questione libica con i dovuti mezzi militari e politici. LC.

È il solito piagnisteo all’italiana: prendere come scusa le colpe degli altri, e la Francia ne ha tante, in primo luogo avere distrutto la Libia di Gheddafi, e trasformarle in assoluzione per la propria incapacità di agire

di Alberto Negri

 

La zona Sar libica, il tratto di mare di competenza di Tripoli, è inesistente, i profughi vengono tenuti in campi disumani e i trafficanti di uomini, come li chiamano, sono in realtà gli stessi capi libici che non intervengono su una fonte di reddito delle milizie della Tripolitania e del Fezzan: tutte cose che si sanno. Quindi la soluzione è politica o militare, o entrambe.

Siccome il governo Sarraj non esiste, l’unica alternativa è il generale Khalifa Haftar che si sta impadronendo anche del Fezzan, il Sud della Libia. Inutile girare intorno al problema.

Il nostro ministero degli Esteri pensa che Haftar, appoggiato da Egitto, Russia, Francia ed Emirati, non sia una soluzione ma parte del problema: però non è in grado di dare una soluzione alternativa.

Il vicepremier Di Maio sostiene che le responsabilità dell’emergenza migratoria è della Francia, a causa dello sfruttamento delle sue colonie africane. Ma Di Maio è un orecchiante di cose che scrivo da anni (e non solo io ovviamente) sul franco Cfa (il 50-60% delle riserve valutarie di 13 Paesi africani sono depositate al Tesoro di Parigi) ma che le colpe francesi adesso assolvano noi dal cercare delle soluzioni non è una soluzione.

È il solito piagnisteo all’italiana: prendere come scusa le colpe degli altri e la Francia ne ha tante, in primo luogo avere distrutto la Libia di Gheddafi e trasformarle in assoluzione per la propria incapacità di agire e di cambiare drasticamente la prospettiva con cui guardiamo la Libia.

Ci siamo impantanati in Tripolitania per alcune evidenti ragioni: lì ci sono gran parte dei nostri interessi energetici e di quelli dell’Eni. Da Tunisi abbiamo portato a Tripoli Sarraj, con il cappello dell’Onu, sperando che fosse l’uomo giusto ma in realtà è un personaggio assai vulnerabile, ostaggio delle milizie e dei Fratelli Musulmani sostenuti da Turchia e Qatar. Bisogna avere il coraggio di rendersi conto di avere sbagliato cavallo.

I Fratelli Musulmani sono la parte perdente di questa fase delle vicende mediorientali e del mondo arabo-musulmano e i favori che abbiamo fatto ai gruppi islamisti non sono serviti a stabilizzare la Libia. Questi sono i fatti, il resto sono chiacchiere.

21 gennaio 2019

 

https://www.maurizioblondet.it/il-dramma-dei-profughi-non-e-solo-umanitario-ma-militare-e-politico-alberto-negri/

 

 

 

 

 

CULTURA

L’ospitalità, da Omero a Kafka

www.lintellettualedissidente.it

In una conferenza dei primissimi anni Cinquanta intitolata Il linguaggio, Martin Heidegger cita alcuni versi di Georg Trakl da una poesia intitolata Una sera d’inverno. La poesia, semplice nella sua superficie, non è che un quadro, una fotografia in tre momenti, una cornice invernale che ritrae quasi impressionisticamente, con un gioco di sguardi esterni e interni, prima un villaggio coperto dalla neve in cui suona una campana serale, poi una casa, tutta in ordine, sulla cui tavola spicca la presenza genuina, in pura luce, di pane e vino. In mezzo queste parole del poeta:

Alcuni nel loro errare

Giungono alla porta per oscuri sentieri.

[…] Silenzioso entra il viandante;

il dolore ha pietrificato la soglia.

Martin Heidegger

La soglia di una casa è uno dei luoghi – se mai luogo si può definire – più densi di attrattiva per il poeta. È un luogo impossibile, invece, per il filosofo. La trasgressione – superare una soglia – è per Kafka un gesto irrealizzabile: se dovessimo fare i conti con tutto ciò che la soglia comporta, tutte le trasformazioni che devono avvenire per permetterci di oltrepassare la soglia, resteremmo immobili.

D’altra parte la soglia di Trakl è pietrificata, proprio nel senso che il viandante, desideroso di entrare dentro casa passando dall’oscurità dei sentieri al lume del desco, se ne sta fermo, in quel limite tra l’interno e l’esterno, in quel frammezzo, in quello spezzamento, in quella “differenza” – dice Heidegger – che il poeta richiama con la figura, tutta naturale, del dolore. Tuttavia è proprio superando quel limite che il viandante entrerebbe in un altro statuto, oltremodo complesso, oltremodo pesante, che è quello dell’ospite.

Ultimamente parliamo spesso di ospitalità, opponendo anche con una certa leggerezza concetti su cui ci si interroga, forse, parzialmente. La critica ad esempio a certe politiche del limes, laddove il limes romano, il “confine”, significava proprio la barriera che intendeva impedire l’accesso allo straniero o al nemico (l’ospite che nessuno farebbe mai entrare in casa propria), la politica, direbbero Deleuze e Guattari, della territorializzazione completa. Qui è il mio luogo, lì è il tuo: questo stabilisce questo confine, segno una linea che tu non puoi passare. È il contrario del limen inteso proprio come soglia che permette la trasgressione di cui abbiamo già parlato, il limite rivolto da una parte verso il pane e il vino della domus e, dall’altra, all’esterno oscuro e freddo.

Se c’è una barriera non posso oltrepassarla e quindi non posso nemmeno attuare quella trasformazione che mi permette il passaggio da una condizione all’altra (pensiamo solo alle recenti questioni italiane in tema d’immigrazione: che statuto ha chi passa la soglia di quelli che sono i nostri confini? che statuto ha quella stessa soglia?). L’uno (il limes) fisso come la pietra, l’altro (il limen) che accompagna un movimento. Non è un caso che siano in gioco termini doppi, che rinviano a semantiche completamente diverse: sono in gioco passaggi di luogo, passaggi di stato, è in gioco, appunto, una dif-ferenza. Due mondi. Non ci stanchiamo mai di ricordare quei pochi versi di Pierre-Albert Birot citati da Bachelard nel suo meraviglioso La poetica dello spazio, dove il filosofo della rêverie si interroga profondamente su questi temi:

Chi verrà a bussare alla porta di casa?

Una porta aperta, entriamo (on entre)

Una porta chiusa, un antro (un antre)

Il mondo batte dall’altro lato della mia porta.

Un tema come quello della soglia e della possibilità di trasgredire questa soglia per divenire, magari, ospite, coincide tout court con l’intera storia della letteratura. Lo sa bene Alain Montandon col suo Elogio dell’ospitalità, dove traccia questa strada iniziando nientedimeno che da Omero e finendo con Kafka.

L’Odissea è anzi, dice Montandon, “il libro fondatore” della storia dell’ospitalità. In moltissime occasioni l’astuto eroe omerico, nel suo viaggio, si trova a dover varcare la ‘dolorosa’ soglia che separa chi è straniero da chi non lo è. Di isola in isola, di luogo in luogo, ovunque prove di ospitalità. Un’ospitalità delle origini, diremmo, archetipica, rituale, tradizionale, a partire dalla quale poter delineare certe caratteristiche, certe categorizzazioni che permettono di giudicare e confrontare ogni gesto d’ospitalità a venire nella storia. E, al contempo, già i rischi e gli sconvolgimenti a cui quel gesto può portare. Da una parte l’ospitalità completa, equilibrata, ‘giusta’ dei Feaci, in quella felice ed aurea Scheria che è già una linea di confine, tra l’umano e il divino.

Ulisse, nudo, malridotto, moribondo, “orrido di salsedine”, scoperto dalla bella principessa Nausicaa e guidato dalla dèa Atena, che lo avvolge in una fitta nebbia per guidarlo al palazzo del re, straniero ambiguo, mal visto a corte per le attenzioni rivoltegli da Nausicaa, arriva al palazzo di Alcinoo indirettamente. Viene addirittura preso in giro da Eurialo e Alcinoo non fa niente per difenderlo pubblicamente, quando poi invece il re gli fa doni oltremisura… Paura per lo straniero, cercare di scongiurare con gesti spesso confusi la presenza di un possibile pericolo? Di contro, nonostante queste enigmaticità, un’ospitalità ricca e armoniosa, diametralmente opposta a quella barbara, macabra e orrenda di Polifemo, che ribalta completamente le regole del buon ricevere lo straniero. Invece di invitarlo a cena, permettergli di rifocillarsi e riposarsi per poi chiedergli chi sia e da dove venga, sbrana i compagni e butta giù la carne cruda con il latte delle sue capre. Saprà il falso nome di Ulisse, Nessuno, solo alla fine, quando questi con l’inganno lo accecherà.

