RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI SPECIALE EMANUELE SEVERINO 22 gennaio 2020

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RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI

SPECIALE EMANUELE SEVERINO

22 gennaio 2020

A cura di Manlio Lo Presti

 

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SOMMARIO

 

Emanuele Severino. La “struttura originaria” che smaschera la bolla percettiva del nichilismo

Il pensiero filosofico di Emanuele Severino

Emanuele Severino. Heidegger e il neopositivismo

Emanuele Severino filosofo eterno

Emanuele Severino in compendio

Quando la chiesa condannò Emanuele Severino, più ateo degli eretici

Tutto il pensiero di Emanuele Severino su tecnologia, etica, capitalismo e felicità

Furor Logicus. L’eternità nel pensiero di Emanuele Severino

Emanuele Severino – La contraddizione della filosofia contemporanea

III Guerra Mondiale? Emanuele Severino – video

Omaggio a Emanuele Severino – video

EMANUELE SEVERINO: OLTRE LA MORTE E L’ESTREMA FOLLIA

 

 

 

EDITORIALE

Emanuele Severino. La “struttura originaria” che smaschera la bolla percettiva del nichilismo

Manlio Lo Presti – 22 gennaio 2020

Scompare con discrezione un gigante del pensiero occidentale.

Rimango preziosi i suoi studi sulla vera essenza del Nichilismo – cioè la convinzione che tutti gli accadimenti del mondo, il divenire, entrino ed escano dal Niente o Nulla. Una convinzione che prende il sopravvento dopo la filosofia di Parmenide.

Entrare e uscire dal Nulla, dal Niente si è rivelata una convinzione talmente radicata da diventare l’essenza stessa dell’Occidente. Il filosofo la definisce “follia”.

Uscire da questa follia percettiva è stato il compito di Severino. Il nichilismo (entrare e uscire delle cose e degli eventi dal Niente) ha creato una bolla percettiva della totalità che ci circonda totalmente deformata.

Con il suo libro LEGGE E CASO, Adelphi, 1979, procede ad una serrata analisi della complessa analitica logico-matematica di Rudolf Carnap dimostrando di essere padrone degli strumenti logici formali e scientifici e di non essere solo astrazione accademica.

Dagli anni Settanta in poi, pubblica una vertiginosa serie di studi anche linguistici con l’analisi minuziosa della radice AR nel suo libro DESTINO DELLA NECESSITA’ pubblicato da Adelphi nel 1980.

L’indagine pluridecennale di questo pensatore insolito, controcorrente, in maestosa solitudine e spesso contro tutti e oltre tutti, deve essere ancora compresa, sebbene sia disponibile una bibliografia sterminata sul suo pensiero complicato e difficile.

Accanto ad un prestigioso percorso accademico Severino ha curato la diffusione delle sue riflessioni con la sua presenza a numerosi convegni, dibattiti e simposi.

Per coloro che avessero intenzione di accostarsi e/o approfondire il suo pensiero, sono visionabili numerosi filmati diffusi dal canale web YouTube, oltre alla pubblicazione della quasi totalità della sua ricerca da parte della casa editrice Adelphi e di Rizzoli poi.

A dispetto di una frenesia totalitaria che deforma il nostro lavoro cerebrale e ci impedisce di pensare con lucidità, l’ultimo – per ora – filosofo “antico” va letto con attenzione e senza fretta, con calma. Una netta controtendenza rispetto alla fretta contemporanea.

La conoscenza del suo pensiero esige la cooperazione di lettori coraggiosi, costanti, curiosi e intenzionati a squarciare il velo distopico e deformante che imprigiona ancora oggi tutto l’Occidente imprigionato da un equivoco originario (la “follia”) che parte da Platone e arriva ad oggi.

Severino invita a studiare con attenzione le grandi correnti del pensiero filosofico, scientifico e letterario occidentale nate dall’equivoco originario.

Tra le righe di queste cattedrali della mente si scorgono intuizioni profonde che debbono essere utilizzate come una guida per una “re-visione” di un pensiero antico dimenticato o, peggio, deformato da letture ex post che finiscono per decontestualizzarne l’interpretazione.

Mi consola e mi incoraggia il fatto che la sua vertiginosa ricerca non sarà dimenticata facilmente perché sono sempre di più gli appassionati che ne voglio seguire le orme.

 

 

 

 

 

IN EVIDENZA

Il pensiero filosofico di Emanuele Severino

In questo sintetico prospetto del pensiero di Emanuele Severino ho inteso tracciare le sole linee essenziali di un discorso filosofico che si mostra fondamentalmente compatto: al suo centro sta la questione della verità dell’essere e al centro di questo centro sta la tesi dell’eternità dell’essente in quanto essente, e quindi di ogni essente, che è implicata dalla struttura originaria della verità.

Giulio Goggi

 

 

 

  1. L’eternità dell’essente

 

Il motivo dominante del discorso di Severino viene per la prima volta formulato nel saggio del 1956 La metafisica classica e Aristotele:

 

La negazione del divenire scaturisce immediatamente dall’autentico principio di Parmenide: l’essere è. Se l’essere diviene – se il positivo sopraggiunge – l’essere, prima di sopraggiungere, non era: ed è appunto questo l’assurdo, o è appunto questa la definizione dell’assurdo: che l’essere non sia. […]. Tutto è necessario, allora.

Severino, La metafisica classica e Aristotele, in Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano 2005, pp. 117-118

 

L’affermazione che gli essenti escono dal proprio nulla e vi ritornano implica che si pensi un tempo in cui l’essente è nulla (quando l’essente non era ancora e quando non sarà più), ossia il tempo in cui l’essente è l’assolutamente altro da sé. L’impercorribile assurdo è appunto questa identificazione dei non identici. La tesi della necessità e quindi dell’eternità di tutto ciò-che-è viene ripresa e sviluppata ne La struttura originaria (1958, 1981, 2004, 2012), testo al quale lo stesso Severino rinvia come al luogo della più concreta presentazione dell’essenza del fondamento. Il nucleo teorico viene così sintetizzato:

 

Risiede nel significato stesso dell’essere che l’essere abbia ad essere, sì che il principio di non contraddizione non esprime semplicemente l’identità dell’essenza con se medesima (o la sua differenza dalle altre essenze), ma l’identità dell’essenza e dell’esistenza (o l’alterità dell’essenza dall’inesistenza).

Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 517

 

La non separabilità dell’essenza (quale che sia l’essenza che si consideri) dalla esistenza (e cioè dal non essere un nulla della qualsiasi essenza considerata) è la stessa affermazione dell’eternità dell’essente in quanto essente.

 

  1. L’alienazione dell’Occidente

 

  1. a) In Ritornare a Parmenide(1964) si fa innanzi la consapevolezza che la testimonianza inaudita della verità dell’essere esige il tramonto di tutte le forme del pensare e dell’agire della civiltà occidentali, guidate dalla persuasione che l’esistenza delle “cose” non sia necessaria:

 

La storia della filosofia occidentale è la vicenda dell’alterazione e quindi della dimenticanza del senso dell’essere, inizialmente intravisto dal più antico pensiero dei Greci.

Severino, Ritornare a Parmenide, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 19

 

In un passo del De interpretatione di Aristotele – laddove lo Stagirita afferma che è necessario che l’essere sia “quando è”, e che non sia “quando non è – Severino trova la formulazione più chiara del tramonto del senso dell’essere. Ecco il suo commento:

 

Il discorso aristotelico […] ponendo che quando l’essere è, è, e quando non è, non è, dice dunque che quando l’essere è il nulla, allora è nulla; e non si accorge che il vero pericolo dal quale ci si deve guardare non è l’affermazione che, quando l’essere è nulla, sia essere (e, quando è essere, sia nulla), ma è l’acconsentimento che l’essere sia nulla, cioè l’acconsentimento che si dia un tempo in cui l’essere non è il nulla (quando è) e un tempo in cui l’essere è nulla (quando non è), cioè l’acconsentimento che l’essere sia nel tempo. In questo modo il “principio di non contraddizione” diventa la forma peggiore di contraddizione: proprio perché la contraddizione viene nascosta nella formula stessa con la quale ci si propone di evitarla e di bandirla dall’essere.

