RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 6 APRILE 2020

https://www.maurizioblondet.it/genealogia-di-bill-gates-eugenetici-malthusiani-vaccinatori/

RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI

6 APRILE 2020

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

 Il governo è una forma legale di corruzione organizzata.

(Vilfredo Pareto)

 F. CAPELLI,Il libro aperto degli aforismi, Rubbettino, 2015, pag. 259

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La redazione provvederà doverosamente ed immediatamente alla loro rimozione dal blog.

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SOMMARIO

Alta cucina geopolitica
Arriva l’unità “anti fake news” del governo formata da Repubblica e Puente (non è uno scherzo)
Unità anti fake news, Giorgia Meloni all’attacco: “Deriva orwelliana”
Il disprezzo come modalità di governo
Il mistero della tomba di Tutankhamon: curiose anomalie
Posta un video con una violazione della quarantena e gli sparano
STATO DI EMERGENZA, UN SISTEMA SENZA CONTRAPPESI
AIUTI CORONAVIRUS, NEI COMUNI SOVRANISTI VALE LA REGOLA “PRIMA GLI ITALIANI”: SINISTRA BORBOTTA
Bambini allo Stato
Harvard ci studia e dice che non siamo stati solo sfortunati
GIORGIO COLLI
C’è qualcosa che non va in questo virus
La Giapponesizzazione che arriverà. Che fare?
I crimini di Tedros Adhanom, direttore generale dell’OMS
Quelo, Greta e la dottrina neoliberale della verità multipla
La Germania incassa 1,34 miliardi di euro di profitti su prestiti ad Atene
L’OMBRA NERA DELLA BLACKROCK SULLA CRISI ECONOMICA ITALIANA
5G e Covid-19, esposto in 10 procure
UNIONE EUROPEA E FEDERAZIONE MEDITERRANEA
GENEALOGIA DI BILL GATES – eugenetici, malthusiani, vaccinatori
MES: COME IL FANATISMO RELIGIOSO PIDDINO RISCHIA DI CANCELLARE L’ITALIA ECONOMICA
L’uomo artificiale
La morte di Hitler e le altre memorie dell’interprete di guerra Elena Rzhevskaya

 

 

EDITORIALE 

Alta cucina geopolitica

Manlio Lo Presti – 6 aprile 2020

Sulla intera vicenda del c.d. coronavirus permangono numerose zone d’ombra che la strategia-fate-presto sta occultando ma che usciranno fuori a tempo debito, cioè quando dovrà essere eliminato qualcuno che è diventato scomodo. La teoria che la notizia non serve per informare ma per minacciare i destinatari-bersaglio che la leggono è valida anche in questo caso!

Seguendo il collaudatissimo metodo che mi impone ad ogni evento umano di domandarmi:

  1. dove stanno i soldi;
  2. e di esaminare il procedimento che ha prodotto la notizia e/o l’evento (un esercizio di riflessione che si chiama dubbio) (1)

procedo alla formulazione di alcune domande che troveranno risposta solamente se l’informazione sarà utilizzabile come minaccia contro altri nemici, quale che sia il suo contenuto!

https://www.open.online/2020/03/28/coronavirus-la-teoria-di-complotto-del-virus-che-non-esiste-perche-e-colpa-della-rete-5g/

 

In ombra ci sono le implicazioni geopolitiche di questo pilotato da squadroni di spin doctors, capitanati e militarmente gestiti da certo Walter Ricciardi nella brutale veste di controllore-commissario-fallimentare del nostro martoriato Paese. Una figura che – salvo prova contraria – esiste solamente nel nostro Paese rispetto alla totalità dei componenti dell’unione europea.

https://www.bloorresearch.com/technology/5g-iot-and-edge-computing/

 

TUTTO CIO PREMESSO

  1. Perché il nostro Paese è sovragestito da un commissario a busta paga dell’OMS, una organizzazione mondiale di matrice americana?
  2. Perché solo l’Italia è l’unica ad essere commissariata da un superpretoriano OMS alla cui presidenza è in carica un personaggio molto discutibile e per la prima volta non medico?
  3. Perché in Europa il c.d. virus è partito dall’Italia?
  4. Perché il ridetto virus è iniziato nella parte nord dell’Italia più industrializzata e che – causalmente, per non essere dei sospettosi – ha votato centro destra?
  5. Perché i cadaveri pseudo vittime del ridetto virus sono stati caricati su camion militari e presuntivamente bruciati altrove, alla faccia delle complicate normative in materia di decessi e di regime delle tumulazioni?
  6. Perché si parla da pochi giorni di decessi di giovani?
  7. Perché i giovani cominciano a morire proprio adesso: diffondere terrore che con i vecchi non era possibile suscitare?
  8. Perché le TUTTE le varie confessioni religiose, insolitamente, non hanno fiatato?
  9. Perché la RPC China tace sulla diminuzione di oltre 18.000.000 di utenze telefoniche (alcuni dicono 21 milioni) con fotografie (fotomontaggi?) che ritraggono intere colline di cellulari che vengono spalati per la loro eliminazione?
  10. Perché si infetta la città di Wuhan ma non viene colpita Pechino distante 1052 km e Shangai distante appena 652 km (2), mentre si infetta Milano a 8702 km di distanza, New York a 120000 km, ecc. ecc. ecc.?
  11. Perché sta montando il sospetto che la quasi totalità dei morti siano stati catalogati con coronavirus? Forse per coprire un altro motivo di morte? E quale sarebbe questo agente eliminatorio?
  12. Perché si parla sempre più del protocollo di trasmissione 5G come di un’arma di morte cerebrale di massa che si concentra nelle zone altamente industrializzate dove questo protocollo sarebbe in funzione sperimentale? Si dice che Wuhan avrebbe utilizzato massicciamente il 5G.
  13. Perché continuare a parlare di virus? Per coprire una grandiosa operazione di guerra elettronica planetaria?
  14. Forse, continuare a parlare di virus è una copertura per la diffusione di massa dei vaccini preparati ma non sperimentati del preclaro killer ex dominus di Microsoft? Si tratterebbe di una partita di oltre 50 miliardi di euro di guadagni. Ripeto guadagni, non ricavi aventi volumi 15 volte superiori!!!

 

L’elenco appena riportato induce ad una serie di considerazioni geopolitiche planetarie:

  1. Il presidente USA da tempo si è accordato con la Russia per eliminare il Deep State pedofilo immigrazionista che controlla stampa, comunicazione, finanza, esercito negli USA stessi. Una setta di antropofagi che sta portando velocemente il mondo alla III Guerra Mondiale in osservanza alla sua autoproclamazione di nominati dalla Provvidenza come predestinati a diffondere l’idea di democrazia commerciale nel pianeta con la eliminazione rapida ma più dolorosa possibile del 60% del pianeta in disaccordo e, quindi, spazzatura da sterminare accuratamente;
  2. L’accordo mondiale vedrebbe la dismissione delle forze militari americane in Europa dopo un disastro colossale montato ad arte che farebbe da copertura al loro ritiro rapido;
  3. La Russia potrebbe entrare in Europa senza problemi;
  4. La contropartita sarebbe l’annientamento della Cina da parte della Russia e del suo eterno alleato il colosso indiano che agirebbero a tenaglia. L’india odia mortalmente i cinesi che continuano ad invadere il sudest asiatico per cercare le donne che il maoismo ha sterminato in culla perché inadatte ai lavori pesanti, con crescenti sconfinamenti in territorio indiano. Unità RAW e decine di divisioni corazzate scelte mobili e fisse presidiano in confine da anni in attesa di un ordine di invasione delle zone cinesi contigue molto sviluppate economicamente.
  5. Le operazioni di terra con circa 20 milioni di soldati indiani e decine di divisioni corazzate modernissime sarebbero un pericolo mortale per il Pakistan che – in mezzo a Russia e India -sarebbe stritolato senza complimenti. La caduta del Pakistan potrebbe scatenare insurrezioni diffuse di quasi un miliardo di islamici in tutto il mondo
  6. La Cina occupata a difendersi allenterebbe la morsa sull’Africa e sull’Europa a vantaggio degli USA e in pare della Russia.

Tutto questo scherzo avrebbe il costo di 50.000.000 di morti al giorno ed enormi difficoltà alla palude deep state neomaccartista antropofago pedofilo satanista finanziario bancario.

La partita è titanica ed evidenzia che il mondo non accetta facilmente una élite distruttrice di ogni forma di produzione di beni e servizi, di diritti sociali, di lavoro e focalizzata alla creazione di speculazioni finanziarie iperveloci mediante l’uso del sistema BLOCKCHAIN che, assieme al protocollo 5G, è pronto per la creazione di miliardi di subumani techgleba, microchippati sottopelle e guidati da una megamacchina tecnotronica automonitorizzante eufemisticamente chiamata INTELLIGENZA ARTIFICIALE.

Prepariamo ad un prossimo scontro fra due schiere di titani che sono guidati rispettivamente dal 5G e dal sistema BLOCKCHAIN …

Per capire bene ci cosa sto parlando, sarebbe opportuno leggere la descrizione delle guerre fra titani raccontata dal Mahabharata, rifluita in seguito nelle leggende mesopotamiche, nelle narrazioni nordiche e nei conflitti del pantheon greco.

 

Ne riparleremo, forse…

 

NOTE

1) parola importante da non confondere stupidamente e furbescamente con incredulità

2) https://www.facebook.com/permalink.php?id=705033849878830&story_fbid=1083340512048160

 

 

 

IN EVIDENZA

Arriva l’unità “anti fake news” del governo formata da Repubblica e Puente (non è uno scherzo)

Facciamo un gioco. Il presidente del Consiglio si chiama Matteo Salvini. Per gestire un’emergenza sanitaria sospende de facto l’attività del Parlamento, limita la libertà di tutti gli italiani a colpi di decreti “personali” (Dpcm), annuncia le misure più gravi della storia repubblicana dalla sua pagina Facebook (aumentando di un milione i follower in un mese) e, al fine di garantire un’informazione “corretta” in merito all’emergenza, fa nominare dal suo sottosegretario una task force anti “fake news” dove i primi tre nomi sono Maurizio Belpietro, Giovanni Sallusti e Francesca Totolo. Sembra incredibile eh? Bisogna gridare al golpe non credete? Eppure è quello che sta accadendo, ovviamente a parti invertite.

L’annuncio del sottosegretario Martella

Andrea Martella, dirigente Pd attualmente sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega all’editoria, ha annunciato di aver istituito una “task force” che si occuperà di contrasto alle fake news. “Uno strumento per combattere la disinformazione che indebolisce lo sforzo di contenimento del contagio, un passaggio doveroso, a fronte della massiccia, crescente diffusione di disinformazione e fake news relative all’emergenza COVID-19“. Sostanzialmente uno strumento di censura. Ma questo non si può dire e allora Martella quando parla dell’aspetto operativo dell’unità anti-bufale resta un po’ sul vago: “La struttura avrà vari compiti ed obiettivi”, dice Martella, “tra cui l’analisi delle modalità e delle fonti che generano e diffondono le fake news, il coinvolgimento di cittadini ed utenti social per rafforzare la rete di individuazione, il lavoro di sensibilizzazione attraverso campagne di comunicazione”.

Una task force anti-sovranista

Insomma non si capisce bene come si concretizzerà questo “contrasto” alle fake news. Molto più chiara la connotazione politica di questa unità speciale. Considerando che il fact-checking in Italia ha una dimensione esclusivamente anti-sovranista, era abbastanza prevedibile la composizione dell’unità non sarebbe stata trasversale. I tre nomi pesanti sono quelli di Riccardo Luna, editorialista di RepubblicaFrancesco Piccinini, direttore di Fanpage e David Puente, debunker di Open. Seguono poi dei nominativi più “tecnici”, tra cui il prof. Ruben Razzante (che cura un blog sull’Huffington Post), Luisa Verdoliva altra professoressa universitaria, Giovanni Zagni direttore di Pagella Politica, il medico divulgatore Roberta Villa e la ricercatrice universitaria della Cà Foscari (stessa università dove si è laureato il sottosegretario Martella) Fabiana Zollo.

Bufale ed errori dei “super debunker”

Sorge una domanda. Ma oltre ai dubbi sull’utilità di uno strumento del genere – che non può non farci temere per la libertà di espressione e la deriva censoria e liberticida – chi può affermare che queste persone, e i media che rappresentano, possano ricoprire un simile ruolo di vigilanza? Cosa ci dice ad esempio Riccardo Luna delle numerose fake news pubblicate da Repubblica, come la “nuvola sardina”,o le notizie inventate di sana pianta dal suo collega Paolo Berizzi, per non parlare dei numeri fasulli degli insulti a Liliana Segre? Il link all’ultima notizia poi fa riferimento ad un pezzo pubblicato proprio da David Puente, neo compagno di squadra di Luna, il quale ha sbugiardato (con un’inconsueta educazione) la bufala diffusa da Repubblica. Ma lo stesso Puente non è certo uno che non ha commesso errori clamorosi, come il debunking di pagine chiaramente ironiche (per non parlare delle sue le sue carenze in ambito di diritto). 

Quando Fanpage diceva di abbracciare i cinesi

E che dire dell’imparzialità di Francesco Piccinini? Uno che ogni 3-4 mesi partecipa e modera gli incontri di Potere al Popolo. Alcuni servizi di Fanpage su famiglie arcobaleno e immigrazione non sembrano avere molto a che fare con il giornalismo, quanto con vere e proprie campagne politiche di sensibilizzazione. Stessa cosa accaduta con la campagna, realizzata sempre dal media diretto da Piccinini, abbracciami non sono un virus“, dove Fanpage ha sostanzialmente messo a rischio la salute dei cittadini per ragioni ideologiche, incentivando gli abbracci (a cittadini cinesi e non). E’ questa la prima linea della “task force” anti fake news sul coronavirus? Andiamo bene.

E le bufale di esperti ed istituzioni?

Ma soprattutto cosa faranno i volontari al servizio del sottosegretario Martella contro le fake news dei media mainstream, delle istituzioni o dei presunti esperti? Vigileranno anche su quelle o la loro scure si abbatterà solo sulle catene whatsapp? E’ più dannoso che sullo smartphone ti arrivi un vecchio (e reale) servizio del Tgr Leonardo stimolando magari un’associazione impropria con l’attuale pandemia, o che il ministero della Salute fino a pochi mesi fa diffondeva video in cui si minimizzava l’entità e la trasmissibilità del contagio? Perché la realtà è che la disinformazione fino ad oggi è arrivata soprattutto dall’alto, tra le risatine di Zingaretti o i proclami della virologa Gismondo (miss “è come un’influenza”). Per non parlare delle informazioni contraddittorie fornite dagli esperti sull’utilizzo delle mascherine, inizialmente sconsigliato da molti scienziati (e deriso da Mentana) ed oggi reso praticamente obbligatorio per tutti.
In questa pandemia il caos e la disinformazione hanno regnato soprattutto nelle stanze del potere e sui media mainstream. E’ davvero utile una task force contro le catene whatsapp e i video su telegram? La risposta è no, lo sguardo sulla corretta informazione va posto altrove. Andrà a finire come sempre: si scrive contrasto alle fake news, si legge censura.
FONTE:https://www.ilprimatonazionale.it/cronaca/unita-anti-fake-news-governo-repubblica-puente-152158/

Unità anti fake news, Giorgia Meloni all’attacco: “Deriva orwelliana”

Una scelta che limita “le libertà costituzionali con eccessiva disinvolutura”, una sorta di “Ministero della Verità di orwelliana memoria”. Non usa mezzi termini Giorgia Meloni per attaccare la nascita della sedicente task force contro le fake news che, sotto la guida della Presidenza del Consiglio, si occuperà di monitorare le notizie e garantire un’informazione “corretta” relativamente all’epidemia di coronavirus.

Meloni: “Gli esperti decideranno cosa si può dire e cosa no”

“Il governo ha scelto di imperio gli “esperti” (tra loro neppure un medico o un virologo) che decideranno cosa si può dire e cosa no”, scrive sul proprio profilo facebook la leader di Fratelli d’Italia, che aggiunge: “Utile ricordare che tra le “fake news” c’erano fino a ieri anche il fatto che gli asintomatici trasmettono il virus, che fosse utile tenere in quarantena chi proviene da zone a rischio, che fosse saggio indossare la mascherina in pubblico”. “Mi manderanno in un campo di rieducazione per queste mie parole o si limiteranno – si chiede provocatoriamente, in chiusura, la Meloni – a oscurare il post su Facebook?

Anche Mollicone all’attacco

Parole cui fanno eco quelle di Federico Mollicone: “Mi rivolgo al sottosegretario Martella: stiamo fronte comune per il sostegno all’editoria e la stampa in questa difficile fase, ma dobbiamo denunciare come la task force voluta dal governo sia marcatamente sbilanciata verso sinistra, in un chiaro orientamento antisovranista, tanto da includere “esperti” e personaggi come Puente”. Aggiunge il deputato di Fratelli d’Italia: “Questi “debunker” di professione dovrebbero scegliere cosa sia vero o falso per tutta Italia? Chiediamo un riequilibrio della composizione con tecnici non politicizzati, componenti delle autorità garanti e medici. Il contrasto alla disinformazione sul Covid-19 è necessario per tutelare la salute umana e l’economia nazionale, ma non vorremmo che gli strumenti messi in campo possano diventare una censura politica, sullo stile orwelliano”.

FONTE:https://www.ilprimatonazionale.it/politica/unita-anti-fake-news-giorgia-meloni-deriva-orwelliana-152181/

Il disprezzo come modalità di governo

di Salvatore Bravo

Il disprezzo è la vera cifra dell’esperienza covid 19: il popolo è oggetto di una pedagogia regressiva e reazionaria, di un esperimento paternalistico ed ideologico. Si susseguono gli appelli a restare in casa in ogni foggia e maniera. Si cerca di raggiungere le diverse fasce di età utilizzando immagini, slogan, pubblicità di diverso genere, funzionali alle fasce di età. In genere per convincere a restare in casa si utilizzano “i volti preoccupati” dei vip di circostanza, i quali descrivono le loro giornate al tempo del covid 19, anche loro costretti, come tutti, a restare in casa, a rinunciare agli splendori quotidiani per una sana cattività.

La volgarità del disprezzo non ha pudicizia. Si cerca di convincere la popolazione che tutti siamo eguali ed uniti in un unico destino. Si occultano le differenze, si rimuove la solitudine dei tanti che sono lasciati soli e sono impediti nelle attività quotidiane. La violenza del potere si concretizza in una falsa immagine della popolazione. Nei servizi televisivi sulle vite dei vip viene abilmente occultato che la loro condizione è diseguale rispetto alla media della popolazione. La vita vera, perché esiste la verità del quotidiano, si materializza nella difficoltà nel reperire il necessario per la sopravvivenza.

Le lunghe file per la spesa per anziani e disabili sono l’incubo quotidiano, a cui si unisce la solitudine delle vuote ore casalinghe. Dopo l’attesa e le file si deve subire la televisione di Stato e non, che magnifica il sacrificio dei cittadini mostrando che non ci sono privilegiati, ma che anche i ricchi piangono, anche i famosi sono chiamati a rinunciare alla loro vita di consumo per essere parte del sacrificio nazionale. Nei servizi televisivi appaiono nello splendore abbacinante del trucco di scena e colgono l’occasione per una nuova esposizione mediatica, si garantiscono un’ulteriore visibilità mediatica.

Le vite delle persone normali con le loro ansie non appare, scompare tra le fumisterie dei trucchi, delle luci dell’ideologia del privilegio camuffato per condivisione nazionale. I famosi si appellano al senso civico, invitano alla pazienza, a leggere libri ed al senso della famiglia. Le loro vite sono la negazione dei valori a cui si appellano, ma si tratta solo di un altro copione con cui recitare un altro ruolo. Il nichilismo è per sua natura liquido, si può recitare ogni ruolo, perché nessuno è vero. Offende ed umilia la popolazione la farsa quotidiana e l’assenza dei veri protagonisti di questa tragedia nazionale.

Multe

Le trasgressioni devono essere sanzionate, se mettono in pericolo le vite degli altri, ma se in una condizione di tracollo economico, con il lavoro nero da sempre tollerato e sostenuto, si multano i trasgressori fino a tremila euro, ci si deve chiedere: multe di tale entità possono essere pagate dal precario che lavora in nero e deve uscire di casa per sopravvivere? Gli stipendi medi non raggiungono i mille euro; è lecito, è giusto, multare con tremila euro una persona costretta, in molti casi, a trasgredire?

Ancora una volta la distanza tra governati e governanti è abissale. Alla retorica della bandiera, delle canzonette sul balcone, al retorico “andrà tutto bene” bisogna opporre la crudezza del vero. La pandemia sta mostrando le verità di un sistema sclerotizzato in contraddizioni che non trovano voce. La “sinistra” di governo tace, ma è parte della scena mediatica che ci vuole ubbidienti e senza pensiero. Si sta consumando l’ennesima “farsa dolorosa” con le complicità di sistema, il quale avvezzo da decenni alla sottomissione delle masse, mette in pratica il disprezzo come forma di governo. È un’arma da non sottovalutare: il disprezzo entra nella psiche, nelle relazioni, forma alla servitù. Nel trattare l’altro da servo imbecille, si porta l’latro al convincimento di esserlo e in questo modo lo si persuade di non meritare altro che disprezzo, i suoi diritti non sono che capricci: il covid 19 è un terribile esperimento sociale, in cui il disprezzo per le masse è la nuova formula alchemica dei dominatori. Talvolta il potere batte i pugni per difendere la popolazione dai dinieghi dei plutocrati di Bruxelles, è la parodia della paternalismo borbonico. Il popolo bambino-suddito deve “percepire” che vi è il Super io che lo protegge, ma non gli consente di essere libero e padrone di sé: deve imparare la dipendenza.

Linguaggio

Il linguaggio del potere verso i sudditi è sempre prescrittivo: “State a casa!”, “Lavatevi le mani!” “Uscite uno alla volta!”. Ai bambini si danno ordini in modo ripetuto, perché possono disobbedire. I bambini non hanno autocoscienza, pertanto devono essere controllati con le parole che mentre ordinano, per il loro bene, terrorizzano con la sanzione e nello stesso tempo con immagini che servono ad impaurire ed inibiscono il pensiero. Le immagini che a ciclo continuo ci subissano, non aiutano a capire, ma servono a tener buona la popolazione. Capire il motivo dell’anomalia del numero dei morti non è consentito, implicherebbe il potere che si mette a nudo con le sue responsabilità dalla gestione dell’epidemia ai tagli sociali. Se non si comprendono le ragioni, se non sono oggetto di pubblica discussione, il potere si assicura che il dopo sarà eguale al prima. È in atto una manovra di conservazione e di investimento sul futuro del potere.

Nella melassa degli appelli e della propaganda ci sono anche gli angeli e gli eroi: il personale medico. Ma quest’ultimo non è costituito da eroi ed eroine, ma da vittime. Sulla loro carne viva si consumano decenni di tagli alla sanità, di numero chiuso alle università. Lavorano più di quanto dovrebbero e le loro vite sono in costante pericolo. Designarli come eroi è un modo per aggirare il problema della sanità pubblica e delle politiche di pareggio dei conti. Nella confusione non mancano i pretoriani del potere che donano centinaia di milioni di euro alla sanità: i finanzieri globali si possono permettere gesti di generosità con i quali essere, ancora, nella luce della ribalta. Sono giudicati come benefattori del popolo tanto nessuno si chiede da dove provenga tanta ricchezza. Colgono un’ottima occasione per farsi pubblicità e cancellare il sospetto che siano parte sostanziale del problema e non la soluzione.

Religione come oppio dei poveri

Le messe ed i crocifissi che vengono esposti per fermare la pandemia sono un ottimo espediente per tenere buona la popolazione, perché crede che tutto ciò che accade è dovuto a cause trascendenti. Dopo decenni di disprezzo verso la religione la si scongela per rabbonire le masse. Il senso religioso non è questo, ma vive nella vita quotidiana del libero atto di fede che non si lascia strumentalizzare, ma vive la scelta di essere altro nel mondo rispetto ai canoni convenzionali. Il credente difende la fede dall’uso che il potere ne vuole fare all’occorrenza: la religione di circostanza è l’oppio che si dà a taluni per calmierare la rabbia e le domande. Lo spazio che viene concesso alla religione è parte del disprezzo generalizzato verso un popolo che dev’essere eternamente bambino.

Eroi della didattica mediatica

I tempi grami vogliono una pluralità di eroi e di eroine. La didattica mediatica ha i suoi protagonisti in docenti che vengono invitati ad usare le piattaforme per videolezioni. Nessuno spiega ai docenti i rischi delle videolezioni, i pericoli della rete e specialmente che la propria immagine e la propria voce possono essere manipolate ed oggetto di ogni genere di uso. Si invita, si blandisce all’uso non consapevole. Non è una forma di disprezzo l’invito all’uso senza la consapevolezza? Ci si appella alla relazione empatica dopo che la scuola è stata ridotta ad azienda nella quale i fini educativi sono solo forma, mentre la tecnica è tutto. Si esige che siano i docenti a rassicurare i discenti, rivelando che le famiglie ed il loro senso comunitario è stato estinto dall’individualismo di sistema. La scuola nella quale si è imparato a competere a livello orizzontale e verticale, ora, dev’essere empatica… I docenti sono niente come gli alunni, per cui ad essi si può chiedere tutto.

Tempi moderni

Al bambino la verità va detta gradualmente: si deve abituare alla sottrazione delle sue libertà poco alla volta. La verità non la si dice intera, ma data la costitutiva fragilità del bambino si scelgono i tempi con cui dirgli a cosa va incontro. Si verifica la reazione ai primi provvedimenti. Se è positiva, si procede oltre. Il disprezzo è tutto qui, il popolo è un suddito che va governato dosando i provvedimenti, osservando le reazioni per poi decidere che si può chiedere ed esigere ancor di più. Il fine non è svelato, la verità è solo del potere. Il bambino deve solo imparare ad obbedire e se non lo fa si minaccia di controllare la tracciabilità dello smartphone. Si rafforza tale modalità ripetendo che è momentanea e che è per il suo bene, perché il popolo è naturalmente incapace di capire cosa è il bene ed il male: c’è il potere che gli insegna cosa deve docilmente fare e come deve vivere.