E ancora Circe, nell’isola di Ogigia, che offre un’ospitalità generosissima, comprensiva anche del suo letto di amante, lui, uomo che brama il ritorno dall’amata moglie Penelope. Ma a differenza di Calipso (“io lo salvai”, “io lo raccolsi, lo nutrii”), la bellissima ninfa che abita nel perfetto locus amœnus, ricco di cedri, di tuie, di cipressi profumati e trascorre il suo tempo cantando e tessendo, ella non lo vuole lasciar partire. Anche quella di Calipso è una ‘ospitalità troppa’, che rischia di confondersi con clausura, ma con Circe ciò assume delle vesti perturbanti. La maga brama Ulisse, trasforma i compagni in porci, desidera che l’eroe rimanga da lei per sempre, lo droga per fargli dimenticare la sua missione, lo corrompe con ogni tipo di piacere. Più che ospitalità, sequestro. Infine l’ospitalità paterna e affettuosa, con vari gradi differenze, di Nestore e Menelao che accolgono il giovane Telemaco, figlio di Ulisse andato in ricerca di notizie del padre, opposta a quella costretta e oppressiva dei Proci, che occupano la casa di Itaca venendo meno a ogni regola della xenia classica.

L’Odissea insomma è un libro d’ospitalità, una trattazione, se vogliamo, del bon ton classico, rituale, segnato da passi e regole precisi – il ricevimento, il vestirsi, il godere del banchetto in silenzio per poi presentarsi, la bevanda postprandiale, i festeggiamenti, i doni, il riposo, il cane alla porta, l’attesa sulla soglia, l’alcova, le benedizioni e le suppliche… – e dai loro rovesciamenti. Come sempre i Greci riescono a mostrare l’equilibrio in ogni gesto manifestandone anche, nel bene o nel male, le ambiguità.

Ebbene possiamo dire, sempre con Heidegger, che se l’opera d’arte (in questo caso letteraria) è davvero, tra le altre cose, uno specchio storico di un’epoca, ogni modo di intendere l’ospitalità dagli autori analizzati da Montandon riflette anche le contesture, i noccioli e gli elementi più equivoci di quelle epoche.

Non è un caso che quello che è forse il secolo più perturbante e oscuro della storia occidentale, il Novecento, sia segnato da una profonda riflessione su questi temi. È il secolo degli affondi nelle profondità della coscienza (da Freud a Lacan), delle lotte al soggetto e alla soggettivazione (si pensi solo alla filosofia francese), delle scissioni dell’individuo e di quelle dei nuclei atomici di Fat Man e Little Boy. E, naturalmente, della riflessione sull’Altro e sull’ospite. Ma qui non parliamo né di Lévinas né di Derrida, bensì di Franz Kafka, l’autore che forse ha più riflettuto sui disagi del secolo breve.

 

L’ospitalità che crea disordine e disagio, l’ospite-intruso, l’ospite mal visto, l’ospite alienato e angosciato, l’ospite che non trova il proprio posto laddove varca la soglia, ospite in un luogo alieno, in cui non si muove liberamente, dolorosamente immobilizzato proprio come lo straniero di Trakl. Le ossessioni dello spazio famigliare (“abitare coi genitori è pessima cosa”) a cui da una parte conduce la metamorfosi di Gregor Samsa, prigioniero in un corpo-altro in casa propria, il cui autore, come ricordano Deleuze e Guattari in Per una letteratura minore, è ospite di una lingua non sua (ceco che scrive in tedesco). Un’attenta analisi fenomenologica dei luoghi de La metamorfosi ci direbbe davvero moltissimo su cosa significhi abitare ed essere ospite, più di quanto non farebbe lo stesso Bachelard, che di fatto nelle sue analisi di soffitte, cantine, angoli e soggiorni si affida quasi esclusivamente agli scrittori. La stanza-rifugio in cui si ode la madre “trascinare le ciabatte”, il salotto pieno di baccano famigliare, la vicina camera dei genitori, le finestre – “apertura assurda sull’esterno, un esterno chiuso, bloccato, che poco a poco si cancella” – e così via.

Eppure, nonostante venga subito alla mente l’albergo di America, il vero libro rivelatore (e forse il più bel romanzo kafkiano) è proprio Il castello. Il tema della soglia è presente fin dalla prima pagina, perché il romanzo esordisce proprio con l’arrivo dello straniero K. in un villaggio e, successivamente, in una locanda. I limiti sono già segnati: uno spazio alle spalle oscuro, il castello – fin da subito meta evidentemente irraggiungibile – e quello strano frammezzo rappresentato dal villaggio stesso con la sua inospitale comunità.

Lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla.

Il castello è il romanzo delle difficoltà dell’ospite, dell’alterità, dello straniero, è il romanzo della stanchezza e del logoramento, è il romanzo dell’ambiguità per eccellenza. È il romanzo sul luogo, insomma. K. è un agrimensore, di mestiere fa il territorio, segna limiti, misura metodicamente confini, marca. Viene assunto dal Castello per svolgere il suo mestiere al villaggio, ma in realtà un cavillo burocratico complicatissimo (spiegato nel meraviglioso capitolo in cui K. si reca dal sindaco del villaggio) rende laggiù la sua presenza completamente insignificante (simbolo che di fatto il villaggio non si vuole fare territorializzare, ma vuole vivere della sua assenza di confine, di lira, letteralmente vuole de-lirare). K. è un nulla che viene dal nulla e finisce nel nulla. Non può andare via e non può avanzare, eppure le sue giornate sono costellate da cammini senza fine, che si accumulano esponenzialmente, in un contesto in cui la maggior parte dei personaggi è segnata da una stanchezza disumana (gli aiutanti di K. da una parte, il messaggero Barnabas…). Stanchezza, come quella di Ulisse giunto sulla spiaggia di Nausicaa, ma che non viene più annullata, che anzi aumenta illimitatamente.

Nessun Alcinoo riceve K. Anzi, il volto del conte del castello (Westwest, l’occidente degli occidenti), nominato una sola volta in tutto il romanzo, è completamente ignoto, così come semi-ignoto è quello dell’irraggiungibile Klamm, funzionario minore del castello che l’agrimensore cerca d’inseguire. K. dorme per terra nella locanda, viene circondato da sguardi torvi e, soprattutto, indifferenti (primo fra tutto quello del locandiere). Invece di dormire in un comodo letto in compagnia di una ninfa, dorme per terra e nemmeno riesce a riposarsi, e quando s’accompagnerà a una donna, questa non è più né giovane né bella, ma segnata già da segni di freddezza e vecchiaia. Il passo di K. affonda nella neve e ogni volta che questi viene ricevuto da qualcuno o ottiene notizie inquietanti o viene marcata la sua natura di straniero assoluto, di zecca, di parassita. Suggestivo che Kafka nemmeno concluda il romanzo, che esso rimanga segnato da una cesura ineliminabile che cela un finale nefasto che mai viene detto (seguendo almeno appunti privati dello stesso Kafka). O, altrimenti, la possibilità di vedere il grande atrio del castello, di cui a malapena K. scorgeva una finestra.

L’epoca della povertà in cui vivremmo, direbbe Hölderlin, è anche l’epoca in cui ci si sente stranieri dappertutto, l’epoca in cui gli dèi sono stanchi o assenti, in cui l’equilibrio ha il volto della dissimmetria, in cui la regola nemmeno è trasgredita, ma si fa mostruosa. Ragionare su tutto ciò che comporta quella ‘dolorosa’ soglia è anche ragionare su tutto questo. Ma, seguendo ancora Heidegger, ogni pericolo salva, in quanto contiene, in potenza, anche le possibilità del suo ribaltamento. Chi più rischia, proprio come K. e come Ulisse, è anche colui che si salva. Ma, dice Heidegger, per comprendere questo bisogna anzitutto – e solo, anzi – ascoltare i poeti.

 

https://www.lintellettualedissidente.it/societa/ospitalita-omero-franz-kafka/

 

 

 

DIRITTI UMANI – IMMIGRAZIONI

…QUELLI CHE DANNO DEL RAZZISTA AGLI ALTRI

Maurizio Blondet  9 Gennaio 2019

Anni fa il governo israeliano ha pensato alla possibilità di imporre il test del DNA per gli immigrati provenienti dalle ex repubbliche sovietiche.

