RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 27 GENNAIO 2021 SPECIALE GULAG

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RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 27 GENNAIO 2021 SPECIALE GULAG

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

Se l’invocazione della difesa dei diritti umani è inizialmente servita da travestimento delle conquiste territoriali, ora, spinta all’estremo, è diventata l’ideologia per giustificare la distruzione delle strutture statali nazionali. Stanno tentando di convincerci che, affinché i nostri diritti vengano rispettati, dobbiamo essere «cittadini del mondo» e accettare una «società aperta», «senza frontiere», amministrata da un «governo mondiale».

THIERRY MEYSSAN, Così l’amministrazione dell’ONU organizza la guerra

http://www.voltairenet.org/article202734.html

 

 

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SOMMARIO

C’è Memoria e memoria?
Gulag
100 anni fa nasceva il Gulag
I lager sovietici
Cosa resta in Russia della memoria dei gulag
Il GULag durante la guerra
I gulag e lo sfruttamento del lavoro forzato in Unione Sovietica
I gulag sono i campi di concentramento creati e gestiti dal regime sovietico dal 1918 al 1987
COMPRENDERE IL SISTEMA GULAG TRA IMMAGINI E IMMAGINAZIONE
“LA RUSSIA DEVE ANCORA RIPRENDERSI DAL TRAUMA DELLO STALINISMO”
STORIA DI JURIJ DMITRIEV, COSA SIGNIFICA FARE MEMORIA IN RUSSIA
“paradiso sovietico”  IL GULAG
Stalin e l’Arcipelago gulag
I migliori libri sui gulag sovietici
Il dramma dei gulag sovietici in “Quanto vale un uomo” di Evfrosinija Kersnovskaja
La Russia di Putin divisa sul ricordo del gulag
Pavel Florenskij, uno scienziato nei gulag staliniani

 

 

 

EDITORIALE

C’è Memoria e memoria?

Manlio Lo Presti – 27 gennaio 2021

https://it.gariwo.net/educazione/approfondimenti/gulag-3481.html

Anche la memoria non sfugge ai criteri della post-verità e della doppia-verità. Esiste un doppio passo nelle costruzioni storiche che è fortemente condizionata dalla logica e dalla convenienza politica dei vincitori.

La doppia verità prevede una memoria con la emme maiuscola e una con la minuscola.

Quella con la minuscola è scritta dai testimoni spesso scomodi,

è quella poco diffusa, possibilmente nascosta,

è quella censurata (1)

è quella manipolata (2)

è quella che scatena cacce all’uomo

è quella che fa organizzare rastrellamenti mirati e quelli di massa attivati all’improvviso per seminare terrore e paura,

è quella che provoca omicidi mirati agli autori (3)

Anche coloro che si credono laici non riescono ad evitare il processo di sacralizzazione del potere che detengono tempo per tempo (4). Anche gli avulsi dalle religioni conosciute, tendono a consolidare e cristallizzare in appositi rituali e soprattutto date, le tappe della creazione del regime scegliendo date precise, sequenziali. Le date commemorative esistono in tutti i sistemi politici e sono la imitazione dei calendari religiosi.

Adesso, tali date sono stabilite anche dall’organismo mondiale americano ONU (5). Una sorta di calendario liturgico del potere mondiale che stabilisce senza il permesso di nessuna nazione: una scelta verticistica ed antidemocratica che lascia perplessi sulle linee guida di scelta degli eventi da ricordare.

TUTTO CIO’ PREMESSO

La ridetta scelta e diffusione di date e ricorrenze finisce per dipendere dai poteri che ci sono dietro ogni data.

Abbiamo infatti una diffusione planetaria del dramma del genocidio ebraico con sei milioni di vittime, ma si dimenticano eventi altrettanto spaventosi come

 

i massacri i Pol Pot che, con un milione e settecentomila vittime, ha eliminato il 33% della popolazione cambogiana,

si parla poco dello sterminio armeno con oltre sette milioni di uccisi

gli stermini della guerra anglo-boera

la eliminazione sistematica di oltre settanta milioni di russi nei campi di sterminio chiamati GULAG dove le condizioni di vita erano identiche a quelle dei lager, MA NON SE NE PARLA QUANTO QUELLO DEGLI EBREI. ANZI. NON SE NE PARLA AFFATTO!!!!!! Eppure, le cifre della eliminazione in Russia sono oltre dodici volte quelli degli ebrei con le stesse, ripeto, le stesse atrocità. Gli archivi conservano foto di milioni di russi come scheletri in cammino senza scopo nei campi GULAG, le torture descritte da Soljenitsin, Salamov, Limonov, ecc. ecc. ecc. ecc. ecc. ecc.

 

MA NON SE NE PARLA QUANTO LA SHOAH! Perché???

Perché si parla solo delle vicende dei vincitori.

Qualcuno potrebbe far notare che i russi si sono seduti al tavolo di Yalta! Vero. Ma il controllo del 90% dei sistemi di disinformazione sono nelle mani di una ben precisa casta sociale negli USA e in Occidente e quindi fanno e dicono ciò che voglio e, soprattutto, ciò che non vogliono.

P.Q.M.

Io vado contro corrente e per profondo rispetto

 

alla proporzione degli eventi e della magnitudine numerica che le ha prodotte,

alla durata dei massacri e alla loro vastità territoriale,

a parità di violenze, sopraffazioni, torture, privazioni, umiliazioni, terrore, fame,

 

oggi celebro la memoria di oltre 70.000 SETTANTA MILIONI DI RUSSI UCCISI DAL SISTEMA TRITACARNE DEI GULAG STALINIANI.

Forse qualcuno storcerà il naso ma io replico a costoro:

I MORTI RUSSI, CAMBOGIANI, ARMENI SONO MORTI DI SECONDA SCELTA CHE NON SARANNO MAI PARAGONABILI ALLE SOFFERENZE DEL C.D. “POPOLO ELETTO” DI FRONTE AL QUALE TUTTI GLI UMANI SONO SECONDARI???

Attenzione! Questa esaltazione di “popolo eletto” è anche esso una forma di ignobile e spietato razzismo.

Riflettano bene tutti coloro che detengono il controllo del 90% della finanza, del cinema, della moda, delle comunicazioni, dell’informazione.

Essi hanno immense responsabilità storiche e morali nella diffusione di preferenze e di disinformazione storica, soprattutto quando danno luogo a celebrazioni di eventi dimenticandone altri di portata decine di volte superiore nei numeri giganteschi e, soprattutto, pari per crudeltà.

RIFLETTIAMO!

 

NOTE

  • l’incendio della biblioteca di Alessandria, i roghi dei libri nel corso della storia, il film Farenhei451, ecc.
  • il libro e il film 1984, il libro e il film La fattoria degli animali, i libri Mondo nuovo e Ritorno al Mondo nuovo
  • i cosiddetti lavori in pelle del film Blade Runner
  • Canetti, Massa e potere, Adelphi, AA.VV., Rituale, cerimoniale, Etichetta, Bompiani, Goffmann, Comportamenti in pubblico
  • https://it.wikipedia.org/wiki/Giornate,_anni_e_decenni_internazionali

 

TEMI TRATTATI

#postverità #doppiaverità #censura #manipolazione #caccealluomo #rastrellamenti #terrore #terrorestaliniano #omicidi #omicidimirati #lavoriinpelle #giornateinternazionali #ONU #calendarioreligioso #calendariolaico #calendarioeventilaici #eventinonreligiosi #dateONU #ricorrenzeONU #PolPot #Stalin #armenia #boeri #guerraangloboerLAGER a #ebrei #shoah #popoloeletto #GULAG #KOLYMA #Salamov #Limonov #Soljenitsin #arcipelagoGulag #genocididiserieb #mortisenzavalore #genocidisecondari #sistemaGulag

 

 

 

IN EVIDENZA

Gulag

Gulag Sigla di Glavnoe upravlenie (ispravitel´no-trudovych) lagerej («Direzione generale dei campi [di lavoro correttivi]»). Nell’ordinamento sovietico, il G. era l’organismo preposto alla gestione dei campi di lavoro coatto (v. fig.).

100 anni fa nasceva il Gulag

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Gulag è un acronimo di Glavnoe upravlenie ispravitelno-trudovych lagerej (Direzione dei campi di lavoro correttivi), che sta indicare quel ramo del KGB (polizia politica dell’Unione Sovietica) che, cento anni fa, convertì i campi di lavoro forzato costruiti durante il periodo zarista in campi di detenzione e rieducazione per dissidenti e oppositori del regime comunista.
Bastava essere semplicemente accusati di essere “nemici del popolo”, “controrivoluzionari” o “nemici di classe”, anche senza uno straccio di prova, per ritrovarsi su un treno alla volta della fredda Siberia.
Durante la grande collettivizzazione delle terre, migliaia di kulaki ( proprietari terrieri che ebbero la sola colpa di aver difeso la loro proprietà e il loro lavoro dagli “espropri proletari” del regime sovietico ) vi furono deportati.
Poi toccò ai familiari dei generali di Stalin, mandati a morte durante le grandi purghe.
Durante la seconda guerra mondiale il numero delle deportazioni diminuì per il solo fatto che l’armata rossa (privata dei suoi migliori strateghi in seguito alle grandi purghe) aveva bisogno di truppe, ma aumentò la mortalità che arrivò al 17% a causa delle pessime condizioni igieniche.
Dopo la guerra, il numero di deportati tornò a crescere.
Erano soldati prigionieri o semplici civili dei paesi occupati dall’URSS e accusati di cooperazione con il nemico.
Molti prigionieri dei lagher nazisti furono liberati, solo per essere mandati a lavorare nei Gulag siberiani.
Si arrivò a 2.525.146 reclusi.
I Gulag furono chiusi nel 1953 e nel 1954 i detenuti ancora prigionieri furono liberati per essere funzionali alla propaganda di destalinizazzione (solo di nome e mai di fatto) attuata da Nikita Kruscev.
L’Europa occidentale è venuta a conoscenza di questo inferno di ghiaccio, solo grazie alla testimonianza di alcuni intellettuali dissidenti che vi erano stati deportati.
Tra questi Solzenicyn che in “Arcipelago Gulag” ci offre la testimonianza più dettagliata.
Per anni il monopolio esercitato dal Partito Comunista Italiano sul mondo della cultura e dell’editoria ha cercato di mettere sotto silenzio queste testimonianze. Solzenicyn ed altri intellettuali furono estromessi dai “salotti buoni”.
A causa di questa omertà, utile solo a tenere pulita la coscienza dell’intellighenzia europea, oggi non è possibile commemorare questa tragedia.
I Gulag rimangono oggi la più evidente testimonianza di ciò che fu il comunismo.
Uguaglianza forzata che sopprime la libertà, repressione di coloro che non accettarono di sottostare al pensiero unico (gentilmente suggerito dal piccolo padre sovietico).
Ricordiamo cosa fu questa esperienza. Perché se anche i Gulag non sono più operativi oggi, la logica della rieducazione contro chi dissente dalla linea fa ancora parte del DNA della sinistra.

Graziano Davoli

4 febbraio 2019

FONTE: https://aufirenze.wordpress.com/2019/02/04/100-anni-fa-nasceva-il-gulag/

I lager sovietici

GULag è l’acronimo, introdotto nel 1930, di Gosudarstvennyj Upravlenje Lagerej, Direzione centrale dei lager.
Nel 1918, con l’inizio della guerra civile, fu creata una vasta rete di campi di concentramento per gli oppositori politici. Nel 1919 venne creata la sezione lavori forzati. Il lavoro coatto era previsto come mezzo di redenzione sociale dalla stessa costituzione sovietica. Oltre alla funzione economica e punitiva, alcuni lager ebbero anche la funzione di eliminazione fisica dei deportati. Comunque, le condizioni generali entro le quali i deportati erano costretti ad operare rendevano naturale la morte per stenti.
Disseminati nei luoghi più inospitali dell’URSS, dalle isole Solovki alla Kolyma, una zona mineraria siberiana, i lager sovietici furono 384.

campi

Oltre ai lager veri e propri vennero istituite le “zone di popolamento speciale”, per la colonizzazione e lo sfruttamento delle regioni più inabitabili dell’URSS. Il sistema GULag caratterizzò tutto il periodo leniniano e staliniano e cominciò ad essere riformato soltanto dopo la morte di Stalin, avvenuta nel 1953.
Nel 1956 ne rimanevano 37. La chiusura dell’intero Arcipelago si avrà nel 1987, con Gorbaciov. Si deve allo scrittore Aleksandr Solzenicyn l’espressione “Arcipelago GULag”, titolo di un’opera monumentale e fondamentale, pubblicata nel 1971. Andrej Sacharov e Andrej Sinjavskij furono altri scrittori del dissenso che fecero conoscere all’estero l’universo dei Gulag.
Le cifre dello sterminio sono ancora molto incerte. Si calcola che all’interno del sistema GULag siano passate tra i 15 e i 20 milioni di persone, ma che contemporaneamente non ne siano state presenti più di 3 milioni.
Il tasso di mortalità mensile in certi lager superava il 10%; a Kolyma, con temperature di 50-60° sottozero, raggiungeva il 30%.