Nichilismo passivo

È in scena il nichilismo. Il nichilismo non è una teoria, ma una pratica di vita circolare ed invasiva che deve addestrare, le menti come i corpi, alla sudditanza. Perché gli uomini e le donne sono niente, sono entità manipolabili, sono argilla pronta a prendere la forma voluta dal potentato di turno. Nichilismo circolare, perché è il sistema dal basso verso l’alto, dall’alto verso il basso, ad esserne coinvolto. Il covid 19 sta rilevando, ancora una volta, la struttura nichilistica dell’Occidente nella forma della finanza. Nichilismo passivo, poiché la microfisica del potere esige la passività dei sudditi e gli stessi governanti sono i sudditi dei paradigmi culturali che mettono in pratica. Ora che la verità appare tra le sue tragiche fessure, sta agli uomini ed alle donne di buona volontà e di verità non farsi sfuggire un’occasione storica per un nuovo inizio. Il nichilismo non è la fine della storia, ma il sintomo di una malattia carsica e profonda che attende la cura del pensiero e della prassi.

FONTE:https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/17381-salvatore-bravo-il-disprezzo-come-modalita-di-governo.html

ARTE MUSICA TEATRO CINEMA

Mediante georadar gli archeologi sono riusciti a rilevare aree segrete accanto alla tomba del re egizio Tutankhamon, secondo quanto ha riferito la rivista Nature.

Forse la risposta a una delle questioni egittologiche più interessanti circa il luogo in cui giace Nefertiti potrebbe essere nascosta proprio lì. Sputnik vi spiega quanto sono affidabili i risultati delle rilevazioni.

Due porte segrete

All’inizio del XX secolo i principali egittologi ammisero che la Valle dei Re non avrebbe avuto in serbo altre sorprese. Tuttavia, l’archeologo britannico Howard Carter non la pensava così. Infatti, scelto con cura il luogo, iniziò a cercare la tomba di Tutankhamon, il re che regnò tra il 1332 e il 1323 a.C.

Passarono cinque anni e quando tutti, tranne l’archeologo stesso, persero la speranza, nel novembre 1922 fu scoperto l’ingresso della tomba. Questa scoperta scosse il mondo intero.

La tomba di Tutankhamon è composta da piccoli locali e un corridoio. Gli esperti hanno osservato che le dimensioni di questi spazi sono troppo piccole per un re di quell’epoca. Innumerevoli ricchezze sono raccolte in solo quattro camere e le pareti sono dipinte solo nella camera sepolcrale. Forse questa è parte di una struttura più grandiosa?

Nei cento anni dalla sua scoperta gli scienziati hanno esplorato ogni centimetro della tomba (tecnicamente chiamata KV 62). La questione sembrava aver smesso di interessare gli esperti. Tuttavia, i dati ottenuti mediante le nuove tecnologie hanno fomentato la curiosità nei confronti della questione.

Nel 2014 esperti spagnoli del progetto Factum Arte hanno analizzato le pareti della camera sepolcrale del faraone. In Rete sono state pubblicate immagini di affreschi e superfici murali ad alta risoluzione. Una volta studiate le immagini, l’egittologo britannico.

Sono state messe in rete immagini di affreschi e superfici murali ad alta risoluzione. Dopo aver studiato le “immagini”, l’egittologo britannico Nicholas Reeves ha richiamato l’attenzione su alcune linee rette. A suo avviso, queste porterebbero a due portali collocati nelle pareti nord e ovest della camera e condurrebbero a stanze segrete. Lì si ipotizza che ci siano tombe a noi ignote, rimaste intatte dall’antichità.

Reeves ha ipotizzato che Nefertiti, la leggendaria regina che governò l’Egitto per un breve periodo mentre Tutankhamon era bambino, sia stata sepolta in una delle camere nascoste. Qualora questa teoria venga confermata, si tratterebbe della più grande scoperta archeologica dai tempi degli scavi di Carter.

Due anomalie geofisiche

L’ipotesi di Reeves ha indotto le autorità egiziane ad iniziare le ricerche. Il ministro delle Antichità, Mamduh El-Damati, ha invitato a collaborare due gruppi scientifici specializzati nell’utilizzo di georadar.

Il georadar emette onde elettromagnetiche nella gamma radio e poi ne registra la riflessione ad opera di vari ostacoli e superfici situati all’interno di un corpo solido, nel sottosuolo, nel mare. Questi strumenti vengono utilizzati, ad esempio, per la ricerca di giacimenti minerari e la verifica della qualità di strutture ingegneristiche. Gli archeologi hanno iniziato ad usare georadar relativamente di recente.

Nel novembre 2015 l’esperto giapponese Hirokatsu Watanabe ha analizzato dall’interno la camera sepolcrale di Tutankhamon e ha confermato l’ipotesi di Reeves. Tuttavia, uno studio commissionato dalla rivista National Geographic ha smentito queste teorie.

Due anni dopo, un gruppo di ricercatori del Politecnico di Torino, guidato da Francesco Porcelli, ha condotto un’elettrotomografia dell’area circostante la tomba e ha rilevato due anomalie, ma non nell’area oggetto delle supposizioni di Reeves.

Nel febbraio 2018 lo scienziato italiano insieme alla società britannica Terravision Exploration ha nuovamente analizzato l’area ed è giunto a conclusioni deludenti: la teoria dell’esistenza di camere nascoste nella tomba di Tutankhamon non è supportata dai dati ottenuti mediante georadar.

Quanto alle due anomalie individuate in precedenza, gli scienziati non sono stati in grado di rilevare alcun collegamento con la KV 62.

Il corridoio a Est

Secondo Porcelli i risultati contradditori ottenuti sono da imputare alle caratteristiche specifiche dei georadar. A suo parere, spesso si sottovaluta la complessità di questa tecnologica. In particolare, una interferenza avrebbe potuto generare una errata interpretazione dei dati ad opera di Watanabe.

La situazione di incertezza non ha soddisfatto gli egittologi. Come riporta Nature, l’ormai ministro dimissionario Mamduh El-Damati ha deciso di mettere i puntini sulle “i” e ha invitato nuovamente Terravision Exploration a sondare le rocce circostanti la tomba di Tutankhamon assieme agli scienziati della Ayn Shams University de Il Cairo. A pochi metri in direzione est, questo gruppo ha rilevato qualcosa di simile a un corridoio lungo 10 metri e alto 2.

Uno studio effettuato dall’interno della camera sepolcrale non ha sortito risultati certi: infatti, sono state registrate interferenze con il sistema di condizionamento. Sarebbe stato necessario interromperne il funzionamento per tutta la durata delle rilevazioni oppure aggiornare il georadar.

Molte altre questioni riguardando questa storia affascinante. Alcuni scienziati dubitano dei dati ottenuti mediante georadar e sperano di confermare la teoria con altri metodi; altri credono che nelle camere segrete sia sepolta non Nefertiti, ma sua figlia Ankhesenamon, la moglie di Tutankhamon. Intanto Nature invita a non tenere nascosti i dettagli della ricerca in corso, affinché l’intera comunità scientifica di concerto possa decidere in che modo penetrare attraverso i secoli senza danneggiare un monumento unico.

FONTE:https://it.sputniknews.com/scienza-e-tech/202003228887951-il-mistero-della-tomba-di-tutankhamon-curiose-anomalie/

 

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

Posta un video con una violazione della quarantena e gli sparano

Storia di come un innocente tentativo di documentare il malcostume si trasforma in una escalation di violenza prima grottesca, poi spaventosa e drammatica

È una storia talmente complicata che neppure in un film dei fratelli Coen sarebbe credibile. Eppure, in estrema sintesi, è andata così: un tizio posta un video dei controlli di polizia per l’emergenza coronavirus e si becca quattro pistolettate.

I protagonisti di questa assurda vicenda avvenuta tra Scilla e Reggio Calabria sono un ignaro cittadino e due gentiluomini, neppure direttamente coinvolti nel video, ma che si sono sentiti chiamati in causa per conto terzi.

La ricostruzione dei fatti, messa insieme dai carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria, è davvero degna di una sceneggiatura.

Venerdì sera un impiegato di Scilla decide di vestire i panni di pubblico censore del malcostume e dal balcone di casa propria si mette a filmare i controlli di polizia sotto casa. In apparenza nulla di male, ma quando il video finisce sul web e tra le persone riprese spunta un dipendente pubblico ufficialmente in malattia, le cose si complicano. E parecchio. L’uomo, sorpreso non solo fuori casa durante l’isolamento, ma per giunta in malattia, ha un cognome che in certi ambienti si potrebbe definire ‘pesante’ e vedersi esposto al pubblico ludibrio non gli va giù. E quando confida il proprio disagio a un parente e a un amico questi, non si sa se motu proprio o ispirati dall’indignazione dell’offeso, decidono di farla pagare all’autore del video.

Da qui la decisione di organizzare una fulminea spedizione punitiva, consumata in mezz’ora. I due si presentano a Scilla direttamente a casa del malcapitato e prima tentano di estorcergli duemila euro a titolo di “risarcimento” del torto patito, poi, quando l’impiegato si rifiuta, uno dei due gli spara quattro colpi di pistola. Solo uno va a segno; l’uomo, ferito a una gamba, cerca di rifugiarsi nell’androne del condominio, ma i due glielo impediscono e continuano a pestarlo.

Quando ritengono di aver dimostrato a sufficienza la propria indignazione si rimettono in macchina per tornare a Reggio Calabria. Ai carabinieri servono meno di due giorni per venire a capo della faccenda: rilievi scientifici, testimonianze, raccolta di dati informativi, permettono di individuare i due presunti autori.

Le indagini sono ancora in corso per far luce su tutti gli aspetti della vicenda, ma anche sul ruolo avuto dell'”offeso”, il permaloso impiegato in malattia. Il ferito, curato all’ospedale di Reggio Calabria, ha già fatto ritorno a casa. I due aggressori sono stati arrestati con l’accusa di tentato omicidio, estorsione e porto abusivo di arma da fuoco.

FONTE:https://www.agi.it/cronaca/news/2020-04-05/coronavirus-posta-video-violazione-quarantena-gli-sparano-8211044/

 

 

 

BELPAESE DA SALVARE

STATO DI EMERGENZA, UN SISTEMA SENZA CONTRAPPESI

L’articolo 24 del Decreto legislativo n° 1 del 2018, “Codice della Protezione civile”, consente al Consiglio dei ministri, su proposta di Giuseppe Conte, sia il potere di deliberare lo stato di emergenza, che il potere di definirne la durata, senza alcun contradditorio. Questo, con tutte le conseguenze sulla libertà dei singoli e sulla libertà di impresa che stiamo vivendo e sulle quali rischiamo di perdere per sempre la nostra libertà economica, che è anche libertà dei singoli.

Il tormentone quotidiano secondo cui occorre essere tutti uniti attorno al governo che combatte eroicamente contro il virusl’Europa e i cittadini disobbedienti che continuano ad uscire violando i loro arresti domiciliari, decretati per il loro bene, comincia a suscitare qualche riflessione, oltre a qualche incazzatura, sulle modalità in cui si realizza tutto questo. Cominciamo pure col dire che, se stiamo alle statistiche (solo il 3 per cento circa delle persone controllate riceve una sanzione), il popolo italiano (considerato che molti non escono affatto da casa), si sta mostrando più che accondiscendente alle prescrizioni del governo. Anzi, per dirla tutta, non risultano episodi di così grande disciplina su altre materie o in altre epoche, a parte episodi locali e di divertente spettacolarizzazione del problema da parte di alcuni sindaci che hanno trovato il loro sistema per rendersi popolari anche oltre i propri confini, con sparate assurde, per cui sarebbe il caso di tributare un plauso ai cittadini italiani, rendere loro un profondo ringraziamento per la pazienza e la disciplina, invece di continui tormenti da tele paura, ogni sera, in onda alle 18 su alcune reti televisive.

Sarebbe gradito, ma non accadrà, perché la paura è elemento essenziale, oltre che per convincere la gente a proteggersi, messaggio importante, ma che allo stesso tempo serve a celare il motivo del proseguimento in questa situazione in cui nessuno dà un segnale di ripartenza, una decisione ormai urgente per far ripartire la nazione, ma che non è esente da controversie, che il governo non sembra disposto a gestire, anche a costo di far fallire il tessuto economico italiano, per poi far rivolgere lo sguardo di tutti verso la cattiva matrigna Europa. Tutti allineati e coperti, intanto nessuna decisione. C’è, tuttavia, in questa accondiscendenza di una parte degli italiani, qualcosa di inquietante, che, si vorrebbe errare, ma sembra andare oltre il pericolo concreto del virus. E questo “qualcosa” è dato dalla sequenza di atti che hanno portato con poche mosse a questa situazione che non è fatta solo da pericolo vero o percepito, disciplina o indisciplina, solidarietà o egoismo, salute o economia, Europa o “facciamo da soli”, tutte dicotomie un po’ vere e molto false, su cui si è ricamato e si è fondato il format comunicativo sui cui siamo tutti, consapevolmente o no, finiti dentro.

No. Qui c’è di più, c’è un sistema istituzionale che sta mostrando tutti i suoi limiti, oltre che un certo torpore. Ritengo, sia utile, per massima chiarezza, evidenziare in pochi punti salienti quali siano gli atti che ci hanno portato fin qui:

1) il 6 febbraio 2018 entrava in vigore il Decreto legislativo n°1 del 2 gennaio 2018: “Codice della Protezione civile”;

2) all’articolo 24, il citato Codice, prevede che “al verificarsi degli eventi che presentano i requisiti dell’articolo 7 comma 1, lettera C (“Emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell’articolo 24, ndr), “il Consiglio dei ministri, su proposta del presidente del Consiglio dei ministri, formulata anche su richiesta del presidente della Regione o Provincia autonoma interessata e comunque acquisitane l’intesa, delibera lo stato d’emergenza di rilievo nazionale, fissandone la durata e determinandone l’estensione territoriale”;

3) nello stesso articolo 24 al comma 3, è riportata la durata dello stato di emergenza di rilievo nazionale: “non può superare i 12 mesi, ed è prorogabile per non più di 12 mesi” e al successivo comma 4 è scritto che: “eventuale revoca anticipata dello stato d’emergenza di rilievo nazionale è deliberata nel rispetto della procedura dettata per la delibera dello stato d’emergenza medesimo”: in pratica, inizio e conclusione, per un massimo di 24 mesi, sono decisi dallo stesso Consiglio dei ministri su proposta del presidente del Consiglio;

4) il 31 gennaio 2020 il Consiglio dei ministri deliberava la “Dichiarazione dello stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”, cioè il decreto che, integrato con una serie di Decreto del presidente del Consiglio dei ministri “a cascata”, che qui non approfondiamo per brevità e perché non essenziali al nostro ragionamento, che hanno progressivamente limitato la libertà dei cittadini italiani, fino allo stato attuale.

Tralasciamo la mancanza di comunicazione iniziale, la sottovalutazione del fenomeno nonostante si fosse già dichiarato lo stato di emergenza, le misure inadeguate, la comunicazione falsamente rassicurante e la, conseguente, valanga di divieti e comunicazioni palesemente incompetenti, soprattutto nell’identificare e confinare i focolai iniziali (cosa che avrebbe consentito di non chiudere tutto), e nel produrre statistiche precise e utili per gestire veramente il fenomeno, di tutto questo abbiamo già scritto e inevitabilmente, con le notizie di orrori gestionali che purtroppo escono ogni giorno, ancora scriveremo. Qui sono da notare altri fattori. Il Parlamento è stato totalmente ignorato per almeno una ventina di giorni e, di fatto, lavora con modalità fortemente limitate dall’inizio di marzo, a voler essere generosi. L’opposizione ha più volte fatto presente il fatto i voler essere coinvolta, nelle forme parlamentari, al fine di contribuire positivamente in questa fase di gestione del fenomeno in forma acuta.

L’appello non è stato di fatto accolto, il presidente del Consiglio ha parlato di “informativa” da dare alle opposizioni ogni 15 giorni. Abbiamo visto in questi giorni sedute parlamentari caratterizzate da informative di varia natura, fra cui quelle chieste al ministro degli Esteri sul complessivo mezzo miliardo di euro di aiuti che l’Italia ha pensato bene di mandare all’estero in questo momento di emergenza, ma lasciamo perdere. Quello che non abbiamo sentito, o lo abbiamo sentito troppo timidamente, è sapere fino a quando si protrarrà lo stato di emergenza. Su questo si genera quasi quotidianamente una confusione comunicativa, fatta di mezze parole, pseudo ragionamenti ad alta voce da parte del capo della Protezione civile, esperti di varia natura, taluni titolari di ruoli istituzionali, talaltri titolari di cattedre universitarie, ma legittimati da social e televisioni (decidono loro sulla nostra libertà?), in particolare trasmissioni della sinistra politicamente corretta, sostenute anche da giornalisti televisivamente corretti provenienti dalla stessa area politica.

Decidono loro sulla nostra libertà? E se la parola “sinistra” sostituissimo la parola “destra”, avremmo avuto la stessa benevolenza? Oppure si produrrebbe la reazione di illustri costituzionalisti, sempre pronti quando si forma all’orizzonte non dico la sagoma, ma anche solo l’ipotesi di un “uomo di destra”? Adesso l’uomo c’è, lo so che fa un po’ ridere, ma c’è ed è Conte, col suo fare mellifluo e felpato, la sua pochette, i capelli ben composti (forse ritinti e senza ricrescita), sempre pettinati a puntino, il suo argomentare vagamente roco e sofferente. Questo eroe proveniente dal nulla, che l’estate scorsa ha fustigato il mostro del Papeete che chiedeva “pieni poteri” (mal gliene incolse), i pieni poteri li ha davvero ottenuti, però lui, e con ben 24 mesi di orizzonte, grazie alle leggi. Orbene, non poniamo questioni di costituzionalità, altri più qualificati di potrebbero e dovrebbero farlo, ma di opportunità politica e di democrazia sì.

È evidente che nella normativa c’è un buco gigantesco, un crepaccio, un cratere, e come sopra indicato, nell’articolo 24 del Decreto legislativo n° 1 del 2018, “Codice della Protezione civile”, che consente, al Consiglio dei ministri su proposta del presidente del Consiglio, sia il potere di deliberare lo stato di emergenza, che il potere di definirne la durata, senza alcun contradditorio. E questo con tutte le conseguenze sulla libertà dei singoli e sulla libertà di impresa che stiamo vivendo e sulle quali rischiamo di perdere per sempre la nostra libertà economica, che è anche libertà dei singoli. Si sta chiedendo semplicemente che si affermi, colmando quella che a nostro avviso è una carenza imperdonabile, che il ruolo di controllare che sussistano i termini per uno stato di emergenza, siano attribuiti al voto parlamentare, correggendo questo “buco” presente nel Decreto legislativo n° 1 del 2018.

Che al Parlamento sia dato, con voto di maggioranza mensile o ogni quindici giorni, il ruolo di dichiarare, o meno, il persistere delle condizioni di emergenza. Questa è una riforma sostanziale e urgente. Un compito che dovrebbero darsi tutti, partiti di maggioranza e di opposizione. Solo così, e non a parole, dimostrerebbero di non inseguire scorciatoie dirigiste e antidemocratiche anche se riferite a periodi limitati, ma che possono potenzialmente durare fino a due anni, e per emergenze pubbliche. Lo devono fare, non solo per gestire meglio le stesse emergenze, ma per restituire ai cittadini la sovranità attraverso il Parlamento, che mai più deve essere messo in condizioni di mendicare incontri con il governo o con il suo presidente. Lo devono fare per restituire a tutti i cittadini italiani la Democrazia.

FONTE:http://opinione.it/politica/2020/04/06/alessandro-cicero_emergenza-coronnavirus-decreto-legislativo-n-1-2018-codice-protezione-civile-consiglio-dei-ministri/

AIUTI CORONAVIRUS, NEI COMUNI SOVRANISTI VALE LA REGOLA “PRIMA GLI ITALIANI”: SINISTRA BORBOTTA

Emergenza Coronavirus, per i Comuni sovranisti, amministrati quindi dalla Lega e da Fratelli d’Italia, vale la regola del “Prima gli italiani”. Anzi: del “solo gli italiani”. Ovviamente, com’era prevedibile, le varie associazioni che sull’immigrazione lucrano, protestano. Non è sbagliato credere che la maggioranza di queste vengano sistematicamente finanziate da Soros.

I Comuni stanno decidendo sui criteri di ripartizione dei primi scarni stanziamenti deliberati dal governo (ordinanza n.658 del 29-3-2020), per incrementare il fondo di solidarietà comunale e contrastare le situazioni di bisogno createsi a seguito dell’emergenza Coronavirus.

FONTE:https://stopcensura.org/coronavirus-nei-comuni-sovranisti-vale-la-regola-prima-gli-italiani-sinistra-borbotta/

Bambini allo Stato

01arzo, 2020

Premessa: sono felice di avere frequentato una scuola materna e di averla fatta frequentare ai miei figli. Lo sono anche i miei coetanei, pur con poche, ma rispettabili e motivate, eccezioni. Dovrei dunque rallegrarmi del fatto che il nostro governo propone in questi giorni di renderne obbligatoria la frequenza? No, anzi. La notizia mi ha fatto male, come fa male assistere a una violenza sproporzionata e gratuita. Perché l’obbligo è una violenza: in certi casi necessaria, ma comunque tale. E nella marea di nuovi obblighi, adempimenti e sanzioni che sta salendo in questi anni sembra appunto svelarsi la trama di una società sempre più violenta nel metodo. Che non sapendo più offrire, costringe. E non sapendo convincere, impone. Perché, mi sono chiesto, un servizio ai cittadini deve trasformarsi in un dovere? Perché un diritto deve negare un altro diritto? Perché rendere odiosa e minacciosa un’occasione di crescita bene accolta da tutti? Perché farne un pretesto per accorciare il guinzaglio?

Nel cercare le risposte a queste domande, il mio malessere cresceva. In un tweet del 16 febbraio, il viceministro all’istruzione Anna Ascani spiegava che «estendere l’obbligo alla scuola dell’infanzia significa dare a tutti i bambini e alle loro famiglie più opportunità». Pochi giorni dopo, il Corriere della Sera dava la notizia dell’«asilo obbligatorio dai tre anni» aggiungendo nel titolo: «oggi frequenta solo il 12% dei bimbi». In entrambi i casi, non bisogna essere maliziosi per capire che c’è un grosso problema: sia nel rappresentare un obbligo come il suo contrario (una «opportunità»), sia nel suggerirne l’urgenza affiancandogli a caratteri cubitali un dato inapplicabile e irrilevante. Il «12% dei bimbi» è infatti la quota di frequenza degli asili nido, cioè dei bambini fino ai tre anni di età, mentre le scuole dell’infanzia oggetto della proposta sono già frequentate dal 92,60% dei piccoli del nostro Paese, che si colloca così al nono posto in Europa (fonte Openpolis). E non bisogna essere complottisti per capire che se si preferisce torturare la logica e la statistica invece di esporre i veri motivi – condivisibili o meno – di una scelta così drastica, quei motivi potrebbero essere poco presentabili al pubblico.

Nel cercare di approfondire la genesi e i moventi di questa idea (già introdotta due anni fa nella Francia di Macron, con gli stessi fumi dialettici), ho recuperato un altro articolo del Corriere della primavera scorsa in cui si illustravano le proposte avanzate dall’associazione Treellle per riformare il sistema scolastico italiano. Prima di soffermarci sull’identità dei propositori, anticipo che in quel caso il quotidiano nazionale spiegava in ben altri termini la scelta di rendere obbligatorio l’asilo. «Una scuola obbligatoria con ingresso precoce (a 3 anni)», scriveva la giornalista, «… servirebbe non solo e non tanto a sollevare le famiglie ma proprio a ridurre il peso dei condizionamenti ambientali e familiari». Oh, ecco. Altro che «opportunità» e statistiche creative: il problema sarebbero «proprio» le famiglie, cioè il «peso» dell’educazione che impartiscono alle loro creature. Un «peso», quello dei valori tramandati dai genitori ai figli, evidentemente così terribile da far decidere allo Stato di mettere in salvo i piccoli affidandoli alle cure di estranei.

***

Chi è, che cosa fa l’associazione Treellle? Già da tempo oggetto delle attenzioni del ricercatore Pietro Ratto (qui un suo commento sulla vicenda trattata in questo articolo), si presenta sul suo sito come «un vero e proprio think tank» che «si pone l’obiettivo di favorire il miglioramento della qualità dell’education (educazione, istruzione, formazione) nei vari settori e nelle fasi in cui si articola». Fondata nel 2001, ha sede a Genova, è presieduta da Attilio Oliva, già presidente di Confindustria e membro di diverse agenzie internazionali, e vanta tra i suoi advisor ed esperti nomi importanti di giornalisti, accademici e politici di ogni schieramento. L’assemblea dei soci fondatori è una vetrina del gothaindustrial-finanziario nostrano: da Fedele Confalonieri (Mediaset) a Luigi Maramotti (Max Mara), da Pietro Marzotto a Marco Tronchetti Provera, coordinati dal segretario Guido Alpa, già maestro e mentore di Giuseppe Conte. Tra i sostenitori troviamo la Compagnia di San Paolo di Torino e altre banche e fondazioni industriali e bancarie.

Secondo Ratto e altri, Treellle svolgerebbe da anni il ruolo di consulente privilegiato del ministero dell’Istruzione, al quale anticiperebbe gli obiettivi e le linee guida da realizzare nelle successive riforme. Così sarebbe ad esempio avvenuto con la Legge 107/2015 (la «Buona Scuola» di Renzi) le cui innovazioni, scriveva Salvatore Cannavò sulle pagine del Fatto Quotidiano il 3 giugno 2015, sarebbero state dettate «dall’associazione Treellle, think thank vicino agli industriali e a Comunione e Liberazione». Siccome, almeno a mia notizia, nessun’altra istituzione in Italia ha formalizzato la proposta di rendere obbligatoria la scuola dell’infanzia, è plausibile ipotizzare che gli attuali proponenti politici si siano ispirati proprio alle analisi e alle raccomandazioni del pensatoio genovese.