Tale test sarebbe servito per accertare la discendenza ebraica degli immigrati.

https://www.timesofisrael.com/russian-speakers-who-want-to-immigrate-could-need-dna-test/

 

https://www.maurizioblondet.it/quelli-che-danno-del-razzista-agli-altri/

 

 

 

Russian-speakers who want to make aliya could need DNA test

Prime Minister’s Office says would-be immigrants from former Soviet Union may be asked to prove Jewish bloodline

By ASHER ZEIGER and TOI STAFF – 29 July 2013,

 

A number of people from the former Soviet Union wishing to immigrate to Israel could be subjected to DNA testing to prove their Jewishness, the Prime Minister’s Office said Sunday.

The policy was reported in Maariv on Monday, one day after the Israeli paper revealed that a19-year-old woman from the former Soviet Union was required to take the test to qualify for a Birthright Israel trip.

The Prime Minister’s Office confirmed that many Jews from the FSU who were born out-of-wedlock can be required to bring DNA confirmation of Jewish heritage in order to be allowed to immigrate as a Jew.

A source in the PMO told Maariv that the consul’s procedure, approved by the legal department of the Interior Ministry, states that a Russian-speaking child born out-of-wedlock is eligible to receive an Israeli immigration visa if the birth was registered before the child turned 3. Otherwise a DNA test to prove Jewish parentage is necessary.

A Foreign Ministry spokesman said that the decision to require DNA testing for Russian Jews is based on the recommendations of Nativ, an educational program under the auspices of the Prime Minister’s Office to help Jews from the FSU immigrate to Israel.

The issue cuts to the heart of Israel’s Law of Return, which allows anybody with a Jewish parent, grandparent or spouse to move to Israel and be eligible for citizenship. Determining who is a Jew — a definition which has evolved along with the religion’s many streams — has led the interior Ministry to create a somewhat byzantine system of checks and rules and has sometimes led applicants, especially converts to Judaism, to fight for the right to immigrate in Israeli courts.

In the original report, Maariv revealed that the issue with Birthright participant Mashah Yakerson lay with the fact that her birth was only registered when she was 3 years old, therefore casting doubts on her parentage. But according to Monday’s report, the issue was compounded by the fact that she was born out-of-wedlock.

Birthright provides free 10-day trips to Israel for young Jewish adults ages 18-26 who have never been to the country in an educational framework.

Dr. Shimon Yakerson said that after appealing the decision he was told that without a DNA test, his daughter would not be permitted to participate in the program or to immigrate to Israel.

“This is blatant racism toward Russian Jews,” Shimon Yakerson told Maariv.

Yakerson said that his daughter’s birth was registered late because he was working at a rabbinical college in the United States when she was born.

Foreign Ministry officials on Sunday told Maariv that they were puzzled by the DNA test requirements, because under the Law of Return, even adopted children of Jews are eligible for Israeli citizenship.

Yakerson has an older daughter, Dina, who immigrated to Israel under the Law of Return in 1990.

https://www.timesofisrael.com/russian-speakers-who-want-to-immigrate-could-need-dna-test/

 

 

La Cina ha aperto campi per «rieducare i musulmani»

La linea dura di Pechino nello Xinjiang dove abitano 11 milioni di iuguri considerati ostili al potere centrale e alla penetrazione degli han

di Guido Santevecchi, corrispondente da Pechino

«Educare e trasformare» i soggetti influenzati dall’estremismo religioso, riabilitarli in «centri di addestramento professionale». È la nuova legge dello Xinjiang, la regione più estesa della Cina, la più occidentale, il bacino di gran parte delle sue risorse di carbone, gas naturale e petrolio. Un Far West abitato da 11 milioni di uiguri musulmani, dove Pechino combatte da anni un movimento ostile al potere centrale e alla penetrazione degli han (la stragrande maggioranza della popolazione cinese).

Da mesi si parla della linea dura seguita dalle autorità, ci sono state proteste internazionali guidate dagli Stati Uniti per le testimonianze insistenti sulla costituzione di campi di rieducazione e sullo spostamento in massa di uiguri e altre minoranze musulmane in altre zone del Paese. Una commissione dell’Onu ha ascoltato rapporti che denunciavano l’internamento di un milione di persone nello Xinjiang. Pechino aveva smentito, accusando gli occidentali di doppiopesismo opportunista: gli estremisti islamici violenti sono sempre definiti terroristi in Europa e America, mentre sono considerati degli oppressi se sono in Cina.

Ora il Comitato permanente dell’Assemblea del popolo di Urumqi, capitale della Xinjiang, ha pubblicato una legge che autorizza «le autorità sopra il livello di contea ad istituire organizzazioni di educazione e trasformazione attraverso dipartimenti di supervisione, come centri di addestramento professionale, per persone influenzate dall’estremismo». Una formula burocratica che si può tradurre in campi di internamento e rieducazione. Oltre a tenere corsi di istruzione professionale, i centri di raccolta, in base alla legge pubblicata ieri a Urumqi e sintetizzata dal “outh China Morning Post, dovranno impartire lezioni di cinese scritto e parlato (la lingua del posto è turcofona) e nozioni sulla legge della Repubblica popolare. In più sono previsti corsi di «educazione ideologica per eliminare l’estremismo e aiutare i soggetti a trasformare i loro pensieri e rientrare nella società e nelle loro famiglie». Se la Cina ha deciso di rendere noto il sistema di rieducazione dei musulmani significa che lo scontro è arrivato a un punto di svolta. Da qualche anno sono stati segnalati mujaheddin uiguri sul fronte siriano, contatti con Al Qaeda e i talebani in Afghanistan, tutti combattenti che sarebbero pronti a tornare nello Xinjiang per lanciare una guerriglia separatista. Ci sono stati attacchi alla polizia nello Xinjiang e attentati terroristici sanguinari in lontane città della Cina: il più grave alla stazione ferroviaria di Kunming nello Yunnan, dove nel 2014 una decina di terroristi armati di coltelli aveva inseguito e massacrato 29 passeggeri e passanti, ferendone altri 140.

Per fermare il contagio Pechino ha cercato di imporre oltre alla sua legge i suoi costumi, vietando le «barbe anomale» ai maschi musulmani dello Xinjiang, decretando anche una campagna contro il cibo e i prodotti halal, visti come rituali islamici che minano la secolarizzazione della regione. Un sistema forse controproducente.

10 ottobre 2018 (modifica il 10 ottobre 2018 | 23:21)

 

https://www.corriere.it/esteri/18_ottobre_10/cina-ha-aperto-campi-rieducare-musulmani-2e0b4a3e-ccbe-11e8-ae88-febf99edce56.shtml?refresh_ce-cp

 

 

 

 

 

“Perché Mimmo Lucano non è Robin Hood”

#milapersiste il blog di Mila Mercadante – 3 ottobre 2018

 

Ogni fatto di cronaca, ogni dibattito e ogni posizione o espressione politica che abbiano a che vedere con il tema dei migranti e dell’accoglienza sembra essere completamente indipendente da qualunque rapporto con la vita reale e con la razionalità. Ormai la questione ha acquisito la prerogativa ideologica dell’assolutezza: il migrante, l’immigrato regolare, l’irregolare, il richiedente asilo e il rifugiato sono feticci linguistici che non descrivono più né gli individui a cui fanno riferimento né la relazione che intercorre tra essi e il contesto sociale. Sparisce del tutto la possibilità di stabilire in maniera oggettiva, franca e lineare un sano legame tra soggetti, esperienze, coscienza collettiva e continuità tra passato, presente e futuro.

 

In luogo di questa possibilità abbiamo davanti a noi informazioni, pareri, leggi e giudizi intercambiabili e mutevoli gestiti da opposti schieramenti come fossero palloni da mandare in porta per vincere una partita.

Il caso Lucano – l’ultimo in ordine di tempo – è indicativo della nostra irrazionalità. Il sindaco di Riace, vantandosi della propria disobbedienza, prima e più che un eroe buono, è vittima di un conformismo che manca di capacità critica e autocritica. Lucano è riuscito a creare una comunità nella quale si integrano perfettamente il vecchio e il nuovo, il nativo e lo straniero, ed è riuscito ad attirare l’attenzione del mondo suscitando grande entusiasmo.