Severino, Ritornare a Parmenide, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 22

 

  1. b) Nel Poscrittodi Ritornare a Parmenide (1965) Severino spiega che il succedersi degli eventi, in cui l’esperienza consiste, non appare come un venire ad essere e un cessare di essere, ma come un comparire e uno scomparire dell’essente:

 

Questo corpo brucia e a questo corpo si sostituisce la sua cenere: l’apparire non attesta altro che una successione di eventi: il pezzo di carta bianca, l’avvicinarsi della fiamma, la fiamma che cresce, un pezzo di carta più piccolo e di forma diversa, una fiamma più esile, un pezzo ancora più piccolo e di forma ancora diversa, la cenere. Ad ogni evento ne succede un altro, nel senso che un secondo evento incomincia ad apparire quando il primo non appare più. Ma che ciò, che non appare più, non sia nemmeno più, questo l’apparire non lo rivela […]. La comprensione veritativa del divenire, che è contenuto dell’apparire, rileva […] il silenzio dell’apparire circa le sorti di ciò che non appare. E se queste sorti sono taciute dall’apparire come tale, esse sono svelate […] dalla verità dell’essere che […] dice che l’essere è è non può non essere e resta eterno presso di sé.

Severino, Poscritto, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, pp. 86-87

 

In altri termini, l’esperienza non attesta un incremento o un decremento dell’essere, ma soltanto che qualcosa – di cui il logos vede l’essere eterno – incomincia ad apparire e cessa di apparire.

 

  1. Il significato di Ritornare a Parmenide

 

Parmenide ha sì affermato l’eternità dell’essere, ma ne ha insieme alterato il senso perché ha ritenuto di dover pensare che le molteplici differenze dell’essere (ossia l’essere nel suo concreto determinarsi) non abbiano verità e cioè non siano:

 

Ritornare a Parmenide significa ripetere il «parricidio», senza divenire colpevoli dinanzi alla verità dell’essere: ripetere la fondazione del molteplice […] affermando di ogni ente, e della concreta totalità degli enti, ciò che Parmenide affermava dell’essere: «È impossibile che non sia».

Severino, Risposte ai critici, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 315

 

Il tentativo di Platone di portarsi oltre Parmenide è andato fuori bersaglio: dopo aver salvato le differenze, ossia le molteplici determinazioni di cui facciamo esperienza, spiegando che esse non significano “nulla” (ciascuna di esse è infatti un qualcosa che è), egli ha continuato a concepirle come oscillanti tra l’essere e il non essere, con ciò lasciando che cadessero preda del non essere. Il gesto di Platone – il parricidio mancato – ha aperto la dimensione all’interno della quale si muove l’intera storia del pensiero occidentale che è storia della alienazione del seno dell’essere. Si capisce allora che il “ritornare” a Parmenide, di cui parla Severino, non va inteso come un imperativo, bensì come un invito a ripensare la fondazione del molteplice che non lo consegni di nuovo all’abbraccio mortale del non essere.

 

  1. La struttura dell’apparire e la differenza ontologica

 

  1. a) Ma non si dovrà riconoscere che almeno la sintesi del qualcosa sopraggiungente e dileguantesi e del suo apparire è ancora un nulla, e tornerà ad essere un nulla, quando il sopraggiungente ancora non appare e quando esce dall’apparire? A questa aporia Severino ha dato la seguente risposta:

 

L’apparire e un predicato che conviene necessariamente alle cose che appaiono: non nel senso che ogni cosa che appare non possa non apparire ma nel senso che, apparendo, l’apparire le conviene necessariamente […]. Se quando questa lampada appare, appare necessariamente il suo apparire (ossia il suo essere inclusa nell’orizzonte dell’apparire), allora, se questa lampada incomincia ad apparire, incomincia ad apparire anche il suo apparire; e se questa lampada non appare più, non appare più nemmeno il suo apparire.

Severino, Poscritto, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, pp. 95-96

 

L’apparire dell’essente è cioè strutturato in modo autoriflessivo (ad apparire è l’apparire dell’apparire dell’essente) sicché ad incominciare e a cessare di apparire non è solo quell’eterno che è il qualcosa, ma anche quell’eterno che è lo stesso apparire del qualcosa. Severino distingue poi tra l’“apparire empirico”, ossia l’apparire di questo o di quell’essente particolare che entra e che esce dal contesto dell’apparire, e l’“apparire trascendentale” che è l’apparire della totalità di ciò che appare: l’orizzonte che include ogni “prima” e ogni “poi” giacché è in esso che sopraggiunge, e da esso si congeda, tutto ciò che incomincia e che cessa di apparire.

 

  1. b) Stante l’impossibilità che l’essere non sia, e appurato che l’esperienza non ne attesta l’annullamento, ecco come Severino intende la differenza ontologica e cioè il rapporto tra l’intero dell’essere immutabile e l’essere che appare processualmente nell’esperienza:

 

Nella differenza ontologica, uno dei due differenti [la totalità dell’essere] non manca di alcuna positività […] onde l’altro differente [l’essere in quanto sottoposto al processo dell’apparire e dello scomparire] non aggiunge alcuna positività al primo – e questo è possibile perché quest’altro è lo stesso primo in quanto astrattamente manifesto, e quindi è differente come un mancamento d’essere.

Severino, Poscritto, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, pp. 95-96

 

Il rapporto tra l’essere che appare nella successione degli eventi e l’essere che non lascia nulla oltre di sé sarà quindi da intendere nel senso della differenza tra l’astratto e il concreto, mentre ogni forma di dipendenza ontologica (in termini creazionistici) resta consegnata alla storia della dimenticanza del senso dell’essere.

 

  1. Il fondamento e l’élenchos

 

Ad essere impossibile è l’identificazione dei non identici: dell’essere e del nulla. Ma che cosa impedisce di affermarla?

 

Ma perché questa identificazione dell’essere e del nulla non può essere affermata? Rispondere a questa domanda vuol dire operare il disvelamento autentico della verità dell’essere che non è un semplice dire, ma è un dire che ha valore, ossia è capace di togliere la propria negazione […]. L’affermazione che l’essere non è non-essere deve venire certamente negata sin tanto che non se ne veda il valore. Nel frattempo, tale affermazione è come una spada invincibile in mano a uno che non sappia di avere in mano una spada invincibile: costui si lascia sopprimere dal primo venuto. E, qui, è giusto che il

 

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Emanuele Severino. Heidegger e il neopositivismo

Il carattere essenziale della filosofia

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Emanuele Severino, intervistato a Brescia in occasione del congresso internazionale, Heidegger nel pensiero di Severino. Metafisica, Religione, Politica, Economia, Arte, Tecnica, tenutosi dal 13 al 15 giugno 2019 e organizzato dall’Associazione di Studi Emanuele Severino (Ases), parla della centralità assunta dal pensiero di Martin Heidegger nella filosofia del XIX secolo.
Severino ricorda che tra Heidegger e Rudolf Carnap, uno dei principali esponenti del neopositivismo, c’era grande reciproca stima, nonostante che per il neopositivismo tutto il discorso di Heidegger, della metafisica e quindi quasi tutto il discorso filosofico sia completamente privo di senso, sia considerato solo un’effusione di sentimenti e non di concetti. Severino racconta di aver prestato in passato grande attenzione al neopositivismo, avendo fatto l’unica traduzione in italiano della Costruzione della logica del mondo di Carnap e avendo tradotto anche l’altro grande neopositivista Moritz Schlick, perché pensava che la celebrazione così diffusa di Heidegger tendesse a perdere di vista il carattere essenziale della filosofia, che non è quello di esprimere i propri sentimenti o le proprie opinioni personali.

La filosofia nasce come negazione del mito e mentre il mito racconta come si vorrebbe che fosse il mondo, la filosofia esige che si dica come il mondo è necessario che sia. 