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Il sistema GULag si inserì, poi, nel contesto generale del Grande Terrore scatenato da Stalin negli anni 30 e rappresentò solo uno dei metodi di eliminazione degli avversari, “dei traditori” e soprattutto dei nemici di classe. Uno per tutti, l’Holodomor («fame di massa») utilizzato in Ucraina all’inizio degli anni ’30 per piegare la resistenza dei contadini alla collettivizzazione della terra e che portò a oltre 7 milioni di morti, la gran parte bambini, per fame programmata.
Alla fine furono varie decine di milioni le vittime del comunismo sovietico all’epoca di Stalin anche se una cifra esatta non è possibile averla. Solzenycin e altri dissidenti hanno ipotizzato la cifra di 60 milioni.
La responsabilità di questo sistema concentrazionario, che ha fatto uso del terrore ed ha imprigionato persone che appartenevano a tutte le classi sociali, è tanto di Lenin, che ne è stato l’iniziatore, quanto di Stalin, che, con l’avvio dei piani quinquennali, ha ampliato e potenziato il sistema di lavoro coatto. Con loro ne portano la responsabilità anche la potente polizia segreta, l’NKVD, tutto il sistema giudiziario sovietico e i dirigenti ai quali il sistema fu dato in gestione. Tra questi, Lavrentji Beria, uno dei più feroci collaboratori di Stalin, che alla fine degli anni Trenta organizzò anche un laboratorio segreto per sperimentare sui detenuti gli effetti dei veleni chimici.
Lenin in una lettera del 1922 scriveva: ” I tribunali non devono eliminare il terrore (…) Il principio del terrore va radicato e legalizzato senza ambiguità o abbellimenti”. La stessa linea verrà seguita da Stalin. I tribunali rivoluzionari prima, e poi le cosiddette “trojke”, triumvirati di estrazione politica, ebbero il compito di condannare alla deportazione nei lager sia i criminali comuni sia i controrivoluzionari.
Per questi ultimi esisteva un articolo apposito del Codice penale, l’art.58.
Il regime sovietico considerava i criminali comuni “socialmente vicini”, compagni che hanno sbagliato e possono essere redenti. Al contrario i condannati secondo l’art.58 erano considerati “socialmente estranei”, dei nemici irrecuperabili, per i quali il lager era la destinazione finale.
L’ideologia alla quale si ispira il potere sovietico è il marxismo–leninismo, che si proponeva di creare una società nuova, eliminando innanzitutto quei gruppi sociali che erano considerati nemici di classe. Il regime instaurato in URSS presenta le caratteristiche di un vero e proprio sistema totalitario, col potere nelle mani di un partito che si identifica con lo Stato e agisce in base ad un’ideologia dominante, che definisce gli obiettivi da raggiungere. La società di massa era completamente controllata dai mezzi di comunicazione e dall’onnipresente polizia segreta. Il mezzo più economico ed efficace usato per mantenere il controllo sulla popolazione ed eliminare il dissenso fu il terrore, che investì ad ondate successive tutte le componenti della società sovietica e in modo assolutamente arbitrario. E’ il fenomeno del nemico oggettivo ovvero di un nemico che non si definisce in base alla sua ostilità verso i detentori del potere, ma in base ad una scelta arbitraria, finalizzata al mantenimento del potere sull’intera società.
Dapprima entrarono nei GULag i nemici naturali dello stato sovietico, i nemici di classe: la nobiltà russa, gli imprenditori, i proprietari terrieri, il clero ortodosso e, in generale, tutti i gruppi considerati privilegiati.
In seguito le purghe riguardarono tutti i settori della società sovietica, compresi i prigionieri di guerra scampati ai lager nazisti e gli specialisti di vari settori, necessari all’attività produttiva dei lager.
Una menzione particolare va fatta per gli ostaggi, scelti tra persone di livello sociale elevato, con lo scopo di ricattare parenti ed amici.
All’interno dei campi uomini e donne lavoravano a ritmi disumani, controllati da una gerarchia interna di capisquadra scelti tra i criminali comuni.
La costruzione di dighe, canali, strade, nuovi insediamenti urbani, l’estrazione mineraria e la produzione di legname furono tra le attività più frequentemente demandate al lavoro coatto. Le condizioni climatiche spesso estreme, la fame perenne, le fucilazioni arbitrarie, i ritmi di lavoro massacranti e finalizzati al raggiungimento di obiettivi produttivi impossibili, la costante violenza psicologica tesa all’annientamento della volontà individuale furono le caratteristiche costanti dei GULag sovietici.
Quando nell’agosto 1946 il premier britannico Winston Churchill pronunciò all’Università di Fulton, Missouri, il famoso discorso della “cortina di ferro”, nessuno in Occidente poteva anche lontanamente immaginare che, al di là di quella metaforica divisione che si ergeva “da Stettino a Trieste”, la soppressione della libertà avesse raggiunto, già da decenni, una scientifica applicazione di morte.

FONTE: https://www.treccani.it/enciclopedia/gulag_(Dizionario-di-Storia)/

 

 

 

Cosa resta in Russia della memoria dei gulag

8 12 2020

Il New York Times è stato nella Kolyma, la regione estrema dove sorgevano alcuni dei campi di lavoro più terribili, e ci ha trovato declino, rovine e tentativi di dimenticare

 Una commemorazione delle vittime dei gulag lo scorso ottobre a Mosca (EPA/YURI KOCHETKOV)

Il giornalista del New York Times Andrew Higgins e il fotografo Emile Ducke hanno pubblicato qualche giorno fa un lungo reportage dalla cosiddetta «strada delle ossa», che per 2.000 chilometri attraversa la regione della Kolyma, nel nord-est della Russia. La strada si chiama così perché fu costruita con il lavoro forzato dei prigionieri dei gulag, che a decine di migliaia morirono durante i lavori. Lungo questa strada, nella Kolyma, negli anni furono costruiti decine di gulag: alla fine del periodo staliniano i campi di lavoro erano circa 80.

Oggi la regione della Kolyma è spopolata, economicamente depressa e molto inospitale. La strada delle ossa, che attualmente si chiama statale R504 e arriva fino a Yakutsk, non è più percorsa dai mezzi carichi di prigionieri politici diretti ai gulag ma dai tir per le merci, eppure rimane pericolosa: durante l’inverno, le temperature sono così estreme che forare una gomma e rimanere bloccati può significare morire di ipotermia. Higgins e Ducke hanno visitato alcune delle cittadine più remote lungo la strada delle ossa e hanno raccontato come la memoria dei gulag e degli orrori dello stalinismo sia sempre più flebile: sia perché le strutture fisiche sono in disfacimento sia perché alcune persone del luogo — perfino alcuni dei sopravvissuti ai lavori forzati, alla fame e alla prigionia — ricordano con nostalgia il periodo di Stalin, quando la Russia era rispettata nel mondo ed era appena uscita vittoriosa dalla Seconda guerra mondiale.

È un sentimento piuttosto comune nella Russia post sovietica, ma è notevole trovarlo in Kolyma, i cui campi di lavoro forzato sono stati una delle manifestazioni più terribili della dittatura staliniana. Nonostante questo, scrive il New York Times, sono ancora moltissime le persone che lavorano per non dimenticare i crimini del passato.

I gulag cominciarono a essere costruiti su ordine di Vladimir Lenin fin dal 1918. In Kolyma però arrivarono più tardi: il governo sovietico decise di avviare lo sfruttamento delle ricche miniere di oro, alluminio e uranio che si trovavano nella regione a partire dagli anni Trenta, usando il lavoro forzato. Dapprima fu costruita la città di Magadan, fondata nel 1929, che ancora oggi è il capoluogo della regione. Magadan affaccia sul mare di Ochotsk (cioè il mare che si trova a estremo oriente della Russia) e, benché sia sul continente, al tempo era praticamente impossibile raggiungerla via terra, a causa delle condizioni impraticabili del terreno, e l’unico modo per arrivare alla città era via mare, dalla regione di Khabarovsk.

Aleksandr Solženicyn chiamò la sua grande opera Arcipelago Gulag perché i gulag in Russia erano disseminati come tantissime isole, «dallo stretto di Bering fino quasi al Bosforo». Ma quando, dopo la sua fondazione, Magadan divenne il principale centro di raccolta e smistamento dei prigionieri dei gulag della Kolyma, per le persone che arrivavano in città via mare, su navi-prigione in cui migliaia morirono per gli stenti, l’impressione era davvero di essere approdati su un’isola — come si legge in un vecchio articolo pubblicato da Time negli anni Ottanta.

In rosso la strada delle ossa, che oggi è la statale R504 (Wikimedia/OpenStreetMaps)

La strada delle ossa fu costruita, dunque, per rendere accessibile Magadan anche via terra e per facilitare lo sfruttamento del territorio della Kolyma, usando il lavoro forzato dei prigionieri dei gulag. I gulag, al contrario dei campi di sterminio nazisti, non avevano come obiettivo ultimo l’uccisione dei prigionieri, ma l’industrializzazione forzata. Le condizioni di lavoro disumane, le esecuzioni sommarie e il disprezzo per la vita dei prigionieri ottennero tuttavia risultati comparabili. I prigionieri dei gulag non erano considerati «subumani», come quelli dei lager nazisti, ma «nemici del popolo», e nei fatti il livello di deumanizzazione delle due categorie era simile.

– Leggi anche: Cento anni fa nacque Aleksandr Solženicyn

A causa della scarsezza di documentazione, è molto difficile fare una stima precisa di quante persone morirono nei gulag, ma si parla comunque di milioni. Nella sola Kolyma morirono in decine e più probabilmente in centinaia di migliaia, e le condizioni proibitive dei campi e delle miniere in cui i prigionieri furono costretti a lavorare sono rimaste simboliche, anche grazie alla letteratura. Solženicyn definì la Kolyma «l’isola più grande e celebre» dell’Arcipelago Gulag, e Varlam Šalamov contribuì alla fama triste della regione con i suoi Racconti di Kolyma. Quando Solženicyn, dopo decenni di esilio negli Stati Uniti, nel 1994 decise di tornare in Russia, volle che la sua prima tappa fosse Magadan.

Il regime sovietico cominciò la graduale dismissione dei campi dopo la morte di Stalin, ma l’apparato di repressione rimase in piedi ancora per decenni: gli ultimi prigionieri detenuti nei campi della Kolyma, ormai poche persone, furono liberati soltanto sotto Boris Yeltsin, negli anni Novanta. Secondo Higgins e Ducke del New York Times, però, la memoria dei gulag sta svanendo lentamente. A Magadan c’è un museo dedicato ai gulag e nel 1996 è stata inaugurata su una collina sopra alla città la Maschera del Rimorso, un monumento alto 15 metri in architettura brutalista che ricorda le vittime dei campi di lavoro.

La Maschera del rimorso a Magadan (Сергей Ковалев/Wikimedia)

Ma i piccoli centri abitati lungo la strada delle ossa ormai sono sempre più vuoti, alcuni sono stati abbandonati, e la stessa Magadan è una città in pieno declino: nel 1991, al momento del collasso dell’Unione sovietica, aveva 155 mila abitanti, anche grazie agli incentivi governativi che rendevano attraente trasferirsi in un posto tanto inospitale. Oggi è abitata da circa 90 mila persone. Sotto l’Unione Sovietica l’area era sussidiata in maniera molto ricca e le miniere della zona erano considerate di fondamentale importanza. Dopo la caduta dell’URRS, invece, alcuni sociologi si sono chiesti se non fosse il caso di abbandonare del tutto Magadan, a causa delle condizioni di vita troppo inospitali, e di farne un centro di transito temporaneo per i lavoratori delle miniere che ancora oggi sono attive, benché in decadenza pure loro.

Come già succede nel resto della Russia, dunque, davanti a queste condizioni di declino una parte della popolazione prova nostalgia per un periodo storico in cui il paese era una potenza mondiale — ed è pronta a dimenticare o edulcorare gli orrori di quel periodo, soprattutto sotto la dittatura di Stalin. Higgins ha intervistato Antonina Novosad, che fu condannata a 10 anni di lavori forzati in una miniera di alluminio lungo la strada delle ossa con accuse politiche fasulle, e la signora, che oggi ha 93 anni, pur ricordando le violenze e le esecuzioni sommarie dice che la colpa non fu di Stalin, che «era come Dio», ma «del Partito e di tutte quelle persone», cioè la burocrazia sovietica. Vladimir Naiman è più giovane, ma i suoi genitori furono entrambi prigionieri in un gulag. Eppure dice che «è chiaro che Stalin fosse un grande uomo», e che rispetto alle uccisioni dei nativi americani da parte dei coloni negli Stati Uniti «qui non è successo niente di davvero grave».