Queste raccomandazioni si possono leggere nell’ultimo Quaderno edito dall’associazione, il numero 15 del 2019 a firma di Oliva e di Antonino Petrolino, in cui si avanzano alcune proposte per riformare il sistema scolastico nazionale perché, si spiega nell’introduzione, «c’è bisogno di una scuola diversa per fronteggiare le sfide del XXI secolo. E il tempo stringe» (pag. 11). Il testo non delude. C’è tutto, ma proprio tutto, ciò che ci si aspetterebbe di trovare in una proposta conforme al più patinato spirito dei tempi: il citato «fate presto» di marca turboriformista, l’atto di fede nell’Europa («la nostra casa naturale: sempre meno una seconda casa e ormai di necessità si avvia a diventare l’unica possibile», pag. 50), il «quadro della competizione globale» (pag. 13), la meritocrazia che però si scontra con «forti resistenze» ovviamente dal basso. «radicate soprattutto nella… rappresentanza sindacale» (pag. 156), l’imprescindibilità di una «seria spending review, che passi in rassegna tutti i punti da cui è possibile ricavare risorse» (pag. 173), il «digitale» che deve essere «per tutti e ordinario» (pag. 186), più qualche bizzarria come la presunta superiorità della «scuola protestante» che, scopro leggendo, «nasce [?] dal rifiuto del magistero sacerdotale: ogni uomo è sacerdote di se stesso» e quindi «gli studenti non hanno paura di riflettere autonomamente e di dire come la pensano» (pag. 112). Una bizzarria tanto più bizzarra perché gli organi scientifici dell’associazione includono una nutrita rappresentanza di cattolici, tra cui anche un arcivescovo e segretario della Congregazione per l’educazione cattolica, mons. Vincenzo Zani.

A monte non può mancare il #facciamocome, la consapevolezza del «ritardo socio-culturale [dell’Italia] rispetto ai paesi più avanzati» (pag. 25). Adottando le fonti, gli indicatori e i campioni selezionati dagli autori, scopriamo di essere ultimi in tutto: nel tasso di scolarizzazione, nella «literacy», nella «numeracy», nelle «competenze funzionali», nella fiducia nelle istituzioni e in altro. Da queste analisi, sul cui rigore qualcuno ha espresso in passato più di una perplessità e sulla cui neutralità gli stessi estensori sembrano a un certo punto interrogarsi (pag. 164), emergerebbe la «storica arretratezza del capitale umano» (pag. 26) del nostro Paese e quindi l’urgenza di ripensarne radicalmente anche il sistema educativo.

***

La proposta di rendere obbligatoria la frequenza scolastica per tutti a partire dai tre anni, per otto ore al giorno, è illustrata nel capitolo 6 e in altri passaggi del testo che confermano oltre ogni dubbio la sintesi della giornalista del Corriere, facendola anzi apparire un blando eufemismo. Il provvedimento è fin dall’inizio presentato come uno strumento per «rimuovere tempestivamente gli eventuali condizionamenti sociali negativi in una fase in cui prendono forma gli aspetti emozionali e cognitivi dell’individuo, a cominciare dal linguaggio, ed i suoi criteri di giudizio (giusto, bello, vero)» (pag. 21). I «condizionamenti sociali negativi» sono in primis quelli delle famiglie italiane, su cui gli autori proiettano la loro idea dell’italiano medio, così ignorante da costituire un pericoloso esempio per i suoi stessi figli:

… si tenga presente che la popolazione italiana adulta (25-64 anni) possiede livelli di competenze in literacy e numeracy particolarmente ridotti: in un terzo dei casi, a livello di analfabetismo funzionale. Lasciare i bambini, in una fase così cruciale per lo sviluppo delle loro potenzialità future, in un contesto culturalmente deprivato li grava di uno svantaggio iniziale che potrebbe non colmarsi mai del tutto (pag. 94).

Il concetto è ribadito un po’ ovunque: «l’importante è che il peso di un ambiente sfavorito non abbia troppo tempo per segnare la personalità» (pag. 127); «l’anticipazione della scolarità e il tempo lungo… sono pensati… anche per sottrarre i bambini all’influenza di quegli ambienti familiari che, per ignoranza, non esercitano la propria azione educativa o lo fanno in modo negativo» (pag. 128); il tempo lungo serve a «massimizzare l’influenza della formazione scolastica e ridurre al minimo i condizionamenti socio-economici esterni» (pag. 95). E ancora:

Quando si inizia la scolarità a sei anni, le differenze indotte dall’ambiente familiare e sociale di origine si sono ormai saldamente radicate. Anche a tre anni, quando inizia la scuola per l’infanzia, è probabilmente tardi… Per problematico che possa risultare, bisognerebbe prendersi cura dei bambini ancora prima [!], se possibile non più tardi dei due anni, ed immergerli per buona parte della giornata in un ambiente formativo che tenda a contrastare gli eventuali condizionamenti familiari negativi (pag. 124).

«Certo», ammettono gli estensori del documento, «occorrerà una speciale attenzione ad evitare i rischi di indottrinamento di Stato». Ma, in ogni caso,

quelli di un condizionamento dell’ignoranza, del familismo amorale [poteva mancare?], della scarsità di spirito comunitario e di senso dello Stato e, per troppe fasce della nostra popolazione, persino della tolleranza del malaffare sono già adesso, e da molto tempo, più gravi e concreti (pag. 128).

Quanto amore, vero? Sempre a proposito di indottrinamenti da evitare, a pag. 39 affermano che la scuola, rispetto a un passato in cui sarebbe stata «funzione dello Stato sovrano», dovrebbe avere oggi come unico «fine lo studente» piuttosto che propagandare i progetti politici del momento. Incuriosisce perciò leggere fra le «nuove missioni» anche quella di educare a una «cittadinanza globale» (pag. 47). Segue una fresca chiosa:

L’Unione Europea ha favorito uno sviluppo economico che sessanta anni fa sembrava inarrivabile; ci ha garantito il più lungo periodo di pace nella nostra storia, dopo secoli e secoli in cui gli stati sovrani si sono dissanguati ad ogni generazione. Già oggi – e sempre più negli anni a venire – i nostri giovani della classe di età fra i venti ed i trent’anni appartengono a quella che viene detta generazione Erasmus, cresciuta senza passaporto e senza frontiere, che si sente a casa sua a Barcellona non meno che a Londra o a Berlino, che ha dato vita a migliaia di famiglie transnazionali. Come si può pensare di tornare indietro? soprattutto, mentre la spinta delle migrazioni ci sospinge se mai in direzione opposta, verso una sempre maggiore integrazione con popoli e persone ancora più diversi? (pag. 50)

Mentre cerchiamo di stabilire a quale grado si debbano collocare questi pensieri nella scala dei «rischi di indottrinamento di Stato», godiamoci il prodigio di una retorica nazionalista che smette di essere tale se si allargano i confini della nazione al continente.

***

Giunto a fine lettura, reputo la proposta Treellle di un asilo obbligatorio a tempo lungo – tralasciandone molte altre su cui ci si potrebbe e dovrebbe soffermare – aberrante nel merito e nelle motivazioni. Perché fa dell’aggressione alla libertà delle famiglie di educare la prole non uno strumento, ma il suo fine primo e dichiarato. Perché, nel rendere obbligatorio un servizio, lo priva degli stimoli ad adattarsi alle esigenze dell’utenza negando a monte anche la possibilità e il valore di un’offerta educativa plurale. Perché gronda contenuti ideologici (globalismo, europeismo) invisi a una parte sempre più consistente della popolazione e pretende di inculcarli precocemente a tutti con l’intento esplicito di correggere, non di servire i cittadini. Perché non degna della minima attenzione il delicato e fondamentale legame affettivo tra genitori e figli piccoli, che si vorrebbe ridurre a poche ore al giorno per tutti. Perché non prende in considerazione i bisogni dei minori che vivono l’asilo come un’esperienza insopportabile o traumatica, e che richiederebbero perciò percorsi più modulati secondo la sensibilità e il giudizio dei genitori.

Ma anche, e peggio di tutto, perché si fonda su una visione ostentatamente elitaria, paternalistica e sprezzante del popolo italiano e delle sue famiglie. Se si accetta che mediamente un’intera popolazione sia indegna di crescere i propri figli, che non possa cioè neanche dirsi proletaria, si accetta di poterla spogliare di qualsiasi altro bene meno prezioso: cioè di tutto.

***

Eppure. Eppure qualcosa ancora non torna.

Chi ha formulato le proposte del Quaderno insiste molto sul valore dell’uguaglianza, di «ridurre al minimo il peso di una problematica eredità sociale» e di affidare alla scuola una funzione di equalizzazione tra classi. L’asilo obbligatorio è pensato per i più deboli: «l’effetto di una tale misura sarebbe tanto più positivo quanto più deprivato fosse l’ambiente sociale ed economico di partenza» (pag. 124) e, quindi, «non ci guadagneranno tanto i figli di genitori agiati e colti, ma ne beneficeranno enormemente quelli delle famiglie deprivate e socialmente marginali» (pag. 169). Messa così, l’idea sembra quasi voler bilanciare l’elitismo estremo delle sue analisi con un altrettanto estremo giacobinismo sociale, dove gli «agiati e colti» dovrebbero trascorrere meno tempo coi propri figli… per dare una chance ai figli degli altri. Più che sciogliersi, questo paradosso si scontra però con un problema di fondo, un elefante nella stanza che fa capolino nel testo in un solo punto, nella nota a pie’ di pagina 94 dove si legge che «già oggi, la frequenza dei bambini della classe di età 3-6 anni alle scuole dell’infanzia (pubbliche e private) è molto vicina al 100%». Ripetiamolo: già oggi la frequenza dei bambini alle scuole dell’infanzia è molto vicina al 100%.

Quindi?

Anche volendo dare per vere tutte le analisi e le considerazioni svolte, che bisogno ci sarebbe di rendere obbligatorio ciò che già tutti fanno per scelta? Sarebbe come introdurre un nuovo reato che nessuno ha mai commesso né si sogna di commettere. Questa contraddizione è tanto più enorme in quanto gli autori non tentano minimamente di risolverla nella loro esposizione: di fronte a lunghi paragrafi con approfondimenti, serie statistiche, istogrammi a tutta pagina e commenti per «dimostrare» l’arretratezza del nostro Paese nelle aree ritenute discriminanti per educare la prole, non si spende una sola riga per qualificare il dato sulla mancata frequenza della scuola materna e dare così un senso numerico alla proposta avanzata. Oltre alla domanda già posta in grassetto, ci saremmo chiesti: quanti bambini oggi non frequentano, e perché? E di questi, quanti ne avrebbero bisogno secondo i criteri di «deprivazione» specificati? Qual è la distribuzione dei non frequentanti per censo e titolo di studio dei genitori? Quanti non vanno all’asilo per scelta delle famiglie? E quanti invece per impossibilità materiale, perché ad esempio ammalati o per carenza di strutture? E quanti perché respinti a causa delle mancate vaccinazioni? Solo questi ultimi, ad esempio, sfiorerebbero almeno in potenza le ottantamila unità su poco più di novantamila bambini fuori dagli asili, per qualsiasi motivo.

Vien da chiedersi se addirittura esista la fattispecie particolare di una famiglia che sia indigente e ignorante e, al tempo stesso, si tenga i figli a casa per scelta.

Nel testo treelllino non si dà risposta al dubbio, non ci si prova nemmeno. Il malessere iniziale diventa allora inquietudine. Se qualificare un obbligo come un’opportunità fa ridere, se giustificarlo gettando fango sugli obbligati è antipatico, non giustificarlo del tutto fa spavento. Si affaccia alla mente l’immagine di un teatro dove tutti assistono volentieri a uno spettacolo, finché gli attori non decidono di incatenare gli spettatori ai sedili e di trascinare in sala i pochi, eventuali rimasti nell’atrio. Come si fa a non pensare che di lì a poco il copione diventerà sgradevole e terrificante? Fuor di metafora, esiste un’altra spiegazione – lo chiedo sinceramente ai lettori – che non sia quella di una misura preliminare per impedire ai genitori di togliere i figli dagli asili quando riterranno inaccettabili i programmi e le attività che si prevede di introdurvi?

Siccome questa ipotesi non è mai esplicitata, il suo sviluppo richiede la formulazione di altre ipotesi che integrino i segnali dei tempi. Una prima area critica può essere suggerita dal rinnovato interesse delle istituzioni globali per l’educazione sessuale dei giovanissimi. Già dieci anni fa l’Organizzazione Mondiale della Sanità pubblicava e diffondeva i suoi “Standard per l’educazione sessuale in Europa” dove scopriamo che – indovinate – «rendere l’educazione sessuale (e relazionale) un argomento curricolare obbligatorio è un aspetto importante per l’insegnamento» (pag. 14, corsivo mio). Se «l’educazione sessuale inizia alla nascita [!]» (pag. 27), non stupisce trovare un nutrito elenco di «argomenti principali o standard minimi che devono essere presenti nell’educazione sessuale» (pag. 36) dei pargoli già in età d’asilo. Leggiamone alcuni tra quelli pensati per la fascia 0-4 anni (pagg. 38-39, cito testualmente):

  • basi della riproduzione umana (da dove vengono i bambini)
  • gioia e piacere nel toccare il proprio corpo, masturbazione della prima infanzia
  • scoperta del proprio corpo e dei propri genitali
  • ruoli di genere

Nella fascia successiva (4-6 anni, pagg. 40-41) si ripropongono gli stessi temi e se ne aggiungono altri, come «consolidare la propria identità di genere» e «relazioni con persone dello stesso sesso». Più che i programmi, complessivamente ben strutturati per quanto appiattiti sulle mode del momento, ciò che potrebbe legittimamente allarmare e indignare un genitore è il target a cui sono indirizzati: i bambini del nido e della scuola materna, o persino in fasce. Se alla volontà di renderne obbligatorio l’insegnamento sommiamo quella di rendere obbligatoria la frequenza degli asili in cui li si insegna, è fin troppo facile intravedere la gabbia che si va allestendo.

Un’altra possibile area «calda» è quella della salute psicofisica dei minori. Il contesto è tracciato dalla tendenza apparentemente incomprensibile di abbassare l’età per accedere a esami e trattamenti sanitari riguardanti principalmente la sfera sessuale e, insieme, ad affrancarli dal consenso dei genitori con l’effetto di consegnare i minori a figure istituzionali di «supporto» estranee alla famiglia. Nel catalogo dell’una o di entrambe le fattispecie troviamo oggi i test HIV, i chemioterapici per arrestare lo sviluppo dei dodicenni sessualmente «confusi», l’aborto e ultimamente anche i trapianti. In anni recenti si è denunciato l’aumento delle diagnosi di disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) e il rischio di infliggere a migliaia di bambini uno stigma ingiustificato patologizzando ritardi passeggeri o semplici tratti caratteriali. Un disegno di legge del passato governo proponeva di abbassare l’età della prima diagnosi all’ultimo anno di asilo, mentre sembra che i test PISA OCSE e le prove INVALSI stiano approdando in segreto anche nelle scuole d’infanzia: «un congegno di civilizzazione», scrive Rossella Latempa su Roars, «che usa la retorica ipocrita della prevenzione dei disagi, del benessere dei piccoli, degli aiuti precoci e degli interventi tempestivi per sorvegliare e monitorare il profilo di sviluppo del “bambino in vitro”. Pronto a segnalare e correggere ogni difformità o rallentamento, ogni eccedenza o stranezza». Anche in questo caso, con l’asilo obbligatorio e l’obbligo contestuale di introdurre simili procedure (con il citato ddl si vorrebbero sanzioni economiche per gli insegnanti inadempienti), nessun genitore potrebbe sottrarre i propri figli da ingerenze indesiderate e precoci.

Anche il nodo citato delle vaccinazioni pediatriche obbligatorie assumerebbe un altro spessore. Oggi ai bambini non in regola con il calendario vaccinale si nega il diritto di frequentare l’asilo, ma come si potrebbe negare loro un dovere? È logico prevedere che l’atto medico – estendibile a piacimento e capriccio dei consulenti governativi «indipendenti», fuori da ogni controllo democratico – passerebbe da obbligatorio a coatto. E che nei casi di renitenza estrema si avvererebbe il sogno bagnato di molti, di strappare i minori alle famiglie perché ree di «inadeguatezza educativa» ed evasione scolastica. Molti piccoli innocenti ne uscirebbero disturbati e traumatizzati a vita, è vero. Ma non dovrebbero più temere la varicella.

***

Le ipotesi elaborate fin qui superano la lettera e sicuramente anche le intenzioni del Quaderno Treellle. Ma l’asilo obbligatorio è un contenitore, non un contenuto. È un dispositivo che non può astrarsi dal contesto storico né dunque dalla tentazione di assoggettare i cittadini più ricettivi e malleabili, quelli in un’età discriminante per la formazione successiva della personalità e delle convinzioni, a sperimentazioni ideologiche e sanitarie il cui essere indigeste a una larga fascia di popolazione è già insito nel fatto, altrimenti inspiegabile, di volerle rendere obbligatorie. O anche nella debolezza dei moventi somministrati al pubblico, tanto più sgradevoli perché mettono in mezzo le istanze nobili dei diritti, della giustizia sociale e del benessere dei piccoli senza una necessità logica.

Sarebbe facile passare in rassegna i regimi dispotici che hanno rivolto le loro attenzioni alla primissima infanzia per radicare il consenso e formare sudditi devoti. Nel contesto di oggi il dispotismo è rappresentato dalla spinta a rendere tutto obbligatorio per tutti, mentre la volontà sottesa di creare «uomini nuovi» coltivandoli in appositi laboratori sociali che interrompano la trasmissione intergenerazionale dei valori e delle idee ripropone un’idea di rivoluzione più che millenaria. Nella Repubblica platonica, Socrate spiegava che togliere i bambini alle famiglie fintanto che sono «ancora immuni dai costumi dei genitori» è «il modo più rapido e più facile per istituire» il governo dei sapienti (Libro VII). Nei successivi duemilaquattrocento anni, tanti altri sedicenti sapienti hanno ritentato la stessa scorciatoia degli auto-proclamati sapienti di sempre, di esautorare le masse con agile balzo, superare il vecchio sequestrando i giovani e rifondare una società a loro dire migliore seminando scompiglio in quella esistente. Senza mai raccogliere nulla, se non i cocci di chi non li ha saputi fermare.

FONTE:http://ilpedante.org/post/i-bambini-allo-stato

 

 

 

Harvard ci studia e dice che non siamo stati solo sfortunati

L’America ci sta studiando come una cavia. In questa analisi di Gary P. Pisano, la maggior rivista di Harvard illustra ai suoi lettori le “lezioni dall’Italia” Fonte in inglese qui: Harvard Business Rewiev

Lessons from Italy’s Response to Coronavirus

Mentre i politici di tutto il mondo lottano per combattere la rapida pandemia di Covid-19, si trovano in un territorio inesplorato. Molto è stato scritto sulle pratiche e le politiche utilizzate in paesi come Cina, Corea del Sud, Singapore e Taiwan per reprimere la pandemia. Sfortunatamente, in gran parte dell’Europa e degli Stati Uniti, è già troppo tardi per contenere Covid-19 nella sua infanzia, ed i politici stanno lottando per tenere il passo con la pandemia in espansione. Nel fare ciò, tuttavia, stanno ripetendo molti degli errori commessi all’inizio in Italia, dove la pandemia si è trasformata in un disastro. Lo scopo di questo articolo è di aiutare i politici statunitensi ed europei a tutti i livelli a imparare dagli errori dell’Italia in modo che possano riconoscere e affrontare le sfide senza precedenti presentate dalla crisi in rapida espansione.

Nel giro di poche settimane (dal 21 febbraio al 22 marzo), l’Italia è passata dalla scoperta del primo caso ufficiale Covid-19 a un decreto del governo che essenzialmente vietava tutti i movimenti di persone all’interno dell’intero territorio e la chiusura di tutti i attività commerciali essenziali. In questo brevissimo periodo, il paese è stato colpito da niente meno che da uno tsunami di forza senza precedenti, punteggiato da un flusso incessante di morti. È senza dubbio la più grande crisi italiana dalla seconda guerra mondiale.

Alcuni aspetti di questa crisi – a cominciare dai suoi tempi – possono senza dubbio essere attribuiti alla semplice e semplice sfortuna (“sfortuna” in italiano) che chiaramente non era sotto il pieno controllo dei politici. Altri aspetti, tuttavia, sono emblematici dei profondi ostacoli che i leader in Italia hanno affrontato nel riconoscere l’entità della minaccia rappresentata da Covid-19, nell’organizzare una risposta sistematica ad essa e nell’apprendere dai primi successi nell’implementazione – e, soprattutto, dai fallimenti.

Vale la pena sottolineare che questi ostacoli sono emersi anche dopo che Covid-19 aveva già avuto un impatto completo in Cina e alcuni modelli alternativi per il contenimento del virus (in Cina e altrove) erano già stati implementati con successo. Ciò che suggerisce è un fallimento sistematico nell’assorbire e agire sulle informazioni esistenti rapidamente ed efficacemente piuttosto che una completa mancanza di conoscenza di ciò che dovrebbe essere fatto.

Ecco le spiegazioni per quel fallimento – che si riferiscono alle difficoltà di prendere decisioni in tempo reale, quando si sta verificando una crisi – e ai modi per superarle.

Riconosci i tuoi pregiudizi cognitivi. Nelle sue fasi iniziali, la crisi di Covid-19 in Italia non assomigliava affatto a una crisi. Le dichiarazioni iniziali sullo stato di emergenza sono state accolte dallo scetticismo sia da parte del pubblico che da molti membri nei circoli politici, anche se diversi scienziati hanno avvertito del potenziale di una catastrofe per settimane. In effetti, alla fine di febbraio alcuni importanti politici italiani si sono impegnati nella stretta di mano pubblica a Milano per sottolineare che l’economia non dovrebbe andare nel panico e fermarsi a causa del virus. (Una settimana dopo, a uno di questi politici fu diagnosticato Covid-19.)

Reazioni simili sono state ripetute in molti altri paesi oltre all’Italia ed esemplificano ciò che gli scienziati comportamentali chiamano pregiudizio di conferma – una tendenza a cogliere informazioni che confermano la nostra posizione preferita o ipotesi iniziale. Minacce come le pandemie che si evolvono in modo non lineare (ovvero iniziano in piccolo ma si intensificano esponenzialmente) sono particolarmente difficili da affrontare a causa delle difficoltà di interpretare rapidamente ciò che sta accadendo in tempo reale. Il momento più efficace per agire con forza è estremamente precoce, quando la minaccia sembra essere piccola, o anche prima che ci siano casi. Ma se l’intervento funziona davvero, sembrerà a posteriori come se le azioni forti fossero una reazione eccessiva. Questo è un gioco che molti politici non vogliono giocare.

L’incapacità sistematica di ascoltare gli esperti evidenzia i problemi che i leader – e le persone in generale – hanno capito come comportarsi in situazioni terribili e altamente complesse in cui non esiste una soluzione facile. Il desiderio di agire fa sì che i leader facciano affidamento sul loro intestino o sulle opinioni del loro cerchio interno. Ma in un momento di incertezza, è essenziale resistere a quella tentazione e invece impiegare il tempo per scoprire, organizzare e assorbire la conoscenza parziale che è dispersa in diverse tasche di competenza.

Evita soluzioni parziali. Una seconda lezione che si può trarre dall’esperienza italiana è l’importanza degli approcci sistematici e dei pericoli delle soluzioni parziali. Il governo italiano ha affrontato la pandemia di Covid-19 emanando una serie di decreti che aumentavano gradualmente le restrizioni all’interno delle aree di blocco (“zone rosse”), che venivano poi espanse fino a quando non si applicavano infine all’intero paese.

In tempi normali, questo approccio sarebbe probabilmente considerato prudente e forse anche saggio. In questa situazione, ha fallito per due motivi. Innanzitutto, non era coerente con la rapida diffusione esponenziale del virus. I “fatti sul campo” in qualsiasi momento non erano semplicemente predittivi di quale sarebbe stata la situazione pochi giorni dopo. Di conseguenza, l’Italia ha seguito la diffusione del virus piuttosto che prevenirlo. In secondo luogo, l’approccio selettivo potrebbe aver involontariamente facilitato la diffusione del virus. Considera la decisione di bloccare inizialmente alcune regioni ma non altre. Quando il decreto che annunciava la chiusura dell’Italia settentrionale è diventato pubblico, ha fatto esplodere un massiccio esodo nell’Italia meridionale, senza dubbio diffondendo il virus in regioni in cui non era presente.

Ciò dimostra ciò che è ormai chiaro a molti osservatori: una risposta efficace al virus deve essere orchestrata come un sistema coerente di azioni intraprese contemporaneamente. I risultati degli approcci adottati in Cina e Corea del Sud sottolineano questo punto. Mentre la discussione pubblica sulle politiche seguite in questi paesi spesso si concentra su singoli elementi dei loro modelli (come test approfonditi), ciò che caratterizza veramente le loro risposte efficaci è la moltitudine di azioni che sono state intraprese contemporaneamente. Il test è efficace quando è combinato con una traccia di contatto rigorosa e la traccia è efficace fintanto che è combinata con un sistema di comunicazione efficace che raccoglie e diffonde informazioni sui movimenti di persone potenzialmente infette e così via.

Queste regole si applicano anche all’organizzazione del sistema sanitario stesso. Sono necessarie riorganizzazioni all’ingrosso all’interno degli ospedali (ad esempio, la creazione di flussi di cure Covid-19 e non Covid-19). Inoltre, è urgentemente necessario un passaggio dai modelli di assistenza incentrati sul paziente a un approccio basato sul sistema comunitario che offre soluzioni pandemiche per l’intera popolazione (con un’attenzione specifica per l’assistenza domiciliare). La necessità di azioni coordinate è particolarmente acuta in questo momento negli Stati Uniti.

L’apprendimento è fondamentale. Trovare il giusto approccio di implementazione richiede la capacità di apprendere rapidamente sia dai successi che dai fallimenti e la volontà di cambiare le azioni di conseguenza. Certamente, ci sono preziose lezioni da trarre dagli approcci di Cina, Corea del Sud, Taiwan e Singapore, che sono stati in grado di contenere il contagio abbastanza presto. Ma a volte le migliori pratiche possono essere trovate proprio accanto. Poiché il sistema sanitario italiano è altamente decentralizzato, diverse regioni hanno provato diverse risposte politiche. L’esempio più evidente è il contrasto tra gli approcci adottati dalla Lombardia e dal Veneto, due regioni limitrofe con profili socioeconomici simili.