Emanuele Severino è professore emerito di Filosofia teoretica presso l’Università di Venezia e insegna Ontologia fondamentale presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. È Accademico dei Lincei. Collabora con il “Corriere della Sera”. Ha offerto

 

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https://www.raicultura.it/filosofia/articoli/2019/07/Emanuele-Severino-Heidegger-e-il-neopositivismo-0169be60-addb-4489-8ff2-eff89bdb352a.html

 

 

 

 

 

 

 

Emanuele Severino filosofo eterno

Dal dialogo con Marcello Veneziani alle considerazioni sul pensiero forte, fino all’autentico dramma a due protagonisti evocato da Massimo Cacciari. L’altro è Martin Heidegger…

 

di Davide D’Alessandro – 30 Dicembre 2017

 

filosofeggiodunquesono@gmail.com

 

 

Emanuele Severino. Foto tratta da youtube

Sposto in modo maldestro un libro dallo scaffale della libreria e una pila mi viene addosso. Tendo le braccia, con istinto protettivo, per fermarne la caduta, come se i libri fossero figli,  ma riesco a salvarne soltanto uno: La legna e la cenere di Emanuele Severino. Gli altri precipitano rovinosamente a terra e forse non è un caso. Severino è il massimo filosofo italiano vivente, definizione persino riduttiva poiché andrebbe allargata almeno a tutto il secolo scorso. Il libro che riprendo tra le mani, edito da Rizzoli, è del 2000 e presenta discussioni sul significato dell’esistenza, interlocuzioni con altri filosofi e studiosi di rilievo nazionale e internazionale. La prima, tanto per gradire, è con Hans-Georg Gadamer sul pensiero greco e la scienza moderna. No, non è stato un caso aver afferrato quel libro, perché giorni fa avevo finito di rileggere l’eccellente ritratto che a Severino ha dedicato Marcello Veneziani in Imperdonabili. Cento ritratti di maestri sconvenienti. Novantasette sono morti e tre ancora viventi: Severino, Alain de Benoist e Roger Scruton. Ma il profilo su Severino è l’unico scritto con la partecipazione diretta del filosofo bresciano che, avendolo letto in anteprima, ha voluto fornire all’autore qualche utile chiarimento. Il dialogo che ne è venuto fuori, sull’impossibilità del diventar altro e da altro, è una breve, efficacissima dimostrazione di un pensiero forte che si erge e svetta fra tanti pensieri deboli o inesistenti.

A Veneziani che, pur riconoscendo la sua teoria come granitica e conchiusa, solleva l’obiezione di un pensiero poggiante su un atto originario di fede, il tutto eterno, Severino replica: «Mi sembra quanto mai opportuno il suo qualificare come “pensiero forte” il mio discorso filosofico (sebbene sia forte in senso diverso da come è stata forte la tradizione epistemico-metafisica). Proprio per questo, sin dall’inizio, tale discorso ha inteso mostrare perché esso non è una fede, cioè in che cosa determinatamente consiste il non esser fede ed essere la dimensione incontrovertibile del sapere, il “destino della verità”. All’interno del destino appare anche quell’eterno che è la non verità, e appare la necessità del suo apparire, del suo mostrarsi via via fino all’apparire della civiltà della tecnica, destinata a cambiare la storia dell’uomo. Culmine dell’errare. Nel destino appare l’inevitabilità del succedersi (e in questo senso dei cambiamenti) delle forme dell’errare. All’interno del destino appare soprattutto che la morte è un evento (un eterno) che accade all’interno dell’eterna essenza dell’uomo. Tale essenza è aperta al sopraggiungere infinito degli eterni e della Gioia. Una situazione che, certo, “non è umanamente possibile”, ma nel senso che ognuno di noi è essenzialmente più di ciò che vien chiamato “uomo”. (Ed è l’”uomo” così inteso a credere che la creazione e la distruzione delle cose sia “osservabile”, “sperimentabile”)».

Ha scritto Salvatore Natoli: «Le tesi di Severino, fin dall’inizio, non mi hanno mai del tutto convinto, ma i modi del suo argomentare erano cogenti e anche se non mi persuadevano nel merito non era facile confutarlo. Se di Severino non ho condiviso la filosofia, ne sono stato segnato come stile di pensiero». Per Severino, l’uomo è re ma si crede mendicante. Cerca rimedi, e illusioni, perché non sa di essere eterno. Una malattia lo affligge. Gli è stato inculcato che viene dal nulla e

 

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Emanuele Severino in compendio

di Stefano Paduano

 

PARTE 1°: LA STRUTTURA ORIGINARIA

Introduzione

Definiamo in prima battuta come Severino enuncia formalmente la struttura originaria: “La struttura originaria è l’essenza del fondamento. In questo senso è la struttura anapodittica del sapere e cioè lo strutturarsi della principialità, o dell’immediatezza. Ciò comporta che l’essenza del fondamento non sia un che di semplice, ma una complessità, o l’unità del molteplice” (La struttura originaria p.107). La struttura originaria (d’ora in poi SO) è dunque originaria in quanto è al fondamento del Tutto (e per questo è anapodittica) e struttura in quanto pluralità semantica – in che senso sia una pluralità verrà analizzato successivamente. La caratteristica direi essenziale della SO è che la sua negazione non riesce a porsi come tale senza presupporla, sì che ad un tempo la nega e a un tempo la afferma, e proprio per questo non riesce a negarla. In altre parole, la SO è tale proprio in quanto ha in sé ogni possibile sua negazione; non che questo significhi che essa ne dipenda sia chiaro, ma significa piuttosto che tutte le sue possibili negazioni passate, presenti e future sono da sempre poste come tolte, ossia non si costituiscono nemmeno.

La SO si realizza nel cosiddetto “giudizio originario” che può essere così formulato: “il pensiero è l’immediato” o anche: ” Tutto ciò che nel modo che gli conviene, è immediatamente noto, è l’immediato”. Col termine pensiero si intende qui l’attualità o la presenza immediata dell’essere (che analizzerò poi). A siffatta attualità è possibile riservare anche il nome di “esperienza”. Dunque, il giudizio originario si può formulare anche così: “l’esperienza è immediatamente presente al pensiero”. Si avverta qui che se il pensiero si realizzasse mediamente tramite strutture che ne consentirebbero la realizzazione, tali strutture sarebbero comunque un contenuto del pensiero, e perciò sarebbero anch’esse immediate.

Se la SO, come abbiamo detto, è una struttura o complessità semantica, l’analisi della struttura costituisce l’esposizione dei termini che la costituiscono. Si avverta che l’analisi non consente il progressivo realizzarsi della SO che è già da sempre realizzata concretamente o meglio che è già da sempre una sintesi. La manifestazione della SO non è quindi la manifestazione di un processo di analisi, bensì è immanente a questo processo; è possibile parlare quindi di una compresenza di analisi e sintesi. Ma la distinzione formale di analisi e sintesi non significa che l’analisi sia la negazione della sintesi e viceversa; ma che il concetto concreto dell’astratto si distingue dal concetto astratto dell’astratto. La concretezza dell’astratto consiste, infatti, nell’essere posto come tale, cioè come astratto (ma questa distinzione verrà meglio chiarita più avanti). Si intenda ora che la necessità dell’analisi è semplicemente un fatto che vale come momento discorsivo perché il linguaggio non è in grado di esprimere immediatamente la sintesi, ma necessita oltremodo dell’analisi. L’ordine discorsivo non è quindi l’ordine logico.

 

L’immediatezza dell’essere

Dicevamo nel paragrafo precedente che l’essere immediato entra a far parte del giudizio originario come soggetto di questo ultimo, e l’essere è ciò che per manifestarsi non presuppone altro che la presenza di se stesso. Ora, il manifestarsi dell’essere consiste nell’affermazione “l’essere è”; ciò importa che per affermare che l’essere è non c’è e non ci deve essere bisogno di alcuna mediazione (lo chiarirò meglio più avanti nello sviluppo del paragrafo). L’immediatezza dell’essere che è il soggetto del giudizio originario che appare alla coscienza è detta “immediatezza fenomenologica” (d’ora in poi F-imm). Ma cosa indica il termine ‘essere’ per Severino? In un primo momento ci possiamo limitare nel dire che l’essere di Severino è una sintesi tra l’essere formale – costituito dal significato essere – e dai significati che appunto sono, ossia le singole determinazioni (siano x, y, z, ad esempio, le singole determinazioni che vengono designate con il termine ‘essere’). La sintesi tra le determinazioni e l’essere formale consiste nella proposizione “l’essere è”.

Ma sin tanto che ci si limitasse ad affermare che l’essere è, tale affermazione non si lascerebbe togliere dalla propria negazione? Si tratta quindi di mostrare (e non di dimostrare) come l’affermazione “l’essere è” non si lasci togliere dalla sua negazione, ma come si possa piuttosto porre come immediata. Prima di tutto si rilevi che “l’essere è” consiste appunto in due giudizi analitici che, proprio in quanto analitici, esprimono una perfetta tautologia. Diciamo dunque, che affermiamo che “l’essere è” solo in quanto l’essere è immediatamente noto, e quindi l’affermazione “l’essere è” si autofonda e non abbisogna di alcuna mediazione al di fuori della sua posizione medesima.