 

Nello stesso tempo è riuscito a distruggere il suo stesso modello per eccesso di zelo, per aver allegramente scavalcato a piè pari regole e norme giuridiche nel nome della bontà. Il suo è un atteggiamento autoritario. La disobbedienza civile, quando viene esercitata da chi occupa un ruolo politico e svolge un incarico pubblico per conto e in rappresentanza dello Stato, diventa pericolosa e per questa ragione non è accettabile. Lucano non è Robin Hood perché quest’ultimo era un uomo del popolo, un brigante, non un governante. Allo stesso modo, tentare di paragonare il comportamento del sindaco di Riace a qualsiasi altra forma di protesta dal basso (no-Tav, per fare un esempio) è completamente errato.

 

In pratica – e lo vediamo bene – il sindaco Lucano ha gettato alle ortiche un modello per aver preteso di eludere le regole che riteneva cattive e sbagliate, per aver preso decisioni autonomamente, creando quindi nuove regole che possono essere altrettanto cattive e sbagliate: mi riferisco in particolare all’appalto per la raccolta dei rifiuti affidato a due cooperative locali che non possedevano i requisiti di legge. Evidentemente ha agito così per evitare gare d’appalto che avrebbero forse avvantaggiato ditte facenti capo alle mafie locali, ma il suo è un criterio arbitrario in ogni caso.

 

Se ogni sindaco, ogni assessore, ogni governatore regionale si assumesse l’onore e l’onere di aggirare le leggi per perseguire scopi che ritenesse encomiabili, migliorativi e più sensati, finiremmo col dare la priorità all’economia psicologica dei singoli. Lucano è vittima di se stesso, della posizione di difesa che ha assunto per risolvere in fretta i problemi nel suo comune rifiutando confronti e scontri con la realtà esterna. Questo atteggiamento esprime una forma di estraniazione sociale. Lo stesso vale per l’esaltazione che spinge oltre la metà degli italiani a ritenere quella singola persona esente da ogni giudizio perché salvatore di destini umani. L’irrazionalità esalta l’anima, presuppone una natura umana buona che agisce contro quella cattiva.

 

Scherziamo? Non è con le allucinazioni collettive che si tiene insieme il tessuto culturale e sociale di un paese. Non è affermando e vantando il primato della coscienza individuale che si aiutano gli altri. Lucano – per quanto in buona fede – se ha mancato deve risponderne.

 

https://www.milapersiste.gaiaitalia.com/2018/10/03/perche-mimmo-lucano-non-e-robin-hood-milapersiste-il-blog-di-mila-mercadante/

 

 

 

 

 

ECONOMIA

L’era del capitalismo di sorveglianza dove “lo scopo è automizzarci” tutti

21 gennaio 2019, di Daniele Chicca

Per l’importanza è stato messo da alcuni critici sullo stesso piano del Capitale di Karl Marx o di quello in chiave moderna di Thomas Piketty. Il saggio della professoressa di Harvard Shoshana Zuboff in cui viene teorizzato il “capitalismo di sorveglianza” presenta una visione della società distopica, purtroppo assolutamente attuale e non futuristica.

Nel libro vengono descritti i metodi di “sorveglianza” di GoogleFacebook e gli altri colossi dell’hi-tech e si evince che nell’era del “capitalismo digitale” in cui viviamo convivono la sorveglianza di Stato e la controparte capitalista. Questo fa sì che i cittadini possano essere suddivisi in due grandi classi sociali: gli osservati e coloro che osservano, che sono entità invisibili.

L’obiettivo finale dei grandi gruppi e multinazionali del mondo digitale è quello di “automizzarci” tutti, ossia riuscire a ridurre la nostra vita a un grande algoritmo. Il problema non è tanto l’algoritmo in sé, quanto il contesto più ampio in cui questo si inquadra. Che ha gravi conseguenze per la democrazia: la conoscenza si traduce in squilibri di potere e nel capitalismo di sorveglianza i cittadini non possono fare affidamento nemmeno su qualcosa di regolamentato. E questo non è tollerabile, secondo Zuboff.

Il “capitalismo di sorveglianza”, scrive Zuboff, “prevede che l’esperienza umana equivalga a materiale grezzo da tradurre in un insieme di dati comportamentali. Anche se alcuni dei dati sono applicati per migliorare i servizi, il resto è dichiarato come un surplus comportamentale e utilizzato per processi manifatturieri avanzati noti come ‘machine intelligence’ e fabbricati poi in prodotti in grado di prevedere e anticipare quello che faremo prima o poi“.

Come avviene nei mercati finanziari, questi prodotti vengono scambiati in una nuova forma di mercato che Zuboff chiama “behavioural futures markets“. I capitalisti del mondo contemporaneo in cui siamo tutti sorvegliati si sono arricchiti enormemente grazie a queste operazioni, poiché “molte società investono nei nostri comportamenti futuri”.

“Automizzarci” tutti, senza il nostro consenso

La parte fondamentale del testo e il suo aspetto innovativo non riguarda tanto la natura della tecnologia digitale, quanto piuttosto la descrizione della nuova forma in continuo mutamento del capitalismo, che ha trovato un modo per servirsi delle nuove tecnologie per il suo scopo finale: renderci degli automi, un insieme di dati.

L’offerta di servizi gratuiti a miliardi di persone consente ai big dell’hi-tech da cui provengono questi servizi di monitorare il comportamento degli utilizzatori e di farlo con un numero impressionante di dettagli, spesso senza il consenso esplicito dell’utente stesso.

Sebbene il modus operandi di Google, Facebook e compagnia sia sotto gli occhi di tutti da tempo, quello che mancava spesso nelle analisi e che invece è presente nell’inchiesta di Zuboff – scrive Il Guardian nella recensione del libro – “è l’intuizione e la capacità di contestualizzarli“, ovvero situarli in un contesto più ampio.

La scrittrice, filosofa e psicologa sociale prova anche a fare qualche previsione, osservando che sebbene la maggior parte di noi pensa di aver a che fare con un mero esperimento per trovare un algoritmo, indecifrabile ai più, in realtà siamo di fronte alla fase finale della lunga evoluzione del capitalismo.

Dalla fabbricazione di prodotti, dalla produzione di massa, passando per il capitalismo manageriale, dei servizi e della finanza, siamo arrivati ora allo “sfruttamento delle previsioni comportamentali, derivato dalla sorveglianza costante degli utenti.

Le informazioni sugli utenti e i dati dei loro comportamenti online sono uno degli asset più preziosi al giorno d’oggi e siamo noi ad avere consegnato le chiavi di accesso a questi beni, senza chiedere nulla in cambio a motori di ricerca e piattaforme social. Quando l’esperto di sicurezza Bruce Schneier ha annunciato che “la sorveglianza è il modello di business di Internet”, stava descrivendo “soltanto una parte di quel mondo su cui Zuboff ci illumina con il suo libro”, commenta John Naughton nella recensione pubblicata sul quotidiano inglese.

Per porre rimedio alle distorsioni che crea questo sistema capitalistico contemporaneo, l’unico modo sarebbe quello di attaccare la radice del problema: l’accumulo implicito di dati.

Tuttavia, spiega la scrittrice, “pretendere privacy dai capitalisti della sorveglianza oppure fare pressioni perché la sorveglianza commerciale su Internet finisca è come chiedere a Henry Ford di rendere ogni Model T a mano o chiedere a una giraffa di accorciarsi il collo. Sono minacce esistenziali che violano il meccanismo di base della sopravvivenza di una entità”.

Ma è il primo passo per una regolamentazione che si è resa ormai indispensabile.

http://www.wallstreetitalia.com/lera-del-capitalismo-di-sorveglianza-dove-lo-scopo-e-automizzarci-tutti/

 

 

 

 

PAOLO SAVONA – PER FARCI TENERE L’EURO, CI FANNO PAURA.

Maurizio Blondet 21 Gennaio 2019

 

VIDEO QUI: https://youtu.be/cVk-eSQRldY

 

https://www.maurizioblondet.it/paolo-savona-per-farci-tenere-leuro-ci-fanno-paura/

 

 

 

Arrivano di nuovo le pagelle delle agenzie di rating

8 settembre 2018

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Arrivano le nuove pagelle delle agenzie di rating sull’Italia! La maggioranza dei media e tanti politici sono contenti come a Natale, sotto l’albero. Finalmente sapremo che i nostri titoli si avvicinano sempre più al livello di “spazzatura” e la cosa sembra consolare molti. In passato, abbiamo più volte messo in guardia da queste “incursioni”. Lo abbiamo fatto quando al governo c’era Berlusconi e le opposizioni usavano i rating per provare che tutto andava male. Lo abbiamo fatto quando al governo c’erano i vari governi del centrosinistra e le opposizioni sventolavano le pagelle negative. Lo facciamo anche ora con il nuovo governo e le nuove opposizioni.

