La fine della spinta industriale ed economica della ex-italia

La fine della spinta industriale ed economica della ex-italia

Manlio Lo Presti (Scrittore ed esperto di banche e finanza)

Fonte immagine: https://www.instagram.com/espressosettimanale/?e=9cc88736-6a48-4638-862c-20eb843cf406&g=5

La vita democratica di un Paese è costruita su confronti serrati fra maggioranza e opposizione. Non è democrazia l’ostruzionismo avente lo scopo di rompere le gambe ai governi in carica. Non è democrazia una lotta politica che non tiene in considerazione le esigenze di una popolazione che ha eletto sia chi governa sia chi sta all’opposizione. L’opposizione seria esprime critiche, sorveglia che l’operato della maggioranza sia conforme al dettato costituzionale, alle leggi dello Stato, alle direttive comunitarie, agli accordi internazionali. Una minoranza credibile non si barrica ossessivamente dentro una mitraglia di ostruzionismi e di cacce all’uomo. L’opposizione è autorevole quando è in grado di criticare ma contemporaneamente di proporre un piano strategico alternativo e/o integrativo alle linee di governo. Diversamente, si può tranquillamente parlare di guerriglia, di guerra civile strisciante spesso alimentata ed organizzata da registi ben consapevoli di portare un Paese bersaglio al caos.  Faccio riferimento a registi extra nazionali che stanno tentando da decenni di demolire progressivamente l’ossatura produttiva della ex-italia.

Non ha conosciuto tregua la depredazione delle imprese condotte volutamente sull’orlo del collasso per far crollare il loro valore e acquisite per pochi spiccioli. Nessuno si domanda chi sono stati o sono i responsabili di quel collasso: gente che non viene punita né subisce sequestri dei propri beni nazionali e soprattutto quelli nascosti all’estero. Non è un’operazione difficile. Le ricchezze estorte sono identificabili con un sagace uso dei servizi segreti provvisti di un notevole giacimento informativo. Le strutture spionistiche nazionali sanno in ottuplice copia dove rintracciare i luoghi dove i capitali sono fuggiti. Ma attendono un ordine dall’alto che – kafkianamente – non arriva mai. Manca quella che eufemisticamente viene detta “volontà politica”.

L’azienda industriale meccanica torinese costituisce un emblematico esempio della mancata politica di ammodernamento programmato delle aree di produzione elettromeccanica in Italia. Gli esponenti industriali hanno preferito dirottare gli immensi profitti in strutture finanziarie oltremare. Contavano sul credito bancario mai negato, sui generosi finanziamenti statali a fondo perduto e su normative ad hoc spesso votate in periodi festivi o estivi dai classici “governi balneari”. All’interno di questo quadro “facilitato”, non importante né era urgente la spinta all’aggiornamento tecnologico, alla ricerca di soluzioni organizzative flessibili, di relazioni più civili e non tiranniche con le organizzazioni sindacali e con il territorio costituito da interessi locali. Stesso atteggiamento collusivo e scarsamente competitivo era presente in quasi tutti i protagonisti dell’attività economica italiana. Un atteggiamento miope certificato dalla sequenza di “considerazioni finali” dei governatori della nostra Banca centrale, tutti scientificamente e cinicamente inascoltati.

Nasce da lontano la storia di questa azienda non più torinese ingoiata dal tifone globalista e finita nelle mani di una casata internazionale che ha spodestato la vecchia dinastia e che non ha alcuna attenzione per gli interessi nazionali. Anche questi nuovi arrivati considerano la penisola come una sottomessa postazione operativa e un’area di controllo geopolitico del Mediterraneo per conto dei francesi, dei germanici e degli angloamericani. Gli inizi vedono una dinastia di industriali che, intelligentemente, si apparentano con alcuni componenti della famiglia reale, entrano in parlamento dove sono prevalentemente spettatori, sono i fornitori di automezzi dell’esercito, hanno alle loro dirette dipendenze crescenti masse di lavoratori, determinano con pugno di ferro la vita e la crisi del tessuto industriale “indotto”, provocano la migrazione di mezzo meridione cerco il Nord. Nascono veri e propri conflitti razziali con i meridionali considerati delle bestie “inferiori”. Le città del nord cambiano aspetto con una speculazione edilizia selvaggia e di scarsa qualità per fornire alloggi agli operai che abitavano nelle bidonvilles. Sono enormi i costi umani ai danni di una massa di lavoratori sottopagati e sorvegliati con durezza dai quadri selezionati da severissimi direttori generali coadiuvati da sindacati filo-aziendali non confederali.