Nel reportage del New York Times si legge di Atka, un piccolo abitato lungo la strada delle ossa, che prosperò grazie all’economia dei gulag, diventando un centro di smistamento e rifornimento per i convogli di prigionieri e per i carichi di oro e altri minerali. Atka continuò a crescere per qualche tempo anche dopo la chiusura della maggior parte dei campi nel 1953, a seguito della morte di Stalin, ma poi cominciò il declino. Al momento di massimo splendore, la cittadina aveva 5.000 abitanti. Oggi ne ha sei, tutti pensionati. L’ultimo bambino d’età scolare se n’è andato l’anno scorso, con la madre. La nostalgia per l’Unione Sovietica e per l’età di Stalin ha anche un elemento demografico, sostiene il New York Times, perché per i tanti anziani della Kolyma l’epoca staliniana corrisponde al periodo della loro giovinezza.

Secondo un sondaggio recente, il 76 per cento degli abitanti della Russia ha un’opinione favorevole di Stalin. L’attuale governo di Vladimir Putin, che ha tendenze autoritarie, non esalta esplicitamente lo stalinismo. Nel 2018, anzi, a Mosca è stato aperto un grande museo sulla storia dei gulag, finanziato dal governo. Ma una parte consistente della propaganda del governo russo, questo sì, si basa sugli antichi splendori di epoca sovietica, come per esempio la vittoria nella Seconda guerra mondiale, che in Russia è ancora chiamata la Grande guerra patriottica. L’attenzione preponderante spostata sugli aspetti positivi del periodo sovietico ha contribuito a oscurare quelli terribili, perché, come dice al New York Times un rappresentante di un gruppo storico per il ricordo delle vittime a Magadan, «nessuno vuole riconoscere i peccati del suo passato».

– Leggi anche: Putin vive in una bolla per proteggersi dal contagio

Il governo comunque si è anche operato attivamente per offuscare o nascondere una parte imbarazzante della passata storia russa. Per esempio, negli anni scorsi ha organizzato una campagna di diffamazione molto grave contro Yuri Dmitriev, uno storico amatoriale che per decenni ha indagato sulle morti di migliaia di persone in Karelia, una regione della Russia al confine con la Finlandia. Gli storici vicini al governo sostengono da tempo che le tantissime vittime trovate nelle fosse comuni a Sandarmokh fossero state uccise durante la Seconda guerra mondiale da truppe finlandesi alleate al regime nazista. Dmitriev, con un lavoro di ricostruzione durato decenni, riuscì invece a provare che nelle fosse comuni erano stati sepolti prigionieri dei gulag staliniani, uccisi sommariamente.

Nel dicembre del 2016, Dmitriev fu accusato di pedofilia, per aver scattato delle foto pornografiche a sua figlia in affido. La sua famiglia, i suoi amici e praticamente tutti quelli che lo conoscono sostengono che lo storico sia vittima di un attacco politico e negano che sia un pedofilo. Nel 2018 un giudice rigettò tutte le accuse, ma la Corte suprema della Karelia decise di non liberare Dmitriev. C’è stato un altro processo, considerato ingiusto dagli osservatori internazionali, e a settembre di quest’anno Dmitriev è stato condannato a 13 anni di prigione. Il Cremlino sostiene di non essere coinvolto nella vicenda giudiziaria.

FONTE: https://www.ilpost.it/2020/12/08/gulag-strada-ossa-kolyma/

 

 

 

Il GULag durante la guerra

La seconda guerra mondiale
Siberia, Kolyma, anni Quaranta. Detenuti al lavoro in una miniera.
L’esercito tedesco invase l’URSS il 22 giugno 1941. Questo drammatico evento sconvolse non solo l’intera società sovietica (che avrebbe pagato un prezzo di vittime altissime: secondo le stime più recenti, 27 milioni di vittime, tra cui 18 milioni di civili), ma anche il sistema concentrazionario. All’inizio del 1941, la popolazione del GULag era di circa 1.930.000 detenuti. A seguito dell’invasione tedesca, a molti prigionieri (970.000) fu concesso di arruolarsi nell’esercito, ma tale possibilità fu sempre negata a coloro che erano stati condannati come controrivoluzionari, in base all’art. 58 del Codice penale sovietico. Inoltre, vennero arrestati almeno 400.000 cittadini sovietici di nazionalità finnica o romena, considerati potenziali sostenitori della Finlandia o della Romania, in caso di conflitto con questi stati. La popolazione del GULag, dunque, non calò in modo significativo (nel 1942 si contano circa 1.777 000 detenuti).

Negli anni di guerra, però, la popolazione presente nel sistema concentrazionario sovietico subì un significativo doppio mutamento: aumentò la percentuale di prigionieri per motivi politici (28,7% nel 1941; 41,2% nel 1945) e la quota delle donne in stato di detenzione: dal 7,6% (110.835 prigioniere) nel 1941 al 24% (168 634).

 

Lavoro e condizioni di vita

Durante la guerra, i detenuti furono utilizzati per costruire impianti industriali e aeroporti, oppure per migliorare e potenziare la rete ferroviaria e il sistema stradale sovietico. Soprattutto, però, un numero elevatissimo di prigionieri fu impiegato in fabbriche di bombe e munizioni. Si può affermare che il 10-15% del totale dei proiettili prodotti per l’Armata Rossa sia uscita da impianti in cui lavorava manodopera forzata. Gli anni 1941-1945 furono durissimi per quel che riguarda la situazione alimentare dei detenuti, molti dei quali soffrirono la fame.

Per quanto le direttive provenienti da Mosca, in questo caso, esortassero i comandanti dei campi a prestare molta attenzione alle condizioni fisiche dei detenuti (di cui si riconosceva l’importanza produttiva, nell’ambito dello sforzo bellico), la situazione oggettiva era drammatica: in linea di massima, l’apporto calorico che era possibile fornire ai prigionieri era del 30% inferiore, rispetto a quello prebellico. Ciò provocò un costante aumento del tasso di mortalità, che nei campi passò dal 3,2% (rispetto alla popolazione concentrazionaria media annuale) del gennaio/luglio 1941 al 25,2% del gennaio/luglio 1944.

(Fonte dei dati: M. Craveri, Resistenza nel Gulag. Un capitolo inedito della destalinizzazione in Unione Sovietica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003)

FONTE: https://www.assemblea.emr.it/cittadinanza/per-approfondire/formazione-pdc/viaggio-visivo/i-campi-di-concentramento-nel-novecento/stalin-e-il-gulag/il-gulag-durante-la-guerra

 

 

 

 

I gulag e lo sfruttamento del lavoro forzato in Unione Sovietica

The first exhibition on the crimes of Stalinism, called “Week of Conscience,” was held thanks to Perestroika in November 1988 at the club of the Moscow electric lamp factory.

I campi di lavoro forzato, chiamati gulag, sono cambiati nel tempo seguendo le necessità interne dell’Unione Sovietica. Nel corso degli anni, lo sfruttamento dei detenuti ha permesso di industrializzare il Paese e pianificare l’economia, realizzando grandi opere pubbliche e sfruttando i giacimenti del sottosuolo in Siberia. Ripercorriamo, quindi, come sono nati questi campi e che sviluppi hanno avuto durante il regime.

 

L’origine dei campi di lavoro forzato in Russia

Nell’Impero russo del Seicento esistevano dei campi di lavoro forzato, detti katorga. In quel primo esperimento di colonie penali, i prigionieri venivano confinati nelle aree scarsamente popolate della Siberia e dell’estremo oriente russo. L’intento era quello di allontanare dai centri urbani i dissidenti del governo zarista e di incanalare la forza-lavoro verso le aree periferiche in cui scarseggiava la manodopera.

In epoca sovietica, il 1930 fu l’anno ufficiale della nascita dei gulag, attraverso la ristrutturazione delle katorga. Il termine gulag è una abbreviazione di “Dipartimento dei campi di lavoro e rieducazione” (in russo, Главное управление исправительно-трудовых лагерей). I primi campi a essere costruiti furono Solovetsky e il complesso dei campi speciali di Ust-Sysolsky, dove nel 1930 furono collocati circa 100 mila prigionieri.

La maggior parte dei campi era situata in aree molto remote della Siberia nord-orientale: i raggruppamenti più conosciuti erano i campi nordorientali lungo il fiume Kolyma e il Norillag (ad esempio il Sevvostlag, vicino a Noril’sk), e nelle zone sudorientali principalmente nelle steppe del Kazakistan (Luglag, Steplag, Peschanlag). Si trattava di vaste regioni disabitate, senza collegamenti, dove la costruzione di infrastrutture come strade e ferrovie era assegnata ai detenuti dei campi specializzati.

I prigionieri dei gulag

All’inizio, la maggioranza dei prigionieri dei gulag era composta da criminali comuni e contadini benestanti, i cosiddetti kulaki. Molti kulaki furono arrestati quando si ribellarono alla collettivizzazione, una politica imposta dal governo sovietico che obbligava i contadini ad abbandonare le fattorie individuali per unirsi all’agricoltura collettiva.

Successivamente, anche i prigionieri politici iniziarono a venire rinchiusi nei gulag. Il Codice penale sovietico, all’art. 58, puniva con la detenzione nei gulag “ogni attività controrivoluzionaria”. Con le grandi purghe dell’epoca di Stalin, tra il 1937 e il 1953, il numero dei reclusi crebbe in modo esponenziale. Durante questo periodo, soprannominato “il Grande Terrore”, le epurazioni raggiunsero il loro apice: un totale di 3.7 milioni di persone passò attraverso i gulag per motivi politici.

Infatti, nei campi di lavoro erano spesso presenti delle unità speciali dedicate ai prigionieri politici. Una di queste era la Psichuška (in russo психу́шка, ossia “manicomio”), dove si veniva sottoposti a dei trattamenti psichiatrici forzati. Esistevano anche i cosiddetti “campi per mogli dei traditori della Patria”, dove venivano incarcerati i familiari di coloro che erano considerati disertori e spie dell’Occidente.

Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, tuttavia, la popolazione dei campi di lavoro forzato diminuì significativamente a causa della “liberazione di massa” di centinaia di migliaia di prigionieri per arruolarli e inviarli direttamente al fronte. Ma al ritorno dei soldati dalla guerra furono istituiti campi di detenzione ancora più duri, pensati sia per i criminali che per le spie e i prigionieri di guerra.

Dalla repressione all’industrializzazione

Benché i gulag fossero stati ideati per ospitare qualsiasi tipologia di criminali, il sistema è noto soprattutto come mezzo di repressione degli oppositori politici dell’Unione Sovietica. Lo scopo era la rieducazione attraverso il lavoro e l’isolamento dalla società degli elementi considerati nocivi e indesiderabili.

Da luogo di isolamento di controrivoluzionari e criminali “nell’interesse della protezione e del rafforzamento della dittatura del proletariato”, il gulag si è rapidamente trasformato in un ramo indipendente dell’economia nazionale sovietica. Con il loro lavoro, infatti, i prigionieri contribuirono non solo alla costruzione di infrastrutture, ma anche all’estrazione di risorse naturali e metalli preziosi.

In una miniera, ad esempio, la quota di produzione pro-capite poteva raggiungere i 13 mila chili di minerale al giorno. Migliaia di prigionieri furono usati per estrarre minerali di uranio e preparare attrezzature per i test nucleari.

Alcuni documenti di Stato sovietici dimostrano che tra gli obiettivi dei gulag c’era anche quello di colonizzare aree remote della Siberia, scarsamente popolate. A questo scopo, fu introdotto il concetto di “libero insediamento”. Infatti, i gulag permettevano ai prigionieri che avevano scontato la pena di fondare dei “liberi insediamenti” esterni ai campi. Così, molti di loro si stanziarono nelle aree limitrofe negli anni a venire, come nella regione del Magadan.

La chiusura dei gulag

Dopo la morte di Stalin, nel 1953, ebbe inizio il graduale processo di smantellamento del sistema dei gulag. Venne concessa un’amnistia che permise la scarcerazione di 1.2 milioni di prigionieri, insieme a meccanismi di riabilitazione di massa per le vittime della repressione politica.

La riabilitazione dei prigionieri politici consisteva nella restituzione dei diritti e della libertà personale, nonché nel ripristino della capacità giuridica. Il processo di riabilitazione, iniziato nell’era di Khrushchev, riprese con più rigore nel gennaio del 1989. Brezhnev, salito al potere nel 1964, non si era infatti espresso apertamente sui fatti accaduti durante il periodo staliniano, rallentando di fatto la de-stalinizzazione del Paese.