I rating di Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch non sono valutazioni fatte da enti indipendenti ed eticamente impeccabili. Le agenzie sono imprese private con base negli Usa che hanno la pretesa di giudicare le economie del resto del mondo. In America, invece, sono annualmente tenute d’occhio dalle istituzioni di controllo per scovare eventuali conflitti d’interesse e non sono per niente amate dalle autorità di governo. Il loro ruolo nefasto e corresponsabile nella Grande Crisi del 2007-8, i loro trascorsi e i legami con le grandi banche e con la finanza speculativa, non depongono bene.

Fitch è posseduta dal colosso della comunicazione Hearst, che ha capitali e partecipazioni in centinaia di differenti business privati. Tra i suoi executive vanta dirigenti che hanno lavorato con banche e finanziarie come Merryl Linch, Lehman Brothers, Goldman Sachs , l’inglese Lloyd Bank, la Beneficial Corporation, ecc.

Moody’s Corp. ha un fatturato di 4,2 miliardi di dollari per i suoi servizi finanziari e di rating. I suoi grandi azionisti sono fondi d’investimento e grandi banche. I suoi dirigenti si sono fatti le ossa nella Federal Reserve, nella City Group, nella JP Morgan Chase, nelle multinazionali della farmaceutica e del petrolio, come l’ExxonMobil.

La S&P Global controlla anche l’omonima agenzia di rating. Prima era controllata dal conglomerato Mc Graw Hill Financial, una multinazionale dei servizi finanziari, che ha cambiato nome. I grandi azionisti sono i chiacchierati fondi d’investimento Black Rock e Vanguard. Vanta dirigenti che sono stati in posizioni di comando alla City Bank, alla JP Morgan Chase, alla banca olandese ING, al francese  Credit Agricole, al Credit Suisse, e anche in grandi corporation tra cui la PepsiCo, la Lockeed Martin (tecnologia militare), ecc.

Basterebbe una veloce occhiata ai loro siti internet per farsi un’idea precisa dei tanti passaggi dal mondo della grande finanza e della speculazione a quello delle grandi corporation che dominano i mercati e viceversa. E’ più che opportuno, quindi, ricordare quanto detto su di loro dalle massime autorità americane. Il documento “The financial crisis inquiry report”, preparato da una Commissione bipartisan e pubblicato dal governo americano nel 2011, evidenzia in oltre 650 dettagliatissime pagine le nefandezze perpetrate prima e durante la Grande Crisi finanziaria del 2007-8. Così sintetizza: “Noi affermiamo che i fallimenti delle agenzie di rating sono stati delle cause essenziali della distruzione finanziaria. Le tre agenzie sono state le provocatrici chiave del meltdown finanziario. I titoli legati alle ipoteche immobiliari, centrali nello scatenamento della crisi, non potevano essere valutati e venduti senza il marchio di approvazione delle agenzie. Gli investitori, spesso in modo cieco, hanno fatto affidamento sui loro rating. In alcuni casi erano persino obbligati a comprare tali titoli, pena un aggravamento degli standard relativi alle regole sui capitali loro impostogli. La crisi non sarebbe potuta avvenire senza le dette agenzie. I loro rating, prima alle stelle e poi repentinamente abbassati, hanno mandato in tilt i mercati e le imprese”.

Anche il dossier del Senato americano “Wall Street and the financial crisis: anatomy of a financial collapse”, pubblicato nel 2011, sulla base di approfondite indagini e di numerose audizioni, dettaglia il ruolo centrale e nefasto delle agenzie nel provocare la Grande Crisi. Evidenzia, in particolare, il loro ruolo fraudolento nel propinare titoli taroccati dai loro rating. Non deve quindi sorprendere se nel 2015 solo la S&P ha pagato 1,5 miliardi di dollari di multa per simili comportamenti fraudolenti. Una sanzione monetaria molto conveniente, sia per il modesto importo, sia perché l’agenzia ha evitato che le indagini andassero più a fondo, facendo eventualmente emergere risvolti più scabrosi e penalmente perseguibili.

Evidenziamo tutto ciò certo non per occultare gli evidenti problemi economici del nostro paese. Ci sembra, però, insopportabile la mancanza di critiche nei confronti delle citate agenzie private di rating, che, dopo aver contribuito grandemente a provocare la crisi finanziaria più grande della storia, di cui il mondo e l’Italia soffrono ancora, imperterrite, e riverite, proseguono a dare pagelle a tutti, governi e imprese.

Se i loro rating fossero degli esercizi innocui di dispensare giudizi non richiesti, si potrebbe lasciarle giocare. Purtroppo i rating sono presi in considerazione dai mercati per giudicare le varie economie nazionali e, di conseguenza, per definire anche i tassi d’interesse sul debito pubblico. Si rammenti, inoltre, che la Bce li usa per definire l’affidabilità delle obbligazioni pubbliche dei paesi membri dell’Ue e per decidere se accettare o no tali titoli in garanzia per operazioni di credito e di finanziamento.

Ciò, in verità, ci sembra una cosa del tutto “indigesta”.

 

*già sottosegretario all’Economia

**economista

 

 

http://www.pinonicotri.it/2018/09/arrivano-di-nuovo-le-pagelle-delle-agenzie-di-rating/

 

 

 

LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI

Come creare disoccupazione: ieri in Ghana, oggi in Italia

Scritto il 05/10/18

 

Ci hanno fatto un tale lavaggio del cervello, in questi anni, che risulta sempre ostico raccontare cos’è veramente la moneta; capirlo è fondamentale per la nostra felicità, il nostro lavoro, i nostri figli e il futuro che ci attende. Poi arriva un americano senza la kappa, un genietto un po’ nerd, ma soprattutto incapace di mentire, che spiega queste cose con la stessa carica di umanità e chiarezza che avevano i nostri nonni quando ci insegnavano a sbucciare una mela. In modo semplice, pratico. Quest’uomo – il businessman Warren Mosler –  da diversi anni propone approfondimenti sulla finanzae sulla moneta che sono comprensibili a tutti, e questo accade perché lui ha veramente capito di cosa si tratta, ne conosce la storia e sa come funziona. Invitiamo tutti a diffidare di coloro i quali ci parlano di economiacitando la moneta esogena e quella endogena, o usando espressioni tipo massa monetaria M1, M2, ecc. Diffidate di costoro: spesso o non hanno ben chiaro quello che stanno dicendo, o la loro zucca è piena di ideologia e si avvalgono dei tecnicismi accademici per confondere le acque e svicolare dal nocciolo della questione. Sul ruolo della moneta, sul suo profondo significato, riportiamo una citazione storica di Mosler sentita con le nostre orecchie a Treviso nel 2012 e più recentemente a Chianciano (ndr, da storici ci siamo permessi di limare il racconto per renderlo più preciso).

“Come creare la disoccupazione”. Nell’Ottocento, il Regno Unito si è recato nel Ghana per espandere i suoi profitti; in Africa a quel tempo non c’era alcun sistema monetario. Non esisteva alcuna disoccupazione presso la popolazione africana: tutti si aiutavano a vicenda, c’era molta attività sociale. Gli uomini si occupavano di cacciare, pescare e procurarsi il cibo, le donne dei bambini e della casa, le nonne si prendevano cura dei bambini di chi lavorava; insomma, c’erano più cose da fare che persone e tempo per farle. Aggiungiamo, per ulteriore chiarezza, che le case in Ghana erano pregevoli, ben fatte e soprattutto adatte all’ambiente circostante. Per fare un esempio: se qualcuno ha visto i “masi” frequenti in Trentino Alto Adige, ecco, può avere un’idea più chiara di quale tipo di edifici fossero. Come sono riusciti, allora, gli inglesi, a farli lavorare nelle piantagioni di caffè se tutti lavoravano? Se ne sono venuti fuori con un’idea geniale: hanno detto a tutti che ci sarebbe stata una tassa sulle abitazioni di ciascuno; tutti avrebbero dovuto pagare ad esempio dieci sterline, altrimenti le loro case sarebbero state bruciate dagli inglesi. Cos’è successo allora? Che tutti si sono chiesti: «Come facciamo ad avere questa moneta per pagare le tasse?». Risposta: «Se venite a lavorare nelle nostre piantagioni di caffè, vi pagheremo una sterlina all’ora».