La Lombardia, una delle aree più ricche e produttive d’Europa, è stata colpita in modo sproporzionato da Covid-19. Al 26 marzo, detiene il triste record di quasi 35.000 nuovi casi di coronavirus e 5.000 morti in una popolazione di 10 milioni. Il Veneto, al contrario, è andato molto meglio, con 7000 casi e 287 decessi in una popolazione di 5 milioni, nonostante si sia assistito a una diffusione sostenuta della comunità all’inizio.

Le traiettorie di queste due regioni sono state modellate da una moltitudine di fattori al di fuori del controllo dei responsabili politici, tra cui la maggiore densità di popolazione della Lombardia e il maggior numero di casi quando è scoppiata la crisi. Ma sta diventando sempre più evidente che anche le diverse scelte di salute pubblica fatte all’inizio del ciclo della pandemia hanno avuto un impatto.

In particolare, mentre la Lombardia e il Veneto hanno applicato approcci simili al distanziamento sociale e alle chiusure al dettaglio, il Veneto ha adottato un approccio molto più proattivo al contenimento del virus. La strategia veneta era articolata su più fronti:

Test approfonditi su casi sintomatici e asintomatici precoci.
Tracciamento proattivo di potenziali positivi. Se qualcuno è risultato positivo, sono stati testati tutti nella casa di quel paziente e anche i suoi vicini. Se i kit di test non erano disponibili, erano auto-messi in quarantena.
Una forte enfasi sulla diagnosi e l’assistenza domiciliare. Ove possibile, i campioni sono stati raccolti direttamente dalla casa di un paziente e quindi elaborati nei laboratori universitari regionali e locali.
Sforzi specifici per monitorare e proteggere l’assistenza sanitaria e altri lavoratori essenziali. Includevano professionisti del settore medico, quelli in contatto con popolazioni a rischio (ad es. Operatori sanitari nelle case di cura) e lavoratori esposti al pubblico (ad es. Cassieri di supermercati, farmacisti e personale dei servizi di protezione).
Seguendo le indicazioni delle autorità sanitarie del governo centrale, la Lombardia ha optato invece per un approccio più conservativo ai test. Su base pro capite, finora ha condotto la metà dei test condotti in Veneto e si è concentrato molto più solo sui casi sintomatici – e finora ha fatto investimenti limitati in tracciabilità proattiva, assistenza domiciliare e monitoraggio e protezione dell’assistenza sanitaria lavoratori.

Si ritiene che l’insieme delle politiche attuate in Veneto abbia notevolmente ridotto l’onere per gli ospedali e ridotto al minimo il rischio di diffusione di Covid-19 nelle strutture mediche, un problema che ha avuto un forte impatto sugli ospedali lombardi. Il fatto che politiche diverse abbiano prodotto risultati diversi in regioni altrimenti simili avrebbe dovuto essere riconosciuto fin dall’inizio come una potente opportunità di apprendimento. I risultati emersi dal Veneto avrebbero potuto essere utilizzati per rivedere presto le politiche regionali e centrali. Tuttavia, è solo nei giorni scorsi, un mese intero dopo lo scoppio in Italia, che la Lombardia e altre regioni stanno prendendo provvedimenti per emulare alcuni degli aspetti dell ‘”approccio veneto”, che includono la pressione del governo centrale per aiutarli a rafforzare il loro capacità diagnostica.

La difficoltà nel diffondere le nuove conoscenze acquisite è un fenomeno ben noto sia nelle organizzazioni del settore privato che in quelle del settore pubblico. Ma, a nostro avviso, l’accelerazione della diffusione della conoscenza che sta emergendo da diverse scelte politiche (in Italia e altrove) dovrebbe essere considerata una priorità assoluta in un momento in cui “ogni paese sta reinventando la ruota”, come ci hanno detto diversi scienziati. Perché ciò accada, specialmente in questo momento di maggiore incertezza, è essenziale considerare diverse politiche come se fossero “esperimenti”, piuttosto che battaglie personali o politiche, e adottare una mentalità (così come sistemi e processi) che faciliti imparare dalle esperienze passate e attuali nel trattare con Covid-19 nel modo più efficace e rapido possibile.

È particolarmente importante capire cosa non funziona. Mentre i successi emergono facilmente grazie ai leader desiderosi di pubblicizzare i progressi, spesso i problemi vengono nascosti a causa della paura della punizione o, quando emergono, vengono interpretati come fallimenti individuali – piuttosto che sistemici. Ad esempio, è emerso che all’inizio della pandemia in Italia (25 febbraio), il contagio in un’area specifica della Lombardia avrebbe potuto essere accelerato attraverso un ospedale locale, dove un paziente Covid-19 non era stato diagnosticato correttamente e isolato. Parlando con i media, il primo ministro italiano ha riferito di questo incidente come prova di inadeguatezza manageriale nello specifico ospedale. Tuttavia, un mese dopo è diventato più chiaro che l’episodio avrebbe potuto essere emblematico di un problema molto più profondo: che gli ospedali tradizionalmente organizzati per fornire cure incentrate sui pazienti sono mal equipaggiati per fornire il tipo di assistenza focalizzata sulla comunità necessaria durante una pandemia.

La raccolta e la diffusione di dati è importante. L’Italia sembra aver sofferto di due problemi relativi ai dati. All’inizio della pandemia, il problema era la scarsità di dati. Più specificamente, è stato suggerito che la diffusione diffusa e inosservata del virus nei primi mesi del 2020 potrebbe essere stata facilitata dalla mancanza di capacità epidemiologiche e dall’incapacità di registrare sistematicamente picchi di infezione anomala in alcuni ospedali.

Più recentemente, il problema sembra essere di precisione dei dati. In particolare, nonostante il notevole sforzo che il governo italiano ha dimostrato nell’aggiornamento periodico delle statistiche relative alla pandemia su un sito Web accessibile al pubblico, alcuni commentatori hanno avanzato l’ipotesi che la notevole discrepanza nei tassi di mortalità tra l’Italia e altri paesi e all’interno dell’italiano le regioni possono (almeno in parte) essere guidate da diversi approcci di prova. Queste discrepanze complicano la gestione della pandemia in modi significativi, perché in assenza di dati realmente comparabili (all’interno e tra i paesi) è più difficile allocare risorse e comprendere cosa sta funzionando dove (ad esempio, cosa sta inibendo l’effettiva tracciabilità della popolazione).

In uno scenario ideale, i dati che documentano la diffusione e gli effetti del virus dovrebbero essere il più possibile standardizzati nelle regioni e nei paesi e seguire la progressione del virus e il suo contenimento a livello sia macro (statale) che micro (ospedaliero). La necessità di dati a livello micro non può essere sottovalutata. Mentre la discussione sulla qualità dell’assistenza sanitaria viene spesso svolta in termini di macroentità (paesi o stati), è ben noto che le strutture sanitarie variano notevolmente in termini di qualità e quantità dei servizi offerti e delle loro capacità gestionali, anche all’interno gli stessi stati e regioni. Invece di nascondere queste differenze di fondo, dovremmo esserne pienamente consapevoli e pianificare di conseguenza l’allocazione delle nostre risorse limitate. Solo disponendo di buoni dati al giusto livello di analisi, i politici e gli operatori sanitari possono trarre le giuste conclusioni su quali approcci stanno funzionando e quali no.

Un approccio decisionale diverso
C’è ancora un’enorme incertezza su cosa debba essere fatto esattamente per fermare il virus. Diversi aspetti chiave del virus sono ancora sconosciuti e oggetto di accesi dibattiti e probabilmente rimarranno tali per un considerevole periodo di tempo. Inoltre, si verificano ritardi significativi tra il tempo di azione (o, in molti casi, l’inazione) e gli esiti (sia infezioni che mortalità). Dobbiamo accettare che una comprensione inequivocabile di quali soluzioni funzioneranno probabilmente richiederà diversi mesi, se non anni.

Tuttavia, due aspetti di questa crisi sembrano essere chiari dall’esperienza italiana. Innanzitutto, non c’è tempo da perdere, vista la progressione esponenziale del virus. Come ha affermato il capo della Protezione Civile (l’equivalente italiano della FEMA), “Il virus è più veloce della nostra burocrazia”. In secondo luogo, un approccio efficace nei confronti di Covid-19 richiederà una mobilitazione simile alla guerra – sia in termini di entità delle risorse umane che economiche che dovranno essere impiegate, nonché l’estremo coordinamento che sarà richiesto in diverse parti della salute sistema di assistenza (strutture di prova, ospedali, medici di base, ecc.), tra entità diverse sia nel settore pubblico che privato, e la società in generale.

La necessità di un’azione immediata e di una massiccia mobilitazione implicano che una risposta efficace a questa crisi richieda un approccio decisionale che è tutt’altro che normale. Se i politici vogliono vincere la guerra contro Covid-19, è essenziale adottare un approccio sistemico che dia la priorità all’apprendimento ed in grado di individuare rapidamente gli esperimenti di successo chiudendo subito quelli inefficaci. Sì, questo è un ordine di priorità elevato, soprattutto nel mezzo di una crisi così enorme. Ma data la posta in gioco, deve essere fatto.

FONTE:http://micidial.it/2020/03/harvard-ci-studia-e-dice-che-non-siamo-stati-solo-sfortunati/

 

 

 

CULTURA

GIORGIO COLLI

Un grande uomo di cultura, filosofo nel senso alto e più vero del termine, capace di superare le beghe vili del culturame italiano per salvaguardare ed incoraggiare lo studio amorevole della Filosofia, considerata come elemento fondamentale nella vita dell’uomo. Giorgio Colli è stato questo e molto di più, autore formidabile e pensatore unico, sapiente vero e autentico Uomo
di Alessio Mulas – 9 Maggio 2016

La biografia di un filosofo è sempre traccia del suo pensiero. Perché non si riduca a produzione, a gioco, a ostentata conoscenza, la filosofia va vissuta nella carne, con sovrana coerenza. Così fece Giorgio Colli, uomo mai celebrato dalla “cultura ufficiale”. Nato a Torino nel 1917, figlio di Giuseppe Colli, amministratore de La Stampa fino al 1928, quando perse il lavoro a causa del suo antifascismo. Allievo di Pavese e Ginzburg al liceo Massimo D’Azeglio, il giovane Giorgio maturò avversione verso la forma provinciale e retorica di certa cultura italiana, e cominciò a nutrire interesse verso la filosofia. Prima di iscriversi all’Università di Torino, lesse tutti i Dialoghi platonici, ed è Politicità ellenica e Platone il titolo della sua tesi in filosofia del diritto, poi parzialmente pubblicata sulla ‘Nuova rivista storica’ e recensita da Benedetto Croce. Conseguita la laurea nel 1939 alla facoltà di giurisprudenza, divenne assistente del suo relatore, Gioele Solari, e cominciò a frequentare Piero Martinetti, noto come uno dei pochi accademici a non aver giurato fedeltà al fascismo.

 Professore di filosofia dal 1942 al 1948 nel liceo Machiavelli di Lucca, con una pausa tra il 1944 e il 1945 per riparare in Svizzera, lavorò intensamente sui testi classici, pubblicando Physis krypteshtai philei. Studi sulla filosofia greca, opera che gli valse la libera docenza. Gli anni seguenti furono quelli in cui fu incaricato di insegnare Filosofia Antica all’Università di Pisa, ateneo che lo ospitò fino alla morte. Nonostante gli sforzi per ottenere il titolo di professore ordinario, l’egemonia della sinistra lo tenne in disparte, mal sopportando il suo rifiuto di ‘schierarsi’ e il suo atteggiamento defilato. Non apparteneva, di fatto, ai bacchettoni, barbogi, e parrucconi che pretendevano e tutt’ora pretendono di ingabbiare la cultura nelle maglie ideologiche che la snaturano. Fu costanza di Colli quella di lavorare per sé e per gli altri senza guadagni e pretese, con sacrificio spontaneo e serietà critica. Negli anni Cinquanta, curò la collana dei classici della filosofia per Einaudi, con il quale ruppe i rapporti quando un consigliere della direzione editoriale censurò il progetto dell’edizione critica delle opere di Nietzsche, in seguito pubblicata grazie alla fondazione della casa editrice Adelphi, ad opera del critico letterario Luciano Foà. Fu il periodo in cui Colli tradusse non solo i filosofi antichi, ma anche Lôwith, Cassirer, Kant. Sapiente, filologo, pedagogo, filosofo, traduttore ed editore sono le diverse figure che via via impersonò, ma che rappresentarono un unico modo di stare al mondo.

Il filosofo sabaudo ebbe una vocazione quasi ascetica – manifestatasi nella scelta di abitare prima il paesaggio verde delle toscane Settignano e Fiesole, poi per bevi periodi la terra ligure, che già aveva ospitato le meditazioni di Nietzsche – ma mai priva di slancio vitale, mai eccessivamente isolata. «Vivere, in generale, significa essere in pericolo», affermava Nietzsche in Schopenhauer come educatore. Per Giorgio, che aveva fatto proprio questo insegnamento, la lettura dei grandi pensatori non serve a riposarsi, a estendere le cognizioni, ma è il gesto di «chi ha ancora qualcosa da decidere, sulla vita e sul suo atteggiamento di fronte alla cultura», perché «è scegliendo un maestro che cominciamo a diventare qualcosa» (Per una enciclopedia di autori classici). Del pensare ne va l’esistenza; la serietà non è data da altro se non dall’inemendabile presenza della fine, che sia Morte o Éschaton. Pensare è allora acuire lo sguardo, seguire la vita in profondità per dotarla di un significato nuovo e definitivo. «Nel dissenso sta la validità di un uomo. Un libro che non mi fa pensare, non è un libro», parafrasava Francesco Adorno nel film Modi di vivere, dedicato alla memoria del filosofo torinese. La sua opera fondamentale, «la più grande emozione», frutto di anni di studio e pensiero, è Filosofia dell’espressione, datata 1969. Da qui Colli lanciava una sfida a chi, negli ultimi secoli, aveva psicologizzato la filosofia teorica, credendo «che prendere d’assalto la cittadella della conoscenza risulti agevole, quando si è capaci di entrare nell’intimo del soggetto». Il conoscere è l’atto del soggetto che rappresenta a se stesso qualcosa, ma lo studio delle rappresentazioni non deve partire dal soggetto «sempre viscido e inafferrabile», bensì dall’oggetto, come fu per i greci. Colli indossa la divisa da schopenhaueriano, e il mondo che si offre a noi diviene rappresentazione: «il sentimento più interiore, l’attimo di Goethe o l’estasi di Plotino, […] e così l’universo della natura, il cielo e le stelle con le loro presunte leggi, l’uomo e la sua storia», tutto è rappresentazione. Essa è l’unico dato primitivo, il brutum factum, e non ha sostanza, non esiste di per sé, altro non è che la relazione tra il soggetto e l’oggetto. La vita è «una nebbia iridescente che sale da oscure paludi». Ciò che noi chiamiamo a diritto “realtà” è una illusione; al mondo nascosto, celato, non spetta invece nessun attributo, perché i predicati, le determinazioni, sono pertinenti alle sole rappresentazioni.

 Non è tuttavia nostra intenzione esaurire la riflessione di Colli, pur in minima parte. Le nostre note biografiche sono un invito alla lettura. A lui va il merito di aver contrapposto allo studio acritico lo sforzo del pensiero, il «travaglio senza voce», il «pericoloso miracolo» della filosofia, contro ogni inganno: «La storia è una finzione molteplicemente mediata, costruita su espressioni astratte, in cui l’elemento verbale predomina su tutto il resto. […] Serie espressive improprie si sviluppano e si intrecciano nell’invenzione di pseudo-mondo, dove la concretezza è data dalle parole scritte e da qualche pietra». Nulla è senza tempo, tutto è nel tempo, e il tempo è il pensiero dell’uomo. Come si può recuperare un passato di serie espressive, se la natura dell’espressione non ce lo permette? Come considerare gli Stati, i popoli, le guerre, le ideologie, le cause, gli influssi, le fioriture e le decadenze della storia se non come finzioni? L’origine della sapienza è mistica; dionisiaco è il suo marchio. Se nell’antichità i filosofi erano detti terribili, ora sono agnelli. Perciò Colli, in ogni suo lavoro, tornò sempre ai greci. Morì nel 1979, a Firenze, mentre lavorava al terzo volume (degli undici previsti) dell’imponente opera La sapienza greca, una edizione critica dei presocratici, da contrapporre alla più nota Diels-Kranz. Lui che negli anni dell’esilio  svizzero in un campo d’internamento, mentre mangiava delle poverissime patate lesse intinte nel sale, si confrontava con Alessandro Fersen, difendendo le posizioni di Parmenide, lasciò il mondo nel momento in cui completava il volume su Eraclito.

In conclusione, ci congediamo dal Lettore con la viva e forte voce di Carmelo Bene impegnata nella lettura de “La Sapienza Greca” di Giorgio Colli: una sintesi superba e formidabile qui

FONTE:https://www.lintellettualedissidente.it/homines/giorgio-colli/

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

C’è qualcosa che non va in questo virus

🔹 Wuhan a Shanghai = 629 km
🔹 Wuhan a Pechino = 1052 km
🔹 Wuhan a Milano = 8700 km
🔹 Wuhan a New York = 12000 km
🔹 Wuhan a San Paolo = 17.964 km
🔹 Wuhan a Londra = 8880 km
🔹 Wuhan a Parigi = 8900 km
🔹 Wuhan in Spagna = 9830 km
🔹 Wuhan in India = 3575 km
🔹 Wuhan in Iran = 6560 km

Qualcosa è sbagliato…!

Il virus cinese è nato nella città di Wuhan, in Cina, e ora ha raggiunto tutti gli angoli del mondo, ma questo virus non ha raggiunto la capitale della Cina: Pechino e la capitale economica: Shanghai, vicino a Wuhan.

Perché?

Pechino è la città in cui vivono tutti i leader della Cina, i leader militari vivono lì, quelli che controllano il potere della Cina vivono lì, e Pechino non è stata chiusa, non è stata messa in quarantena, non è stata chiusa. È aperto! Il virus cinese non ha alcun effetto lì.

Perché?

Shanghai è la città che gestisce l’economia della Cina, è la capitale economica della Cina, vivono tutti i ricchi della Cina! Quelli che fanno andare avanti l’industria. Non c’è nessun blocco lì, il virus cinese non ha alcun effetto lì !!!

Perché …?

Il virus cinese è un virus pandemico. Gli è stato detto che il panico dovrebbe essere creato in tutto il mondo, ma non verrà a Pechino e Shanghai.
È molto importante porre questa domanda alla Cina.
Il virus cinese ha creato terrore nelle grandi città del mondo, quindi perché questo virus non ha raggiunto Pechino?

Perché non sei venuto a Shanghai …?

Perché …?

Pechino e Shanghai sono le aree adiacenti a Wuhan! Il virus Wuhan ha raggiunto tutti gli angoli del mondo, ma non ha raggiunto Pechino e Shanghai …!

Perché …?

Oggi, tutta l’India e 1,3 miliardi di persone sono rinchiuse. La nostra economia è paralizzata, ma tutte le principali città della Cina sono aperte e, dall’8 aprile, anche la Cina sta aprendo Wuhan! Il mondo intero è afflitto dal terrore! Tuttavia, non arrivano nuovi casi in Cina e la Cina è aperta!

Perché?

Un altro aspetto molto importante è che il mercato azionario mondiale si è quasi dimezzato! Ma questo virus non ha effetti sul mercato cinese!

Perché?

Qualunque sia la risposta, indicano solo una cosa: il virus cinese è l’arma biologica della Cina, che la Cina ha lasciato per la distruzione nel mondo! Dopo aver ucciso alcune persone, la Cina ha ora controllato questo virus! Forse ha anche medicine che non condivide con il mondo!

Perché…?

Perché è stato il più grande attacco terroristico nella storia umana. Anche con la partecipazione DIRETTA del presidente dell’OMS, un marxista militante etiope, guidato dalla dittatura cinese e posto alla presidenza dell’OMS attraverso lo sforzo diplomatico del governo cinese.

FONTE:https://www.facebook.com/permalink.php?id=705033849878830&story_fbid=1083340512048160

 

 

 

DIRITTI UMANI

I crimini di Tedros Adhanom, direttore generale dell’OMS

DI JOHN MARTIN

roughestimate.org

Tedros Adhanom dell’OMS dovrebbe essere processato per crimini contro l’umanità.

Tedros Adhanom Ghebreyesus, oltre ad essere il primo direttore dell’OMS senza una laurea in medicina, possiede anche un “background politico” rispetto ai suoi predecessori. Sulla sua biografia online, l’OMS esalta le sue qualifiche come ministro della salute etiope dal 2002 al 2012, roba impressionante.

A parte le sue credenziali mediche, Tedros è un membro del “Tigray People’s Liberation Front” (TPLF), un’organizzazione pacifica come suggerisce il nome. Fondato come partito rivoluzionario comunista, salì al potere nel 1991, condusse una campagna di guerriglia contro la dittatura di Mengistu e poi  formò una coalizione con gli altri due partiti etnici dopo il suo esilio.

Nel corso del tempo, il TPLF ha iniziato a esercitare sempre più influenza sulle altre due parti. La maggior parte dei generali militari e leader chiave all’interno del governo sono del Tigray, incluso il Primo Ministro che governò il paese per 21 anni prima della sua morte. I Tigray rappresentano solo il 6% della popolazione dell’Etiopia, uno dei principali gruppi etnici sono gli Amhara, che avevano costituito principalmente il regime di Mengistu.

Il trattamento favorevole sotto Mengistu ha creato molto risentimento verso l’Amhara da parte degli altri gruppi etnici come ad esempio quello dell’Oromo. Lo stesso Tedros proviene dalla regione del Tigray ed è un membro anziano del partito, cui aveva aderito dopo la rimozione di Mengistu. Lo stesso partito che nel suo manifesto del 1968 definiva il popolo dell’Amhrara il suo “eterno nemico”.

Tedros era un membro anziano? Certo, il Tigraionline  lo ha elencato come il terzo membro più importante del comitato permanente del politbureau, il che dà l’impressione che fosse più importante di un semplice amministratore medico.

Il TPLF è stato classificato un’organizzazione terroristica dal governo degli Stati Uniti negli anni ’90 ed è ancora oggi catalogato come membro del Database del Terrore Globale, a causa della sua ostinata abitudine di eseguire assalti armati nelle aree rurali.

Il popolo dell’Amhara ha denunciato discriminazioni sistematiche e violazioni dei diritti umani da parte dell’attuale governo. “Humans Rights Watch” nel 2010 ha scritto un rapporto su come gli aiuti sotto forma di cibo e fertilizzanti sono stati vietati agli abitanti dei villaggi locali dell’Amhara a causa delle loro affiliazioni con il partito di opposizione. Altre forme di rifiuto dell’aiuto hanno comportato il rifiuto dell’assistenza sanitaria di emergenza da parte del ministero degli operatori sanitari; lo stesso ministero che all’epoca era guidato da Tedros Adhanom.

L’Amhara People’s Union, un gruppo di attivisti con sede a Washington, ha rivolto molte altre accuse di violazioni dei diritti umani contro il governo guidato dal TPLF, compreso il fatto che i tassi di natalità nella regione di Amhara erano molto più bassi di quelli riscontrati in altre regioni. In una sessione del parlamento etiope hanno osservato che circa 2 milioni di Amhara sono “scomparsi” dal censimento della popolazione.

Non contento di negare l’aiuto ai dissidenti politici, Tedros era anche ministro della sanità in un momento in cui il regime era accusato di nascondere le epidemie. Un focolaio di colera si diffuse nella regione nel 2007, colpendo migliaia di persone nei paesi vicini. Al momento dello scoppio dell’epidemia in Etiopia, il governo ribattezzò semplicemente l’epidemia e la definì “Acute Watery Diarrhea” (AWD). Le organizzazioni internazionali furono messe sotto pressione per evitare che lo definissero colera (nonostante le Nazioni Unite avessero individuato il virus infetto), così come si intimò ai  dipendenti pubblici di non rivelare il numero di infetti. Un’altra straordinaria vittoria per il ministro della salute.

La mortale carestia che colpì l’Etiopia negli anni ’80 aveva associato per sempre il paese all’epidemia di colera, ma il marchio ignobile non è solo un ricordo del passato. L’OMS stessa dopo pagine di sgargianti rapporti su come stava andando il settore sanitario dell’Etiopia, ha ammesso che nel 2016 almeno 8,6 milioni di persone avevano ancora bisogno di aiuti alimentari per sopravvivere e che la situazione non era migliorata egli ultimi quattro anni. Quindi alla fine dell’illustre mandato politico di Tedros, il Paese poteva vantare un netto restante 8% della popolazione, che sarebbe rimasto a morire di fame perché privato di aiuti stranieri.

Ma dopo i suoi brillanti risultati nell’ambito della sanità, Tedros aveva pesci più grandi da friggere. Nel 2012 fu nominato ministro degli Esteri e attuò immediatamente una repressione verso giornalisti e oppositori del governo, compreso un tentativo di estradare coloro che erano fuggiti in esilio nello Yemen. I due paesi avviarono anche  negoziati per rintracciare e espellere i dissidenti dallo Yemen e imprigionarli in Etiopia. Tedros stesso guidò questi negoziati, lo attesta anche una fotografia dei suoi colloqui avuti col ministro degli Esteri yemenita.

Uno di questi casi è stato un cittadino britannico Andy Tsege, arrestato all’aeroporto di Sana’a e condannato a morte due volte in Etiopia. Ciò ha richiesto il coinvolgimento del governo britannico che ha minacciato la negazione dell’aiuto all’Etiopia a meno che non gli fosse concesso l’asilo. Tedros ha risposto che Tsege era “trattato molto bene. Possiede anche un laptop, si è mai sentito parlare di un prigioniero politico con un laptop?” Andy ovviamente, dopo il suo ritorno nel Regno Unito, ha raccontato una storia del tutto diversa, dichiarando di essere stato torturato per giorni e giorni, insieme a dozzine di altri prigionieri.

Uno dei motivi per cui le qualifiche di Tedros come ministro degli Esteri sono assenti da alcuni dei suoi CV online, potrebbe essere dovuto alle proteste di massa che hanno travolto il paese nel 2016. Il governo etiope alcuni anni prima aveva rivelato un piano generale per impadronirsi di 1000 miglia di terra da offrire agli appaltatori internazionali a tassi agevolati. Ciò ha comportato anche il trasferimento forzato di 15.000 persone della regione di Oromia, operazione che il governo ha dichiarato “redditizia”, perché la regione al momento “mancava di infrastrutture”.