Dal 1960, non ci sono più state incarcerazioni nei gulag. Durante gli anni Settanta e Ottanta, alcuni campi vennero ristrutturati per essere usati come prigioni per criminali, attivisti democratici e nazionalisti antisovietici. Solo alla fine degli anni Ottanta, il leader sovietico Mikhail Gorbachev – esso stesso nipote di vittime dei gulag – iniziò ufficialmente il processo di chiusura completa dei campi.

La resa dei conti con il passato

Fra le diverse testimonianze dirette dell’orrore dei gulag, le più famose sono le memorie del prigioniero e scrittore A. Solzhenitsyn, raccolte nel libro Arcipelago Gulag e distribuite in samizdat (ossia, da “editori in proprio”) fino alla Perestroika, quando anche le case editrici statali pubblicarono per la prima volta l’opera su larga scala.

I veri orrori del sistema dei gulag furono rivelati tardivamente: prima della caduta dell’Unione Sovietica nel 1991, gli archivi di Stato erano sigillati. Per porre una chiara cesura con il passato, nel novembre 1991, la nuova Duma di Stato emanò la “Dichiarazione dei diritti e delle libertà dell’individuo”, che garantiva tra le diverse libertà civili anche il diritto di dissentire dal governo.

Fonti e approfondimenti

Snyder, Timothy, “Review of A Biography of No Place: From Ethnic Borderland to Soviet Heartland”Journal of Cold War Studies, vol. 9 no. 1, p. 152-153, 2007

Barnes, Steven A., “Death and Redemption: The Gulag and the Shaping of Soviet Society”Princeton University Press, 2011

Ria Novosti. 2014. История создания ГУЛАГа

Meek, James, “Stalin’s legacy lives on in city that slaves built”, The Guardian, 1994

Kalikh, Andrey, “Историк: Война стала причиной расцвета и угасания ГУЛага”, Deutche Welle, 2015

FONTE: https://lospiegone.com/2020/06/18/i-gulag-e-lo-sfruttamento-del-lavoro-forzato-in-unione-sovietica/

 

 

 

 

I gulag sono i campi di concentramento creati e gestiti dal regime sovietico dal 1918 al 1987

I gulag sono i campi di concentramento creati e gestiti dal regime sovietico dal 1918 al 1987, per punire gli oppositori politici e come strumenti di una politica del terrore – praticata in URSS per mantenere il potere e il controllo sulla società tutta. Il sistema cominciò ad essere riformato soltanto dopo la morte di Stalin, nel 1953, ma si estinse definitivamente solo nel 1987, con Michail Gorbachev.

Creazione e sviluppo dei gulag

GULag è l’acronimo, introdotto nel 1930, di Gosudarstvennyj Upravlenje Lagerej (Direzione centrale dei lager). Nel 1918, con l’inizio della guerra civile, fu creata una vasta rete di campi di concentramento per gli oppositori politici. Nel 1919 venne creata la sezione lavori forzati. Il lavoro coatto era previsto come mezzo di redenzione sociale dalla stessa costituzione sovietica. Oltre alla funzione economica e punitiva, alcuni lager ebbero anche la funzione di eliminazione fisica dei deportati. Comunque, le condizioni generali entro le quali i deportati erano costretti ad operare rendevano naturale la morte per stenti.

Disseminati nei luoghi più inospitali dell’URSS, dalle isole Solovki alla Kolyma, una zona mineraria siberiana, i lager sovietici furono 384. Oltre ai lager veri e propri vennero istituite le “zone di popolamento speciale”, per la colonizzazione e lo sfruttamento delle regioni più inabitabili dell’URSS.

Il sistema GULag caratterizzò tutto il periodo leniniano e staliniano e cominciò ad essere riformato soltanto dopo la morte di Stalin, avvenuta nel 1953. Nel 1956 ne rimanevano 37. La chiusura dell’intero “Arcipelago” – espressione che si deve allo scrittore Aleksandr Solzenicyn, autore di Arcipelago gulag, opera monumentale e fondamentale pubblicata nel 1971 si avrà nel 1987, con Michail Gorbachev.

La Maschera del Rimorso commemora le vittime del GULag

Moventi ideologici

L’ideologia alla quale si ispira il potere sovietico è il marxismo – leninismo, che si proponeva di creare una società nuova, eliminando innanzitutto quei gruppi sociali che erano considerati nemici di classe. Il regime instaurato in URSS presenta le caratteristiche di un vero e proprio sistema totalitario, col potere nelle mani di un partito che si identifica con lo Stato e agisce in base ad un’ideologia dominante, definendo gli obiettivi da raggiungere.

La società di massa era completamente controllata dai mezzi di comunicazione e dalla onnipresente polizia segreta, la NKVD. Il mezzo più economico ed efficace usato per mantenere il controllo sulla popolazione ed eliminare il dissenso fu il terrore, che investì a ondate successive tutte le componenti della società sovietica, spesso in modo assolutamente arbitrario. È il fenomeno del nemico oggettivo ovvero di un nemico che non si definisce in base alla sua ostilità verso i detentori del potere, ma in base ad una scelta arbitraria, finalizzata al mantenimento del potere sull’intera società.
Lenin in una lettera del 1922 scriveva: “I tribunali non devono eliminare il terrore (…) Il principio del terrore va radicato e legalizzato senza ambiguità o abbellimenti”. La stessa linea verrà seguita da Stalin. I tribunali rivoluzionari prima, e poi le cosiddette “trojke” (triumvirati di magistrati di estrazione politica), ebbero il compito di condannare alla deportazione nei lager sia i criminali comuni sia i controrivoluzionari. Per questi ultimi esisteva un articolo apposito del Codice penale, l’art.58. Il regime sovietico considerava i criminali comuni “socialmente vicini”, compagni che hanno sbagliato e possono essere redenti. Al contrario i condannati secondo l’art.58 erano considerati “socialmente estranei”, dei nemici irrecuperabili, per i quali il lager era la destinazione finale.

Autori del progetto e della sua messa in atto

La responsabilità di questo sistema concentrazionario, che ha fatto uso del terrore ed ha imprigionato persone che appartenevano a tutte le classi sociali, è tanto di Lenin, che ne è stato l’iniziatore, quanto di Stalin, che, con l’avvio dei piani quinquennali, ha ampliato e potenziato il sistema di lavoro coatto. Con loro ne portano la responsabilità anche i dirigenti ai quali il sistema fu dato in gestione. Tra questi, Lavrentji Berija, uno dei più feroci collaboratori di Stalin, che alla fine degli anni Trenta organizzò anche un laboratorio segreto per sperimentare sui detenuti gli effetti dei veleni chimici. A questo progetto hanno collaborato anche la potente polizia segreta, l’NKVD, e tutto il sistema giudiziario sovietico.

La vita nei gulag

Dapprima entrarono nei gulag i nemici naturali dello stato sovietico, i nemici di classe: la nobiltà russa, gli imprenditori, i proprietari terrieri, il clero ortodosso e, in generale, tutti i gruppi considerati privilegiati. In seguito le purghe riguardarono tutti i settori della società sovietica, compresi i prigionieri di guerra scampati ai lager nazisti e gli specialisti di vari settori, necessari all’attività produttiva dei lager. Una menzione particolare va fatta per gli ostaggi, scelti tra persone di livello sociale elevato, con lo scopo di ricattare parenti ed amici.

All’interno dei campi uomini e donne lavoravano a ritmi disumani, controllati da una gerarchia interna di capisquadra scelti tra i criminali comuni. La costruzione di dighe, canali, strade, nuovi insediamenti urbani, l’estrazione mineraria e la produzione di legname furono tra le attività più frequentemente demandate al lavoro coatto. Le condizioni climatiche spesso estreme, la fame perenne, le fucilazioni arbitrarie, i ritmi di lavoro massacranti e finalizzati al raggiungimento di obiettivi produttivi impossibili, la costante violenza psicologica tesa all’annientamento della volontà individuale, furono le caratteristiche costanti dei gulag sovietici.

Entità dello sterminio

Le cifre dello sterminio sono ancora molto incerte. Si calcola che all’interno del sistema gulag siano passate tra i 15 e i 20 milioni di persone, ma che contemporaneamente non ne siano state presenti più di 3 milioni. Il tasso di mortalità mensile in certi lager superava il 10%; a Kolyma, con temperature di 50-60° sotto zero, raggiungeva il 30%. Il Centro Studi Memorial, che si è dato il compito di mantenere la memoria di questa persecuzione e delle sue modalità, porta avanti una ricerca puntuale, raccogliendo materiali d’archivio e testimonianze di sopravvissuti. Questa ricerca è ancora lungi dall’essere compiuta.

RISORSE

  • Giusti del GULag

    Andrej Sacharov

    ha difeso la pace e la dignità umana nel GULag

    Aleksandr Isaevic Solženicyn

    autore di “Arcipelago Gulag”

    Varlam Shalamov

    lo scrittore del GULag

    scopri tutti i Giusti

  • Libri

    Una bambina contro Stalin. L’italiana che lottò per la verità su suo padre

    di Gabriele Nissim

    I racconti di Kolyma

    di Varlam Shalamov

    Un mondo a parte

    di Gustaw Herling

    scopri tutti i libri

  • Film

    Katyn

    di Andrzej Wajda

    Gulag 77

    di Roger Young

    Il sole ingannatore

    di Nikita Mikhalkov

    scopri tutti i film

FONTE: https://it.gariwo.net/educazione/approfondimenti/gulag-3481.html

 

 

 

COMPRENDERE IL SISTEMA GULAG TRA IMMAGINI E IMMAGINAZIONE

By Unknown – scan from Knigge, Scherbakowa: GULAG – Spuren und Zeugnisse 1929- 1956, p. 20, private Archive Tomasz Kizny, Wroclaw, Poland, Public Domain, Link

IL SISTEMA GULAG: TRA REPRESSIONE E INDUSTRIALIZZAZIONE

La storia del Gulag non si presta ad una ricostruzione lineare, per via della sua metamorfosi sia sotto il profilo quantitativo che geografico, di un’estensione e di una specializzazione che sono cambiati in base ai necessari adattamenti – vere e proprie mute – che il sistema produttivo richiedeva e che l’ideologia politica legittimava. Lo sfruttamento del lavoro forzato dei detenuti attraverso un sistema-campo vasto e capillare ha permesso di industrializzare il paese a tappe serrate e di pianificare l’economia, realizzando grandi opere pubbliche e sfruttando i giacimenti del sottosuolo (canale del mar Bianco, valorizzazione dei giacimenti auriferi della Kolyma, costruzione di ferrovie, per dirne alcuni). La costruzione del sistema Gulag non è l’ombra del sistema politico sovietico né una sua patologia, ma rappresenta l’intreccio tra apparato economico e repressivo inscindibile dalla storia stessa del paese. Il Gulag è parte costitutiva e integrante del sistema che lo dirige e lo produce, ed è altresì parte essenziale della storia del secolo scorso.

AMNESIA GULAG

Se la pubblicazione degli scritti di Aleksandr Solženicyn o dei racconti di Varlam Šalamov hanno certamente avvicinato l’opinione pubblica a una struttura così estesa ed articolata, il ritardo negli studi e nella divulgazione di questi fatti non può non sollevare interrogativi. L’atteggiamento di disinteresse che per decenni ha investito il Gulag, l’incapacità o la mancata volontà di farne un oggetto di analisi scientifica ci interroga sulle cause di questa rimozione e inibizione della memoria. Norman Davies ha rilevato come la parola Gulag, per quanto diffusa, sia priva di quella pregnanza e carica emotiva che avvertiamo quando ci riferiamo ai campi di sterminio nazista[1]. A questo si aggiunga che i nomi dei più grandi campi amministrati dal Gulag, quali Solovki, Canale del mar Bianco, Vorkuta, Vaigač o Kolyma, restano sconosciuti ai più, sono nomi incapaci di evocare un qualche luogo fisico realmente esistente e di attivare una memoria. Ciò indica come questi luoghi liberticidi e mortiferi continuino a rimanere periferici non solo dal punto di vista geografico, ma anche all’interno del catalogo novecentesco dei siti deputati alla disumanizzazione.

LA MEMORIA DEI TOTALITARISMI

La memoria che conserviamo di eventi tragici e paradigmatici del Novecento come la Shoah o il sistema Gulag – senza voler stabilire momenti apicali in una presunta scala del male – è legata ai tempi e ai modi attraverso i quali questi fatti sono trasmessi a chi non ha avuto esperienza diretta di essi. Molto sappiamo del sistema totalitario nazista, dei meccanismi industriali di messa a morte e di liquidazione delle differenze che è riuscito a mettere in campo, grazie ai racconti dei testimoni, al lavoro degli storici e all’interesse progressivo mostrato dal cinema, almeno negli ultimi trent’anni, per il soggetto Shoah. Non è accaduto lo stesso per il sistema concentrazionario sovietico e per il reticolo di campi di lavoro che ne ha costituito a lungo l’ossatura. Per comprendere il silenzio che ha connotato questi fatti storici può essere utile muovere da strumenti concettuali che possiamo ricavare dalla stratificata letteratura che è stata prodotta sullo studio della Shoah.