In questo modo tutti sono andati a lavorare nelle piantagioni per evitare che la loro casa fosse bruciata! Le tasse e il sistema monetario hanno quindi creato la disoccupazione. E sono stati i britannici a fornire quella moneta, necessaria per pagare le tasse ed evitare che le case fossero bruciate. Ma hanno dovuto prima crearla e “spenderla”, e poi riprendersela indietro con le tasse: giusto? E se gli inglesi avessero speso più di quanto avevano tassato, ciò avrebbe significato che gli africani avrebbero potuto risparmiare qualcosa. Cos’avrebbero dovuto fare gli indigeni? Aspettare che le loro case venissero bruciate? Ovviamente no: sono andati a lavorare per gli inglesi, e magari hanno anche cercato di mettere da parte qualcosina. Ma – e qua viene il bello – se troppe persone avessero chiesto un lavoro, gli inglesi avrebbero ridotto le tasse: non è che rimandavano le persone a casa e poi gliela bruciavano lo stesso, come invece stiamo facendo oggi con il demenziale progetto dell’Unione Europea.

(Massimo Bordin, “Come creare disoccupazione: ieri in Ghana, oggi in Italia”, dal blog “Micidial” del 30 dicembre 2015).

 

http://www.libreidee.org/2018/10/come-creare-disoccupazione-ieri-in-ghana-oggi-in-italia/

 

 

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

UNIONE EUROPEA – ex STATO DI DIRITTO

www.maurizioblondet.it – 16 GENNAIO 2019

 

Il fiordaliso è stato usato come simbolo segreto dai nazisti austriaci negli anni’30, prima dell’Anschluss (Guardian)

 

Siccome lo AfD ha appena votato di fare campagna per l’uscita della UE,  “André Poggenburg si è dimesso dal suo incarico come leader regionale dell’AfD nello stato orientale della Sassonia-Anhalt lo scorso anno. Aveva dato ai turchi dei “cammellieri”. Ha fondato un nuovo partito, Aufbruch der Deutschen Patrioten, che usa il simbolo di cui sopra.

 

Occhio a come vesti
La CNN ha fatto la spia: in Germania, i giovani di estrema destra usano stili di vestiario in codice: “A volte, sequenze alfanumeriche di numeri e lettere rappresentano frasi razziste o nazionaliste. (“2YT4U”, per esempio, significa “troppo bianco per te.”) …. Una maglietta viola che dice, in caratteri cubitali bianchi, “IL MIO COLORE PREFERITO È BIANCO”, potrebbe essere letta come un messaggio di suprematismo bianco o come un gioco umoristico sul colore della maglietta.

Con l’aiuto del governo ucraino(noto stato di diritto) si scoprono terroristi neri tedeschi:

Un parlamentare di estrema destra di Alternativa per la Germania (AfD) è stato accusato di aver ordinato un attacco doloso false flag nel tentativo di screditare il governo ucraino. Manuel Ochsenreiter nega tutte le accuse, ma è noto per avere legami con i separatisti filorussi.

https://m.dw.com/en/afd-worker-accused-of-ordering-arson-attack-in-ukraine/a-47093618

 

 

 

 

 

L’Afrique francophone et le CFA

 

par Mila Mercadante #Afrique twitter@milapersiste #Cfa

 

Les pays africains de la zone francophone sont:

 

le Mali,

le Burkina Faso,

la Côte d’Ivoire,

le Gabon,

le Sénégal,

le Cameroun,

la République démocratique du Congo,

le Togo,

le Bénin,

la République centrafricaine,

le Niger,

la Guinée équatoriale,

les Comores,

 

pour un total de plus de 150 millions d’Africains.

 

Les anciennes colonies – après un long et difficile processus de libération entravé par une répression sévère – ont obtenu un résultat qui n’est pas positif: théoriquement elles ne sont plus des colonies, en fait elles sont encore totalement dominées par la France. La domination s’exerce par le biais de l’instabilité politique et de la monnaie, le CFA, divisé en deux monnaies (zone centrale, zone ouest) non interchangeables et qui n’ont de valeur que dans les zones dans lesquelles elles circulent. Le taux de change du franc CFA (d’abord avec le franc, puis avec l’euro) est fixé, la devise est transférable et convertible et les réserves de change sont centralisées. 50% des réserves en devises des pays susmentionnés (plus 20% utilisés pour couvrir tout passif) doivent être déposés dans les coffres de la Banque de France à Paris. Cela signifie que si, par exemple, un État exporte et génère 1 milliard de dollars par an, il doit en donner 500 millions à la France, qui s’étoffe d’argent gratuit. Les transferts sont effectués par trois banques: la Banque centrale des États de l’Afrique de l’Ouest, la Banque des États de l’Afrique centrale et la Banque des Comores, qui appartiennent à la zone CFP (colonies françaises du Pacifique). Ces banques africaines sont pratiquement sous le commandement de la France, car les membres de son conseil d’administration français jouissent du droit de veto exclusif sur toute décision. Bien entendu, la banque de référence du CFA n’est plus la Banque centrale française, mais la BCE, qui coordonne les trois banques susmentionnées. Les choses ont en fait empiré avec l’euro.

La transférabilité caractéristique du CFA génère inévitablement une fuite de capitaux d’Afrique vers la France. Entre 1970 et 2008, la fuite de capitaux en provenance des 14 pays de la zone CFA s’élevait à 850 milliards de dollars, alors qu’elle dépasse aujourd’hui les 1200 milliards de dollars. Quand il était président, Mitterrand avait interdit la fuite des capitaux de la région francophone. La France refuse ces capitaux et les banques centrales africaines ont donc contraintes de racheter leur argent en utilisant une monnaie forte (l’euro ou le dollar). Comment le font-ils? Ils puisent dans les réserves détenues par le Trésor français. Un bel appareil. Un autre aspect à considérer concerne les importations: la zone CFA est contrainte d’importer des États-Unis et de l’Europe une grande quantité de matières utilisées pour la production, et ce n’est pas un hasard si, au lieu de soutenir l’agriculture, les banques soutiennent les importations. Une situation insupportable: alors que des milliards circulent, les populations africaines vivent dans la pauvreté absolue.

 

La fausse libération

61% des coups d’État survenus sur le continent africain en 50 ans avaient pour théâtre les pays francophones. Le chaos permet à ceux qui commandent de consolider le pouvoir politique quand il vacille. La soi-disant libération des colonies s’est faite progressivement. Le premier chef de gouvernement qui en 1958 décida courageusement de quitter l’empire colonial sans faire de compromis fut Sekoù Touré, en Guinée. Cette fois, les Français ne l’ont pas tué mais ils ont laissé le pays après avoir complètement détruit tous les bâtiments publics, tous les livres, tous les outils et la machinerie des écoles, des entreprises et des instituts de recherche, après avoir tué tous les animaux dans les fermes, après avoir allumé des feux et avoir empoisonné tous les produits alimentaires.

Une méthode semblable à la mafia, un avertissement aux autres chefs d’État, afin qu’ils comprennent une fois pour toutes le prix à payer en cas de non-coopération. Immédiatement après, le dirigeant sénégalais Senghor a choisi de traiter la libération en amitié avec la France, c’est-à-dire en respectant son diktat. La peur a convaincu presque tout le monde de céder au chantage et aux accords de licou pour regagner la liberté, ou plutôt une fausse liberté. Ceux qui ne se sont pas inclinés ont été assassinés.

 

Les règles imposées

Les “Accords de Coopération” contiennent plusieurs règles, toutes à l’avantage de la France: la confiscation automatique des réserves nationales des 14 pays; le droit de veto pour accéder librement au crédit bancaire que les banques centrales d’Afrique ont avec le Trésor français, qui a le droit d’accorder ou non un retrait; le droit pour les Français d’acheter ou de refuser en premier lieu toute sorte de matière première ou de ressource naturelle de ces pays; droit de la France sur tous les marchés publics et la gestion des principaux actifs économiques (transports, électricité, eau, ports, banques, agriculture, commerce et construction); le droit exclusif aux fournitures et à l’entraînement militaires; le droit d’intervenir militairement en cas de menaces contre les intérêts français; l’obligation de s’allier avec la France en cas de conflit mondial.