La casata Fiat diventa protagonista pesante della politica italiana già condizionata dagli angloamericani, dai germanici, dai francesi, dalle strutture comunitarie e soprattutto dal Vaticano. Si intrecciano interazioni incestuose fra l’azienda torinese e la mefitica palude politica. I politici chiedono di collocare i propri rampolli ai vertici delle tecnostrutture aziendali e la famiglia chiede in cambio finanziamenti a pioggia, facilitazioni fiscali, l’attraversamento del confine senza dazi con propri convogli carichi di auto in valichi appositamente lasciati aperti.  La originaria CGIL cerca di limitare lo strapotere del gruppo industriale con alterne fortune. Non è casuale la divisione in tre tronconi del movimento unitario sindacale grazie con una operazione a regia americana in CGIL, CISL e UIL. Questa manovra riesce a ridurne l’incisività e la coesione interna spingendo le sigle ad un inopportuno collateralismo politico con i partiti di massa.

La dinastia industriale ebbe il pregio di aver creato uno dei più importanti poli tecnologici e meccanici d’Europa. La gestione era affidata a quadri addestrati ed istruiti dall’università di ingegneria di Torino, di Milano di Venezia e dalle maggiori facoltà di economia italiane. La famiglia dinastica regnava ma in realtà non governava. Una caratteristica del gruppo è stata quella di essere guidato da una sequenza di direttori generali “esterni” energici e autoritari con poteri troppo ampi. Ciascuno di loro ha adottato strategie differenti ma tutte impostate con la costante di difendere e soprattutto di promuovere gli interessi della Fiat e delle sue consociate. Un polo meccanico che schiavizzava tutti gli operatori del cosiddetto “indotto” piegati alle sue condizioni, i governi e le organizzazioni sindacali che agivano in ordine sparso a seconda del loro tasso di collateralismo con le maggioranze politiche in carica.

Come in altre dinastie industriali presenti in Germania, Svezia, Francia, il loro potere estendeva la propria influenza sullo svolgimento della vita democratica dei Paesi di appartenenza lanciandosi progressivamente verso il “resto del mondo”.  La casata italiana lo ha fatto con metodo e sagacia. Ha creato fondazioni culturali, finanziato università e strutture culturali, oltre ad esercitare formidabili pressioni con una costante azione di promozione in Parlamento, perseguita ad ogni costo e con ogni mezzo.

La creazione di un equilibrio economico e politico era stata la carta vincente della costellazione Fiat. Un reticolo progressivamente demolito con l’avvento di direttori generali mondialisti nominati da una casata aliena – non torinese – che non ha mai avuto rapporti concreti e costruttivi con i centri decisionali italiani. I loro collegamenti erano costruiti con apparati internazionali che non tutelavano interessi italiani. Questo strappo ha segnato l’inizio di un processo di deindustrializzazione italiana che ancora non si arresta. La demolizione è avvenuta con la successione di maggioranze politiche totalmente inermi, ricattate e ingabbiate da una corruzione a livelli da terzo mondo e anche da una prigione normativa comunitaria orientata alla tutela degli interessi inglesi, francesi e germanici.