A questo punto è interessante prendere in considerazione una interessante aporia: sia dunque che l’essere è immediatamente noto. Ma in base a che cosa si afferma che l’essere sia immediatamente noto? Si risponderà: l’essere è immediatamente noto perché è immediatamente noto. E’ chiaro che a questo punto si potrebbe nuovamente domandare in base a che cosa si ponga l’immediatezza; sicché sembra in tal modo costituirsi un regressus in indefinitum e che l’essere non riesca davvero a porsi. Si chiarisca che la soluzione dell’aporia non può essere data dal porre che “l’essere non è” perché tale affermazione è intrinsecamente contradditoria. Dunque l’aporia va tolta mostrando che in realtà l’aporia non si costituisce nemmeno realmente e il suo costituirsi è quindi una parvenza. Si incominci dunque a rilevare come la domanda del perché l’essere è l’immediato (cioè che non ha bisogno di alcuna mediazione) si costituisca proprio in quanto la legittimità della stessa domanda esige una contraddizione. Se infatti dovessimo (attenzione) porre ciò per cui si afferma che l’essere è immediatamente noto, sia x, ove x dovesse valere come termine diverso dai termini della proposizione in questione (come termine eterogeneo), l’affermazione “l’essere è” sarebbe ad un tempo un mediato (in quanto l’x è un termine diverso) e un immediato. Voler quindi dimostrare che la posizione dell’essere non ha bisogno di alcuna dimostrazione è contradditorio appunto sin tanto che la x richiede un termine diverso.

Riassumendo: la posizione dell’immediatezza dell’essere ha il suo fondamento in sé e non in altro; che sia infatti noto per altro (la x) è contradditorio. Ma, d’altro canto, sembra che se sia nota per sé si costituita quel regressus in indefinitum di cui poco prima dicevo. La soluzione dell’aporia è possibile solo se ci si rende conto che quella x non sta al di fuori ma è inclusa nell’immediatezza dell’essere. Ma ciò che deve essere inteso è che la posizione della x non deve essere pensata come un momento logico distinto dal momento che pone l’essere come per sé noto. Il regressus in indefinitum si costituisce, infatti, perché quando si domanda perché l’essere è immediato si risponde che l’essere è immediato (A1) perché che sia immediato è immediato (A2); si crede cioè che A1 e A2 siano logicamente separati o astratti. Sicché si viene a confondere l’ordine discorsivo con l’ordine logico. L’aporia cioè si costituisce perché si tiene ferma l’impossibilità che l’immediatezza dell’essere immediato sia immediatamente inclusa. Tolto il concetto astratto delle due posizioni A2 e A1 è tolta anche questa impossibilità, e l’aporia viene quindi risolta “col mostrare che la posizione dell’immediatezza dell’essere ha valore di fondamento solo se nell’orizzonte dell’immediato è immediatamente inclusa l’immediatezza di questo orizzonte” (SO p.156). Si rilevi qui che la posizione dell’immediatezza come inclusione non significa che si voglia mostrare che A1 sia identico a A2. Anzi, la posizione dell’essere si distingue dalla posizione della sua immediatezza; le due posizioni non sono identiche ma cooriginarie. Per far comprendere questa parte scabrosa mi limiterò ad un esempio che semplifica le cose: chi astrae i due momenti e rileva quindi il regressus in indefinitum pensa che l’immediatezza dell’essere sia I = A1 + A2 e pensa dunque A1 e A2 come astratti. Chi invece li pensa nella loro concretezza o cooriginarietà rileva che A1 = A2 = I, che significa: se A1 include A2, A2 include a sua volta e a suo modo A1. Se si concepisce dunque A1 e a A2 concretamente li si concepisce come A1 = A2, e la differenza degli indici sta ad indicare il duplice aspetto della concretezza medesima, duplice aspetto costituito dall’inclusione di A1 in A2 e di A2 in A1. Se infatti A1 è visto come antecedente a A2, la posizione dell’essere può essere negata. Il principio di tutti principi di Husserl esprime abbastanza bene questo valore dell’originario: “ogni visione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà (Husserl, idee per una fenomenologia pura par. 24)

 

Passaggio

Da quello che è stato fin qui chiarito possiamo ammettere semplicemente che è tutto e solo quel essere che c’è. Si noterà nel prossimo paragrafo come questa affermazione (e quindi l’F-imm) debba risultare un concetto astratto dell’astratto, nel senso che se questa immediatezza viene concepita astrattamente dal contesto in cui si trova si può affermare che la totalità dell’immediatezza è solo l’F-imm. Vedremo come a Severino non basterà però la sola ed unica F-imm – e si vedrà come il porsi da sola la renderebbe problematica – e come la posizione di una ulteriore comprensione della SO gli consentirà di asserire una serie di interessanti considerazioni. Ricordo che, inoltre, la negazione che “l’essere è” è stata tolta in quanto che l’essere sia è per sé noto come autofondato e soggetto del giudizio originario.

 

L’immediatezza dell’incontradditorietà dell’essere

Come abbiamo visto l’F-imm è capace di togliere da sé (senza la mediazione d’altro) la propria negazione, che non riesce pertanto a costituirsi. Severino nota che oltre alla steresi della posizione dell’immediatezza, c’è un’altra affermazione che è capace di togliere ogni sua negazione di sé. Questa affermazione è data dal principio di non contraddizione (d’ora in poi PNC) espresso non nella forma aristotelica (vedremo nella seconda parte il perché) ma nella forma espressa da Parmenide, ossia “l’essere non è non essere”. Anche qui, finché ci si limita ad affermare semplicemente che l’essere non è non essere, tale affermazione non sembra – apparentemente – riuscire a togliere ogni negazione di sé. Questa immediatezza, si badi, differisce dall’F-imm in quanto l’F-imm stabilisce la presenza immediata del suo contenuto, mentre questa stabilisce una connessione tra due determinazioni ed è detta perciò “immediatezza logica” (d’ora in poi L-imm). Questa seconda immediatezza è di per sé nota in quanto esprime l’assoluta identità tra soggetto e predicato (ma si vedrà poi come Severino, nella seconda parte, svilupperà un modo ancora più efficace di respingere la negazione del PNC).

Altro passo fondamentale per comprendere il pensiero di Severino (e molto importante) è la posizione che il PNC esprime lo stesso il principio di identità (d’ora in poi PDI). Se questi due principi vengono tenuti come astratti essi valgono, appunto, come momenti astratti del concreto. Se si guarda a questa concretezza è indifferente che tale principio venga chiamato PDI o PNC. Perché Severino può dire questo? Il legame tra PNC e PDI è dato appunto da questo: “l’essere non è non essere (PNC) perché l’essere è essere (PDI), e viceversa l’essere è essere (PDI) perché l’essere non è non essere (PNC). E’ dunque da escludere una superiorità logica di uno dei due; piuttosto ognuno dei due include di rimando l’altro.

Si è rilevato prima che se il soggetto e il predicato sono presupposti alla loro identità si costituisce una alterità per la quale si dovrà affermare che l’essere (soggetto) non è l’essere (il predicato). Ed ecco l’affermazione logica che ci viene ad interessare: si può rilevare che “l’essere è l’essere” (il soggetto) solo in quanto è visto come appunto “l’essere che è l’essere” (il predicato). Se il soggetto e il predicato vengono fatti valere semplicemente come momenti noetici, il campo semantico costituito di ognuno di essi non include come posto che esso sia l’altro. Concepiti in tal modo il soggetto e il predicato, la proposizione “l’essere è essere” non sussiste nemmeno. Se (di nuovo) il soggetto e il predicato sono presupposti alla loro identità, allora valgono come momenti noetici, e se valgono come momenti noetici essi sono presupposti alla loro identità.

L’identità concreta è dunque l’identità con sé stessa. Negare ciò, si è visto, importa che il PDI sia una affermazione autocontradditoria.. Si tratta ora di comprendere per Severino il significato concreto di questa identità. “L’essere (E’) di cui si predica l’essere (E”), è appunto l’essere-che-è-essere: E’ = E”

E l’essere che è il predicato è appunto l’essere-che-è-essere: E” = E’

La formula dell’identità concreta risulta pertanto: E’ = E”) = (E” = E’)

Sennonché (si potrebbe obiettare) l’identità pare aver un processo all’infinito: [(E’ = E”) = (E” = E’)] = [(E” = E’) = (E’ = E”)]

Ma questo processo – si risponde – nasce quando da un lato si pensa all’identità come all’identità dei diversi, e in un secondo momento si pensa all’identità come identità degli identici. Anche questo sviluppo deve essere preso come cooriginario e non è dunque possibile procede all’infinito pena il considerare astrattamente i termini dell’identità.