 

Kadhafi et le dinar d’or

Dans la zone francophone il existe un mécontentement persistant qui devient parfois évident. En 2017, dans certains États africains, de violentes manifestations ont eu lieu contre le CFA. En 2015, le dirigeant tchadien avait révélé que les armes saisies à Boko Haram lors d’une intervention militaire étaient à moitié françaises. Le Tchad a prétendu pouvoir quitter le CFA d’ici 2018. La nouvelle des découvertes d’armes françaises a également été confirmée par le Niger et le Cameroun. Entre 2015 et 2018, les djihadistes de Boko Haram ont attaqué le Tchad à 32 reprises, faisant 651 victimes. Le Cameroun a perdu 1880 entre civils et militaires. Le Niger a été attaqué 100 fois, avec 893 victimes. Toutes les actions de déstabilisation en zone francophone (et ailleurs) ont toujours une signature lisible. Il est bon d’ouvrir une parenthèse pour rappeler que quand Hillary Clinton était secrétaire d’État, elle a refusé d’inscrire le nom de Boko Haram sur la liste noire des organisations terroristes étrangères. John Kerry l’a fait en 2013. La charmante couple Clinton était trop impliquées dans les affaires au Nigeria avec la Fondation Clinton et la Clinton Global Initiative.

Le dernier épisode frappant du renversement d’un régime qui constituait une menace pour la France, les États-Unis et l’Union européenne a été l’assassinat de Kadhafi le 20 octobre 2011, auquel Sarkozy a activement participé. Au même moment, il y avait la défenestration du chef du gouvernement ivoirien, Glabo, qui voulait doter le pays de sa propre monnaie indépendante. Kadhafi – qui possédait d’immenses réserves d’or – appuya fermement la région africaine francophone dans sa tentative de se libérer du joug CFA et refusa l’établissement de bases militaires occidentales en Afrique. Le projet ambitieux du dirigeant libyen était de créer une monnaie africaine forte (le dinar en or) capable de rivaliser avec l’euro et le dollar. Adieu exploitation, et lâche le pétrole. Un affront similaire a conduit l’OTAN à intervenir en Libye pour faire tomber le régime, comme le prouvent de nombreuses sources officielles et un long reportage rédigé pour Foreign Policy par Brad Hoff, journaliste indépendant et vétéran de la marine américaine, ainsi que Cela ressort clairement de certains e-mail d’Hillary Clinton pendant sa période au Département d’État. L’idée d’une monnaie panafricaine qui a pris le pouvoir à la France en Afrique est sans doute la principale raison pour laquelle Sarkozy a attaqué la Libye lors d’un raid aérien dans lequel Kadhafi a été touché, puis capturé par des rebelles sous contrôle américain et enfin tué.

 

La déclaration des droits et la réalité

À l’ordre du jour de l’Union européenne, la solution du problème des CFA devrait être la première des priorités. La Déclaration sur le droit au développement – Résolution 41/128 de l’Assemblée générale des Nations Unies du 4 décembre 1986 – se lit comme suit: “Article 1 – Le droit au développement est un droit humain inaliénable en vertu duquel toute personne humaine et tous les peuples ils ont le droit de participer et de contribuer et de bénéficier du développement économique, social, culturel et politique dans lequel tous les droits de l’homme et toutes les libertés fondamentales peuvent être pleinement réalisés. 2. Le droit humain au développement implique également la pleine réalisation du droit des peuples à l’autodétermination, ce qui comprend, sur la base des prévisions des deux pactes internationaux relatifs aux droits de l’homme, l’exercice de leur droit inaliénable à la pleine souveraineté sur toutes leurs richesses et ressources naturelles. 3. Les États ont le droit et le devoir d’élaborer des politiques nationales de développement appropriées visant à l’amélioration constante du bien-être de l’ensemble de la population et de tous les individus, sur la base de leur participation active, libre et significative au développement et à une distribution équitable des avantages en résultant. Article 5 Les États prendront des mesures décisives pour éliminer les violations étendues et flagrantes des droits de l’homme des peuples et des individus lésés par des situations telles que celles résultant de l’apartheid, de toutes les formes de racisme et de discrimination raciale, du colonialisme, de la domination et de l’occupation étrangère ; agression, ingérence étrangère et menaces contre la souveraineté nationale, l’unité nationale et l’intégrité territoriale, menaces de guerre et refus de reconnaître le droit fondamental des peuples à l’autodétermination.

 

https://www.milapersiste.gaiaitalia.com/2019/01/14/lafrique-francophone-et-le-cfa-milapersiste/

 

 

 

 

POLITICA

“Corriere? C’è chi vuole un nuovo Monti e l’Italia sempre vassalla dell’Ue”

INTERVISTA/ Il celebre economista Giulio Sapelli parla in un’intervista ad Affaritaliani.it del “caso Corriere della Sera”

di Lorenzo Lamperti – Venerdì, 18 gennaio 2019

 

Il celebre economista Giulio Sapelli parla in un’intervista ad Affaritaliani.it del “caso Corriere della Sera”, sul quale il senatore del M5s Elio Lannutti ha presentato un esposto alla procura di Milano e l’eurodeputato della Lega Mario Borghezio ha presentato un’interrogazione al Parlamento europeo.

Professor Sapelli, che idea si è fatto del “caso Corriere”?

Qui abbiamo da una parte un corrispondente, Ivo Caizzi, che dà delle informazioni sostenute dai fatti. Dall’altra abbiamo Fubini che è un ideologo. Fubini è uno come Mario Monti, fa parte di quelli che interpretano attivamente la linea di un europeismo che definirei irriflessivo. Una linea espressa da molti altri personaggi illustri prima di lui, come per esempio Carli il quale, a differenza di Baffi, pensava che l’Italia si potesse salvare solo aggrappandosi a un vincolo esterno. Si tratta di una tradizione tutta italiana che deriva dalle nostre debolezze storiche.

Come si inserisce il Corriere in questo ragionamento?

Fubini e il Corriere della Sera sono ancora convinti che non esista salvezza senza il vincolo a dei poteri esterni, nella loro visione rappresentati ora dall’Unione europea. Se vogliamo fare un discorso relativo al pensiero storico, la potremmo chiamare “linea Guicciardini”.

E dall’altra parte che cosa c’è?

Dall’altra parte c’è quella che potremmo definire “linea Machiavelli”, cioè quella che all’epoca voleva un “imperatore” italiano e oggi vuole semplicemente restituire la piena sovranità all’Italia. La linea di Fubini e compagnia è quella che ha portato l’Italia e la stessa Europa alla deflazione, la Grecia alla spoliazione. E’ una linea composta da un concentrato di economia che da scienza sociale si trasforma tragicamente in aritmetica, oggi rinnegata anche da Juncker e dalla Merkel che fanno finta di essere pentiti perché hanno paura di quanto può accadere alle prossime elezioni europee.

Soros può aver avuto un ruolo, come sostengono gli accusatori?

Ecco, qui il discorso non lo seguo. Io parlo di idee. La “linea Guicciardini” va contestata pragmaticamente e non tirando in ballo Soros, che per quanto so io è un grande filantropo.  Altrimenti si rischia di alimentare l’antisemitismo.

Nel suo esposto Lannutti presenta una cronologia di fatti volta a dimostrare, secondo la sua opinione, che il Corriere sia stato usato come arma da chi voleva colpire l’Italia. E’ uno scenario possibile?

Lannutti è un mio amico ma non credo questa discussione vada affrontata tirando in ballo i magistrati. Discutiamo con la battaglia delle idee. Habermas e Ratzinger dovrebbero guidare la nostra linea di condotta. Polemizziamo con Fubini e il Corriere in un agorà pubblico. Un giorno Hegel tornò a casa dalla moglie e disse: “Ho visto lo spirito assoluto a cavallo”. Si riferiva a Napoleone. A noi qualche anno fa è apparso Monti in bicicletta, un personaggio costruito dal Corriere. Ora cercano di costruire nuovi imitatori. Sposo questa linea? Ovviamente no, ma discutiamo intellettualmente per favore.

Lei ha però detto qualche tempo fa che i giornali italiani sono diretti dalla “borghesia vendidora”. Che cosa intendeva?

Intendo che giornali come Corriere della Sera e Repubblica hanno sposato quella linea di europeismo irriflessivo che ritiene che l’Italia non abbia le forze proprie necessarie ad autodirigersi.  Sono europeisti subalterni. Io sono un europeista non subalterno e quando parlo di “borghesia vendidora” mi rifaccio a grandi economisti sudamericani che mi rendo conto non conosce nessuno visto che i nostri economisti non leggono nulla.