NARRAZIONE E RICORDO

Nella prefazione de I sommersi e salvati, Primo Levi rievoca il sogno dei prigionieri di tornare a casa, raccontare le proprie vicissitudini ai cari e non essere creduti, anzi neppure ascoltati[2]. Questo sogno ricorrente ci conduce dinanzi alla difficoltà nel raccontare e testimoniare l’enormità di quanto vissuto, nonché alla paura che quell’esperienza potesse cadere nell’oblio. È un tema che rinvia a quello delle prove, dei luoghi e dei racconti dei superstiti che, nel caso di tragedie esemplari, non può non costituire la materia principale con la quale ricostruire la genealogia degli eventi. La storia di un “secolo armato” come il Novecento è esito di una decantazione grazie alla quale i fatti emergono con il loro chiaroscuro. Solo a distanza di anni si è compreso il carattere esemplare della strage nazista che sarà ricordata come un autentico spartiacque nella storia e nella cultura dei popoli. La paura e la difficoltà nel raccontare la propria esperienza – che emerge a più riprese nei pochi documentari sul Gulag che dedicano spazio a interviste dei testimoni o dei loro parenti[3] – e i molti ostacoli che si sono frapposti nel tempo a che si avesse una memoria pubblica di questi fatti ci danno la misura di quanto sia lungo il cammino da compiere verso la comprensione del totalitarismo sovietico. Lo sottolinea bene Irina Shcherbakova rimarcando come i ricordi degli ex detenuti costituiscano la principale fonte per ricostruire quello che avvenne nei campi sovietici, con tutto quello che ne consegue, perché la memoria umana, come ha scritto Levi, non è incisa su pietra, ma è una materia soggetta a deperimento e ad alterazioni dovute soprattutto a rimozioni e repressioni[4]. Il lento processo di ricostruzione della memoria è lontano dall’essere una foto esatta capace di riprodurre fedelmente il passato.

LE INSIDIE DELLA MEMORIA

Nel suo testamento letterario, Levi ha messo in guardia con lungimiranza dalle insidie del “rammemorare”, perché se è vero che la memoria è un muscolo che si mantiene attivo e allenato grazie all’esercizio, è altrettanto vero che un ricordo troppo spesso evocato ed espresso in forma di racconto tende a fissarsi in una forma collaudata, finanche stereotipata di esperienza[5]. I luoghi della Shoah sono stati a lungo irrappresentabili e indicibili. Tuttavia, le foto scattate dagli alleati sono divenute le basi della nostra memoria della Shoah e hanno avuto un forte potere di indirizzo nella percezione delle atrocità registrate successivamente dalla storia, sono divenute una cornice di riferimento dell’immaginario occidentale e una rappresentazione iconica del male[6]. Oggi sono molti a interrogarsi su una sorta di sovra-produzione di opere letterarie e cinematografiche giunta sino alla legittimazione della simulazione e della falsa testimonianza. Annette Wieviorka ritiene che Auschwitz corra il rischio di diventare “un luogo muto” e di apparire come uno schermo proiettivo delle paure e delle speranze degli individui e delle collettività se lo si riduce a meta di pellegrinaggi liturgici e commemorazioni ufficiali[7]. Per evitare che il ricordo di un fatto si installi al posto del fatto stesso, è necessario riposizionare l’evento nel suo contesto storico e continuare a interrogarsi sulla sua odierna funzione nel dibattito pubblico sulla memoria.

LA MEMORIA DEI LUOGHI: L’OPERA FOTOGRAFICA DI TOMASZ KIZNY

T. Kizny. Immagini da T. Kizny, Gulag, Mondadori, Milano, 2004

Recuperare l’esperienza dei luoghi significa restituirli alla storia. È quello che ha cercato di fare Tomasz Kizny con la sua opera fotografica Gulag, documentando attraverso le immagini ciò che ha rappresentato per molti anni un vero universo a sé stante, sperduto nell’immensità del territorio sovietico[8]. Il suo lavoro è la testimonianza di una lunga ricerca attraverso i luoghi della memoria, tra scatti del passato che riaffiorano dagli archivi statali, dalle foto personali dei sopravvissuti, e immagini contemporanee di quei luoghi che chiamano in causa l’immaginazione di chi le osserva.

Kizny ha scritto in proposito:

Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, esistono un numero significativo di fotografie storiche che ritraggono il Gulag sovietico, per un totale di decine di migliaia. Tuttavia, la stragrande maggioranza delle foto di cui siamo attualmente in possesso che ritraggono la repressione sovietica è stata creata per le necessità e sotto il controllo del regime stalinista. Le foto del Gulag sono state scattate per la propaganda sovietica, per docu­mentare “le grandi opere del socialismo” costruite dai detenuti, oppure sono state usate dai servizi di sicurezza come mezzo di controllo interno al sistema Gulag. […] Ammesso che le enormi atrocità commesse nella cornice del Gulag siano mai state immortalate da una macchina fotografica, queste immagini non sono ancora state trovate; è più probabile infatti che non siano mai state scattate. Non ci sono fotografie che documentano la miseria umana e la sofferenza all’interno dei campi di concentramento sovietici […][9].

GULAG: TRA IMMAGINI E IMMAGINAZIONE

Le immagini ignorano l’essenza che per anni ha costituito la vita nel Gulag, ovvero il dolore di milioni di esseri umani disumanizzati dall’universo concentrazionario. A differenza del ruolo avuto dalle foto dei campi nazisti nella costruzione di una memoria collettiva della Shoah, quelle a disposizione del Gulag, distorte e incomplete, non possono avere la medesima funzione nel renderci consapevoli della portata dei crimini commessi dai sovietici. «L’eredità fotografica dei campi sovietici non contiene un messaggio visivo inequivocabile che possa parlare direttamente al proprio pubblico. Il modo in cui le foto sono percepite dipende da una conoscenza di base del funzionamento del Gulag, che ci permette di capire qualcosa del loro contesto e significato reale»[10]. Tuttavia, proprio la “mancanza” che avvertiamo nelle foto interroga l’immaginazione dello spettatore chiedendogli di provare a immaginare chi fosse quel prigioniero e quale sarà stato il suo destino. La Shoah ci ha insegnato che le espressioni artistiche che sono riuscite realmente a penetrarne il nocciolo intimo sono quelle che non hanno preteso di dire totalmente la disumanizzazione patita dai deportati. E allora le testimonianze, la letteratura sul Gulag e il lavoro degli storici, come pure le immagini carenti del Gulag, possono supportarci nel tentativo di comprendere l’inimmaginabile.

Linea abbandonata del piccolo treno minerario che serviva la miniera di stagno e di uranio, costruita dai detenuti tra il 1937 e il 1954. Massiccio montagnoso del Butugičak. Kolyma del Sudovest

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Applebaum A., Gulag. Storia dei campi di concentramento sovietici, Milano, Mondadori, 2005

Flores, M. Gori, F. (a cura di), Gulag. Il sistema dei Lager in Urss, Mazzotta, Milano, 2002.

Gori F., Guercetti E. (a cura di), Reflections on the Gulag. With a Documentary Appendix on the Italian Victims of Repression in USSR, Milano, Feltrinelli, 2003

Ginzburg E., Viaggio nella vertigine, Milano, Baldini & Castoldi, 2013

Grossman V., Vita e destino, Milano, Adelphi, 2013

Kizny T., Gulag, Milano, Mondadori, 2004

Liechtenhan F.-D., Il laboratorio del Gulag. Le origini del sistema concentrazionario sovietico, Lindau, Torino, 2009.

Mattucci N. (a cura di), Ricordare il Gulag, Immagini e immaginazione, Macerata, Eum, 2015

Nolte E., Nazionalsocialismo e bolscevismo, Sansoni, Firenze, 1988.

Rossi J., Manuale dei Gulag, Napoli, L’ancora, 2006

Šalamov V., I racconti di Kolyma, Torino, Einaudi, 1999

Solženicyn A., Arcipelago Gulag, Milano, Mondadori, 1975

http://amnesiagulag.eu/


NOTE:

[1] N. Davies, Introduzione in T. Kizny, Gulag, Milano, Mondadori, 2004, p. 2.

[2] P. Levi, I sommersi e i salvati, in Opere, a cura di M. Belpoliti, Torino, Einaudi, 1997, vol. II.

[3] Si veda <http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntate/solovki/969/default.aspx>

[4] I. Shcherbakova, Remembering the Gulag. Memoirs and Oral Testimonies by Former Inmates, in E. Dundovich, F. Gori, E. Guercetti (ed.), Reflections on the Gulag. With a Documentary Appendix on the Italian Victims of Repression in USSR, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 187.

[5] P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., pp. 1006-1007.

[6] B. Zelizer, Remembering to Forget. Holocaust Memory through the Camera’s Eye, Chicago, University of Chicago Press, 1998, p. 1.

[7] A. Wieviorka, Auschwitz e la memoria di Auschwitz, Seminaire de Formation, Université d’Hiver Italienne, Memorial de la Shoah di Paris, gennaio 2012.

[8] T. Kizny, Gulag, cit. Si veda inoltre T. Kizny, La grande terreur en URSS 1937-1938, en coop. avec D. Roynette, Lausanne, Les Editions Noir sur blanc, 2013.

[9] T. Kizny, Fotografie del Gulag. Immagine e memoria, in N. Mattucci (a cura di), Ricordare il Gulag. Immagini e immaginazione, Macerata, Eum, 2015, p. 12.

[10] Ivi, p. 18.

FONTE: http://www.novecento.org/dossier/la-violenza-di-stato-nel-novecento-lager-e-gulag/comprendere-il-sistema-gulag-tra-immagini-e-immaginazione/

 

 

 

 

 

“LA RUSSIA DEVE ANCORA RIPRENDERSI DAL TRAUMA DELLO STALINISMO”

di Sergey Parkhomenko

 

Membri dell'associazione Last Address collocano le targhe sulle case delle vittime dello stalinismoMembri dell’associazione Last Address collocano le targhe sulle case delle vittime dello stalinismo David Krikheli

Sergey Parkhomenko è un giornalista ed editore russo. In collaborazione con l’organizzazione Memorial, ha creato Last Address, un progetto per riportare alla luce le storie delle vittime dello stalinismo. In questo articolo pubblicato per il Guardian, riflette sulle contraddizioni e le amnesie della Russia di Putin e l’importanza dei progetti come Last Address e le Pietre d’Inciampo.

Putin non vuole che la nazione affronti il proprio passato e l’ignoranza che lo circonda, quindi abbiamo dato vita a un movimento civico che umanizza le vittime.

All’inizio di quest’anno, il Ministro della Cultura russo ha vietato il film satirico The death of Stalin (la morte di Stalin), presumibilmente perché conteneva “informazioni la cui diffusione è proibita dalla legge”. Nei social media di lingua russa, il ritiro della licenza per la proiezione del film è stato accolto con risate e scherno dalla maggior parte della popolazione: “Quali segreti avrebbe mai potuto rivelare quel film? Potrebbe essere che Stalin sia davvero morto?” – ironizzava la gente.

Sembrava ridicolo. Ma già a dicembre c’era stato un precedente ricco di presagi: Alexander Bortnikov, il capo dei servizi di intelligence russi FSB, ha dichiarato al giornale governativo Rossiyskaya Gazeta che le repressioni dell’era staliniana erano giustificate, citando la necessità di contrastare le reti trotzkiste e i complotti che avevano “legami con i servizi segreti stranieri”. Egli ha inoltre affermato che la “repressione politica di massa” si sarebbe conclusa entro il 1938 – una marchiana revisione della storia.

Mentre Vladimir Putin si prepara per la rielezione in vista del 18 marzo, il passato sovietico della Russia è diventato un oggetto costante di manipolazioni da parte di un regime che sta continuando a lanciare messaggi ambivalenti. Prima dei commenti di Bortnikov, Putin aveva inaugurato il Muro del Lutto a Mosca, un memoriale dedicato alle vittime della repressione. “Questo passato terrificante non può essere cancellato dalla memoria nazionale”, ha dichiarato Putin. “Questi crimini non possono essere in alcun modo giustificati”.

Nel frattempo, nuovi monumenti, striscioni e mostre in onore di Josif Stalin spuntano come funghi in tutto il Paese, e nuovi poster e cartelloni che lo glorificano sono diventati normali, mentre centinaia di rappresentazioni di lui di epoca sovietica sono rimaste intatte: busti e bassorilievi che lo raffigurano, come pure statue grandi e piccole, a piedi o a cavallo. Due volte l’anno, al suo compleanno e all’anniversario della sua morte, gli ammiratori portano enormi mazzi di garofani rossi sulla tomba di Stalin nella Piazza Rossa. Si potrebbe pensare che si tratti delle vestigia dell’ideologia stalinista: cimeli e cerimonie, ma c’è anche dell’altro.