Applicando dunque il concetto di identità appena menzionato al PNC-PDI avremo: (PDI = PNC) = (PNC = PDI) o anche: dire che l’essere è essere è lo stesso che dire che l’essere non è non essere. Ora abbiamo tutti gli elementi per comprendere come le immediatezze (F-imm e L-imm) siano in realtà un unico concreto e non due realtà dissimili. A cosa ci riferiamo quando noi affermiamo che l’essere non è non essere? Qual è il contenuto del termine essere? L’essere a cui ci riferiamo non è un essere vuoto dalle determinazioni, ma è l’essere che nel paragrafo precedente chiamavamo immediato; perciò possiamo anche riformulare il principio dicendo “l’essere immediato non è non essere”. Possiamo affermare che l’intero semantico non è solamente l’F-imm (come si avvertiva nei paragrafi precedenti), ma tale intero comprende anche l’L-imm e che l’isolare uno dei due escludendo l’altro equivale a considerare unicamente il concetto astratto dell’astratto. È importante rilevare appunto che non è che la proposizione “l’essere immediato non è non essere” sia stata dedotta dalla proposizione “l’essere non è non essere”. Infatti, l’essere immediato non è non essere proprio in quanto l’essere immediato è essere; se l’immediato non fosse posto come essere, l’esclusione del non essere dell’immediato non avrebbe alcun fondamento. Pertanto, le due immediatezze sono in una relazione cooriginaria poiché se una si mantiene senza l’altra (ossia come astratta) allora entrambe finiscono nell’infondatezza. La sintesi tra le due immediatezze non è da intendere come qualcosa che si costituisca tramite un processo, ma è da intendere come originaria, a monte, tale che l’una sussiste solo in quanto legata all’altra. Certamente ogni immediatezza si distingue dall’altra, ma questa distinzione non le separa, non le allontana l’una dall’altra ma, anzi, l’una senza l’altra non potrebbe nemmeno sussistere (e non è quindi come nei matrimoni come se uno volesse lasciare l’altro divorziando).

 

L’aporetica del nulla e suo risolvimento

Dire che “l’essere non è non essere” o anche “l’essere non è il nulla” o ancora “l’essere come tutto ciò che è positivo si oppone al negativo” significa in un certo senso dire che il non essere (il nulla) è. Infatti, come potrebbe l’essere opporsi a qualcosa che non è? Sembra dunque che il PNC così formulato sia preda della contraddizione più esplicita, cioè quella che identifica l’essere (il positivo) al nulla (il negativo) o meglio che dice del nulla-che-è. Questo problema è stato preso in considerazione da moltissimi filosofi e logici. Cito a prova Platone, Frege, Carnap, Russell e Bergson. Severino però non crede che questi illustri pensatori risolvano veramente l’aporetica, ma si limitino semplicemente a riproporla (non tratterò la critica logica di Severino a questi).

In breve, ecco la proposta severiniana per la soluzione dell’aporia proposta.

Si chiarisca già da ora che l’essere del non essere non riguarda una semplice determinazione (come se si volesse dire che il tavolo non è la mela) ma riguarda il nihil absolutum, l’assolutamente altro dall’essere. Un primo tentativo di approccio all’aporia potrebbe essere quello di eliminare il nulla da “l’essere non è il nulla”, renderla esclusivamente come “l’essere è”. Questa soluzione però comporta altri problemi; infatti porre questa soluzione significa rinunciare al PNC, in che senso? Se infatti noi poniamo semplicemente che “l’essere è” e basta non escludiamo, in questa proposizione, che l’essere potrebbe essere nulla, ossia non escludiamo che l’essere sia uguale al nulla (in simboli: A = -A). Sicché non porre il nulla significa non porre nemmeno l’essere quanto non porre l’essere significa non porre nemmeno il nulla. Bandita dunque questa soluzione passiamo ad esaminare meglio la nostra famigerata proposizione “l’essere non è il nulla”. In che senso diciamo che il nulla è? Non (attenzione) significa che il nulla è identico all’essere, ma significa che il nulla, che è significante come nulla, è. La contraddizione di questo benedetto essere-che-è non è quindi interna al significato nulla ma è tra la positività (in quanto ente) di questo significato e il contenuto di questo significato (il nulla). Se, quindi, è chiarito che ogni significato è una sintesi semantica tra la positività del significare e il contenuto del significare allora è chiaro che il significato nulla è un significato autocontradditorio perché, appunto, la positività del significare è contraddetta dall’assoluta negatività del contenuto significante.

Orbene, dopo aver fatto questo lungo chiarimento (ma essenziale) mi limito a dare una piccola anticipazione di come Severino procederà nel suo ragionamento. L’aporia verrà risolta dicendo che il PNC non afferma la non esistenza del significato autocontradditorio. Ma vediamo meglio come intende procedere Severino: si diceva prima che il nulla è non nel senso che nulla significhi essere, ma nel senso che l’assolutamente negativo (il nulla) è positivamente significante. Possiamo quindi sulle basi di ciò che abbiamo detto distinguere due momenti di questa autocontradditorietà: l’essere (il positivo significare) e il nulla incontradditorio (incontradditorio perché abbiamo detto che non è identico all’essere). Diciamo subito (ma l’avevo già anticipato al secondo paragrafo) che è proprio per questa contraddizione del nulla che può sussistere il PNC. Si badi, non nel senso che la contraddizione sia il fondamento del PNC (che sarebbe un bel problema), ma nel senso che il pnc si costituisce solo se il nulla viene posto come significato autocontradditorio. Questo non significa però neppure che il nulla come assoluta negatività posso in qualche modo apparire. Se il nulla è nulla allora il nulla (in quanto assoluta negatività) non può avere nessuna positività semantica e per questo non può apparire. In conclusione: il PNC si costituisce proprio perché il nulla viene posto come significato autocontradditorio.

Veniamo ora ai motivi che determinano questa aporia analizzandoli uno per uno. Chiarisco subito (per evitare che qualcuno si perda per strada) che l’aporetica nasce quanto i due momenti (l’essere e il nulla incontradditorio) vengono concepiti come astratti o irrelati tra loro. L’aporia invece (come vedremo) non si costituisce se i due momenti vengono concepiti nel concreto (per complicarci la vita potremo chiamare la causa dell’aporia concetto astratto dell’astratto, e l’autentica comprensione concetto concreto dell’astratto). Un primo errore sta in questo: se il nulla incontradditorio viene astratto dal suo positivo significare, allora esso viene posto come quella stessa concretezza di cui era momento; e questa posizione non è altro che una semplice ripetizione. Sicché sarà nuovamente necessario ripetere l’operazione astratta all’infinito con il risultato di un bel regressus in indefinitum. Questa aporia nasce dal fatto che si concepisce il nulla incontradditorio da un lato come ciò che deve essere posto e allo stesso tempo come ciò che non deve essere posto. Per risolvere questa aporia basterà dunque non separare i due momenti concepiti astrattamente e porli dunque come gli conviene, ossia in concreto.