E il governo italiano è più vicino alla “linea Guicciardini” o alla “linea Machiavelli”?

Credo che, nonostante gli errori commessi nella manovra, il governo abbia un approccio non subalterno grazie al lavoro di Conte ma soprattutto di Tria e Savona, quest’ultimo uno dei più grandi economisti italiani.

http://www.affaritaliani.it/cronache/europa-italia-sapelli-intervista-582565.html?refresh_ce

 

 

 

 

SCIENZE TECNOLOGIE

Times ha svelato l’ultima paura di Hawking

14.10.2018

Il fisico teorico Stephen Hawking temeva la comparsa dei “superuomini” con il DNA modificato, scrive il Sunday Times citando l’ultimo libro dello scienziato.

Prima di morire, Hawking ha scritto “Risposte brevi a domande serie”, che sarà pubblicato il 16 ottobre. In esso, il fisico ha condiviso i timori che in futuro le persone saranno in grado di apportare modifiche al DNA per soldi e per migliorare le diverse qualità del corpo.

“Forse, contro l’ingegneria genetica, le persone adotteranno alcune leggi, ma alcuni non saranno in grado di superare la tentazione di migliorare le qualità umane, come la memoria, la resistenza alle malattie, l’aspettativa di vita” scrive il giornale citando estratti dal libro.

Secondo Hawking, il “miglioramento” dell’uomo porterà al fatto che si creerà una casta più bassa, che arriverà anche a morire.

Hawking è un divulgatore scientifico e autore del libro “Breve storia del tempo”, che ha venduto milioni di copie, ha studiato il problema della singolarità cosmologica primaria dell’Universo, da cui deriva, secondo la teoria del Big bang, la continua espansione.

È morto il 14 marzo al 77esimo anno di vita.

https://it.sputniknews.com/mondo/201810146628599-comparsa-superuomini-hawking-divulgatore-scientifico-sunday-time/?utm_source=

 

 

 

 

STORIA

Il Sessantotto e i suoi “maghi” occulti

Maurizio Blondet  21 Gennaio 2019

di Roberto Marchesini

Il 2018 è finito e ha portato con sé alcuni anniversari tra i quali i cent’anni della fine della Prima Guerra Mondiale e i cinquant’anni del Sessantotto.

Entrambi gli anniversari, a dire la verità, mi hanno lasciato piuttosto interdetto.

 

Lo zombie della sinistra, ad esempio, forse per la prima volta da quando ne ho memoria, ha tentato la celebrazione della fine della «inutile strage» dopo anni di pacifismo, internazionalismo e d insulti alle forze armate durante la parata del 4 novembre. Basti citare il discorso del giovane sindaco PD del mio paese che, dopo aver declamato la lettera di un volontario, ha proseguito con queste parole: «[…] la Grande Guerra coinvolse anche indirettamente l’intera popolazione italiana, donne e bambini compresi: dopo il 1915 era infatti necessario sostenere la guerra economicamente e ideologicamente e impedire la diffusione del disfattismo e delle posizioni pacifiste. […] Ma cosa ne è oggi di questa festa? La nostra società arida e disperata è ancora in grado di scaldare il proprio cuore per il senso di Patria? […] Con questo spirito abbiamo 4 lanciato anche quest’anno la richiesta di appendere il tricolore – simbolo della nostra identità nazionale – ai balconi!». Anche il nazionalismo vien buono, pur di «sbarrare il passo alla marea montante del populismo».

 

Non meno perplessità ha suscitato in me la rievocazione del Sessantotto. Ricordo il quarantesimo anniversario, celebrato con orgoglio sui media da vari esponenti dell’intelligentsia italiana. Dove sono spariti tutti, dieci anni dopo? Gli unici a ricordare l’annus terribilis sono stati gli esponenti del «tradizionalismo» che hanno dato dell’evento una lettura stantia e piuttosto inutile. Mediante la ripetizione di schemi mentali – ormai, per la verità, piuttosto logori – hanno descritto quel fenomeno come la conseguenza meccanica e necessaria di un processo culturale rivoluzionario associandolo al progressismo, al PCI, alla «sinistra». Un contagio culturale avrebbe travolto spontaneamente l’occidente, dagli USA all’Italia.

Una lettura utile decenni fa quando, in piena Guerra Fredda, un po’ di manicheismo aveva anche ragion d’essere; ma oggi?

 

Scorrendo i fatti, ad esempio, ci si rende conto che il Sessantotto – agitazioni studentesche di carattere violento, che ebbero ripercussioni politiche e che furono accompagnate dalla rivoluzione sessuale, dalla diffusione dell’uso di droghe e da un certo tipo di musica – partì, in Europa, nei paesi governati dal socialismo sovietico (Polonia e Cecoslovacchia). Come si spiega?

E come si spiega che questo fenomeno contagiò (spontaneamente?) il resto dell’Europa nonostante la rigida barriera ideologica rappresentata dalla «cortina di ferro»? Che mezzi avrebbe usato il «contagio culturale spontaneo», visto che quelli culturali gli erano preclusi?

E come si spiega che il Regno Unito non ebbe un Sessantotto? Certo, conobbe la decadenza dei costumi; certo, ci fu Mary Quant e la sua minigonna. La quale fece fallire certamente diversi matrimoni, ma… quanti governi?

 

E poi, sinceramente: davvero il Sessantotto fu un fenomeno «sovietico»? I capelli lunghi sono stati importati dalla Russia, o piuttosto dagli USA? La colonna sonora del Sessantotto fu la musica folk o i cori russi? L’Eskimo non è forse la giacca usata dall’esercito statunitense durante la guerra di Corea? E la comparsa dei marchi commerciali sui capi d’abbigliamento (prima vietati per decenza)? Le Clarks e i Jeans da dove arrivano? «Vietato vietare» è uno slogan sovietico o, piuttosto, liberista?

 

Infine: non è forse vero che la Russia sovietica e i partiti comunisti europei furono il bersaglio e il nemico dei sessantottini? In Polonia e in Cecoslovacchia il Sessantotto causò diversi problemi ai rispettivi regimi sovietici; in Francia durò solo un mese grazie all’alleanza tra De Gaulle (avvicinatosi alla Russia e ritrattosi dalla NATO) e il PCUS; in Germania (dove vide protagonisti gli intellettuali della Scuola di Francoforte giunti dagli USA) portò al potere il doppio agente (Stasi e CIA) Willy Brandt… E in Italia? Basti rileggersi la Poesia di Pasolini dedicata agli scontri di Valle Giulia («Mi dispiace. La polemica contro il Pci andava fatta nella prima metà del decennio passato. Siete in ritardo, cari»), o ricordare chi si prese i primi sampietrini per capire il rapporto tra il Sessantotto e il PCI. Oppure riflettere sulle conseguenze del Sessantotto sulla politica italiana. Nacque in quell’anno l’alternativa «a sinistra» del PCI: una sinistra che guardava agli USA e non alla Russia, liberista e non sovietica, aggressiva solo contro le leggi morali e religiose. Nacque il lettore di Repubblica, che non aveva voluto essere il lettore de Il Mondo o de L’Espresso; e cominciò a morire il lettore de L’Unità.

 

Insomma: la faccenda Sessantotto è più complessa di come viene raccontata e ricordata. Per fortuna, in questo strano anniversario, è stato pubblicato anche un libro che da ragione di questa complessità. Si tratta de Il Sessantotto. Magie, Veleni & Incantesimi SPA (Solfanelli, Chieti) di Danilo Fabbroni. Un’opera che dà ragione di questa complessità riportando una mole immensa di notizie, nomi e fatti che amplifica a dismisura l’orizzonte del Sessantotto. Non si tratta di un libro complottista: non nomina (né allude ad) alcun «grande vecchio» e, a dir la verità, non parla nemmeno di complotti. Piuttosto, fissa su carta una serie di puntini, lasciando al lettore la facoltà di unirli per far emergere un disegno. Non è quindi, un libro di facile lettura. Tuttavia, aiuta a comprendere la complessità e la vastità della realtà sociale e politica nella quale siamo immersi e, di conseguenza, ad evitare manicheismi e semplificazioni eccessive.

 

Al seguente link si può assistere alla presentazione che Danilo Fabbroni ha tenuto presso la Domus Orobica:

https://www.youtube.com/watch?v=hPVAV6-oUwU&t=112s

 

Roberto Marchesini

https://www.maurizioblondet.it/il-sessantotto-e-i-suoi-maghi-occulti/

 

 

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