Ma gli “ingrati” trasferiti forzatamente non hanno per nulla apprezzato l’enorme favore che il governo stava loro facendo, e le proteste di massa scoppiarono violente durante il festival culturale di Irreechaa a Bishoftu, il 2 ottobre 2016. La polizia inizialmente rispose con gas lacrimogeni, e poi con sparatorie di massa. La repressione violenta provocò la morte di circa 500 manifestanti, secondo “Human Rights Watch”. Il governo dichiarò quindi lo stato di emergenza, arrestando circa 70.000 persone, e costringendo all’esilio dozzine di giornalisti dell’opposizione.

FONTE:https://comedonchisciotte.org/i-crimini-di-tedros-adhanom-direttore-generale-delloms/

 

 

 

ECONOMIA

La Giapponesizzazione che arriverà. Che fare?

L’Italia è entrata in una spirale deflattiva che finora la Bce ed i suoi interventi non sono riusciti ad arginare. La deflazione negli Stati Uniti dal 1871 si è già vista diverse volte e nulla toglie che potrebbe rappresentare un fattore di cui tenere conto in un mondo a bassa crescita (anche demografica). I dati usciti riportano un RIBASSO dei prezzi in Europa e questo tend sembra destinato a peggiorare. La domanda che i risparmiatori e gli investitori si pongono sempre più spesso è allora la seguente: come investire durante il periodo deflattivo? E, per i più prudenti, come difendere i risparmi durante la deflazione?

Secondo un’indagine, esiste un solo valido esempio per misurare quale sia stato l’impatto della contrazione dei prezzi al consumo su stili e performance di settore: quello del Giappone.

“L’analisi condotta dal 1990 in poi sui mercati del Sol Levante evidenzia che gli investitori hanno privilegiato l’esposizione alle società con dividendi elevati e sostenibili nel tempo e alle imprese caratterizzate da una storia di forte crescita degli utili e di valore, evitando, invece, i gruppi a più grande capitalizzazione (molti dei quali, però, erano banche e assicurazioni) e i titoli di crescita. L’analisi settoriale dimostra inoltre che le preferenze sono state indirizzate verso i settori a più elevato export (materiali di base, tecnologia e industria) presumibilmente perché la deflazione ha indebolito lo yen mentre i prezzi dei prodotti venduti al di fuori del Giappone non sono stati influenzati dalla deflazione giapponese”

Posto che la deflazione crea danni veri solo a chi NON HA entrate da rendita o da lavoro dipendente perché la situazione economica deflattiva rinvia sempre di più un aumento dell’occupazione e delle rendite, la situazione di portafoglio per un investitore in vena di acquisti si può orientare così:

  • ORO. Avere oro è particolarmente inappropriato quando sono alti gli interessi, visto che l’oro non dà questo tipo di rendimento fisso. I bassi tassi di interesse si trovano però solo quando l’economia si muove verso la deflazione, non verso l’inflazione. Questo spiega perchè anche recentemente l’oro ha vissuto il suo momento migliore quando i tassi si sono assestati intorno allo zero. 10% del capitale
  • LIQUIDITA’. La liquidità depositata in buoni postali e conti deposito tipo Rendimax e company è fondamentale. Non solo perché avere denari “fermi” non compromette il potere d’acquisto (i beni ed i servizi infatti non aumentano di costo, semmai scendono, ma soprattutto, la liquidità risulta sempre disponibile e consente all’investitore di entrare nel mercato delle azioni o delle obbligazioni nel momento migliore. In altre parole, la liquidità consente di profittare delle opportunità, proprio perché i soldi non sono vincolati in obbligazioni o azioni in perdita. 60% del capitale.
  • AZIONI e CRIPTO. stocks legati all’assistenza sanitaria o agli alimentari e dalle tradizionali caratteristiche difensive (come Parmalat o Campari, in Italia).  Per chi ne è capace, trading on line di breve periodo. 5% del capitale
  • OBBLIGAZIONI SOCIETARIE. Cioè strumenti finanziari di tipo obbligazionario corporate, cioè legati non a stati nazionali, ma a società di qualità medio-alta. Si tratta di investimenti a reddito fisso che funzionarono bene in Giappone al culmine della deflazione e che godono di determinate coperture di rating (tripla A, tripla B ecc). Questi prodotti dai tecnici vengono anche chiamati Bond Investment grade e rendono più dell’1% a confronto con una media delle obbligazioni statali inferiori allo 0,5.  25% del capitale

NOTA: la deflazione non se ne andrà facilmente perché – come accaduto in Giappone – ora anche il resto del mondo industrializzato assiste ad una Rivoluzione tecnologia e digitale in grado di abbassare i prezzi di tutti i beni ed i servizi. A breve, se avete un figlio che va male in matematica, potrete fargli fare delle ripetizioni con un matematico extraUE su skype a 5 euro l’ora e pagare comodamente da casa con paypal senza andare allo sportello bancario. Per non parlare dell’Intelligenza Artificiale e della Robotica, che sono in fase beta ancora per poco tempo.

FONTE:http://micidial.it/2020/02/la-giapponesizzazione-che-arrivera-che-fare/

 

 

 

Quelo, Greta e la dottrina neoliberale della verità multipla
22 gennaio, 2020 | 12 commenti

Propongo di seguito, leggermente editato, un lungo articolo dell’amico Pier Paolo Dal Monte apparso alcuni giorni fa sul blog Frontiere. L’analisi – finora unica nel suo genere, salvo mie sviste – ha il pregio di collocare l’ultima moda emergenziale del «clima» nella più ampia cornice metodologica dettata dai modelli produttivi e sociali che oggi dominano senza alternative, evidenziando nelle contraddizioni e nelle omissioni del dibattito in corso uno specchio fedele della crisi di quei modelli e della violenza destinata a scaturirne.

Salvo pochi dettagli (ad esempio sulla praticabilità di relegare il modello capitalistico alle attività minori, o sulla funzione di «negazionismo» che distinguerei più nettamente dall’attività di gatekeeping, pur servendo entrambe i medesimi scopi) condivido profondamente la tesi esposta e saluto nel lavoro di Pier Paolo un tentativo molto ben riuscito di dipanare e documentare il «filo rosso» spesso intuito negli articoli e nei commenti di questo blog.

Sovrastruttura e sottostante
«C’è grossa crisi», direbbe Quelo, quella sorta di parodistica crasi di santone e telepredicatore che fu interpretato da Corrado Guzzanti.

La crisi, è l’«ospite inquietante» dei nostri tempi, accompagna sempre qualunque presente, con un montante subentrare di tante crisi: Leconomia, Lecologia, Lademografia, Lemigrazioni, Lapovertà, Lepidemie, Linflazione, Ladeflazione… un incalzare di crisi che riduce i poveri esseri umani come tanti pugili suonati che, incapaci di reagire, ricevono tutti i colpi che i mezzi di informazione riversano sulle loro povere menti.

Ovviamente, ora non possiamo parlare di tutte le crisi portate alla ribalta dall’inesauribile cornucopia dei mezzi di comunicazione; ci concentreremo, pertanto, su una sola di esse che, periodicamente (e ora, anche, prepotentemente), viene portata all’attenzione dell’opinione pubblica, ovvero quella che viene definita «crisi climatica» o «riscaldamento globale» che dir si voglia.

Questa volta, per creare sgomento nelle vittime della mitologia mediatica su questo «fantasma che si aggira per il mondo», non è stato utilizzato uno scienziato dal linguaggio algido e un po’ astruso, non un politicante imbolsito alla Al Gore, o un attore Hollywoodiano al guinzaglio (che, non si sa mai, avrebbe potuto essere fotografato alla guida di una Lamborghini o a bordo di un jet privato). No, niente di tutto questo. Questa volta gli sceneggiatori delle unità di creazione delle crisi si sono superati e hanno tirato fuori dal cilindro un personaggetto ideale per emozionare le infantilizzate masse postmoderne: una povera ragazzina iposviluppata e autistica (seppur di basso grado) che sostiene di percepire (non si sa con quale organo di senso) l’aumento di CO2 nell’atmosfera (che si calcola in parti per milione). Insomma, una testimonial che ha la presenza scenica di Topo Gigio e l’apoditticità predittiva del Mago Otelma la quale, però, parla ai «potenti della terra».

Tanto di cappello agli sceneggiatori: con ingredienti così scarsi, sono riusciti a creare un manicaretto mediatico di portata mondiale, che ha dato origine ad un «movimento» di pari portata, il cosiddetto Friday for Future (insomma, un week end lungo), spontaneo come può essere la disinvoltura mostrata da chi cerca di passare una frontiera con una valigia di cocaina nel bagagliaio. E così è stata creata una nuova forma di «Fate presto!» di portata globale, un cosmico «vincolo esterno», uno stato di eccezione planetario al quale subordinare le politiche di quello che un tempo si chiamava «occidente».

Per la verità, questa «emergenza» non è poi così emergente come vorrebbero far credere i registi dell’odierna intemperie, visto che il fenomeno è studiato fin dagli anni ’50, quando si iniziò a parlare dell’impatto dell’aumento della CO2 su base antropogenica [1]. Il fenomeno divenne noto all’opinione pubblica mondiale nel 1988, in occasione di un’audizione al Congresso degli Stati Uniti di James Hansen, climatologo della Columbia University, che lanciò un allarme circa il rischio di riscaldamento globale dovuto, appunto, all’aumento dei «gas serra». Nello stesso anno venne istituito dall’ONU l’IPCC. A tale allarme fece rapidamente seguito la risposta “negazionista” dei giganti dell’industria energetica (ai quali si unirono svariati settori merceologici), che diedero vita ad un centro studi, la Global Climate Coalition (1989-2001),[2] col compito di confutare e contrastare le conclusioni dell’IPCC, adottando quindi la tipica strategia neoliberale (anche questo verrà elucidato in seguito) di mettere “scienza contro scienza”. Dopo lo scioglimento della GCC, il testimone venne passato ad altre entità, tra le quali è bene ricordare lo Heartland Institute.

Nella seconda metà degli anni ’90 il tema del riscaldamento globale fu oggetto di un’attenzione crescente da parte dei mezzi di comunicazione, che andò vieppiù intensificandosi nei primi anni del nuovo secolo, subendo un brusco arresto in occasione della crisi finanziaria del 2007/2008 e della recessione economica conseguente. Ubi major, minor cessat e, nel sistema capitalistico, il major è sempre e comunque legato a questioni economiche; naturalmente questo non significa che gli altri problemi non siano considerati tout court – in fondo, nonostante ciò che asserì quel sempliciotto di Fukuyama, la storia non è finita – ma ciò dovrebbe far sorgere qualche domanda circa il motivo per il quale un tema così cruciale, quale dovrebbe essere il riscaldamento globale, salti fuori solo periodicamente. E, si badi bene, non ne facciamo una questione di merito, ovvero se vi sia o meno un’emergenza climatica, ma, sempre e soltanto, una questione di metodo: un’emergenza dovrebbe essere sempre tale, ossia impellente ed improcrastinabile, qualsivogliano siano le condizioni economiche o politiche concomitanti. Se invece tale emergenza assume un carattere «intermittente», sorge il sospetto che, coeteris paribus (ovvero non mettendone in dubbio la veridicità), lo scopo principale di questa periodica comparsa sia, ancora una volta, quello di indirizzare l’attenzione delle masse verso la direzione desiderata da chi controlla il sistema (i famosi «potenti della terra» intimoriti dalla ragazzina che percepisce l’aumento di CO2).

È dagli anni ‘60 che si denuncia l’esistenza di gravi problemi ambientali[3] (non solo climatici), ed è dal decennio successivo che si è iniziato a colorare l’attività economica con una sfumatura «ecologica», a tingerla di verde (colore che stava bene con tutto, prima che se ne appropriassero i famigerati populisti padani), il cosiddetto «green washing», che è anche definito, con locuzione più elegante, «sviluppo sostenibile», ineffabile ossimoro che ha il pregio di suonare assai bene e non significare alcunché, visto che i due termini del sintagma non sono connotati da definizioni precise. «Sviluppo» presuppone un tèlos, un fine cui volgere, mentre «sostenibile» necessita un termine di confronto: sostenibile per chi? Per cosa? Rispetto a cosa? Come? E via dicendo.

In mancanza di queste precisazioni, rimane solo un motto epitomico del politicamente corretto che testimonia la meravigliosa abilità del capitalismo di trasformare tutto, anche i fattori apparentemente negativi, come l’inquinamento e la crisi della biosfera, in nuove nicchie di mercato: in questa incessante opera mimetica e reificante è riuscito a creare finanche una disciplina di studio dal nome di «Ecological Economics» (con tanto di rivista dedicata) ispirata dagli studi di Nicholas Georgescu-Roegen[4] (e, successivamente di Hermann Daly) che cercarono di evidenziare l’incompatibilità dei parametri termodinamici con quelli economici. Come tutte le buone intenzioni, questi studi non hanno fatto altro che lastricare le vie dell’inferno sfociando, da un lato, nella ricerca di un valore monetario dei «servizi degli ecosistemi» (Robert Costanza) e, dall’altro, come si diceva, nella creazione di nuove nicchie di mercato surrettiziamente denominate «bio», «green», «eco», o che dir si voglia.

Tutte queste operazioni di «lavaggio» hanno lo scopo, non solo di creare nuove nicchie commerciali e di trasformare le residue parti di mondo in merce e mercato; ma anche quello di distogliere l’attenzione dal vero tema, quello che conduce inevitabilmente a tutti i problemi particolari dai quali è affetto il capitalismo, ovvero l’incommensurabilità concettuale e ineludibilmente fattuale tra parametri economici e mondo fisico che, come ben comprese Marx, risiede nella primazia del valore di scambio sul valore d’uso (o, prima di lui, Aristotele quando distinse tra oikonomia e crematistica). Siccome il fondamento del capitalismo poggia sull’accumulazione esponenziale di mezzi monetari (il capitale), che è virtualmente infinita, ma che si deve manifestare, giocoforza, in un ambiente che dispone di una quantità di materia che è data, è facile comprendere come questo fatto possa giungere a provocare qualche problema.

La gabbia epistemica del neoliberalismo
Partendo da queste premesse, possiamo ora parlare di come le questioni di cui sopra siano inserite nel quadro epistemico che caratterizza il capitalismo odierno, la cui forma è stata plasmata da ciò che è stato definito «neoliberalismo». Come ha documentato Philip Mirowski[5] (e in parte anche Michel Foucault, sebbene non in modo così esplicito[6]), il nucleo del pensiero neoliberale non è tanto economico quanto epistemologico e si è andato storicamente a connotare come un vero e proprio «collettivo di pensiero», come asserì Dietrich Plehwe[7] (prendendo spunto dagli scritti di Ludwik Fleck che descrisse l’impresa scientifica come formata da «una comunità di persone che scambiano mutualmente idee o mantengono un’interazione intellettuale»).[8] Non ha quindi molto senso il considerare (come, peraltro, fanno molti), questo fenomeno come un orientamento economico o, tanto meno, di spiegarlo con le obsolete categorie del pensiero politico del secolo scorso ( destra politica, conservatorismo, liberalismo, ecc.).

Questo equivoco spiega, in larga parte, l’insuccesso dei movimenti che criticano e cercano di contrastare la fisionomia attuale del capitalismo (che viene definita «liberismo» o «neoliberismo»),[9] nel quale non sono state mantenute le promesse che sembravano implicite nei «trent’anni gloriosi» del dopoguerra, quando appariva ineluttabile un futuro progressivo di benessere ed uguaglianza per tutti (almeno nei paesi del cosiddetto capitalismo avanzato). Non solo nulla di tutto questo si è avverato, ma non si è neanche mantenuta una sorta di stato stazionario nel quale si fossero consolidate le conquiste precedenti. Viceversa, in tutto il mondo occidentale, si è assistito a una progressiva diminuzione del benessere che sta portando alla scomparsa della classe media, a una riduzione dei servizi e a una polarizzazione sempre maggiore della ricchezza.

La più parte delle critiche si è limitata a considerare lo stato attuale della nostra forma-mondo come una sorta di malattia benigna in un organismo, altrimenti, sano, la cui terapia consisterebbe in una sorta di ripristino dello status quo ante (confondendo il mezzo con il fine), una sorta di irenico riequilibrio da ottenersi grazie a un ripristino di efficaci regolazioni del mercato, a un’economia che torni sotto il controllo degli Stati, nella quale si riaffermi il primato della manifattura sulla finanza (il mito dell’«economia reale»: un’altra chimera fatta da domini incommensurabili ma, soprattutto, che «rimetta i debiti ai debitori» (la Grecia, i Paesi poveri, ecc.). Questa carenza di analisi ha fatto sì che, i movimenti di cui sopra, si siano cullati nell’illusione che fosse sufficiente mettere in scena azioni di protesta che «sorgono dal basso» contro il «crudele e distorto stato del mondo»,[10] per sperare di contrastare efficacemente lo status quo. Viceversa, ciò che è avvenuto nel regno della realtà è che quasi tutti questi movimenti di protesta (dal movimento no global alle varie rivoluzioni colorate) si sono rivelati, nel corso del tempo, abili maskirovka che hanno mantenuto sotto controllo il malcontento e ostacolato vieppiù la possibilità di contrastare il sistema.

È difficile per coloro che sono spinti dall’afflato di «cambiare il mondo» credere che la «spontaneità» di tali proteste sia, in realtà la messa in scena di un copione scritto da altri, un prodotto pronto per essere messo sul mercato delle idee. Ma il mondo creato dal collettivo di pensiero neoliberale funziona proprio così: esso è stato in grado di creare un’epistemologia omnicomprensiva che permea la cultura contemporanea con un coacervo di verità multiple, tutte ugualmente «vere», che sono in grado di coprire tutte le alternative possibili: dal conformismo all’anticonformismo, dalla reazione alla rivoluzione, dal sistema all’antisistema. Un regime caleidoscopico e proteiforme nel quale una critica reale e sensata allo status quo non ha alcuna base sulla quale poggiare (difficile combattere contro qualcosa che non ha una forma definita, essendo in grado di assumere tutte le forme). Quando il mondo è rappresentato, in ogni suo aspetto, con un’immagine distorta, è quasi impossibile percepire questo ribaltamento: come nella caverna platonica, gli spettatori sono portati a credere che le immagini proiettate sulle pareti corrispondano al mondo reale.

Non affronteremo questo argomento nella sua totalità, ma ci soffermeremo soltanto sul problema del riscaldamento globale, in modo che possa costituire un paradigma esemplificativo della manipolazione suddetta.

L’utopia neoliberale e il riscaldamento globale
Come abbiamo detto, il collettivo di pensiero neoliberale è stato capace di costruire un intero armamentario di proposte epistemiche e politiche che, di fatto, hanno occupato tutto lo spazio delle alternative possibili. Naturalmente non stiamo parlando della banale e falsa dialettica centro-destra/centro-sinistra, democratici/repubblicani, conservatori/laburisti che, tuttavia, invade tutto lo spazio parlamentare delle democrazie liberali. No, stiamo parlando di un’operazione molto più capillare e pervasiva di occupazione (obliterazione, quando questo non sia possibile) di tutte le forme di pensiero e di azione, anche al di fuori della «politica politicata», che è riuscita a confezionare, con la complicità delle anime belle del progressismo di ogni forma e di ogni età, non solo, una panoplia di vacue utopie volte a sterilizzare le velleità politiche delle masse come, ad esempio, la fratellanza tra i popoli, la società senza frontiere, il governo globale (o, con una maggiore vena distopica, le corbellerie del post-umano e la moltiplicazione dei generi), inibendo, grazie alla vacuità del fine, ogni possibilità di azione reale, ma – e qui sta la genialità – a creare un catalogo omnicomprensivo di proposte «politiche», in grado di coprire l’intera gamma della domanda da parte del pubblico, con obiettivi a breve, medio e lungo termine.

Per comprendere appieno questa operazione è bene fare un piccolo passo indietro e spiegare brevemente un punto cruciale dell’epistemologia neoliberale. Essa ha sempre respinto la falsa dicotomia dei liberali classici laissez faire di Stato versus mercato come dispositivi antitetici. Al contrario di questi ultimi, i neoliberali non considerano il mercato un luogo di allocazione delle merci (materiali o immateriali), ma un elaboratore di informazioni, il più efficace ed efficiente elaboratore che si conosca, assai migliore di qualsivoglia entità umana (individuale o collettiva).[11]

In secondo luogo – anche qui diversamente dal pensiero liberale classico e alle sue moderne propaggini – l’ideologia neoliberale propugna uno Stato forte che, tuttavia, non abbia come compito principale (e neanche secondario, per la verità) quello di controllare gli animal spirit del mercato, ma quello di controllare se stesso, ovvero, come direbbe Marx, agire da «comitato d’affari della borghesia» il cui scopo sia quello di promuovere, salvaguardare ed estendere gli ambiti del mercato. Per svolgere questo supremo compito, lo stato deve operare con tutte le proprie prerogative (compresa quella del monopolio della forza) per costruire una sorta di totalitarismo del mercato (un telos potenzialmente infinito) mediante una mercificazione sempre più estesa e capillare dell’esistente.

Anche per ciò che riguarda il riscaldamento globale (che è di natura ecologico/termodinamica), possiamo notare la differenza di approccio tra neoliberali e liberali classici. Per questi ultimi, i problemi della biosfera sono sintomi di malfunzionamento del mercato (market failure), la cui soluzione dovrebbe risiedere nell’attribuire un giusto prezzo alle esternalità (inquinamento, ecc.), alle risorse e ai cosiddetti servizi degli ecosistemi (approccio della Ecological Economics). Per i neoliberali, invece, questo tipo di problemi è destinato a sorgere ineluttabilmente a causa dell’inestricabile complessità delle interazioni tra la società e la biosfera, per comprendere le quali la conoscenza umana è affatto inadeguata. In realtà, il pensiero neoliberale adotta questa panoplia epistemologica in maniera affatto opportunistica, adoperando la complessità pro domo sua: siccome non ci si può affidare alla conoscenza umana per comprendere e prevedere questa multiforme e diveniente realtà, vi è bisogno di una sorta di deus ex machina, di un diavoletto di Maxwell, di una finzione retorica spacciata per verità: un’ immagine idealizzata di mercato perfetto, spontaneo ordinatore dell’ordine spontaneo e supremo elaboratore di informazioni, il motore immobile (ma, di fatto, mobile) al quale si demanda il compito di trovare soluzioni a qualsivoglia problema. Siccome, tuttavia, questo ordine «spontaneo» non è dato nei sistemi politici – e ci mancherebbe altro! – è necessaria tutta la forza di uno Stato forte che, col suo imperio, possa spontaneizzare ciò che spontaneo non è (da qui anche la finzione del «libero» mercato).

A questo punto, la strategia appare alquanto circolare: siccome non ci si può affidare alle decisioni politiche per affrontare i problemi complessi (dei quali fa sicuramente parte quello del cambiamento climatico), visto che la capacità conoscitiva dei decisori è fallace per definizione, allora è necessario che i decisori facciano un passo indietro abdicando al loro compito e affidino al mercato[12] – con una decisione politica! – il compito di decidere quali siano le soluzioni migliori. Ma a volte il problema è piuttosto restio a farsi incanalare con disinvoltura nei meccanismi di mercato, e quello del riscaldamento globale fa senz’altro parte di questa categoria. In questi casi la strategia dovrà seguire un piano più complesso ed essere dipanata secondo vari stadi successivi. Qui possiamo individuare una strategia composta da diversi stadi caratterizzati da diverse strategie di manipolazione dell’opinione pubblica: dalla promozione del «negazionismo» scientifico alla creazione di fenomeni come Greta Thurnberg o Friday for Future Tutte facce della medesima medaglia: la «risposta neoliberale» ai cambiamenti climatici.[13]

a) Il «negazionismo» scientifico
Il primo stadio consiste generalmente nel prendere tempo per poter elaborare gli stadi successivi. In casi come questo, la tecnica più efficace è quella di instillare il dubbio nell’opinione pubblica che questo tipo di problemi non sia correlato al modello economico della società attuale (sovraconsumo, inquinamento, sovrasfruttamento della biosfera, ecc.), in poche parole: che il mercato non è mai colpevole (a tal proposito è utile far notare che, ad esempio, nei paesi del blocco sovietico i problemi ecologici erano assai più gravi ecc.).

Lo scopo di quello che è stato chiamato «negazionismo» scientifico, promosso, principalmente, dalla Global Climate Coalition e, poi, dalla Hearthland Foundation, alle quali abbiamo già accennato, è stato quello di controllare l’opinione pubblica che, allarmata dal problema del riscaldamento globale, avrebbe potuto far pressione sui governi per affrontarlo con decisioni politiche, ovvero, come abbiamo detto, a prendere tempo per elaborare opportune soluzioni per far rientrare la questione nel recinto del mercato. La soluzione «negazionista», ancorché di carattere temporaneo, aveva il vantaggio di essere rapidamente dispiegabile ed economica e di distogliere l’attenzione del pubblico dagli argomenti appropriati.

La strategia del «collettivo di pensiero neoliberale» vuole che la prima risposta a una sfida di natura politica debba sempre essere di tipo epistemologico:[14] è necessario mettere in dubbio ciò che costituisce l’argomento di tale sfida, in questo caso, negare il problema e temporeggiare indefinitamente con sterili diatribe riguardo al merito (ovvero, se esista o meno il riscaldamento globale su base antropogenica). Il «mercato delle idee» deve essere sempre irrorato col dubbio affinché, come un efficace diserbante, esso possa far sviluppare solo le piante (idee) desiderate. Questa tecnica, descritta dallo storico Robert Proctor sotto il nome di «agnotologia»,[15] si è rivelata nel tempo assai efficace.