C’è un’altra aporia che è possibile risolvere che è esattamente speculare alla precedente. Mentre nella prima l’aporia si costituisce per l’identificazione del positivo significare e del nulla-momento, la seconda aporia si costituisce in quanto si pretende di prescindere dal positivo significare e si conclude quindi che con la negatività assoluta non ci possa essere relazione. Ora è chiaro che questa seconda aporia si costituisce perché da un lato si considera il nulla come positivo significare e allo stesso tempo non lo si considera come positivo significare. Se non ci fosse questo secondo momento non esisterebbe, chiaramente, nemmeno il discorso aporetico. E’ chiaro ormai che questa aporia si costituisce perché si consideri astratti i due momenti del nulla autocontradditorio e si voglia allo stesso tempo prescindere e non prescindere dal positivo significare. C’è da dire che questa distinzione tra il nulla-momento e il positivo significare non è una separazione. Se infatti ci fosse separazione tra i due, il nulla momento non riuscirebbe nemmeno a sussistere. Il significato nulla non è quindi astrattamente separato dalla positività del suo significare, e la sintesi, inoltre, va originariamente e immediatamente concepita se non si vuole rimanere sul piano puramente astratto. La contraddizione (attenzione) sta appunto in questo: “che il significare è il significare dell’assolutamente non significante: non sta nel fatto che il non significante significa il significante, ma che il non significante è il significante come non significante” (“La struttura originaria”, p. 222)

 

PARTE 2°: L’ESSENZA DEL NICHILISMO

Il procedimento elenctico e il valore dell’opposizione

Si era anticipato nel quarto paragrafo come Severino intenda mostrare la validità dell’affermazione “l’essere non è non essere”. Infatti, finché non si dimostra che questa proposizione è in grado di togliere la negazione di sé, tale proposizione può essere smentita con facilità laddove non se ne veda il valore. Ma in cosa consiste il valore o anche l’innegabilità di quella proposizione? Si diceva nella prima parte che essa è “nota in quanto esprime l’assoluta identità tra soggetto e predicato”. Ma ammettiamo di trovarci (come nel IV libro della Metafisica di Aristotele) al cospetto del negatore di questo principio, ossia di chi voglia negare che l’essere non è non essere e che quindi voglia asserire che l’essere è non essere. Cosa capita al negatore di questo principio? Capita che per quanto il negatore voglia negarlo non riesca comunque a porre la sua negazione come tale, sicché la negazione diventa negazione di se medesima, diventa autonegazione. Ma in base a che cosa è possibile dire questo? In base al fatto che il negatore vuole che (in quanto negatore) la sua negazione sia una negazione; se il negatore è intenzionato a negare l’opposizione tra essere e non essere è necessario che anche il negatore, se vuole mantenere la propria negazione come tale, opponga la propria negazione al negato. Dunque, chi è intenzionato a negare l’opposizione, proprio in quanto la vuole negare, è costretto ad affermarla; succede dunque che da un lato la nega e da un lato non la nega. Si badi che la negazione a questo punto è tolta non dal fatto che il negatore del PNC si contraddice (che daccapo andrebbe più che bene al negatore del PNC), ma dal rilevamento che proprio perché il negatore afferma e nega al tempo stesso la stessa proposizione, la sua negazione non riesce a mantenersi come negazione pura, ossia finisce col negare il suo stesso fondamento per quindi autodistruggersi. Questo procedimento è denominato da Severino e da Aristotele “elenchos”.

Ma l’elenchos deve essere scrutato ancora più a fondo. L’asserto: “l’essere non è il non essere” si presenta infatti come opposizione universale. Il negatore del PNC universale dice: questo essere non è il suo non essere, che è appunto una individuazione dell’opposizione universale. Sembrerebbe quindi che il negatore del PNC universale possa realizzarsi ponendo alla propria base l’affermazione di una individuazione e non quindi l’affermazione dell’opposizione universale. A prima vista sembrerebbe che l’elenchos aristotelico come è stato inteso nel capoverso precedente non riesca in realtà a togliersi di dosso la propria negazione, ma sembra riesca a togliere la negazione semplicemente di una individuazione di sé.

A questo punto è utile procedere nell’analisi della figura elenctica. Quando la negazione dell’opposizione rinuncia ad essere universale e si pone come individuazione dell’universale (ossia si pone come quel discorso che afferma che tutto non si oppone al proprio negativo, fuorché il positivo che consiste nell’affermazione che qualche positivo non si oppone al proprio negativo) non ci trova più a questo punto di fronte al negatore del PNC, ma ad uno che lo afferma come avente una portata limitata e non universale. Per mostrare l’inconsistenza di questa nuova posizione basta mostrare come l’incontradditorietà a portata limitata del PNC non riesca a costituirsi, ossia sia essa stessa contradditoria. Per eliminare questa presunta incontradditorietà, dice Severino, basta mostrare come questa affermazione divida l’intero semantico in due parti: sia C1 dove il positivo si oppone al negativo (incontradditorietà), sia C2 la zona in cui il positivo non si oppone al negativo (contraddittorietà). Orbene, poiché C1 è il negativo di C2 e, viceversa, C2 è il negativo di C1, si viene a voler dire che C1 si oppone a C2 (in quanto C1 è incontradditorio rispetto a C2), ma si vorrebbe dire anche che C1 non si oppone a C2 (in quanto C2 è contradditorio). Dunque, l’affermazione della parziale validità del PNC non riesce a porsi come incontradditoria e, dunque, decade da sola rilevando che la negazione che C2 si opponga a C1 presuppone l’affermazione dell’opposizione anche qui come nel capoverso precedente.

L’elenchos dunque si costituisce in due forme o momenti: per un lato l’elenchos si mostra come un organismo apofantico di cui “la negazione del determinato è un determinato e quindi è negazione di quel determinato che è la negazione stessa” (Essenza del nichilismo p.51). D’altro canto, si presenta nella forma più generale e più ampia in cui “la negazione dell’opposizione è opposizione e quindi è negazione di sé” (EN p. 54) [NOTA: Per chi ha letto la prima parte sulla SO è da rilevare che l’elenchos consiste in una unione di due mediazioni che consistono appunto nelle due figure dell’elenchos che consiste appunto nell’unificazione delle individuazioni dell’opposizione universale. Questa unione le media nel senso che non le lascia astrattamente separate (concetto astratto dell’astratto) ma le pone sì distinte ma in sintesi. Se l’opposizione del positivo al negativo è una immediatezza (come si diceva nella SO) allora la mediazione dell’elenchos come unità dell’opposizione universale e delle individuazioni dell’universalità è il significato stesso dell’opposizione del positivo e del negativo ed è quindi, in questo senso, anch’essa contenuto dell’immediatezza.]

 

La Storia di un errore

Se sono stato seguito fin qui sarà abbastanza semplice date le premesse del discorso capire fino a che punto il pensiero di Severino si spinga, e a quali siano le conclusioni che seguono dalle premesse. Per Severino tutta la storia della filosofia occidentale è storia di un errore, una “follia” in cui sono maturate tutte le forme della nostra civiltà (arte, scienza, cultura, politica, tecnica, religione, etc.). Questa follia consiste nella dimenticanza dell’autentico senso dell’essere intravisto dal più antico pensiero greco, quello di Parmenide, che

Continua qui:http://www2.reggionet.it/pbergama/Filosofia/severino_compendio.html

 

 

 

 

 

Quando la chiesa condannò Emanuele Severino, più ateo degli eretici

Le pubblicazioni del filosofo, che per qualche anno insegnò all’università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, entrarono in pesante contrasto con la dottrina cattolica. Così fu allontanato dall’ateneo

Lavinia Greci – Mar, 21/01/2020

 

Si è spento il 17 gennaio, all’età di 90 anni. E ha disposto di far sapere a tutti della sua morte, solo tre giorni dopo le esequie.

 

E così, Emanuele Severino, accademico, compositore e tra i più importanti filosofi italiani contemporanei se ne è andato, lasciando più di un segno. Il celebre studioso, che si era ammalato sei mesi fa, aveva disposto il silenzio sul suo decesso. E così è stato. Nella sua formazione personale, la filosofia aveva rappresentato il suo faro, facendolo scontrare in più di un’occasione con la Chiesa cattolica.

Il primo scontro con la Chiesa

Nel 1951, Severino ottenne la libera docenza in filosofia teoretica e da lì iniziò la sua carriera di docente. Dal 1954 al 1969 insegnò filosofia all’università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Tuttavia, i libri pubblicati da Severino, in quegli anni, entrarono in forte conflitto con la dottrina ufficiale della Chiesa, suscitando diverse polemiche all’interno dell’ateneo dove, all’epoca, lo studioso insegnava. Nel 1969, dopo un lungo e accurato esame, la Chiesa proclamò ufficialmente l’insanabile opposizione tra il suo pensiero e il cristianesimo.

Severino contro la Chiesa

Come riportato da Adnkronos, Il filosofo bresciano aveva negato, di fatto, la visione salvifica della Chiesa, elemento inaccettabile per l’Università Cattolica. Nel 1970, in modo del tutto plateale, dopo un processo dall’ex Sant’Uffizio, che proclamò ufficialmente l’insanabile opposizione tra pensiero di Severino e il cristianesimo, il filosofo fu cacciato dall’ateneo. Da quel momento, radicalizzando le sue posizioni nichiliste, aveva sostenuto l’impossibilità di dirsi cristiano.