La società russa non ignora l’ampiezza delle purghe e dei crimini perpetrati sotto Stalin. Quando Bornitkov ha parlato di milioni di vittime, queste cifre non rappresentano una novità per la maggior parte dei russi. Per decenni, la dottrina sovietica ha insegnato ai cittadini che quegli eventi erano un inevitabile prezzo a pagare per la sopravvivenza e lo sviluppo del Paese. Lo stalinismo oggi in Russia non si trova in quei monumenti, fiori o poster – e nemmeno nella censura o nel linguaggio ipocrita dei funzionari di alto livello, ma è nascosta nelle menti di molti russi, in come percepiscono la storia e come si relazionano ai valori fondamentali.

Per la maggior parte dei russi, quei milioni di vittime non sono altro che fredde statistiche. A pochi importa di confrontarsi con domande difficili e sgradevoli. Questo perché un trauma psicologico non elaborato rimane vivo nella nostra società. Lo Stato non ha bisogno di compiere particolari sforzi per perpetuare tale situazione, gli basta semplicemente lasciare le persone sole con quel passato terrificante e assicurarsi che non ricevano aiuto quando cercano di capirne le origini o di affrontare sentimenti inespressi di colpa collettiva. Ecco come una mentalità totalitaria può riprodursi.

Quattro anni fa, ho deciso di fare qualcosa in merito. Sono andato agli uffici moscoviti dell’associazione per i diritti umani Memorial con un’idea: “Lanciamo un nuovo movimento civico”. Ero ispirato dall’iniziativa avviata in Germania negli anni ’90, il progetto delle pietre d’inciampo, targhe di ottone delle dimensioni di un ciottolo, posizionate nei marciapiedi delle città e dei paesi tedeschi, fuori dalle case dove erano vissute le vittime delle atrocità naziste. Ogni targa reca il nome della vittima come pure il suo luogo di nascita e di morte, quando è noto. Da allora, sono state collocate più di 50.000 pietre d’inciampo in circa 700 città e paesi, in 22 Paesi europei.

La mia idea era di ricordare l’epoca di Stalin nello stesso modo. Aiutato dal team di storici di Memorial, ho chiamato il progetto Last Address. I nostri attivisti posizionano targhe metalliche sulla facciata di case o edifici dove una volta vissero le vittime delle persecuzioni staliniste. Le targhe recano dettagli sulla persona che fu fucilata o morì in prigionia: la sua professione, le date di nascita, arresto e morte, e in molti casi la data della riabilitazione postuma.

Il nostro movimento si basa sulle iniziative civiche, non sulle autorità locali. L’importante per noi è che ogni targa racconti la storia di una persona, raccontataci da qualcuno che ci ha contattati perché ha sentito che il passato non dovrebbe essere cancellato così facilmente. Qualche volta è il parente di una vittima, a volte è la persona che vive ora in quell’indirizzo e si ricorda di chi un tempo saliva le stesse scale, apriva le stesse porte e guardava fuori dalle stesse finestre, prima di essere trascinata via verso un destino tragico.

Last Address si è diffuso in più di 40 città russe, in Ucraina e nella Repubblica Ceca. Presto sarà presente in Georgia, Moldavia, Romania, Estonia e Lettonia. Lo scopo è unire quante più persone possibile intorno all’idea semplice che la vita umana è unica e inestimabile. Stiamo creando una comunità che avverte l’importanza di pensare alle persone comuni che furono distrutte da un sistema spietato, e di parlare di loro.

Ad esempio, una delle targhe del progetto Last Address si trova in Russia. Reca il seguente testo: “Qui visse Olga Mikhailovna Rostovtseva; medico; nata nel 1902; arrestata il 28 aprile 1948; fucilata il 20 aprile 1950; riabilitata nel 1956”.

Ogni volta che ci rechiamo in visita presso una casa e chiediamo ai residenti il permesso di posizionare la targa, vediamo che gli atteggiamenti possono cambiare. Last Address trasforma la percezione di eventi lontani compiendo come uno “zoom” in una specifica vita umana, o nel destino di una famiglia. La gente che incontriamo inizia a parlare in maniera differente del passato: non utilizza più il linguaggio politico confuso o vago, e invece esprime un pensiero autonomo intorno a destini umani individuali.

Marina Bobrik, una studiosa di Linguistica di Mosca e una delle nostre volontarie, dice che le persone si emozionano quando vengono mostrate loro “una foto o pagine di un archivio che ha 80 anni di vita”. Elena Visens, un’altra attivista, spiega che qualche volta perfino i parenti di una vittima non sanno nulla della storia del loro padre o nonno.

Last Address difficilmente susciterà l’interesse di Putin. Egli può talvolta parlare contro le amnesie storiche, ma ha fatto molto per riabilitare Stalin. Il sistema di Putin si basa sulla nozione che i potenti non sono mai ritenuti responsabili delle loro azioni, e che le vite individuali contano meno della forza che una nazione è in grado di proiettare. Questo è proprio quello che il nostro movimento ambisce a sconfiggere. Con Last Address, la freddezza delle statistiche sparisce e invece emergono vite umane, spazzate via in modo insensato e crudele. Casa per casa, strada per strada, la storia viene alla luce. Io credo che non ci sia un modo più forte di questo di affrontare le ferite più profonde del mio Paese.

13 marzo 2018

FONTE: https://it.gariwo.net/persecuzioni/gulag/la-russia-deve-ancora-riprendersi-dal-trauma-dello-stalinismo-18490.html

 

 

 

STORIA DI JURIJ DMITRIEV, COSA SIGNIFICA FARE MEMORIA IN RUSSIA

intervista ad Andrea Gullotta

 

Igor Podgorny (TASS)

Abbiamo intervistato Andrea Gullotta, docente dell’Università di Glasgow, esperto di storia e letteratura del sistema GULag e socio della ONG Memorial Italia, sulla figura di Jurij Dmitriev, archeologo e storico russo membro di Memorial – una delle più importanti associazioni per i diritti umani della Russia – che fin dagli anni Ottanta ha lavorato sulla preservazione della memoria dei gulag sovietici e delle vittime dello stalinismo. Dmitriev, dopo essere stato più volte processato e assolto, è oggi condannato a 13 anni di carcere con l’accusa di pedofilia, giudicata non fondata dagli esperti interpellati.

Gullotta, oltre ad aver seguito negli anni il lavoro di Dmitriev, per la cui scarcerazione ha promosso un appello con Memorial Italia, ha conosciuto personalmente lo storico, con cui ha lavorato al progetto di aprire una finestra sul talvolta indecifrabile passato sovietico della Russia.

La petizione per Dmitriev da parte di Memorial Italia ha raccolto più di 400 firme da 27 Paesi, tra cui premi Nobel e alcuni dei massimi esponenti degli studi sul GULag, ed è stata utilizzata dall’avvocato difensore dello storico come materiale per la sua difesa.

Proviamo a raccontare questa figura molto complessa… chi è Jurij Dmitriev? Come si inserisce nel quadro della politica della Memoria in Russia?

Jurij Dmitriev, prima appunto del “caso Dmitriev”, era molto poco conosciuto, se non da chi, come me, è uno studioso e si occupa proprio del GULag e in particolare della zona della Carelia, dove lui è attivo. È uno dei tantissimi e straordinari ricercatori che hanno dedicato la loro vita al recupero non solo della storia, ma anche della memoria delle vittime di questo sistema. Dmitriev è membro di Memorial e ha partecipato infatti, con decine di associazioni, sia a ricerche storiche che a iniziative per la preservazione della memoria delle vittime.

Io l’ho conosciuto quando lavoravo alla mia tesi di dottorato, diventata negli anni una monografia, sul campo di prigionia delle Solovki. Necessitavo di informazioni che avevo difficoltà a reperire e mi veniva consigliato da tutti di rivolgermi proprio a Dmitriev. Così feci. Lo incontrai alla stazione di Petrozavodsk dove lui venne a prendermi, andammo a casa sua e gli descrissi il progetto che avevo in mente. Era un tipo particolare, non sembrava il tipico studioso… era vestito in maniera bizzarra, con una lunga barba e la sigaretta sempre in bocca. Nel suo lavoro appariva ed era invece molto serio, mi presentò e consultò per me il suo archivio con migliaia di nomi di vittime dei campi, o in generale delle repressioni staliniane. A un certo punto, vidi alla parete una foto di lui vestito da militare. “È stato in guerra?”, chiesi. “Le faccio vedere la mia guerra”, mi rispose. La sua guerra, per la quale indossava quell’uniforme, era quella nei boschi della Carelia, dove cercava le fosse comuni delle persone fucilate durante lo stalinismo. Per me fu una sorpresa scoprirlo, a quel tempo non sapevo che cosa Dmitriev avesse fatto; solo dopo, seppi che lui, Venjamin Jofe e Irina Flige di Memorial San Pietroburgo, avevano unito le loro ricerche e scoperto Sandormoch, un luogo completamente immerso nelle foreste della Carelia, dove sono state uccise circa 7000 persone, fucilate e seppellite, e di cui non si sapeva assolutamente nulla. Nello specifico, Dmitriev cercava le vittime dei campi del canale Mar Bianco-Mar Baltico, una delle pagine più tragiche della storia della repressione sovietica, Venjamin Jofe e Irina Flige cercavano la cosiddetta tradotta delle Solovki, ovvero un gruppo di 1111 prigionieri che erano stati fucilati ma di cui non si sapeva il luogo dell’esecuzione né null’altro. I tre si incontrarono e, mettendo insieme le ricerche fatte, si recarono nei boschi fino a che non trovarono questo terribile luogo di sofferenza, una enorme fossa comune abbandonata. Di fatto, furono loro quindi a ridare un luogo di memoria a queste vittime. Il loro lavoro, inoltre, non si è fermato qui, Sandormoch è diventato negli anni – su loro iniziativa e grazie al sostegno della Repubblica della Carelia, ai tempi molto attiva in questi ambiti – un vero e proprio cimitero memoriale, nel quale, ogni 5 agosto, si sono tenuti eventi di commemorazione delle vittime. Diverse delegazioni, soprattutto straniere in quanto a Sandormoch ci sono vittime di più di 60 nazionalità, hanno cominciato inoltre a erigere monumenti nazionali in questo grande spazio della memoria, in cui non solo i discendenti a distanza di 60 anni dagli eventi sono riusciti ad avere un luogo dove piangere i propri cari, portare le loro foto (cosa rarissima per la storia del GULag in cui è difficile che si abbiano nomi e luoghi delle sepolture), ma anche le varie nazioni coinvolte hanno potuto ricordare i propri morti, ucraini, polacchi ecc. Queste commemorazioni hanno potuto continuare tranquillamente finché la memoria del GULag è rimasta, per una serie di motivi, non molto rilevante a livello nazionale russo, e di questo tema non se ne occupava nessuno se non specialisti o parenti delle vittime. Nel tempo, però, questa memoria ha assunto sempre più importanza e Memorial e altre associazioni hanno iniziato a essere bersaglio di una serie di azioni scomode. Una su tutte – non mirata unicamente a queste realtà – è stata quella da parte del governo russo che nel 2012 ha approvato una legge sugli agenti stranieri, la quale prevede che chi riceva fondi dall’estero debba dichiararsi agente di uno Stato straniero; se non lo fa, viene sottoposto a multe salatissime e inserito in un registro speciale che obbliga ad accompagnare qualsiasi iniziativa con la dicitura, appunto, “agenti stranieri”. Questo, ovviamente, ha creato non solo un clima di generale mancanza di fiducia verso tali associazioni, ma anche repressioni burocratiche, quali numerose ispezioni, sequestri, sanzioni pecuniarie… Memorial, ad esempio, ha ricevuto multe per decine di decine di migliaia di euro, decidendo comunque di continuare a lavorare e rifiutandosi di sottostare a questa legge; per molte associazioni, però, il provvedimento ha significato la chiusura.

A partire da questa prima fase, in Russia si sono poi susseguiti una serie di avvenimenti che hanno portato a una vera e propria guerra della memoriaLo Stato, dopo aver ignorato per tanti anni la memoria del GULag e delle repressioni sovietiche, di colpo se n’è interessato. A questo proposito, nel 2015 a Mosca è stato inaugurato un enorme museo tecnologicamente all’avanguardia, realizzato con fondi governativi ma anche con l’aiuto concreto di Memorial e di altre realtà come il Centro Sacharov, dedicato proprio a questa parte della Storia; nel 2016, in più, è stato creato un fondo per la memoria, con l’obiettivo di organizzare iniziative a ricordo delle vittime delle repressioni, e nel 2017 è stato inaugurato un monumento dedicato ai morti del GULag, il Muro del dolore. Parallelamente a queste celebrazioni, sono avvenute però una serie di piccole repressioni divenute, nel caso di Dmitriev, “una grande repressione”.