La dottrina neoliberale difende, formalmente, il diritto di chiunque di sostenere qualsivoglia scempiaggine con egual diritto (la «saggezza delle masse»)[16] perché, in ultima analisi, l’ambito nel quale si stabilisce la verità è sempre il mercato. Quest’ultimo, tuttavia, non è mai libero come viene spacciato, ma è controllato da coloro ai quali fa comodo che venga spacciato come libero (e non certo da quella congrega di esperti che rappresenta la «scienza ufficiale»). Di fatto, la dottrina neoliberale coincide perfettamente con quella di Quelo: «la risposta è dentro di voi, epperò è sbajata [a meno che non coincida con la nostra]».[17]

Questo primo stadio però è ben lungi dall’essere sufficiente per incanalare il problema nei meccanismi di mercato, pertanto è necessario elaborare gli stadi successivi facendo sì che essi si dispieghino mediante un’offerta merceologica che sia in grado di coprire l’intero spettro della “domanda” di “soluzioni”. È altresì necessario che ognuna di queste implichi la creazione di un profitto e, possibilmente, che estenda la sfera del mercato ad ambiti mai toccati prima.

b) La mercatizzazione della CO2 e l’accumulazione per espropriazione
Dopo questo primo stadio agnotologico, è necessario che a un certo punto il mercato faccia il suo ingresso. In questo caso, l’azione del mercato si dispiega secondo due linee principali: la prima è costituita dalla monetizzazione e dalla conseguente finanziarizazione dei servizi degli ecosistemi, ovvero dalla creazione di permessi di emissione di CO2; la seconda, da quella che David Harvey ha definito «accumulazione per espropriazione».

L’istituzione di mercati dei permessi di emissione costituì un’abile strategia per costruire un nuovo settore merceologico e finanziario, ma anche per convincere gli attori politici del fatto che la risposta al problema dei cambiamenti climatici, ovvero la diminuzione dell’emissione di gas serra dovesse competere ai mercati invece che ai governi: si è mercatizzato qualcosa che avrebbe dovuto essere politico. Naturalmente, questa «soluzione» non ha condotto ad alcun risultato, per quello che era lo scopo dichiarato: di fatto non ha evitato l’emissione di una sola molecola di CO2.[18] D’altra parte, questo non era certo lo scopo reale, che viceversa, era quello di adoperare la scusa del riscaldamento globale per creare un nuovo strumento finanziario dal nulla, una merce virtuale che mercifica un dato fisico, peraltro virtualizzato, un nuovo derivato da immettere nella grande fucina della finanza fornendo agli operatori un ulteriore strumento speculativo da trasformare in moneta reale.

L’altro braccio della strategia a medio termine è stato quello dell’accumulazione per espropriazione, che merita qualche parola di spiegazione:

La descrizione di Marx dell’«accumulazione primitiva» comprende fenomeni come la mercificazione e la privatizzazione della terra e l’espulsione da essa della popolazione contadina; la conversione di varie forme di beni collettivi in proprietà privata; la mercificazione della forza lavoro e la eliminazione delle alternative ad essa; processi di appropriazione coloniale o neocoloniale di beni e risorse naturali; monetizzaione degli scambi e tassazione della terra; commercio degli schiavi; usura; il debito pubblico e il sistema creditizio.[19]
Si potrebbe pensare che questi tipi di accumulazione siano un retaggio del passato, dei tempi del capitalismo nascente e di quelli in cui iniziava ad affermarsi in maniera sempre più estesa e capillare.

A questo scopo si adottano infatti metodi sia legali sia illegali […] Tra i mezzi legali si annoverano la privatizzazione di quelle che un tempo erano considerate risorse di proprietà comune (come l’acqua e l’istruzione), l’uso del potere di espropriazione per pubblica utilità, il ricorso diffuso a operazioni di acquisizione, fusione e così via che portano al frazionamento di attività aziendali, o, per esempio, il sottrarsi agli obblighi in materia di previdenza e sanità attraverso le procedure fallimentari. Le perdite patrimoniali subite da molti durante la crisi recente possono essere considerate una forma di espropriazione che potrebbe dar luogo a ulteriore accumulazione, dal momento che gli speculatori acquistano oggi attività sottovalutate con l’obiettivo di rivenderle quando il mercato migliorerà, realizzando un profitto.[20]
Una delle forme più sottili di accumulazione per espropriazione è quella di drenare surrettiziamente denaro pubblico, o direttamente dalle tasche dei cittadini, per generare un profitto privato tramite una tassazione ad hoc, oppure obbligare la popolazione a un consumo tramite l’imposizione decretata dal potere dello Stato.

Un esempio del primo tipo di pratica è, senza dubbio, quello degli impianti di produzione di energie rinnovabili (eolica, fotovoltaica, idroelettrica ecc) che sono casi nei quali l’energia prodotta viene remunerata a un prezzo superiore a quello di mercato (altrimenti non sarebbero economicamente sostenibili). In questo caso, il sovrapprezzo viene corrisposto dalla fiscalità generale o da un esborso aggiuntivo nelle tariffe delle forniture elettriche. Se si eccettua la sparuta produzione (in termini di MW/h) degli impianti ad uso familiare, la più parte della generazione di elettricità da queste fonti proviene da grandi impianti per i quali l’investimento è sostenuto da grandi investitori, in genere società finanziarie.[21] Questo è un caso nel quale lo Stato opera come perfetto agente del mercato: invece che favorire, con un’azione diretta la tanto sbandierata «transizione energetica», esso si fa promotore di un sistema nel quale i profitti delle società finanziarie sono a carico dei cittadini tramite un aggravio dei costi energetici o mediante la fiscalità generale.

Un altro esempio di questo tipo di accumulazione, anche se un poco più indiretto, è quello dei veicoli adibiti a trasporto stradale. In questo caso, lo Stato interviene modificando le regolamentazioni che regolano le emissioni dei veicoli (specie quelle di CO2) e inibendo la circolazione per quei mezzi che non rispettano i parametri imposti. Questa tecnica di marketing condotta tramite la forza della legge costringe attualmente gli utenti a cambiare veicolo tramite una sorta di obsolescenza programmata de jure, e apre la strada a nuove nicchie di mercato (veicoli elettrici, ibridi, ecc.). Ovviamente, questo è un altro un trucco per costringere i cittadini a esborsi di denaro in un certo senso coatti, senza alcun beneficio per ciò che riguarda le emissioni di CO2 in quanto tali, se si considera che il processo di produzione di un auto, è responsabile di una produzione di CO2 che è, in media, superiore a quella che la medesima auto produrrà nel suo ciclo di utilizzo (verosimilmente, da questo punto di vista, sarebbe più ecologico tenere la medesima auto per qualche decennio, ma questo non aiuta il mercato).[22]

Naturalmente, per imporre alla popolazione questa visione senza troppi incidenti (cosa che, ad esempio, non è riuscita in Francia),[23] è necessario predisporre l’opinione pubblica con massicce campagne moralizzatrici, come quella per la quale stanno usando la ragazzina che intimorisce quei «potenti della terra» che hanno tutto da guadagnare dalla creazione di nuove nicchie di mercato. Tuttavia, l’inesauribile cornucopia di idee del collettivo di pensiero neoliberale non si esaurisce qui, ma è lanciata verso sempre nuovi orizzonti.

c) Geoingegneria e altre distopie neoliberali
Dato che il sistema dei permessi di emissioni e le miriadi di impianti ad energia rinnovabile sono, ormai, soluzioni datate, anche se sono servite egregiamente allo scopo, che era quello di estendere il dominio del mercato o estrarre denari dalle tasche della popolazione e dei governi, è ora di superare queste reliquie del passato con la soluzione neoliberale per il lungo periodo: la geoingegneria. Qui si arriva al nucleo stesso della Dottrina, la quale postula che l’ingegno imprenditoriale, se lasciato libero di manifestare le proprie pulsioni di «distruzione creativa», può essere in grado di trovare soluzioni di mercato per risolvere qualsivoglia problema. Le idee non possono essere lasciate improduttive. Quando vi è la possibilità, esse vanno inserite nel discorso politico e perseguite con tutti i mezzi. È quindi ora di aprire nuove ed incredibili opportunità (!) per trasformare in merce e mercato parti del globo che nessuno pensava potessero avere questo destino – e questa destinazione. La geoigegneria rappresenta il volto futuribile e fantascientifico del neoliberalismo e, assieme ai deliri sull’ingegneria genetica e sull’intelligenza artificiale, il suo volto più distopico.

«Geoingegneria» è una sorta di definizione collettiva che individua un’ampia gamma di manipolazioni in larga scala volte a modificare il clima della terra, per «correggere» i cambiamenti climatici. Essa comprende «soluzioni» come l’aumento artificiale dell’albedo del pianeta attraverso vari tipi di «gestione» della radiazione solare (tramite la diffusione di particelle riflettenti nella stratosfera, l’installazione di specchi nell’orbita terrestre spaziali o la copertura dei deserti con materiale riflettente); l’aumento del sequestro di CO2 da parte degli oceani tramite la stimolazione della crescita del fitoplancton (concimazione degli oceani con nutrienti, mescolamento degli strati) o della terraferma (seppellimento dei residui vegetali; introduzione di organismi geneticamente modificati, oppure, ancora, l’estrazione e il confinamento della CO2 direttamente al punto di emissione). Questa sorta di ideazione delirante ha connessioni piuttosto strette col «collettivo di pensiero neoliberale» in quanto diverse istituzioni che ne sono emanazione diretta, come L’American Enterprise Institute, Ii Cato Institute, la Hoover Institution e il Competititive Enterprise Institute si occupano in maniera assai attiva nella promozione della geoingegneria. Lo stesso tempio accademico del neoliberalismo, la Chicago School of Economics, ha pubblicamente appoggiato questo delirio[24].

Naturalmente, questi progetti sono solamente allucinazioni lisergiche portate ad un livello istituzionalmente riconosciuto: vedi alla voce: «lo dice Lascienza». Ma questa mirabolante scienza, in questi casi, può solo asserire ipotesi che non hanno alcuna possibilità di essere provate sperimentalmente. Non vi è alcun modo di verificare ex ante gli assunti ipotizzati né, tanto meno, gli effetti indesiderati. Qui il laboratorio è costituito dall’intero mondo e l’ex post potrebbe essere una catastrofe di proporzioni inimmaginabili. Ma evidentemente queste considerazioni non hanno il potere di scalfire l’adamantina determinazione dei nostri apprendisti stregoni arsi dal sacro fuoco di Prometeo. Ça va sans dire che queste mirabolanti proposte agirebbero solo sugli effetti e non certo sulle cause del problema. D’altronde, agire sulle cause significherebbe mettere in discussione le basi sulle quali poggia il capitalismo stesso mentre secondo l’epistème neoliberale. Se il capitalismo ha causato dei problemi, la soluzione è: più capitalismo!

Quindi, le soluzioni geoingegneristiche apportano enormi vantaggi secondo i criteri neoliberali, perché non limitano mercati consolidati (non sia mai che, nel mondo, si producano meno pezzi di Hallo Kitty o di cheeseburger, o che a Dubai non si possa più sciare al coperto!), ma espande gli ambiti del mercato verso nuovi orizzonti: niente di meno che la privatizzazione dell’atmosfera e del clima. Perché, qualora non si fosse compreso, lo scopo è questo, nonché porre il pianeta in ostaggio di alcune entità private (quelle che mettono a punto le «soluzioni» protette da brevetto),[25] affinché possano trarre profitto da qualcosa che, magicamente, può diventare merce con pochi tratti di penna, con la scusa di un «fate presto!» globale perché «ce lo chiedono le prossime generazioni».

***

Con questo si chiude il cerchio. Nel mirabolante mondo di Quelo e Greta, la teknè viene politificata mediante l’ennesimo ragionamento circolare, perché i problemi sono troppo complessi per poter essere affrontati con soluzioni che non siano tecniche (la risposta è dentro di voi, epperò è sbajata), fino ad obliterare interamente lo spazio della politica che non sia quello di mero «comitato d’affari della borghesia». Perché non vi è alternativa alle verità di una scienza che è divenuta dogma e di una società che ha abbandonato ogni dogma che sia non sia quello dell’ordine del mercato, quella secondo cui la «provedenza che governa il mondo» agisce con mano invisibile affinché si possa manifestare il mistero della creazione.

La stessa scienza, ha abbandonato qualsivoglia funzione epistemica per divenire un mero paradigma gestionale e non ha maggior significato, per ciò che riguarda la conoscenza del mondo, di quanto ne abbiano le regole del Monopoli. L’ordine del mercato è rimasto l’unica praxis che orienti le azioni umane e l’unico tèlos, autotelico e perpetuamente progressivo, al quale si volge lo sguardo di quella che un tempo usavamo chiamare civiltà.

Gli studi più rilevanti furono condotti da Hans Suess, Gilbert Plass, Roger Revelle e Charles Keeling. ↩

Lista dei membri della Global Climate Coalition: American Electric Power, American Farm Bureau Federation, American Highway Users Alliance, American Iron and Steel Institute, American Forest & Paper Association, American Petroleum Institute, Amoco, ARCO, Association of American Railroads, Association of International Automobile Manufacturers, British Petroleum, American Chemistry Council, Chevron, DaimlerChrysler, Dow Chemical Company, DuPont, Edison Electric Institute, Enron, ExxonMobil, Ford Motor Company, General Motors Corporation, Illinois Power, Motor Vehicle Manufacturers Association, National Association of Manufacturers, National Coal Association, National Mining Association, National Rural Electric Cooperative Association, Ohio Edison, Phillips Petroleum, Shell Oil, Southern Company, Texaco, Union Electric Company, United States Chamber of Commerce. Fonte: K. Brill, “Your meeting with members of the Global Climate Coalition”, United States Department of State, 2001. ↩

Almeno dall’uscita del libro di Rachel Carson, Primavera silenziosa (1962). ↩

A sua volta influenzato dagli studi di Frederick Soddy. ↩

In P. Mirowski, Never let a serious crisis go to waste, Verso, London-New York, 2013; P. Mirowski, D. Plehwe, The Road from Monte Pelerin, Harvard University Press, Cambridge, 2009. ↩

In M. Foucault, The Birth of Biopolitics. Lectures at the Collège de France 1978–79, Palgrave McMillan, Basingstoke, 2008. ↩

In P. Mirowski, D. Plehwe, cit., p. 4 sgg.; 417 sgg. ↩

In L. Fleck, The Genesis and Development of a Scientific Fact, University of Chicago Press, Chicago, 1979. ↩

Residuo linguistico della sterile diatriba tra Benedetto Croce e Luigi Einaudi, che data alla fine degli anni ’20 del secolo scorso. ↩

In P. Mirowski, Never let a serious crisis go to waste, cit., cap. 6. ↩

In P. Mirowski, “Naturalizing the market on the road to revisionism: Bruce Caldwell’s Hayek’s challenge and the challenge of Hayek interpretation”, in Journal of Institutional Economics, 2007. ↩

Che include anche quella scienza che ha dimostrato il proprio successo nel «mercato delle idee», anch’esso spontaneo come lo spacciatore alla dogana di cui sopra. ↩

In P. Mirowski, Never let a serious crisis go to waste, cit. ↩

Ibid. ↩

In R. N. Proctor, L. Schiebinger, Agnotology. The Making and Unmaking of Ignorance, Stanford University Press, 2008. ↩

Cfr. F. A. Hayek, “The use of knowledge in society”, in American Economic Review, XXXV, No. 4, September 1945, pp. 519-30. ↩

«First and foremost, neoliberalism masquerades as a radically populist philosophy, which begins with a set of philosophical theses about knowledge and its relationship to society. It seems to be a radical leveling philosophy, denigrating expertise and elite pretensions to hard-won knowledge, instead praising the “wisdom of crowds.” It appeals to the vanity of every self-absorbed narcissist, who would be glad to ridicule intellectuals as “professional secondhand dealers in ideas.” In Hayekian language, it elevates a “cosmos”—a supposed spontaneous order that no one has intentionally designed or structured—over a “taxis”—rationally constructed orders designed to achieve intentional ends. But the second, and linked lesson, is that neoliberals are simultaneously elitists: they do not in fact practice what they preach. When it comes to actually organizing something, almost anything, from a Wiki to the Mont Pèlerin Society, suddenly the cosmos collapses to a taxis. In Wikipedia, what looks like a libertarian paradise is in fact a thinly disguised totalitarian hierarchy» (in P. Mirowski, D. Plehwe, The Road from Monte Pelerin, cit., pp. 425-426). ↩

La stima è dell’ufficio studi della banca svizzera UBS, in una relazione ai clienti del novembre 2011 (cfr. https://www.thegwpf.com/europes-287-billion-carbon-waste-ubs-report). ↩

In D. Harvey, “The ‘new’ imperialism: accumulation by dispossession”, in Socialist Register, No. 40, p. 74. ↩

In D. Harvey, L’enigma del Capitale, Feltrinelli, Milano, 2011, pp. 60-61. ↩

Tipicamente con sede all’estero, se ci riferiamo all’Italia o anche ai cosiddetti Paesi in via di sviluppo. ↩

Cfr. S. Kagawa, K. Hubacek, K. Nansai, M. Kataoka, S. Managi, S. Suh, Y. Kudoh, “Better cars or older cars?: Assessing CO2 emission reduction potential of passenger vehicle replacement programs”, in Global Environmental Change, Volume 23, Issue 6, December 2013, pp. 1807-1818; M. Messagie, “Life Cycle Analysis of the Climate Impact of Electric Vehicles”, in Transport and enviroment, 2014; H. Helms, M. Pehnt, U. Lambrecht, A. Liebich, “Electric vehicle and plug-in hybrid energy efficiency and life cycle emissions”, 18th International Symposium Transport and Air Pollution, 2010. ↩

Ricordiamo che il fattore che ha innescato la rivolta dei Gilet Jaunes è stata proprio l’inasprimento dei parametri per le emissioni veicolari. Naturalmente queste riguardavano soprattutto I veicoli di una certa età, che sono quelli che garantivano la mobilità della fascia di popolazione meno abbiente (in presenza di concomitante smantellamento delle reti di trasporto pubblico di prossimità). ↩

Cfr. P. Mirowski, Never let a serious crisis go to waste, cit. ↩

Cfr. D. Cressy, “Geoengineering Experiment Cancelled Amid Patent Row”, in Nature, No. 15, May 2012; M. Specter, “The Climate Fixers”, in The New Yorker, May, 2012. ↩

FONTE:http://ilpedante.org/post/quelo-greta-e-la-dottrina-neoliberale-della-verita-multipla

 

 

 

FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI

La Germania incassa 1,34 miliardi di euro di profitti su prestiti ad Atene

di Vittorio Da Rold – 15 LUGLIO 2017      Rilettura per immaginare cosa guadagnano ORA

La notizia rischia di riaprire vecchie ferite tra Berlino e Atene perché arriva proprio il giorno dopo la concessione di una laurea honoris causa al presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, all’Università Aristotele di Salonicco che ha provocato dimostrazioni di protesta con spiegamento di forze di polizia a difesa della cerimonia. La Germania ha incassato 1,34 miliardi di euro dall’inizio della crisi greca nel 2009. Lo ha indicato il quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung. Si tratta dei profitti ottenuti grazie agli interessi dei prestiti ad Atene. In sostanza, la banca di sviluppo tedesca Kfw (Kreditanstalt fur Wiederaufbau) ha incassato 393 milioni di euro sui prestiti di 15,2 miliardi alla Grecia nel 2010. Tra il 2010 e il 2012, il programma di riacquisto di titoli ellenici da parte delle banche centrali della zona euro ha fatto registrare alla Bundesbank profitti per 952 milioni di euro.

Un bel gruzzoletto. I numeri sono emersi grazie a un’interrogazione parlamentare presentata al Bundestag dal movimento dei Verdi al ministero delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble. I Verdi, attraverso le parole di Sven-Christian Kindler, hanno criticato il comportamento tedesco nei confronti della Grecia: «Sarà anche legale che la Germania guadagni sulla crisi della Grecia, ma non è legittimo nel senso morale della solidarietà».

I profitti sono arrivati alla Bundesbank, la banca centrale tedesca, per aver partecipato come le altre banche dell’eurozona, al programma Securities Market Programme (SPM) dal 2010 al 2012 sotto l’egida della Banca centrale europea all’epoca diretta da Jean-Claude Trichet. La Bce ha incassato più di 1,1 miliardi di euro nel 2016 in interessi su un ammontare di 20 miliardi di bond greci acquistati attraverso lo SMP, bond che erano stati venduti sul mercato secondario da banche soprattutto francesi, olandesi e tedesche timorose di un haircut, un taglio del valore facciale delle obbligazioni. Quest’anno i profitti ammonteranno a 901 milioni di euro quando verranno ancora distribuiti ai 19 stati dell’eurozona. Dal 2015 la Germania ha raccolto 952 milioni di euro come profitti del programma SMP.

Il bilancio tedesco ha registrato, sotto l’attenta regìa del ministro conservatore e artefice dell’austerità nell’eurozona, Wolfgang Schaeuble, un surplus di 6,2 miliardi di euro nel 2016. I Verdi tedeschi hanno sottolineato che anche i profitti ricavati dalla crisi greca hanno aiutato a raggiungere questo obiettivo. Ma questa osservazione non sembra aver scalfito la posizione di Schaeuble.

Nel biennio tra il 2013 e il 2015 l’Ue aveva deciso che i profitti generati dai bond greci fossero restituiti da Francoforte alle banche centrali di ogni Paese, che poi li avrebbero rigirati ad Atene per alleggerire il suo pesante fardello del debito che viaggia al 179% del Pil. Ma poi nel 2015 a seguito di un referendum e uno scontro tra Governo Tsipras e creditori internazionali questa procedura è stata interrotta e gli stati si sono tenuti gli interessi del 2015 e 2016.

FONTE:https://www.ilsole24ore.com/art/la-germania-incassa-134-miliardi-euro-profitti-prestiti-ad-atene-AE8XAjxB

 

 

 

L’OMBRA NERA DELLA BLACKROCK SULLA CRISI ECONOMICA ITALIANA

Editoriale di Stefano Becciolini

Importante: come è uso fare in questo Blog per dare una più scorrevole lettura, anche per questo articolo i nomi  di persone o aziende sono cliccabili per approfondimenti.
Sono passati 23 anni da quell’estate del 1992, quando a pochi giorni dall’omicidio di Giovanni Falcone, si verificava in tutta riservatezza un altro avvenimento che avrebbe avuto conseguenze molto profonde sul futuro dell’ Italia.Il 2 Giugno, nei pressi del porto di Civitavecchia,  a bordo del panfilo Britannia di proprietà della Regina Elisabetta d’ Inghilterra, si incontrarono alcuni nomi illustri del mondo finanziario e bancario inglese: dai rappresentanti della BZW, la ditta di brockeraggio della Barclay’s, a quelli della Baring & Co e della S.G. Warburg  Erano venuti per ricevere alcuni esponenti di maggior conto del mondo imprenditoriale e bancario italiano: rappresentanti dell’ENI, dell’AGIP, Mario Draghi del ministero del Tesoro, Riccardo Gallo dell’IRI, .Giovanni Bazoli dell’Ambroveneto, alti funzionari della Banca Commerciale e delle Generali, ed altri della Società Autostrade.
 Audio articoli ottobre 2015

Si trattava di discutere i preparativi per liquidare, cedere a interessi privati multinazionali, alcuni dei patrimoni industriali e bancari più prestigiosi del nostro paese. Draghi avrebbe detto agli ospiti inglesi: Stiamo per passare dalle parole ai fatti. Fu poi affidato ai mass media, ed al nuovo governo Amato, il compito di trovare le argomentazioni giustificative: parlare dell’urgente necessità di privatizzare per ridurre l’enorme deficit di bilancio. Al grande pubblico, sia il governo che i mass media hanno risparmiato la semplice verità che il “primo motivo” dietro tutto il dibattito sulle privatizzazioni è costituito dalla voracità delle grandi lobbies bancarie londinesi e newyorkesi.L’obiettivo era semplicemente quello di prendere il controllo di ogni aspetto della vita economica italiana sfruttando le numerose scuse di ingovernabilità, corruzione, partitocrazia, inefficienza della Pubblica Amministrazione, etc..Perchè questa premessa storica? Perchè grazie ai mass media siamo sempre pronti a celebrare la memoria di avvenimenti lontani, ma su quelli che stanno segnando il nostro presente e modificheranno inevitabilmente il futuro, cala una cortina di fumo. E’ mia precisa convinzione, avvalorata anche dalle innumerevoli letture, non convenzionali, dei fatti storici degli ultimi vent’anni, che la pianificazione anche della crisi economica del 2008 sia stata discussa nelle cabine di quel Panfilo, il 2 giugno 1992.Il 1992 e l’inizio del 1993 sono stati un arco temporale “terribilis” per il nostro Paese, ricordate? Le stragi di Capaci e di Via D’Amelio (omicidi Falcone e Borsellino), gli attentati di Firenze e Milano, i falliti attentati allo stadio Olimpico di Roma e contro Salvatore Contorno e Maurizio Costanzo.

E’ stato detto che era tutto pianificato dalla Mafia, da quel Totò Riina che voleva dare un segnale forte allo Stato Italiano contro il 41 Bis. Ma i fatti si sono svolti veramente come hanno scritto i giornali? Sicuramente dietro quella stagione di violenza c’era l’operato della Mafia, nulla da eccepire, ma Siete veramente convinti che il mandante sia stata la Cupola ? O forse i mafiosi sono stati solo esecutori di una volontà da ricercare altrove? Organizzare quegli attentati presupponeva una conoscenza non solo di esplosivi, ma anche una perfetta “Intelligence”  per la loro esecuzione, alla mafia non mancano esperti in materia ma non escludo, anzi, che la operatività prettamente a carattere militare sia stata opportunamente fornita. Non sarebbe la prima volta che i servizi segreti italiani deviano dalla retta via.

La storia d’Italia è costellata di avvenimenti in cui “forze esterne” hanno contribuito alla realizzazione di crimini, tra cui il più eclatante è stato proprio l’omicidio di Aldo Moro e della sua scorta. Ma non voglio divagare su fatti ancora avvolti nell’ombra ( e che quattro processi non sono valsi a chiarire).Torniamo alla nostra piccola indagine conoscitiva dei fatti del Britannia che hanno poi portato alle stagioni delle  privatizzazioni in Italia.