La contraddizione in Cattolica

Mentre era ancora docente dell’università Cattolica, uscì “Studi di filosofia della prassi”, in cui si dice che la fede è contraddizione, perché assume come incontrovertibile ciò che non si presenta come tale. “Dopo aver scritto ‘Studi di filosofia della prassi’, incominciai a rendermi conto che la mia presenza all’università Cattolica era precaria“, aveva scritto nel libro autobiografico “Il mio scontro con la Chiesa”. Poi, con la pubblicazione di “Ritornare a Parmenide” e del relativo “Poscritto”, la sua posizione nei confronti in università Cattolica si fece ancora più critica: “Come potevo insegnare in un’Università libera e privata affermando che il cristianesimo è parte dell’alienazione essenziale dell’Occidente?“.

Il paragone con Galilei

Nel 1970 entrò nel Palazzo del Sant’Uffizio, a Roma, per discutere con gli esperti incaricati di esaminare i suoi scritti. “La procedura adottata dalla Chiesa nei miei riguardi era la medesima di quella che essa aveva riservato a Galilei nel 1633. Per quanto ne sappia, da molto tempo la Chiesa non aveva adottato quelle procedure e, in seguito, non sarebbe più accaduto. Mi incuriosiva e un po’ mi lusingava trovarmi nelle stesse sale dove quel grande uomo aveva vissuto ben

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Tutto il pensiero di Emanuele Severino su tecnologia, etica, capitalismo e felicità

di Michele Guerriero

 

Pubblichiamo l’intervista al filosofo Emanuele Severino, morto il 17 gennaio, pubblicata sul numero di giugno/settembre 2018 della rivista quadrimestrale Start Magazine

È morto il filosofo Emanuele Severino. Il 26 febbraio avrebbe compiuto 91 anni. Severino è scomparso il 17 gennaio scorso, ma l’annuncio della morte è stato dato a funerali avvenuti. Nei suoi scritti e nelle sue conferenze ha spesso parlato di divenire e morte, negandone l’esistenza. Di seguito l’intervista. (Redazione Start Magazine)

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L’uomo contemporaneo si trova oggi a fare i conti con la complessità della realtà e, allo stesso tempo, con la ricerca di senso e di verità. Abbiamo perduto il concetto di verità assolute, ormai da almeno due secoli. Viviamo un’epoca di benessere e di forti disuguaglianze, come mai prima nella storia dell’umanità. Temi come il dominio della tecnologia, il progresso delle scienze, l’intelligenza artificiale sono manifestazioni di un progresso inarrestabile, in cui siamo tutti immersi, ricchi e poveri, Nord e Sud del mondo, bianchi e neri, occidentali e orientali. Di questo abbiamo voluto parlare con il Professor Emanuele Severino, uno dei maggiori e più importanti pensatori contemporanei. Severino è stato allievo di Gustavo Bontadini (corrente della Neoscolastica) all’Università Cattolica di Milano, dove ha iniziato ad insegnare nel 1962, e da dove – a seguito della pubblicazione del libro Ritornare a Parmenide – fu allontanato. Professore emerito di Filosofia Teoretica all’Università di Venezia, accademico dei Lincei, ha pubblicato numerosi libri, tra questi La struttura originaria, Essenza del nichilismo, Pensieri sul Cristianesimo. Severino ha accettato di rispondere alle nostre domande.

Professor Severino, lei a lungo si è soffermato sulla potenza e il dominio della tecnica al pari della scienza moderna e dell’etica, tutte orientate a trasformare la vita dell’uomo verso una qualche finalità. Perché l’Occidente secondo lei si è svuotato di senso attraverso tecnica, scienza ed etica?

Ciò che chiamiamo “Occidente” è la civiltà cresciuta all’interno delle forme di pensiero e di azione che tra il sesto e il quarto secolo avanti Cristo sono state portate alla luce dal pensiero filosofico, in Grecia. Platone definisce la tecnica nel modo più ampio e pertanto più comprensivo: essa è un tipo di produzione, e la produzione è la potenza che fa passare le cose dal loro non essere al loro essere (e viceversa, dato che anche la distruzione è una forma di produzione). Anche l’etica è una forma di produzione. Intende produrre il “bene” e distruggere il male. E la scienza moderna intende scoprire le leggi secondo le quali le cose (eventi, fenomeni) passano dal loro non essere al loro essere e viceversa. L’Occidente non si è svuotato di senso attraverso tecnica, scienza ed etica, ma è lo sviluppo coerente del senso che la filosofia ha dato alla produzione. Si enfatizza l’influsso della scienza sulla filosofia (certo esistente). Ma si è ciechi di fronte all’influsso che la filosofia ha sempre avuto sulla scienza e anzi sull’intera storia dell’uomo occidentale. Amo dire: silenzioso, questo influsso, ma profondo – come la circolazione sanguigna.

L’etica per stabilire il suo dominio deve essere comunicata e ha bisogno di reti informatiche sempre più sofisticate. La tecnologia è il cuore pulsante, oggi, della comunicazione dell’etica e fa parte della vita dell’uomo contemporaneo. Perché pensa che questo snaturi l’uomo stesso?

La tradizione dell’Occidente considera l’etica come l’agire umano che è conforme non a opinioni discutibili, ma alla verità, a come stanno veramente le cose. Ma da due secoli il concetto di “verità” è andato incontro a una crisi profonda. Il prevalere della tecnica non è la causa, ma la conseguenza di questa crisi. La tecnica può portare al tramonto l’etica tradizionale solo perché è il sapere filosofico del nostro tempo (e non quello tecno-scientifico) a poter mettere in questione i valori del passato, che hanno un fondamento innanzitutto filosofico. L’etica diventa una pluralità di etiche tra loro in lotta: etica cristiana, capitalistica, comunista, etica dello Stato totalitario, etica democratica, eccetera. A partire dal secolo scorso le forze che guidano queste diverse ed opposte forme di etica si combattono servendosi anche delle tecniche della comunicazione. Ma anche la tecnica è una forma di etica; il suo scopo è di aumentare all’infinito la propria potenza. Sta diventando la forma più potente di etica, che si serve essa delle altre forme, le quali invece si illudono ancora di servirsi della tecnica e delle tecniche della comunicazione. Tutto questo non snatura l’uomo, perché dalla cultura dell’Occidente l’uomo stesso è pensato come produzione, come ente produttivo, cioè tecnico. Come Dio è stato inteso come il senso ultimo (grembo e ultima dimora) dell’uomo, così oggi il senso ultimo dell’uomo è costituito dalla tecnica. Dio è il sommo Tecnico del passato, la Tecnica è l’ultimo Dio del presente.

Oggi le reti telematico-informatiche sono ancora dei mezzi di cui si servono

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Furor Logicus. L’eternità nel pensiero di Emanuele Severino

Autori e curatori

Marco de Paoli

Collana

Filosofia

Argomenti

Storia della filosofia contemporanea – Filosofia teoretica

Livello

Studi, ricerche

Dati

  1. 176,     1aedizione  2009   (Codice editore 495.211)

 

Tipologia: Edizione a stampa
Prezzo: € 22.00
Condizione: esaurito
Disponibilità: Nulla

Codice ISBN: 9788856812268

 

In breve

Emanuele Severino, il più noto filosofo italiano, in una sorta di psicoanalisi filosofica intende discendere nel sottosuolo dell’occidente per smascherarne e disoccultarne la fede nel divenire che dal pensiero greco a quello moderno gli appare la matrice nascosta del nichilismo. Credere che le cose possano divenire è credere che vengano dal nulla e vadano nel nulla e siano nulla, e invece tutto è eterno… Attraverso la tesi di Severino, il volume offre una rilettura di tutto il pensiero occidentale.

Utili Link

Giornale di Metafisica Recensione (di Alberto G.Biuso)… Vedi…

 

Presentazione del volume

Emanuele Severino, il più noto filosofo italiano, in una sorta di psicoanalisi filosofica intende discendere nel sottosuolo dell’occidente per smascherarne e disoccultarne la fede nel divenire che dal pensiero greco a quello moderno gli appare la matrice nascosta del nichilismo.
Questa la sua tesi: credere che le cose possano divenire è credere che esse vengano dal nulla e vadano nel nulla e siano nulla, e invece tutto è eterno. Ma cosa dice al riguardo l’esperienza fenomenica? come si aggira la deduzione logica fra le insidiose ambiguità dell’essere e del nulla? non è l’idea del nulla una sirena allettante anche per chi intenda ripudiarla? che cosa comporta l’affermazione integralmente immanentistica di un’idea di eternità, quali sono le sorgenti irrazionali del pensiero e che cos’è in realtà per lo psichismo profondo l’apparire e lo scomparire degli esseri e delle cose? Infine, sono eterne le cose o soltanto inerzialmente persistenti le loro immagini in un muto universo di simulacri privo di soggetti datori di senso?
Affrontare questi problemi significa rileggere tutto il pensiero occidentale, dall’eleatismo alla sofistica e alle categorie logico-ontologiche dell’aristotelismo, da Leopardi a Nietzsche e a Heidegger, dalla fenomenologia al neopositivismo e alla filosofia analitica, passando per l’analisi del tempo da Boezio alla teoria della relatività.