I superdirigenti della ex-Fiat hanno guardato altrove spostando immediatamente la sede fiscale in Olanda dove è applicato il tre percento di tassazione. Lo spostamento del domicilio fiscale all’estero ha sottratto all’Italia una vasta risorsa finanziaria. La classe politica nazionale non fatto nulla di concreto per scongiurare una defezione di tali proporzioni. Era imbrigliata da ricatti reciproci che hanno condotto all’inerzia decisionale.  Il persistere di tale immobilismo non impedisce la fuga di altre aziende italiane all’estero. Il nostro Paese cade definitivamente nel caos sociale trasformandosi di fatto in una sacca razziale d’Europa. Alcuni partiti italiani hanno gabellato tale ruolo come una immissione di “migranti avanguardia del nostro futuro stile di vita”: https://www.youtube.com/watch?v=E7QePDmPHfk . L’effetto più visibile è stato un forte aumento di criminalità spicciola e diffusa. I criminali importati non vengono mai puniti da una giustizia con opera da tempo con doppia e perfino tripla morale. Alcuni partiti politici ben precisi si sono posti duramente a difesa di un disegno immigrazionista che non deve essere percepito come sbagliato, anche a costo di creare migliaia di vittime e di morti. Con questa visione collusiva, globalista, inclusiva, non stupisce il crescente numero di “omissioni” giudiziali.

In questo quadro socioeconomico, giuridico a varie velocità, le aziende fuggono in aree ritenute meno conflittuali. La verifica a posteriori delle emigrazioni aziendali non sempre ha condotto ad un risultato soddisfacente. In numero crescente assistiamo al rientro di alcune di loro ma alla chetichella per non dare nell’occhio e nel silenzio totale delle centrali di informazione del nostro Paese.

Se teniamo nella giusta considerazione le premesse sopra accennate, diventa difficile e ipocrita incolpare una maggioranza recente rendendola esclusiva responsabile dei guasti di origine pluridecennale. Ci sono state maggioranze politiche e governi tecnici precedenti non hanno nemmeno preso in considerazione un tentativo di frenare o quantomeno rallentare la deindustrializzazione rispondendo solamente con azioni disarticolate per tamponare le falle. Abbiamo assistito ad una collezione di “pezze a colori” per gestire le urgenze, in totale assenza di adeguate e coordinate politiche industriali nazionali. La determinazione di un piano economico, sociale, pianificato ed industriale sarà realizzabile quando maggioranza ed opposizione coopereranno per la gestione di priorità di interesse comune, senza cercare di azzopparsi reciprocamente.

Per i cosiddetti “piani alti”, il nostro Paese deve continuare ad affondare subendo questa demolizione controllata e sottomessa alle politiche globaliste che non tengono in considerazione legittimi interessi nazionali. Alcune potenze europee – le solite – vogliono la penisola affondata in un totale collasso perché non sia mai una realtà in grado di competere ad armi pari con i Paesi europei ce on il resto del mondo. Questa lotta fra Paesi membri continua imperterrita alla faccia della tanto conclamata (a parole) unità europea. L’euro è utilizzato e governato da strutture artificiali comunitarie che agiscono malgrado e spesso contro le necessità dei popoli europei. L’effetto più drammatico è il verificarsi della espulsione di cento milioni di lavoratori attivi dai cicli produttivi europei che si aggiungono agli ottantacinque milioni di disoccupati senza un futuro. Da queste considerazioni, si comprende benissimo che l’Unione europea è stata creata dalla Cia per ingabbiare le nazioni del vecchio continente dopo la II Guerra mondiale e per compattarle con una struttura antagonista alla Russia, ma senza mai essere troppo coesa.

Questa pseudoeuropa troverà la propria strada realmente autonoma quando riuscirà a trovare un proprio percorso economico e sociale. Dovrà farlo tenendo conto delle sagge ammonizioni dei padri fondatori. Cerchiamo tutti di recuperare quelle riflessioni per farle nostre il più presto possibile… Solo così diminuiranno i casi di fuga all’estero della famosa e più importante azienda industriale e di decine di imprese emigrate o comprate in precedenza. Si potrà sperare in un loro realistico ritorno in patria.