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Le stragi del 1992 sono capitate, con tempismo a dir poco sospetto,  per potere  detronizzare i politici “scomodi” della Prima Repubblica ( Craxi, Andreotti, etc..) che sicuramente si sarebbero opposti allo smembramento del patrimonio pubblico Italiano, non certamente perché patrioti, ma perché avrebbero perso potere e controllo sul nuovo che stava avanzando e già se ne sentiva il frastuono … “la globalizzazione economica”. Bisognava cambiare la vecchia classe politica e dirigenziale,  fare del “primato economico” (leggi pure specchietto per le allodole) la vera prospettiva per il nuovo millennio che si stava avvicinando.Carl von Clausewitz   diceva che la guerra è la continuazione della politica fatta con altri mezzi, ma da 23 anni si può dire che l’economia è la continuazione, anzi il sostituto della guerra, ma anche se non scorre apparentemente sangue è molto più devastante e pericolosa. Sullo scorrere del sangue non sarei, poi, così certo.
Chi erano gli strateghi che diedero il via alla grande operazione di depredamento economico quel 2 giugno del ’92?
Erano i banchieri londinesi insieme ai loro associati newyorkesi della Goldman Sachs,  Merrill Lynch e Salomon Brothers e dei loro sostenitori nel Fondo Monetario Internazionale,  nella World Bank, nell’OCSE. La loro fonte di propaganda? Il  mondo dei mass media.
Queste grandi finanziarie di New York e Londra su cui si fonda il potere anglo-americano gestiscono il gioco della liberalizzazione dei mercati internazionali. Ne scrivono e riscrivono le regole per massimizzare di volta in volta i profitti.
Ed ecco che entra in gioco un’altra Multinazionale che in quella tarda primavera non era formalmente presente all’incontro, ma che già stava facendo la parte del leone nel mondo finanziario: la BlackRock,società di investimenti cofondata nel 1988 da Laurence D. Fink. Secondo Limes, l’architetto supremo del complotto, non è la Germania, ma il colossale fondo d’investimenti statunitense BlackRock, azionista rilevante della Deutsche Bank che nel 2011, annunciando la vendita dei titoli di Stato italiani, fece esplodere il divario tra Btp e Bond causando la “resa” di Berlusconi e l’avvento di Monti, l’emissario del grande business straniero.
La rivista di Lucio Caracciolo secondo Grazia Bruzzone su “La Stampa” ha messo a fuoco un po’ meglio le dimensioni, gli interessi ed il vero potere del primo fondo di investimento mondiale che è venuto allo scoperto con l’ascesa di Renzi a Palazzo Chigi.La BlackRock o “Moloch della finanza globale” vanta la gestione di 30.000 portafogli, per un totale di 4.650 miliardi di dollari. Non ha rivali al mondo ed è una delle 4-5 “istituzioni” che ricorrono tra i maggiori azionisti delle banche americane.La BlackRock è anche azionista delle due maggiori agenzie di rating, Standard & Poor’s (5,44%) e  Moody’s (6,6%), ottenendo la possibilità di influire sulla determinazione di titoli sovrani, azioni e obbligazioni private, incidendo così su prezzo e valore delle attività acquistate. Per capirci: ricordate l’estate del 2011 quando i mass media tempestavano di bollettini di guerra economica sull’aumento dello Spread per far cadere il Governo Berlusconi? Classico esempio di speculazione globale: con un semplice voto, come a scuola, è possibile influenzare e modificare la consistenza economica di un paese. Che questo voto sia meritato o no è cosa tutta da dimostrare.  Che piaccia o no, quello di Berlusconi,  è stato l’ultimo Governo Democraticamente eletto negli ultimi 9 anni.Proprio nel 2009 la BlackRock fa il suo colpo grosso, acquistando Barclays Investment Group  (presente con i suoi rappresentanti sul Panfilo Britannia), col suo carico immenso di partecipazioni azionarie nelle principali multinazionali. Il colosso finanziario americano informa e manipola i propri clienti, utilizzando tecniche e software non diversi da quelli impiegati da Google (di cui ha il 5,8%).
Il suo centro studi d’eccellenza, il BlackRock Investment  Institute, esamina le variabili politico-strategiche: il maxi-fondo è interessato al profitto ma anche alla stabilità, sicurezza e prosperità degli Stati Uniti. Ovviamente ha anche la possibilità di destabilizzare intere aree del pianeta, creare sacche di povertà, o di aggravare situazioni preesistenti, influenzare la politica e, in ultima analisi di scatenare guerre. Dunque il sangue scorre, eccome!

 

Ed in Italia la BlackRock quante e quali azioni detiene dei portafogli diciamo golosi? Ecco dei dati al 2011, ma sicuramente ora le sue partecipazioni si saranno ampliate  notevolmente: Mediaset 5,7%, Unicredit 3,9%, Enel 3,5%, Banco Popolare 3,5%, Fiat  2,7%, Telecom Italia  2,7%, Eni  2,5%, Generali  2,5%, Finmeccanica  2,2%, Atlantia  2,1%, Banca Popolare di Milano   2%, Fonsai Intesa San Paolo   2%, Mediobanca   2%, Ubi  2%, MPS – Monte dei Paschi di Siena 3,2%  (dato aggiornato e successivo al 2011).

 

Scartabellando la documentazioni non sempre facili da reperire, risulta che Unicredit S.p.A., 

Assicurazioni Generali e Intesa San Paolo sono partecipate al Capitale di Banca d’Italia che quindi risulta evidentemente privata.
In ogni caso non vi sono più banche nazionali, in occidente, sono tutte private. Compreso la Banca Centrale Europea. Le stesse partecipate della  BlackRock. Inquietante vero? Ma chi sono i maggiori azionisti della BlackRock?
Secondo ricerche effettuate sul Web risulterebbe più che altro che non ci siano veri azionisti maggioritari, ma piuttosto un labirinto di società e banche:
Norges Bank  (banca centrale di Norvegia)
Continuare nella ricerca non è il mio compito, per quello ci vogliono degli economisti che ricostruiscano il puzzle delle partecipazioni della “roccia nera”.
Comunque dai dati in nostro possesso si delinea sempre più una sconvolgente ipotesi: ci troviamo di fronte alla più grande e devastante invasione che un Paese sovrano abbia mai affrontato. In una guerra convenzionale si conosce il proprio nemico e lo si combatte, in questa guerra finanziaria invece il nemico è tra di noi ed occupa i vertici più alti del potere politico, militare ed economico.
La Finanza che ha aggredito il nostro Paese ha usato le stesse tattiche belliche di conquista di un territorio: alla conquista militare segue l’annientamento della popolazione che si oppone, la si costringe ad emigrare, si depreda il suo territorio dei beni e delle ricchezze e si sostituisce la popolazione nativa con coloni.E’ la stessa cosa che sta accadendo attualmente in Italia e in parte dell’Europa.
I mass media hanno un’importanza fondamentale nel propagandare il nemico come un salvatore, un liberatore, omettendo quali siano le sue vere intenzioni. La classe politica corrotta ed imbelle poi fa il resto.
Tutto questo non sarebbe potuto accadere se l’ex Presidente Giorgio Napolitano non avesse avvallato il  Golpe Tecnocratico del Novembre 2011, permettendo alla grande Finanza speculativa di mettersi al posto di un Governo legittimamente eletto. Simulacri di Premier come Mario MontiEnrico Letta (o Primo Ministro di transizione) e l’attuale Premier Matteo Renzi  (il servo sciocco) che dovrebbe portare l’Italia al suo completo smembramento economico e sociale.
Lo  smembramento economico di uno dei settori Italiani, leader nel mondo, che ha preso alla lettera la dichiarazione di Mario Draghi quel 2 Giugno 1992: Stiamo per passare dalle parole ai fatti è stato Sergio Marchionne, emblematico ed intraprendente Dottore Commercialista con passaporto Svizzero e Canadese, Amministratore della FIAT…ma questa è un’altra storia.

Editoriale di Stefano Becciolini per il Blog FAHRENHEIT 912

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FONTE:http://fahrenheit912.blogspot.com/2015/10/lombra-nera-della-blackrock-sulla-crisi.html

 

 

 

GIUSTIZIA E NORME

5G e Covid-19, esposto in 10 procure

Chiede di indagare un ingegnere ex dipartimento chimica dell’Università Calabria – NOTIZIA ESCLUSIVA OASI SANA

di Maurizio Martucci – 5 aprile 2020

La faccenda si fa sempre più complicata e seria. Nonostante imperversi la volontà di mettere tutto a tacere con parossistiche vulgate di bufala. La notizia è che l’ipotesi di correlazione tra la diffusione del contagio del Covid-19 e il simultaneo lancio del 5G, supposto suffragato da una serie di indizi sostenuti da autorevoli pareri, ricerche e studi scientifici scovati nell’inchiesta esclusiva di OASI SANA, è stata formalmente formulata con un esposto protocollato a 10 diverse procure italiane che potranno decidere se indagare o meno sull’ipotizzato e inquietante connubio, tema per altro di una recente interrogazione parlamentare al Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro della Salute (l’On. Cunial attende risposte da Conte e Speranza) e di un’altrettanta risoluta presa di posizione nel Parlamento Europeo per voce dall’europarlamentare tedesco nonché fisico Klause Buchner.

Vista la tragica situazione sociale che si è venuta a creare – si legge nell’esposto finito anche in nostro possesso – per evitare il protrarsi di tale illegittima sperimentazione sull’umanità e sull’ambiente e fiducioso del fatto che la giustizia possa ristabilire la verità dei fatti, chiedendo l’intervento dell’Autorità Giudiziaria competente, al fine di valutare le condotte di quanti saranno ritenuti responsabili per legge per i fatti di cui al presente esposto“.

Notificato alle Procure della Repubblica di Catanzaro, Bari, Napoli, Roma, Torino, Palermo, Cosenza, Milano, Brescia e Bergamo, in calce all’esposto c’è la firma di Giuseppe Reda, ingegnere ex ricercatore presso il Dipartimento di Chimica e Tecnologie Chimiche dell’Università della Calabria. In esclusiva ecco alcuni passaggi salienti dell’esposto:

Il presente atto ha la finalità di porre all’attenzione di questa Ecc.ma Procura della Repubblica accadimenti inerenti alla tragica situazione sociale che si è venuta a creare, affinché gli organi competenti possano eseguire gli opportuni accertamenti e valutare la sussistenza di eventuali profili penalmente rilevanti in relazione ai fatti di seguito esposti.

VIDEO QUI: https://www.youtube.com/watch?v=-Va3kwayl3g

FONTE:https://oasisana.com/2020/04/05/5g-e-covid-19-esposto-in-10-procure-chiede-di-indagare-un-ingegnere-ex-dipartimento-chimica-delluniversita-calabria-notizia-esclusiva-oasi-sana/

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

UNIONE EUROPEA E FEDERAZIONE MEDITERRANEA

Comincia a circolare, in un’Italia che si sente tradita dall’Unione europea, l’idea di una secessione da essa per proporsi capofila, in alternativa, d’una Confederazione mediterranea, con Francia, Spagna e Portogallo ad occidente e Grecia ed Albania ad oriente.

La mappa ha un forte impatto emotivo, in quanto ricorda in gran parte le province europee dell’Impero Romano. Però la cosa, detta così, non sta in piedi. Tutte le Nazioni che ne dovrebbero far parte, compresa la nostra e la Grecia, che ha più ragioni di noi per sentirsi violentata da bruti tedeschi, hanno poi cogenti interessi per restare nell’Ue.

Invece può avere un senso come alleanza strategica tra gli Stati membri mediterranei dell’Unione, che potrebbero anche sponsorizzare l’ingresso in essa dell’Albania, oggi in anticamera. L’importanza dei Consigli rappresentativi degli Stati membri, tra le Istituzioni dell’Unione, milita a favore di quest’idea. Ci sono interessi comuni da difendere sia in alcuni settori economici, come l’agricoltura e la pesca, che più decisamente politici.

Gli Stati membri mediterranei sono i più interessati a promuovere una difesa europea integrata ed una politica estera comune. Infatti confinano, a meridione del mar Mediterraneo, con Nazioni nelle quali la deriva fondamentalista del mondo islamico è particolarmente rischiosa, e sono gli Stati membri a dover affrontare in prima linea la pressione migratoria dal sud del mondo. Inoltre dovrebbero essere i più favorevoli ad una questione istituzionale fondamentale nell’Unione europea: ottenere il voto a maggioranza nei Consigli in tutte le materie, ed una pratica effettiva di esso, con la messa al bando di ogni liberum veto. È su questa mala pratica di blocco della democrazia maggioritaria, infatti, che uno sparuto gruppo di Stati membri, Germania e pochissimi satelliti, fondano il loro strapotere.

FONTE:http://opinione.it/editoriali/2020/04/06/riccardo-scarpa_ue-italia-stati-membri-mediterranei-alleanza-strategica-grecia-albania/

 

 

 

GENEALOGIA DI BILL GATES – eugenetici, malthusiani, vaccinatori

“Non vogliamo avere molte persone guarite …”

Così Bil Gates a minuto 33.45 della intervista alla TED, una tv non profit. “Per essere chiari, stiamo provando – attraverso la chiusura negli Stati Uniti – a  ad avere meno dell’uno per cento della popolazione infetta”- 

Confessando così che il suo scopo è di non avere gente immunizzata naturalmente, ma gente in pericolo  di essere infettata, a cui somministrare i vaccini.  Che sta preparando.

Ne  dà tante di interviste  in questi giorni. E parla come fosse lui il presidente. Intimando: “Lockdown, lockdown!”

Un’abitudine al comando che gli viene dalla famiglia.  Sta cominciando  ad emergere la sua genealogia, al di là della  narrativa leggendaria che lo vuole un giovinetto geniale, figlio di nessuno,   che in un garage fa le sue prime scoperte di software-

S’introduca il nonno, il pastore battista Frederick Taylor Gates  (1853-1929) co-azionista della Standard  Oil, ed  intimo  consigliere i John  D. Rockefeller, per il quale inventò, organizzò   secondo una precisa ideologia  il sistema di “donazioni filantropiche”  esentasse del  miliardario.

Frederick T. Gates

 

In Usa,  le donazioni in beneficenza  sono esenti da tasse. Sono anche deducibili dai redditi, il che consente ai miliardari di ridurre il loro imponibile, evitando lo scaglione superiore di prelievo. Per  questo praticano così attivamente la “beneficenza” (charity).

Assillato dai richiedenti da quando era diventato una celebrità, John D. Rockefeller, il capostipite  padrone della Standard Oil versava 100 dollari qua e 200  là, alla  vedova e all’orfano. Errore, gli spiego l’amico Gates:  bisogna versare con continuità somme ragguardevoli organizzazioni  filantropiche appositamente create, onde dare continuità alle loro attività.  Che non è sfamare la vedova  e l’orfano  al dettaglio,   bensì attuare politiche  “sociali” e sanitarie nel senso voluto  – voluto dai miliardari.

E’ stato  quindi nonno Gates a creare, nel 1913, la  Rockefeller Foundation:  il primo strumento in cui, sotto la voce beneficenza, i miliardari americani  attuano la forma di “ingegneria sociale” e  di politica che desiderano imporre ai governi. Ogni altra “foundation” , fino alla Open Society di Soros,   sono create su quel modello originale.  Di fatto, prestigiosi uffici studi (basti dire che  la Rockefeller  ha selezionato e promosso personalità come Henry Kissinger)  al servizio del padronato, ma in regime di paradiso fiscale. Quando leggete “no profit foundation”, è  di quello che si tratta.

E sotto la direzione di nonno Gates,   che fu il ”fiduciario” della Rockefeller Foundation fin  dalla sua fondazione nel 1913,    la filantropica istituzione  finanziò   tre filoni : le  cattedre di medicina,   quelle di  “scienze sociali”  (il controllo dell’opinione pubblica attraverso la sociologia)  e  l’eugenetica.

L’eugenetica, la selezione scientifica  dei “migliori”  (in senso darwiniano)  e la sterilizzazione dei “peggiori”, fu  notoriamente  praticata in Usa molto prima che nella Germania hitleriana. Nel 1909 almeno tre stati (fra cui  la California) si diedero leggi che imponevano la sterilizzazione di elementi “inadatti” delle classi subalterne. La Carnegie Institution, la Rockefeller Foundation e  la famiglia  Harriman (ferrovie)  finanziavano sistematicamente le  cattedre di  “scienza eugenetica”  che perciò spuntavano come funghi a Stanford, a Yale, ad Harvard e a Princeton.

In Mein Kampf , pubblicato nel 1924, Hitler cita  con lode  l’ideologia eugenica americana.  Fin dal 1926  la Rockefeller Foundation  finanziò ampiamente il Kaiser Wilhelm Institute of Anthropology, Human Heredity ed Eugenics   di Berlino,  che in seguito ispirò e condusse esperimenti di eugenetica nel Terzo Reich .  E continuò  fino al 1939,  quando le felice collaborazione in  scienze razziali fu interrotta dalla guerra.  Ma riprese dopo. Nel 1949  un prestigioso esponente fuoriuscito del Kaiser Wilheml Institute di Berlino,  Otmar Freiherr von Verschuer,   fu nominato  membro corrispondente della nuova società americana di genetica umana, organizzata da eugenologi e genetisti americani.  Verschuer  era il maestro di Joseph Mengele,  il ben noto medico e  pediatra.

Eugenetica e   malthusianesimo   sono dunque la vera passione e  scopo filantropico  della famiglia Gates. Vi sono perfino studi che accusano nonno Gates di essere il colpevole della epidemia di influenza “spagnola”, che nel 1918 uccise più uomini di quanti  ne uccise la grande guerra.  Come noto, la “spagnola” non venne dalla Spagna, e nemmeno dai fronti europei; la portarono  soldati americani già infetti

Come  dimostrato dalle autopsie sui morti riesumati,    non furono uccisi dal virus influenzale,  bensì da una infezione polmonare batterica, di streptococchi. E la Fondazione Rockefeller  aveva distribuito ampiamente (anche nel Regno Unito)  una quantità di vaccini, fra cui quello anti-meningococco,   per prevenire le epidemie fra la truppa. Vaccini del tutto sperimentali, rozzamente concepiti e  fabbricati.

Il primo caso di “spagnola”   fu rilevato a Fort Riley, nel Kansas nel 1918.  Ora, proprio lì la Rockefeller Foundation somministrò il vaccino promosso da  nonno  Gates contro la meningite batterica a  4.700 soldati, un siero  tratto dal cavallo.

Lo stesso Frederick Gates ne dà relazione:

UN RAPPORTO SULLA VACCINAZIONE E SULLE OSSERVAZIONI DELL’ANTIMENINGITE SUGLI AGGLUTININI NEL SANGUE DEI CARRIERI DEL MENINGOCOCCO CRONICO
di Frederick L. Gates
dell’ospedale di base, Fort Riley, Kansas e del Rockefeller Institute for Medical Research, New York.
Ricevuto il 1918 il 20 luglio

A Fort Riley la malattia si manifestò subito, lo stesso giorno della terza vaccinazione, ed in forma esplosiva.

Un precedente molto sinistro. Che non può non  essere  noto e raccontato nelle  cronache familiari, il Bill Gates nipote cos imperativamente assertivo sulla  necessità di vaccinare “tutti”  e nel frattempo, di rinchiudere tutti.

Può averglielo raccontato il papà, William Gates sr,., il figlio di Frederick.  Avvocato,rimasto intimo della nuova generazione Rockefeller,  papà Gates è stato a lugno nel consiglio direttivo della Planned Parenthood,  òa “filantropica”  fondazione promotrice della legislazione sull’aborto, oggi fabbrica di aborti e delle vendite di materiale estratto dai feti abortiti.

Gates padre è al centro, fra i suoi cari amici. Li unisce una passione:  la riduzione delle bocche inutili.

Una passione condivisa da  un altro miliardario:

https://www.controinformazione.info/soros-la-crisi-del-coronavirus-mostra-che-e-tempo-di-abolire-la-famiglia/

FONTE:https://www.maurizioblondet.it/genealogia-di-bill-gates-eugenetici-malthusiani-vaccinatori/

 

 

 

POLITICA

MES: COME IL FANATISMO RELIGIOSO PIDDINO RISCHIA DI CANCELLARE L’ITALIA ECONOMICA

 

 

Iniziamo con una premessa e con la pubblicazione del sondaggio sottostante:

Solo il 30% degli italiani ha fiducia nella UE, diversamente distribuiti fra le forze politiche. L’unico partito in cui questa fiducia è, apparentemente, incrollabile è il Partito Democratico. Mentre in Italia solo il 30% crede in una soluzione europea, questa percentuale è più che doppia in quel solo partito che, ad essere molto ottimisti, viene a rappresentare un quarto dell’elettorato italiano. Peccato che questa entità sia tentacolarmente presente a tutti i  livelli di potere. Praticamente una minoranza fanatica di europeismo condiziona forzatamente una maggioranza euroscettica. Eppure pare non si riesca ad uscire da questo vicolo cieco.

Domani e dopo si discuterà di MES, e se ne discuterà in modo definitivo. L’accordo che gli sherpa hanno concluso prevede tre mezzi di aiuto reciproco, tutti e tre secondari:

  • il MES, condizionale, fino al 2% del PIL (noi avremmo bisogno di interventi almeno 5 o 6 volte questa dimensione);
  • IL SURE, 100 miliardi di soldi nostri, condizionali (riforme sul lavoro) , per pagare le casse integrazioni;
  • la BEI, che mette 50  a 200 miliardi di garanzie per le aziende (80% dei prestiti bancari) da dividere con tutta Europa, cioè alla fine, 4 soldi.

Gli Eurobond (Coronabond) non saranno, probabilmente, scartati tout court, ma rinviati ad una futura discussione, cioè a babbo morto. Del resto, come non dargli torto, dato che, dal punto di vista legislativo non esiste nessuna base giuridica neanche per le opzioni di base. Però il PD ed il suo emissario Gualtieri crede fidiesticamente in questo progetto e, si sa, la Fede va oltre la realtà dei fatti.

Andiamo al cuore del problema: come sarà l’offerta per il MES che faranno i tedeschi e gli altri nordici, dopo aver concordata con il francese Le Maire e perfino con i nostri tecnici ?

Su Atlantico Quotidiano Musso ce ne fornisce una previsione piuttosto precisa:

La bozza di compromesso, oggi sul tavolo, pare essere fatta di cinque pezzi:

  1. il rispetto delle regole di bilancio e delle raccomandazioni Ue (cioè nuove “riforme strutturali”, se non forse pure nuova austerità);
  2. la periodica analisi di sostenibilità del debito del Paese debitore;
  3. una cifra offerta, assai modesta (per l’Italia, circa 36 miliardi);
  4. il rango privilegiato dei prestiti ESM, sul resto del debito pubblico;
  5. il rinvio della proposta italiana (nel frattempo divenuta “francese”) (NdA Coronabond), ad un successivo futuribile dibattito, a babbo morto.”

In tutto per avere la bella cifra di … 39 miliardi di prestito! Contro i 550 già stanziati dalla Germania, senza aspettare il MES!

Le regole di bilancio da rispettare sono attualmente sospese,ma è una questione di mesi, dopo di che verranno rimesse in attività. Sono regole europee, volute dai paesi nordici, non possono rimanere sospese in eterno e torneranno in azione, magari dal 2021. Del resto la Germania ha stanziato 550 miliardi per le proprie aziende e questo le permetterà di aumentare il suo vantaggio competitivo nella UE, perchè non dovrebbe approfittarne per schiacciare definitivamente i concorrenti, italiani inclusi?

Nel frattempo Conte, ha stanziato le briciole perchè i “Fideisti” del PD, una PICCOLA MINORANZA FANATICA,  vuole assolutamente qualcosa di europeo. La Germania ha lasciato aperto il settore meccanico e siderurgico che noi abbiamo chiuso, poi stanzia 550 miliardi a fondo perduto, in aiuti, perle sue aziende. Noi siamo in attesa di qualcosa che non ci sarà mai, e rischiamo di prendere solo il boccone avvelenato del MES. Fino a quando questa minoranza faràdei danni, caro presidente Mattarella?

FONTE:https://scenarieconomici.it/mes-come-il-fanatismo-religioso-piddino-rischia-di-cancellare-litalia-economica/

 

 

 

SCIENZE TECNOLOGIE

L’uomo artificiale

05 gennaio, 2020

Questo articolo è stato pubblicato in versione ridotta su la Verità del 31 gennaio 2020 con il titolo “L’intelligenza artificiale non esiste ma serve a renderci come macchine”.

Non passa giorno senza che ci si imbatta nell’annuncio di nuove e vieppiù audaci applicazioni dell’intelligenza artificiale: quella all’indicativo futuro che guiderà le automobili, diagnosticherà le malattie, gestirà i risparmi, scriverà libri, dirimerà contenziosi, dimostrerà teoremi irrisolti. Che farà di tutto e lo farà meglio, sicché chi ne scrive immagina tempi prossimi in cui l’uomo diventerà «obsoleto» e sarà progressivamente sostituito dalle macchine, fino a proclamare con dissimulato orgasmo l’avvento di un apocalittico «governo dei robot». Questo parlare di cose nuove non è però nuovo. La proiezione fantatecnica incanta il pubblico da circa due secoli, da quando cioè «la religione della tecnicità» ha fatto sì che «ogni progresso tecnico [apparisse alle masse dell’Occidente industrializzato] come un perfezionamento dell’essere umano stesso» (Carl Schmitt, Die Einheit der Welt) e, nell’ancorare questo perfezionamento a ciò che umano non è, gli ha conferito l’illusione di un moto inarrestabile e glorioso. Come tutte le religioni, anche quella della «tecnicità» produce a corollario dei «testi sacri» degli officianti-tecnici un controcanto apocrifo di leggende popolari in cui si trasfigurano le speranze e le paure dell’assemblea dei devoti. Delle leggende non serve indagare la plausibilità, ma il significato.

Per intelligenza artificiale (IA) si intendono le tecnologie in grado di simulare le abilità, il ragionamento e il comportamento degli esseri umani. Risulta dunque difficile capire da che punto in poi l’IA si distingua, ad esempio, da una piccola calcolatrice che svolge un’attività propria della mente umana (il calcolo, appunto), o da un personal computer che già simula molte abilità dell’uomo per via riduzionistica, scomponendole cioè in enti numerabili. Il concetto di IA sembra perciò essere più ottativo che tecnico. Non introduce alcuna rivoluzione ma identifica piuttosto, sotto un’etichetta accattivante e di dubbia solidità epistemica, lo sforzo e l’auspicio di sviluppare tecniche informatiche sempre più sofisticate e potenti. Che poi queste tecniche finiscano sempre per replicare, potenziandole, alcune funzioni della mente umana è ovvio in definizione, essendo state concepite e create proprio da quella mente e proprio con quell’obiettivo, fin dall’inizio.