Jurij Dmitriev venne infatti arrestato improvvisamente nel dicembre 2016 per produzione di materiale pedopornografico. L’accusa, in particolare, si riferiva al fatto che nel suo computer vennero trovate 9 fotografie della figlia adottiva ritratta nuda. Le foto erano effettivamente state scattate, ma Dmitriev ne ha spiegato il motivo. Da quando ha deciso di adottare la bambina, ha affrontato una serie di iter burocratici estremamente complessi e lunghi, anche in ragione del fatto che lui fosse già in età avanzata, e, durante una di queste verifiche, gli assistenti sociali gli consigliarono di scattare periodicamente una foto della bambina nuda per poter, in caso di ispezioni, dimostrare che il suo stato di salute fosse buono, soprattutto perché quest’ultima era stata in orfanotrofio molto malnutrita. Inoltre, si era verificato anche un episodio equivoco in cui, all’asilo, alcune macchie d’inchiostro che la bambina aveva sul corpo (in Russia c’è la tradizione di mettere dei fogli di giornale sotto i vestiti per isolare dal freddo quando le temperature scendono di decine di gradi sotto lo zero) erano state scambiate per lividi. Queste fotografie Jurij Dmitriev le teneva in una cartella sul proprio computer a cui solo lui aveva accesso.

In una data successiva a questi avvenimenti, Dmitriev venne chiamato dalla polizia con la contestazione di possesso illegale di armi (per dei frammenti di un fucile da caccia che Dmitriev aveva lasciato in garage dagli anni ’90 e mai usato) e, in questo frangente, degli estranei entrarono in casa sua e utilizzarono il suo computer. Qualche giorno dopo, una denuncia anonima riportò la presenza delle foto nel computer di Dmitriev. Da questo contesto, si evince che non si è trattato di una procedura “ordinaria”, ma la cosa da sottolineare è che Jurij Dmitriev venne immediatamente arrestato ma poi completamente assolto a processo, nel 2018, dall’accusa di creazione di materiale pedopornografico. Gli esperti indipendenti chiamati a giudicare il caso, tra i quali membri del Serbskij Insitut, la più importante istituzione di scienze sociali in Russia, affermarono infatti unanimemente che le foto, seppure rappresentavano una scelta bizzarra e contestabile, non erano da considerarsi di carattere pedopornografico. Dmitriev venne quindi condannato solo per la possessione illegale di armi. Dopo circa tre mesi però, lo storico venne nuovamente detenuto in quanto la Corte Suprema della Carelia, su appello dell’accusa, aveva cancellato completamente il verdetto di assoluzione e indetto un nuovo processo a suo carico. Da quel momento, Dmitriev è rimasto in carcere.

Il nuovo processo si è basato su accuse aggiuntive: la nonna della ragazza ormai quindicenne, a cui quest’ultima è stata affidata una volta tolta al padre e che ne è diventata nuova rappresentante legale, ha accusato Dmitriev di abusi sessuali sulla base di elementi non chiari. L’accusa di abusi e’ scaturita da una confessione fatta dalla figlia: l’abuso consisterebbe nel semplice gesto di controllare se la bambina, che ha sofferto di enuresi per un periodo, avesse bisogno di essere cambiata. Esperti indipendenti durante il secondo processo hanno constatato come la figlia sia stata costretta a rendere questa deposizione in un clima di intimidazione da parte degli investigatori. Il processo si è concluso a luglio 2020, con la condanna di Dmitriev a 3 anni e mezzo; la pena applicata dal codice penale russo in casi di abuso su minore è di un minimo di 12 anni di carcere. Per questo motivo, molti commentatori hanno descritto la sentenza come un’assoluzione de facto. Dmitriev è stato inoltre nuovamente assolto sia per l’accusa riguardante le fotografie sia, questa volta, per quella di possesso di armi. Il caso non si è però concluso nemmeno al secondo processo, in quanto è stato fatto un nuovo appello dalla procura, la rappresentante legale della ragazza e lo stesso Dmitriev, che chiedeva la propria piena assoluzione.

A questo punto, la Corte Suprema della Carelia ha per la seconda volta annullato il verdetto processuale e condannato il sessantaquattrenne Jurij Dmitriev a 13 anni di carcere, in una colonia penale di regime duro, per abusi sessuali contro minori oltre che indetto un terzo nuovo processo sul materiale fotografico e sul possesso illegale d’armi.

Per quale motivo il lavoro di Dmitriev e ciò che rappresenta ha destato così tanta attenzione, anche in termini di accanimento contro la sua persona?

Perché Sandormoch, dove lui scoprì le fosse comuni insieme a Venjamin Jofe e Irina Flige, negli anni è rimasto nell’immaginario russo il luogo dove lo Stato ha ucciso i cittadini innocenti, non solo russi, ma anche ucraini, polacchi e di altre nazionalità… è restato un simbolo di commemorazione condivisa e libera: ogni 5 agosto si ribadiva nelle cerimonie al cimitero memoriale che quelle persone fossero state uccise da un regime criminale. Sandormoch non era certo l’unico luogo dove avvenivano questo tipo di commemorazioni, ma aveva un significato particolare. Secondo più grande luogo di esecuzione di massa scoperto in Russia dopo il poligono di Butovo, era parte di una memoria internazionale e riuniva delegazioni ogni anno. Peraltro, dopo 2014, in seguito all’annessione della Crimea, si sono andate a sovrapporre a questa potenza simbolica una serie di tensioni: i delegati ucraini hanno infatti smesso di andare a Sandormoch, ottenendo la solidarieta’ di Dmitriev e Flige e provocando, in risposta, la diserzione delle delegazioni russe e della chiesa ortodossa russa. Intanto gli ucraini hanno posto maggiore importanza su Sandormoch, ricordando con rinnovata intensità che lì vennero fucilati moltissimi ucraini tra cui i rappresentanti del cosiddetto Rinascimento Ucraino, stagione particolarmente felice per il Paese non solo dal punto di vista culturale e artistico ma anche di riappropriazione della cultura ucraina, terminata con l’arresto e la fucilazione dei protagonisti. Nel contesto delle tensioni internazionali, Sandormoch è quindi diventato “il luogo in cui i russi hanno ucciso l’indipendenza intellettuale degli ucraini”. Nel 2016 inoltre, anno in cui Dmitriev è stato arrestato, la Carelia per la prima volta non ha mandato nessun rappresentante alle commemorazioni di Sandormoch. Questo perché c’era stato un cambio di potere che, secondo molti specialisti, ha influito molto su questo caso.

Contemporaneamente alle accuse verso Dmitriev – e verso Sergej Koltyrin, custode di Sandormoch condannato per violenza sessuale (a lui è mancato il sostegno internazionale che Jurij Dmitriev ha invece avuto) e morto in carcere di tumore -, studiosi della Carelia hanno avanzato l’ipotesi che a Sandormoch non ci fossero soltanto vittime dello stalinismo ma anche membri dell’Armata Rossa, uccisi dai finlandesi durante la Guerra di Continuazione seguente a quella d’Inverno. Quindi, non “cittadini innocenti uccisi da un regime sanguinario” ma “eroi sovietici uccisi da un nemico straniero”.

Questa teoria non ha alcun fondamento storico, gli stessi storici che l’hanno avanzata hanno dichiarato di non avere nessun documento d’archivio a testimonianza della loro tesi; eppure, mentre Dmitriev era in carcere e il suo collega moriva, a Sandormoch è stata mandata un’istituzione, creata da Vladimir Putin e chiamata Società per la Storia Militare Russa, per scavare le fosse comuni e dimostrare che i morti fossero eroi sovietici. Unendo tutti questi punti – e sentendo le parole che Putin ha detto in occasione dell’inaugurazione del Muro del Dolore: “Il GULag è una pagina terribile della nostra storia, dobbiamo ricordarne le vittime ma anche guardare avanti ed essere uniti per il futuro e non fare conti con il passato” -, sembra che, in questo momento, in Russia chi si occupi della memoria o parli delle vittime sovietiche; chi come Memorial pubblichi i nomi degli assassini o come Dmitriev dica apertamente che lo Stato ha ucciso dei cittadini innocenti è visto in maniera scomoda. Lo Stato sta facendo molto per ricordare il GULag, ma se ne deve parlare entro certi termini, senza “fare i conti con il passato”. Il caso di Dmitriev è il più clamoroso da questo punto di vista ma non è l’unico. Io non credo, oltretutto, che dietro di esso vi sia Putin, penso che il suo caso sia una questione locale che però è diventata poi simbolo, nel senso di silenziamento delle posizioni indipendenti, di questa guerra della memoria sia a livello nazionale che internazionale. Questa per adesso è un’ipotesi, che potremo verificare se e quando avremo accesso ai documenti, ma quello che considero certo, è che Jurij Dmitriev sia vittima di un accanimento che ha visto la continua cancellazione di verdetti pronunciati da giudici diversi.

Alla luce di tutto questo, come pensa si evolverà la condizione di Dmitriev e in generale dei dissidenti in Russia?

Personalmente spero sempre nel meglio. Devo dire, però, che quello che sta accadendo fa molta paura. La speranza di molti era riposta nella nuova generazione, con un diverso senso civico, che avrebbe potuto portare avanti le manifestazioni per le libertà… ma tra arresti e processi anche questa via non è facile da percorrere. Molti giovani capaci, intellettuali e non solo, se ne vanno all’estero ogni giorno: la Russia sembra avere difficolta’ a sviluppare un sentire civico che comprenda l’importanza della democrazia, o comunque a proporre un’idea di sistema politico alternativo al putinismo. Basta solo vedere le reazioni violente al caso di Dmitriev sui social media: pare a volte che ci sia un accanimento del pubblico nei suoi confronti proprio perchè visto come un oppositore. La Russia è comunque un Paese che è stato capace più di una volta di sorprendere – nessuno sapeva chi fosse Putin prima che la sua figura s’imponesse o immaginava che l’Unione Sovietica potesse collassare, come poi è avvenuto -, pertanto chissà, magari succederà qualcosa di simile e cambierà tutto di nuovo.

a cura di Helena Savoldelli, Redazione Gariwo

29 ottobre 2020

FONTE: https://it.gariwo.net/persecuzioni/gulag/storia-di-jurij-dmitriev-cosa-significa-fare-memoria-in-russia-22730.html

 

 

 

 

“paradiso sovietico”  IL GULAG

 

 

Quando nell’agosto 1946 il premier britannico Winston Churchill pronunciò all’università di Fulton, Missouri, il famoso discorso della “cortina di ferro”, nessuno in Occidente poteva anche lontanamente immaginare che, al di là di quella metaforica divisione che si ergeva “da Stettino a Trieste”, la soppressione della libertà avesse raggiunto, già da decenni, una scientifica applicazione. L’Unione Sovietica, era un “indovinello, contenuto in un mistero, all’interno di un enigma” (sempre nelle parole di Churchill) del quale non era dato conoscere nulla. Sul mito della Russia bolscevica, quindi, due sole erano le posizioni ufficiali: la condanna e l’esaltazione a priori. Questa assurdo incantesimo è potuto persistere, tra crisi di coscienza e polemiche, sino ad un recentissimo passato, il crollo del Muro, prima del quale le rigide posizioni della Guerra Fredda imponevano un atteggiamento condizionato dalle superiori esigenze strategiche dei due blocchi.

Ora che, dopo il crollo dell’URSS, gli archivi moscoviti spalancano le porte agli studiosi, una mole impressionante di informazioni si riversa sull’opinione pubblica. Impossibile, e fondamentalmente ingiusto, in queste condizioni, appellarsi alla conservazione dei giudizi resi “immobili” dal dopoguerra ad oggi. Ai conati “conservatori”, che si oppongono ad un inevitabile revisionismo conseguente alla scoperta di nuovi documenti, non resta che un piccolo, ma fastidioso potere: quello di rallentare nel tempo la nuova presa di coscienza. Se ancora oggi, per la stragrande maggioranza dei giovani studenti italiani, la parola “Gulag” appare un oggetto misterioso, lo si deve proprio ad una mancata operazione di informazione storica a livello scolastico.

Il sistema dei campi di concentramento puntitivi appartiene alla storia sovietica sin dagli esordi, dai tempi di Lenin (già nel ’20, presso le isole Solovki, situate nel Mar Bianco, a circa duecento chilometri dal circolo polare artico, era stato creato un “lager di lavori forzati per i prigionieri della guerra civile”, dove vennero imprigionati tutti coloro che si opponevano al nuovo regime, non solo zaristi quindi, ma anche anarchici, socialisti rivoluzionari, menscevichi) ma il maggior sviluppo avviene negli anni del consolidamento del potere di Stalin, e durante il suo lungo “regno”, che va dagli anni trenta fino alla metà degli anni cinquanta. La percezione del Gulag in Occidente ha subito diversi passaggi. Non va dimenticato che, per quanto possa sembrare assurdo, l’immagine della Russia stalinista godeva di un diffuso “rispetto democratico” in tutto il mondo. 