Marco de Paoli è docente di Filosofia nei Licei a Milano. Fra le sue pubblicazioni: L’infinito. Il vuoto (Brindisi 1988); L’Enigma di Delo. Sul Teorema (Torino 1994); I paradossi svelati. Zenone di Elea e la fondazione della scienza occidentale (Torino 1998); Sapienza e Oblio. Ars Mathematica Regia (Padova 2004); Theoria Motus. Studi di epistemologia e storia della scienza (Milano 2004); La relatività e la falsa cosmologia (Lecce 20082). Ha scritto per varie riviste fra cui “Paradigmi”, “Kos”, “Emmeciquadro”, “Giornale di Fisica”, “Il Protagora”.

 

 

Indice

Premessa
La filosofia occidentale, la fede nel diventare e il nichilismo
Oltre Parmenide e Aristotele: identità, eternità e necessità degli enti
La vita della mano sinistra: la discesa nel sottosuolo dell’occidente
Le sequenze della fiamma e l’identità impossibile
Le sorgenti irrazionali del pensiero
L’esperienza fenomenica e la deduzione logica
L’apparire e lo scomparire
Pour en finir avec l’éternité
Appendice. Bontadini inattuale e il ritorno della metafisica.

https://www.francoangeli.it/Ricerca/scheda_libro.aspx?Id=17675

 

 

 

 

 

 

Emanuele Severino – La contraddizione della filosofia contemporanea

Di ANDREA COLAMEDICI MAURA GANCITANO

 

Il testo è tratto da una registrazione con Manuele Severino disponibile su Youtube.

Il tratto che determina l’unitarietà della filosofia contemporanea è la negazione che si possa affermare una struttura di carattere definitivo, una verità immutabile, un fondamento. Tanto per dire come questo discorso non sia estraneo alle culture di tipo analitico mi viene in mente ciò che diceva Neurath, cioè che non abbiamo nessuna preposizione sacrosanta, tutto è profano, tutto è modificabile e ogni conoscenza è provvisoria. Anche nel cristianesimo, all’interno della teologia contemporanea, si verifica una cosa analoga quando si dice che Dio o è onnipotente oppure è caritatevole, perché se è onnipotente non può’ permettere l’immane e se è amore non può’ permettere il male, e quando si dice questo si pensa a un Dio finito, storico, il quale urta contro un ostacolo, e cioè un Dio che non è più eterno come quello della tradizione filosofica. Ma il discorso va allargato, la convenzioni che non esistano strutture immutabili e definitive si estende anche al campo politico e a quello estetico. Non esiste il bello assoluto, vi è un rifiuto del bello come modello al quale l’artista debba adeguarsi; come esiste la critica dello stato assoluto da parte dello stato democratico, quindi la critica all’assolutismo filosofico fa pendant nella critica politica di tipo democratico allo stato assolutistico, e così via. Nell’ambito della scienza riguardo a se stessa la cosa è fuori discussione. Si pensi all’enorme disparità che c’è fra la matematica e la fisica di fine ottocento che è convinta di possedere verità immutabili, epistemiche, e alla scienza attuale che è convinta della propria fallibilità. Nietzsche è uno dei rari spiragli in cui la potenza della distruzione che la cultura filosofica contemporanea opera nella tradizione filosofica viene alla luce. Nietzsche è uno dei rari spiragli in cui si vede l’impossibilità di operare forme di ritorno alla tradizione non solo culturale, non solo filosofica, ma anche civile, del mondo occidentale. Una delle figure più note del discorso Nietzschiano è la figura della morte di Dio. Nietzsche, essendo un filosofo popolare parla in qualche modo con certe licenze concettuali che il rigoroso pensiero filosofico non può tollerare. Si tratta di comprendere la perentorietà del discorso della morte di Dio. Nietzsche fornisce qualche occasione a questo modo di interpretarlo, dice da qualche parte che la tesi della morte di Dio non è una dimostrazione, come ci sono quelli che dimostrano l’esistenza di Dio, così ci sarebbero coloro che dimostrano l’inesistenza di Dio.  Niente di tutto ciò. L’obiezione decisiva è l’obiezione storica, e cioè, la constatazione che le masse e i popoli non hanno più bisogno di quel Dio che avevano evocato per difendersi dalla minaccia del mondo. Ma in Nietzsche c’è qualcosa di estremamente più importante e più radicale, c’è la fondazione di ciò che è appunto il concetto di morte di Dio, che non vuol dire semplicemente che la gente non crede più in Dio, bensì, sul fondamento nella fede del divenire è impossibile l’esistenza di qualsiasi immutabile. Si tratta di capire questa connessione. Se si crede che le cose siano storia, divenire e temporalità allora il tentativo di tenere insieme il divenire umano e la presenza del Dio onnipotente e immutabile fallisce.

La fede che domina l’intera società occidentale è la fede nel carattere storico e temporale,  contingente e caduco delle cose, e questa fede, che Nietzsche chiama la verità, non può’  tollerare l’esistenza di una struttura

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III Guerra Mondiale? Emanuele Severino

VIDEO QUI: https://www.youtube.com/watch?v=srJM0OCVNpk

 

 

 

 

 

Omaggio a Emanuele Severino

VIDEO QUI: https://www.youtube.com/watch?v=01wBjB1jMro

 

 

 

 

 

 

EMANUELE SEVERINO: OLTRE LA MORTE E L’ESTREMA FOLLIA

21/01/2020 Pietro Regazzoni

Emanuele Severino, nato a Brescia nel 1929, ha costruito la sua filosofia, incentrata su concetti come nulla, eternità, nichilismo, con raro rigore, forse ineguagliato, imponendosi come uno dei più importanti pensatori del nostro tempo.

La morte e l’Occidente

Secondo il suggerimento di Ludwig Wittgenstein: «su ciò di cui non si può parlare si deve tacere».

Eppure, riflessioni intorno all’evento della morte hanno da sempre animato ideologie, confronti e dibattiti su tutti i fronti. Questo perché, parafrasando Elias Canetti, «di tacere della morte non ne siamo capaci». Tutti, infatti, sentiamo il bisogno costante di comprendere che cosa ne sarà del nostro io.

In particolare, lungo l’intera storia dell’Occidente, a partire dai Greci passando per il Cristianesimo e fino ad arrivare ai giorni nostri, la morte si inserisce nella corrente del divenire delle cose, del mondo. La morte rientra nella convinzione che gli essenti nascano e muoiano, ossia escano dal nulla per poi ritornarci. Anche per Tommaso d’Aquino il corpo che muore, non certo l’anima che è immortale per il Cristianesimo, diviene un niente («in nihilum cedit»).

Nella logica del pensiero occidentale, l’ultimo evento della vita, la morte, non è altro che la rappresentazione del divenire altro. Questa considerazione è ciò che nel pensiero di Emanuele Severino si identifica con l’estrema follia, la forma più rigorosa dell’errare che si allontana dalla struttura originaria in cui ogni essente è eterno. Dove per eterno non si intende «la potenza sovrastante del padrone; perché tutto è eterno. Non vi sono servi; non c’è nemmeno un padrone».

Leggi anche:

Farla finita con la morte: “Dispute sulla verità e la morte” di Emanuele Severino

Quando pensiamo al nostro passato, dalle azioni più umili a quelle più grandiose, riteniamo che oggi quelle azioni non siano più e, nonostante il permanere del ricordo, abbiamo fede nel fatto che esse siano divenute un niente. Per semplificare, riteniamo che la partita di pallone di ieri, oggi sia già divenuta un niente ma con ciò non crediamo che la partita di ieri fosse un niente, mentre calciavamo la palla non ci saremmo sognati di scambiare quel momento per un niente. Eppure, quello che era un non-niente, il calcio al pallone, oggi si identifica col niente, proprio questa, in estrema sintesi, è la follia a cui

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