Ciò che appassiona delle più recenti applicazioni dell’IA (cioè del computer) è la crescente capacità di elaborare input non rigidamente formalizzati, come ad esempio le riprese fotografiche, i tratti somatici, le basi di dati incoerenti e – soprattutto – il linguaggio. Quest’ultimo, espressione libera e creativa che si rigenera in continuazione (Noam Chomsky), rappresenta in effetti il banco di prova più importante. Per essere compiutamente decifrato esige non solo la corretta comprensione delle pur complesse norme sintattiche, ma anche quella dei sottotesti e contesti culturali, simbolici, emotivi (comprensione semantica). Ben più che uno strumento, il linguaggio è l’incarnazione dell’intelligenza che nel linguaggio si (ri)crea, traduce gli infiniti rivoli dell’esperienza individuale e sociale e si comunica agli altri. L’assalto cibernetico a questo impervio monte, che tanto ricorda l’impresa babelica finita proprio nel caos delle lingue, è solo ai suoi timidi inizi e sinora ha prodotto metafore matematiche più o meno promettenti per avvicinarsi ai misteri della mente. Ma per quanta strada si possa percorrere in questa direzione, resteremmo comunque ontologicamente lontani dall’obiettivo.

L’intelligenza non è solo funzionale, non si limita cioè a risolvere i problemi ma li pone, li formula e li dispone secondo gerarchie. In ciò è insieme condizionata e finalizzata dal soggetto che la esprime, ne è definita anche etimologicamente perché espressione indissolubile e diretta dei suoi fines, dei limiti che ne tracciano l’irripetibile e indivisibile identità: desideri, preferenze, paure, affetti, educazione, empatia e relazioni sociali, fede nella trascendenza, corporeità, morte e molto altro. Se la competenza logico-matematica è terreno comune a tutti gli uomini e a tutte le macchine, il suo esercizio è invece asservito alle gradazioni e alla mutevolezza della condizione di ciascuno. Una macchina non può ragionare come un uomo semplicemente perché non è un uomo, proprio come un bambino non ragiona come un adulto, un ricco come un povero, un sano come un ammalato, un ateo come un cristiano, un aborigeno come un europeo ecc. Occorre allora chiedersi il perché di questa finzione, di negare il naturale rapporto di complementarietà tra i due domini con la pretesa che possano, per qualcuno anzi debbano, sovrapporsi fino a confondersi e sostituirsi.

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Qui azzardo due risposte. Se il soggetto intelligente guarda dentro (intŭs lĕgit) la propria condizione nel mondo per formulare gli obiettivi da sottoporre ai processi logici e computazionali eventualmente delegabili a un algoritmo, se opera cioè una «scelta preanalitica» (Mario Giampietro) che antecede e informa quei processi, resta scoperto il problema di chi detterebbe ex multis gli obiettivi alle macchine affinché le si possa chiamare «intelligenti». Come il «pilota automatico» di Mario Draghi, l’IA guiderà da sola e supererà brillantemente ogni ostacolo, ma verso quale meta? Escludendo l’ipotesi apocalittica (quella in cui se la darebbe da sola), sarà inevitabilmente la meta iscritta nel codice dai suoi committenti, che governando il codice godranno del privilegio di imporre i propri modelli etici, politici ed esistenziali a tutti, ovunque esista un processore e una scheda di rete. Dal groviglio delle sofisticazioni tecniche emergerebbe allora una più lineare dinamica di dominio dell’uomo sull’uomo, dove la citata finzione non sarebbe altro che una variante della pretesa tecnocratica, di incapsulare gli interessi e i moventi di una classe in una procedura sedicente asettica, inalterabile e necessaria, sottraendoli così alle resistenze delle altre forze sociali. Per chi si è lasciato mettere in ceppi dalle «ferree leggi» dell’economia (cioè dalle priorità di qualcuno, secondo le sue premesse e la sua visione del mondo) e da «lo dice la scienza» (idem), non sarà difficile accettare che la soluzione migliore sia quella partorita dai ventriloqui della marionetta cibernetica e «intelligente».

La seconda ipotesi chiama in causa il limite dell’uomo, cioè la sua definizione. Numerosi indizi fanno temere che, nel sentire comune, la riduzione del corredo soggettivo e plurale delle intelligenze umane in un sottogruppo acefalo di procedure erga omnes sia intesa non già come un impoverimento, ma come un salutare superamento della brulicante e imprevedibile complessità di pensieri, comportamenti e moventi del formicaio umano, e quindi dei «pericoli» che vi si anniderebbero. La macchina (si pensa) non «tiene famiglia» e non ha nulla da perdere né da guadagnare e quindi (si pensa) non può che fare «la cosa giusta» per tutti. Dalla tentazione così squisitamente adamitica e gnostica di separare anzitempo la zizzania dal grano scaturisce l’illusione di distillare processi cognitivi e decisionali infallibili – o comunque i migliori possibili – disattivando tutto ciò che può generare l’«errore»: fragilità, affetti, inclinazioni, dolo, ma anche e in ultima istanza l’incomputabile libero arbitrio, la libertà di ciascuno. Si è però visto che l’unità indissolubile di intelligenza e soggetto rende vana questa illusione, il cui solo risultato può essere quello di spostare l’arbitrio in poche mani potenti, omologando il resto. Ma poco importa. Più forte è il disgusto e la paura dell’indisciplinabile incognita uomo, il desiderio di spuntarle le armi incatenandola e negandola nella sua essenza distintiva, quella pensante. Questa brama del non vivente, di spegnere il coro dissonante delle intelligenze per ridurli alla monodia degli zombie, non si misura solo dai sogni – assurdi anche tecnicamente – di dare scacco matto a truffa e corruzione grazie alle transazioni elettroniche certificate, di «eliminare (sic) le mafie» con il denaro virtuale o i brogli con le macchinette per votare, ma in modo ancora più diretto dall’eugenetica morale di chi vorrebbe espungere «l’odio», «la paura» e altri sentimenti «cattivi» (partendo, ça va sans dire, dalla più tenerà età, nei casi estremi fino al sequestro ideologico o fisico dell’infanzia), ridurre al silenzio agli specialisti della salute, del clima e dell’economia che non ripetono a pappagallo una tesi o mettere in cima ai valori politici «l’onestà», cioè l’esecuzione demente, sicut ac machina, di una legge scritta, immaginando così di programmare gli umani.

Osserviamo la realtà. Nella pratica, quasi tutto ciò che oggi si fregia sui rotocalchi e nei parlamenti dell’etichetta di IA – cioè la digitalizzazione, in qualunque modo o misura la si applichi – è molto lontano dal requisito di portare la macchina nel modus cogitandi et operandi degli esseri umani per mettersi al loro servizio. All’opposto, le sue applicazioni implicano la necessità o persino l’obbligo che siano invece gli uomini ad adeguarsi alle procedure della macchina e a servirla. Ad esempio, se davvero avessimo a che fare con un’intelligenza umanoide di silicio che si integra con discrezione nella nostra struttura mentale, che bisogno avremmo di lamentarci della mancanza di «cultura digitale»? Non dovrebbe toccare al calcolatore l’onere di assorbire la nostra cultura? E a che pro insegnare il «coding», la lingua dei computer, a tutti i bambini? Di salutarlo (boom!) come «il nuovo latino»? Non dovevano essere i robot a parlare la nostra lingua? E perché addannarci con procedure telematiche, moduli online, assistenti telefonici, PEC, app, PIN, SPID, registri elettronici ecc. e stravolgere il nostro modo di lavorare e di pensare per servire al calcolatore la «pappa pronta» da digerire? Perché faticare il doppio per trasmettergli le nostre fatture nell’unico formato che riesce a comprendere, quando un mediocre studente di ragioneria sarebbe stato in grado di decifrarle in ogni variante formale? E perché spendere tempo, quattrini e salute nervosa per imparare tutte queste cose? Il «deep learning» non doveva essere una prerogativa dei nuovi algoritmi? Insomma, si ha l’impressione che la celebrata umanizzazione della macchina si stia risolvendo proprio nel suo contrario: in una macchinizzazione dell’uomo. Che l’impossibilità – lo ripetiamo: ontologica – di portare i circuiti nei nostri ranghi stia producendo il risultato inverso di fletterci, costi quel che costi, alla rigida cecità della loro legge.

Certo, possiamo raccontarci che questi sono solo paradossi transitori che servono a perfezionare e a istruire l’IA affinché spicchi presto il volo promesso. Ma la verità è un’altra ed è sotto gli occhi di tutti. È che l’IA è la nostra intelligenza, l’IA siamo noi. Non ci parla dei progressi dell’ingegneria e della scienza, ma di un auspicato progresso dell’uomo chiamato a spogliarsi dei suoi difetti – cioè di se stesso – per rivestirsi della stolta obbedienza, della prevedibilità e della governabilità dei dispositivi elettronici. Se nella prima fase questa transizione si è imposta con la seduzione dei suoi vantaggi, dal personal computer in ogni casa ai servizi internet gratuiti fino alla connettività mobile, in quella successiva deve forzare la mano magnificando i suoi benefici e rendendoli in ogni caso obbligatori con qualche pretesto penoso: la semplificazione, il risparmio, il progresso-che-non-si-può-fermare. È la fase in cui ci troviamno oggi: quella del 5G, degli elettrodomestici e delle automobili in rete, dei telefoni che non si spengono mai, della telematizzazione kafkiana dei servizi pubblici e, insieme, dei mal di pancia di chi si preoccupa, resiste e dubita, anche perché le promesse di miglioramento sociale che hanno accompagnato la precedente ondata sono state tutte miseramente disattese (che si parli di crisi proprio da quando si parla di «rivoluzione digitale» è un dettaglio che non tutti hanno trascurato di notare). Nel frattempo qualcuno, reso audace dallo Stato innovatore-coercitore, scopre le carte e prepara la terza e ultima fase in cui gli esseri umani dovranno accogliere le macchine anche nel proprio corpo e non più solo nei pensieri, con l’impianto di circuiti e processori collegati agli organi o direttamente al cervello. Con tanti saluti ai computer che diventano intelligenti, l’intelligenza diventerà un computer e l’uomo «sarà allora bardato di protesi prima di diventare egli stesso un artefatto, venduto in serie a consumatori diventati a loro volta artefatti. Poi, divenuto ormai inutile alle proprie creazioni, scomparirà» (Jacques Attali, Une brève histoire de l’avenir).

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Questa riflessione non sarebbe completa senza chiedersi: perché? Qual è il senso di questo processo e del suo essere salutato come una mano santa, o almeno come una sfida a cui non ci si deve sottrarre? Indubbiamente a qualcuno non dispiacerà l’idea di tracciare, controllare e condizionare ogni azione o pensiero di ogni singolo individuo, ovunque e in qualunque momento. Né di assoggettare i popoli a processi e processori automatici che non lasciano scampo, privi di riflessione e di empatia e perciò inesorabilmente fedeli al mandato, fosse anche il più atroce. Ma anche questo sogno o incubo non sarebbe nuovo. La psicopatologia dell’onnipotenza e la volontà di dominio sono sempre esistite. Più triste è invece l’assenso delle cavie che si prestano a un siffatto esperimento di subumanesimo: dai politici che assecondano beoti le mode globali e le impongono ai cittadini, ai cittadini stessi che si immaginano pionieri di un’ubertosa età del silicio. C’è, evidentemente, un problema di percezione che non può essere solo effetto della propaganda. Una civiltà che desidera superare l’umano non può che essere profondamente scontenta di sé. È una civiltà delusa e intrappolata, incapace di raggiungere gli obiettivi che si è imposta ma altrettanto incapace di respingerli e di riconoscerli come ostili al proprio bisogno di prosperità e giustizia. Non riesce a immaginare un’alternativa e immagina allora che l’anello marcio della catena siano proprio i suoi membri: gli uomini deboli e irrazionali, indegni della meta. Umso schlimmer für die Menschen! Nasce da qui, dalla percezione strisciante di un fallimento epocale, l’illusione di salvarsi incatenando i passeggeri ai sedili e di sopprimerne le salvaguardie per espiare la «vergogna prometeica» (Günther Anders) di non essere all’altezza delle proprie creature, anche politiche. Per comprendere le radici di questa disperazione è quindi inutile interrogare gli ingegneri. Le tecnologie, intelligenti o meno, sono solo il pretesto di una fuga da sé che andrebbe affrontata almeno abbandonando la tentazione puerile di soluzioni «perfette» e perciò estranee al mistero irriducibile di un’umanità in cui «si mescolano polvere e divinità» (Fritjof Schuon), che vive nella quantità mentre aspira all’innumerabile e dissemina le sue verità provvisorie in miliardi di anime. Rimarrà il compromesso di una vita non certo geometrica e rassicurante come un videogioco, ma proprio per questo possibile, forse anche degna di essere vissuta.

FONTE:http://ilpedante.org/post/l-uomo-artificiale

 

 

 

STORIA

La riedizione integrata del libro di Elena Rzhevskaya “Berlin, May 1945: Memories of a War Interpreter” (Berlino, maggio 1945: Memorie di un’interprete di guerra) è uscita il primo aprile in occasione del settantacinquesimo anniversario della Grande Vittoria.

Liubov Summ, nipote della scrittrice e redattrice del libro, ha parlato a Sputnik della morte di Hitler e dei documenti presenti nel libro che ne parlano, ma che mai prima d’ora sono stati pubblicati.

– Sua nonna, la scrittrice Elena Rzhevskaya insieme a un gruppo di spie sovietiche fu tra le prime persone ad entrare nel bunker del führer a Berlino quasi subito dopo il suicidio di Hitler ed Eva Braun. Rzhevskaya partecipò al riconoscimento dei corpi, operazione descritta nel libro. Come iniziò la sua carriera?

– Tra il 1931 e il 1941 Elena Rzhevskaya (all’anagrafe, Kagan) studiò presso l’Istituto moscovita di filosofia, letteratura e storia. Il percorso di Elena Kagan verso la guerra cominciò nel febbraio 1942 nei pressi di Rzhev dove venne nominata interprete del quartier generale del trentesimo esercito.

– Da dove proviene lo pseudonimo letterario di Rzhevskaya?

– Dall’immaginario comune di Rzhev come città-martire. Nell’area di Rzhev sono cadute moltissime vite umane. È una delle pagine più sanguinose della guerra: ancora oggi si seppelliscono i resti di soldati e di civili. Poi Elena seguì l’esercito, il primo Fronte bielorusso guidato dal generale Zhukov: Rzhev, Smolensk, Bielorussia, Polonia… E come interprete di guerra arrivò fino a Berlino. Rzhevskaya fu tra le prime persone ad entrare nel bunker di Hitler nei pressi della Cancelleria del Reich. Dopo la conquista dell’edificio, al suo interno fecero subito irruzione le spie sovietiche e con loro anche l’interprete. Nel bunker furono rinvenuti documenti di valore fra loro variabile: infatti, nei giorni precedenti avevano soggiornato lì Hitler ed Eva Braun, la famiglia di Goebbels, militari e personale di servizio. Le spie presero in esame i documenti e interrogarono tutti coloro che ancora si trovavano nel bunker.

– Quali informazioni si rivelarono essenziali per cercare il führer, secondo quanto ricordava Rzhevskaya?

– Le informazioni più importanti furono fornite dal tecnico della ventilazione del bunker. Fu chiamato a sistemare qualcosa e vide passare i corpi di Hitler ed Eva Braun, avvolti in una coperta. Riconobbe gli stivali del führer. Il tecnico racconta che il 30 aprile gli avevano chiesto di portare della benzina e sentì che avrebbero cremato il führer. Il tecnico sapeva anche che il primo maggio avevano chiesto dell’altra benzina, ma il tecnico se n’era già andato via. Le spie si chiesero per chi avessero cercato della benzina il primo maggio e alla fine trovarono i resti di Goebbels e la moglie, pieni di ustioni, li portarono in strada su una porta scardinata e li mostrarono agli abitanti di Berlino.

Continuarono a cercare i corpi di Hitler e Braun e finalmente li trovarono quasi per caso il 4 maggio. Un soldato notò un’area di terreno irregolare dalla quale emergeva un lembo di coperta. Lì trovarono i resti dei corpi che fu possibile identificare solamente a partire dai denti. Il colonnello Gorbushin, il maggiore Bystrov e l’interprete Elena Kagan (Rzhevskaya) si misero sulle tracce del dentista di Hitler il quale però aveva già abbandonato Berlino. Era rimasta la sua assistente, Käthe Heusermann, che identificò i denti, le corone e i ponti del führer. Dopo questa operazione, fu lasciata andare e le fu dato in dono del cibo in scatola.

Poi, però, la catturarono nuovamente, non la liberarono, la portarono in URSS e la condannarono a 10 anni. Le autorità sovietiche decisero che le informazioni riguardanti l’identificazione del corpo di Hitler dovevano rimanere segretate. Käthe Heusermann fu tenuta per 6 anni in una cella isolata senza un processo equo. Nel 1951 fu condannata come testimone della morte di Hitler.

– La segretezza contribuì a creare la leggenda secondo cui Hitler fosse vivo e fosse scappato in Argentina?

– A inizio maggio i quotidiani scrissero che Hitler era morto e dopo tutto tacque. Annunciarono che i tedeschi avevano comunicato il suicidio di Hitler, ma non ci credevano molto perché l’informazione proveniva comunque dall’Organo di propaganda sovietico (Sovinformbyuro). Cominciarono così a diffondersi voci riguardo all’eventuale fuga di Hitler in Argentina. Se l’avessero trovato e identificato, lo avrebbero annunciato. Poiché non l’hanno fatto, vuol dire che non l’hanno trovato perché si è nascosto. Si tratta di un tema che nel tempo è stato molto prolifico. Tutte le informazioni furono segretate per 10 anni di totale silenzio.

– Rzhevskaya scrisse al fronte?

– Sì, tenne un diario sia a Rzhev sia a Berlino. E nel maggio 1945 scrisse sul suo quaderno: “Ho i denti di Hitler”. Poi però coprì questa frase capendo che quest’informazione non poteva essere vista da nessuno. Tornata dal fronte, scrisse delle brevi memorie su quei giorni affidandosi ai ricordi più vividi in modo da non perdere particolari che vennero comunque velati dall’intento artistico. Queste memorie non furono chiaramente mai pubblicate, erano piuttosto una forma di ricordo personale.

– Quando furono pubblicate per la prima volte le sue memorie?

– Nel 1955 sottopose alla rivista Znamya il testo Poslednie dni. Zapiski voennogo perevodchika (Gli ultimi giorni. Memorie di un’interprete di guerra) nel quale in maniera concisa ma puntuale descriveva ciò che aveva visto e sapeva. Come erano entrati a Berlino, cercato Hitler, trovatolo e identificatolo. Sia l’autrice sia la casa editrice si rivolsero agli organi competenti per verificare se fosse possibile pubblicare un simile testo. La risposta fu: “a vostra discrezione”. La casa editrice ci pensò su e decise di pubblicare il testo rimuovendo solo le ultime pagine. Pertanto, la prima edizione del libro termina con le parole: “In quei giorni a Berlino Hitler si suicidò nel bunker”. In quell’edizione manca ciò che seguì a quell’evento.

– Quando fu possibile pubblicare la storia del ritrovamento e dell’identificazione dei corpi di Hitler ed Eva Braun e della famiglia di Goebbels?

– Sei anni dopo, nel 1961, nella raccolta di racconti di Rzhevskaya, Spring Coat (Vesna v shineli), dopo le parole “si suicidò nel bunker” si racconta per alcune pagine la storia dell’identificazione dei corpi di Hitler ed Eva Braun. Dopodiché, basandosi sull’edizione già pubblicata, Elena si rivolse agli archivi segretati. Per 3 anni inviò lettere presentando domande di vario genere: “Cosa mi state nascondendo, siete in possesso di documenti recanti la mia firma da traduttrice”.

– Cosa desiderava scoprire Rzhevskaya negli archivi del KGB che già non conoscesse?

– Dopo 20 anni di silenzi una testimonianza vivente non è più così convincente da sola, è necessario corroborarla mediante documenti. Nell’autunno del 1964 Rzhevskaya fu fatta entrare negli archivi per consultare questi documenti: vari protocolli, l’atto di identificazione dei corpi, perizie, interrogatori dei testimoni e di altri soggetti vicini a Hitler, fra i quali il comandante delle sue guardie personali, un suo aiutante e il suo valletto. Riuscirono tutti a uscire dal bunker, ma finirono tutti in prigione, chi prima e chi dopo. Raccontarono nel dettaglio diversi dettagli interessanti, importanti per ricostruire la storia: il crollo della figura di Hitler negli ultimi giorni, i suoi ultimi ordini, come appariva, come si tolse la vita, come venne portato via e in che modo fu cremato. Il diario di Goebbels fu un altro importantissimo ritrovamento all’interno degli archivi. In 3 settimane Rzhevskaya consumò 5 spessi quaderni che ogni giorno, uscendo dagli archivi, doveva sottoporre alla verifica di un addetto il quale controllava che le informazioni copiate dalla scrittrice potessero essere divulgate.

– Quando uscì, il libro “Berlin, May 1945” godette di ampio successo e fu letto da tutti…

– Sì, fu riedito varie volte in URSS, fu tradotto subito in diverse lingue straniere e in Italia comparve a puntate sul quotidiano Il Tempo che dedicò all’autrice un’intera copertina recante la sua fotografia. Si trattava del racconto completo e puntuale di cosa successe realmente dopo 20 anni di inesattezze, presupposizioni e trovate propagandistiche. In realtà, si appurò che la gente voleva fatti e non leggende perché la verità è la trovata sensazionale più grande che ci sia. In URSS, me lo ricordo sin dalla mia infanzia e adolescenza, ovunque andassi, trovavo persone che avevano letto “Berlin, May 1945”. A tutti parve che la storia di Hitler fosse terminata e che quella fosse verità. Fu un sollievo sapere la verità.

– Nel 1965 non fu possibile pubblicare tutto. È per questo che ora vi è una riedizione integrata?

– Chiaramente qualcosa è stato svelato 10 anni dopo la Grande Vittoria, qualcosa d’altro anche dopo 20 anni. Ma qualche informazione è rimasta segretata fino ad oggi. Il libro è stato rimaneggiato più volte perché non era possibile divulgare subito tutte le informazioni in merito. Una storia che permane nella mente di una persona per lungo tempo si alimenta di pensieri e sensazioni, va molto in profondità e tenta di comprendere perché fosse stata segretata la morte di Hitler, perché non venne annunciata? Un altro tema importante concerne le conseguenze del silenzio circa questo evento storico. Nessuno, nemmeno Stalin, ebbe il permesso di interessarsi a questa storia. Il libro originario fu aggiornato da una Rzhevskaya ormai anziana che ripercorse ciò che aveva visto da giovane e completò i pensieri messi inizialmente nero su bianco con l’esperienza nel tempo acquisita.

– Nella nuova edizione sono state inserite le memorie dell’assistente del dentista di Hitler, Käthe Heusermann, ad oggi inedite. Come è stato possibile ottenerle?

– Negli archivi di Rzhevskaya erano conservate brevi, ma estremamente espressive memorie di Heusermann in lingua tedesca. Rzhevskaya vi entrò in possesso tramite una persona che negli anni ’70 parlò con Heusermann e quest’ultima le affidò le sue memorie. Dopo 20 anni, negli anni ’90, questa persona, lo storico Lev Bezymensky, le trasmise a Rzhevskaya dicendo: “Sono materiali interessanti dato che hai scritto di lei”. Queste memorie erano state scritte a macchina. Heusermann ne aveva prodotte diverse copie: una l’aveva data alla nipote, un’altra a Bezymensky e probabilmente ve ne erano anche altre. Ma questo testo non fu mai pubblicato altrove nel mondo.

La casa editrice fece una grande cosa: trovò la figlia della nipote di Heusermann. Heusermann non aveva figli, morì nel 2017 e la figlia della nipote diede il via libera per la traduzione in russo e la pubblicazione delle sue memorie. Inoltre, trasmise anche alcune fotografie di Heusermann.

Si tratta di un breve, ma espressivo testo. Una donna imparziale, che non si interessava di politica, descrive gli ultimi giorni di vita nel bunker prima della capitolazione della Germania, il modo in cui tentarono di fuggire dal bunker nonostante i bombardamenti, come furono identificati i denti. Infine, si parla brevemente di come fu deportata in URSS e condannata, del suo lavoro nel campo di concentramento, ma sono poche pagine.

– Le memorie di Heusermann e Rzhevskaya circa l’identificazione delle protesi dentali coincidono?

– Sì, in alcuni momenti vanno all’unisono. In una scena Heusermann descrive di aver visto i nostri militari e fra di loro una donna bionda. Quella dovrebbe essere Elena.

– Le sue memorie non furono edite in Germania?

© SPUTNIK . VLADIMIR VYATKIN
La scrittrice Elena Rzhevskaya

– No, fu una persona che non amava la popolarità. Heusermann tornò in Germania dopo il campo di concentramento e venne subito interrogata. Questa era la prassi per chi tornava dall’URSS. La donna spiegò di aver conosciuto Hitler e per questo motivo era stata arrestata. In seguito, nel 1964, rilasciò una testimonianza innanzi al tribunale, rilasciò un’unica intervista e dopodiché non pubblicò più niente. Heusermann chiese che dopo la propria morte venissero distrutti tutti i suoi scritti e che fossero lasciate intatte solamente le fotografie.

Nel 2016 Nina Belyaeva girò un film su Heusermann. Belyaeva trovò la nipote, all’epoca ancora viva. Nel film ci siamo io e lei che leggiamo queste memorie. Ci convincemmo che sia io sia lei avevamo fra le mani un unico testo. Ma allora la nipote non ne permise la pubblicazione perché non vi era questo desiderio. Si tratta dopotutto di una storia familiare e personale. Allora pensammo che i parenti di Heusermann avrebbero opposto resistenza. Ma poi la nipote morì e sua figlia decise: “Questa è una testimonianza di quello che ha passato, la sua storia dev’essere raccontata”.

FONTE:https://it.sputniknews.com/intervista/202004058938018-la-morte-di-hitler-e-gli-altri-segreti-dellinterprete-di-guerra-elena-rzhevskaya/

 

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