Nel 1933 gli stessi Stati Uniti avevano riconosciuto l’U.R.S.S. e non erano pochi gli ambienti intellettuali disposti a concedere credito e credibilità al regime dello “splendido georgiano”. In quegli anni di crisi economica in tutto l’Occidente, non erano così sporadici i casi di intellettuali e operai disposti a lasciare l’odiato “inferno capitalista” per trasferirsi armi e bagagli nel “paradiso dei lavoratori”. Un esempio per tutti può essere considerato l’operaio americano Fred Beal, di estrazione comunista, che lasciò l’America e si “rifugiò” in Russia dopo una condanna inflittagli in seguito ad uno sciopero. La stampa di tutto il mondo non mancò di regalare un’eccezionale cassa di risonanza all’avvenimento.

Non altrettanto fece quando Beal – disilluso dalla realtà sovietica e constatate le condizioni inumane e senza diritti degli operai nella patria del socialismo – chiese (e, straordinariamente, ottenne!) di tornare negli Stati Uniti, dove scontò la pena e dedicò la sua vita a smascherare il mito dell’URSS. Eppure, come disse lui stesso, “mi trovai così, come spirito e come atteggiamento, del tutto fuori fase rispetto ai miei connazionali. [�] Comunisti, simpatizzanti sovietici e anche democratici di vecchia scuola non volevano ascoltare nulla sulla atroce realtà del “paradiso operaio”. Preferivano il quadro offertogli dai propagandisti; si adattava assai meglio ai loro ideali e alle loro illusioni”. La responsabilità maggiore di questo clamoroso fenomeno di amnesia etica e storica sta però negli intellettuali, come magistralmente denunciò Raymond Aron nel suo splendido “L’oppio degli intellettuali”. Una figura eminente in Russia fu lo scrittore Maksim Gor’kij, che si prestò a megafono del regime stalinista.

Alla fine degli anni Venti lo scrittore compì un viaggio presso il lager delle isole Solovki, difendendone la sua “utilità sociale e la sua capacità rieducativa”. Il viaggio di Gor’kij fu abilmente pubblicizzato in Russia e all’estero. Molti dei detenuti  attendevano con ansia l’intellettuale, illudendosi di ricevere conforto dalla sua penna. Poco tempo dopo, le sue riflessioni sull’esperienza avuta alle Solovki erano tutte improntate ad una descrizione apologetica, che dimostra in modo agghiacciante la cecità di un’intera categoria. I lager, quindi, diventavano “luoghi indispensabili”, dove “aiuole fiorite crescevano intorno alle caserme”. La Croce Rossa prestò credito a Gor’kij, e le immagini dello scrittore sorridente tra gli agenti della famigerata Ghepeù fecero il giro del mondo.

Già nel decennio precedente, c’era “la tendenza, – come scrive Marcello Flores – nella coscienza dell’Occidente, ad apparentare i lager russi ai campi di prigionia presenti in tutta Europa durante la guerra e a considerarli un retaggio – come suggeriscono gli stessi dirigenti sovietici che promettono una rapida sottomissione alla giustizia dell’azione della polizia – della guerra civile. Quel che nessuno sembrava intuire è che con la fine degli anni Venti avrà termine non già l’arbitrio poliziesco nella repressione e nella gestione dei campi, ma la fine della divaricazione tra giustificazione ideologica, responsabilità giuridica, prassi amministrativa e realtà della detenzione”. Se il Gulag ancora fatica ad entrare nella coscienza dell’opinione pubblica, con molta più difficoltà rispetto al Lager nazista, è anche a causa della forte promessa idealistica contenuta nel comunismo, e del ricordo del contributo sovietico alla lotta contro il nazismo e il fascismo nell’ultima guerra mondiale.

Eppure, sulle torrette agli angoli dei campi di concentramento, la bandiera che sventolava era quella con la falce e il martello. Anzi, come ha sempre lucidamente sottolineato, Marcello Flores, il Gulag ha finito per essere “l’altra faccia della società, una sorta di concentrato o proiezione della realtà sovietica, di microcosmo che riflette in condizioni punitive la vita della maggioranza dei cittadini [�]”. Il Gulag non è quindi un reazione impazzita ad un sistema in continua emergenza, bensì un fattore endemico e perfettamente conseguente al regime instaurato. Una prima riflessione di un certo spessore ci fu solo dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando alcune prestigiose testimonianze di vittime del Gulag cominciarono ad affiorare. In Francia, due dibattiti attirarono l’attenzione del mondo. Il primo fu il cosiddetto “affare Kravcenko”, che prendeva il nome da quello di un funzionario sovietico che aveva disertato e si era consegnato agli Americani.

“Ho scelto la libertà”, il libro che Kravcenko scrisse e che venne tradotto in più di venti lingue, vendendo milioni di copie, era una indubbia testimonianza dall’interno del regime sovietico. Inaugurando una strategia che avrebbero seguito immancabilmente in seguito – quella di accusare il funzionario disertore di “aver scritto sotto dettatura della CIA” (quarant’anni dopo, in pieni anni ottanta, le stesse identiche parole marchiarono Armando Valladares, dissidente cubano che Castro tenne segregato per 22 anni, vittima di torture ed “esperimenti biologici”) – i comunisti occidentali cercarono di isolare la testimonianza del dissidente. Nel processo per diffamazione che ne conseguì, l’attenzione degli inquirenti si concentrò sulla realtà dei campi.

“Istituzioni rieducative dove i diritti umani venivano rispettati”, secondo la propaganda comunista. Nemmeno lo sconvolgente racconto di Margarete Bauber-Neumann (passata attraverso il Gulag e il Lager nazista, dopo che i russi la consegnarono, in quanto ebrea, diligentemente agli alleati hitleriani) poté qualcosa contro la cieca fedeltà ideologica dei comunisti occidentali. Il secondo dibattito si svolse, sempre in Francia, intorno alla figura di David Rousset, membro dell’Associazione degli ex deportati nei lager nazisti, denunciato dai comunisti quando, nel novembre 1950, aveva lanciato un appello dal “Figaro”, a tutti i sopravvissuti ai lager, nel denunciare il sistema del Gulag sovietico. “Se pensiamo – scrisse Rousset, ricordando la propria esperienza sotto i nazisti – che milioni di uomini si trovano oggi nella condizione in cui noi ci trovammo ieri, sapremo che abbiamo dimenticato”. In occasione del processo per diffamazione che anche in questo caso seguì, numerose furono le testimonianze di sopravvissuti al Gulag.

Voci come Julius Margolin (condannato al Gulag con atto amministrativo, senza essere ascoltato e senza subire processo) Alexandre Weissberg, (scienziato austriaco emigrato volontariamente in URSS, arrestato con accusa di spionaggio, di complotto per uccidere Stalin (!) e di sovversione), Jerzy Gliksman, (membro del partito socialista ebreo polacco, deportato quando, in fuga dai nazisti, finì nelle braccia della polizia segreta sovietica) lanciarono uno squarcio di luce sulla realtà entro i confini dell’URSS. Quando, nel gennaio 1951, Rousset vinse il processo intentatogli dai comunisti, spiegò: “L’esistenza dei campi non è grave perché ci si soffre e muore; è grave perché vi si vive. [�]

Un paese dove esistono i campi di concentramento è marcio fino al midollo: sono disumani i suoi detenuti, lo sono i guardiani e lo è soprattutto il suo regime. Il mondo concentrazionario attiva un contagio inevitabile e questa è la più grande sciagura che si possa conoscere”. Il “Libro Bianco sui campi di concentramento sovietici” della Commission Internationale contre le régime concentrationnaire, pubblicato lo stesso anno, si rivelò un altro documento fondamentale apparso sulla scena culturale francese. Nemmeno la denuncia ad opera di Kruschev  del terrore staliniano, nel XX congresso del PCUS del 1956 (VEDI), spinse l’Occidente a concentrare la propria attenzione sul fenomeno del Gulag. Quel particolare momento storico, anzi, fu visto unicamente come denuncia dello stalinismo come “deviazione” da un supposto comunismo originario e “democratico” e come suggerimento alla possibilità di una “riforma” del comunismo. Il sogno di cartapesta che lo stesso Gorbaciov, fino al Golpe del 1991, si illuse di poter realizzare. Più tardi, negli anni settanta, venne la volta de “La giornata di Ivan Denisovic” (premio Nobel per la Letteratura) e di “Arcipelago Gulag” di Aleksandr SOLZENICYN e dei “Racconti della Kolyma” di Varlam �ALAMOV. Guardando verso la Francia – antica maestra di libertà – il mondo poteva quindi prendere coscienza degli orrori del sistema concentrazionario comunista già da quarant’anni. I Lao Gai maoisti, i campi cambogiani, le carceri castriste furono (e sono!) solo continuazioni in scala minore dello stesso incubo.

Difficile condividere l’assordante silenzio in Italia di intellettuali, libri scolastici, mass media, dove le riflessioni francesi sono approdate, e non completamente, solo dopo il fatidico 1989. Ancor più difficile condividere l’atteggiamento assunto da parte di alcuni ambienti intellettuali, che cercano di chiudere il capitolo, mai definitivamente aperto, del Gulag, con la giustificazione dell'”esaurimento della Guerra Fredda”, quando, nei confronti del Lager nazista e della Shoah, avvenuti cinquant’anni fa, mantengono – giustamente – alto il monito a “non dimenticare”. 

“è fatta, siete arrestato. E voi non troverete altro da rispondere che un belato da agnello: Io?? Perché?? Ecco cos’è l’arresto, un lampo accecante, una folgorazione che respinge istantaneamente il presente nel passato e fa dell’impossibile un presente di pieno diritto. Ed è tutto. Nelle prime ore e anche nei primi giorni non potete rendervi conto di nient’altro. Vi balugina ancora, nella vostra disperazione, una luna da circo, un giocattolo: è un errore, se ne renderanno conto! Tutto il resto, tutto quanto è ora entrato a far parte del concetto tradizionale e anche letterario dell’arresto, non è più la memoria vostra che l’immagazzina e l’organizza, ma quella della vostra famiglia e dei vostri coinquilini. è una brusca scampanellata nel cuore della notte o un colpo brutale alla porta. è la gagliarda irruzione di stivali sporchi, d’insonni agenti. è, nascosto dietro le loro spalle, il testimone, impaurito e mortificato, che essi hanno reclutato d’autorità. [�] L’arresto tradizionale sono, ancora, le mani tremolanti che preparano la roba di chi viene portato via: un cambio di biancheria, qualche provvista, un pezzo di sapone, nessuno sa che cosa dare, che cosa si può portare con sé, come sarebbe meglio vestirsi; ma gli agenti spronano, vi interrompono bruscamente dicendo: non ha bisogno di nulla. Là gli daranno da mangiare. Fa caldo”. 

Con queste parole, Aleksandr Solzenicyn descrive in “Arcipelago Gulag” il momento dell’arresto di un individuo prima della deportazione. La grande forza di questo libro è proprio quella di focalizzare gli infiniti effetti dell’incubo del Gulag sulla vita di un uomo. Il grande rischio che comporta parlare del Gulag – data la gigantesca ampiezza del fenomeno, l’estensione geografica dell’Arcipelago concentrazionario, il numero inimmaginabile di persone risucchiatevi – è proprio quello di restare, inevitabilmente, prigionieri dei numeri, delle statistiche, “anestetizzando”, per così dire, le implicazioni umane. Quell’arresto e tutto ciò che ne seguirà è, quindi, da pensare moltiplicato per decine di milioni di volte. Subito dopo l’Ottobre bolscevico la dirigenza del partito unico cominciò a pianificare un nuovo sistema carcerario.

Già nel 1918 nasceva una Sezione punitiva centrale (CKO) all’interno del Commissariato del popolo alla giustizia, che avrebbe dovuto coordinare tutte le carceri dell’URSS. Questa istituzione fu, in definitiva, la “madre del Gulag”. L’anno seguente, all’interno dell’NKVD (Commissariato del popolo agli affari Interni) fu creata la Sezione lavori forzati. Già due anni dopo la cosiddetta Rivoluzione, quindi, il nuovo regime dava rigore istituzionale al concetto dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, in aperto contrasto con le teorie marxiste cui sosteneva d’appellarsi. All’inizio del 1921 nei lager erano rinchiusi già intorno più di 156.000 detenuti. Entro il 1927 i reclusi arrivarono alla cifra di 200.000 persone. Il sistema di reclusione cambiò radicalmente nel 1929. Fuori di ogni retorica, si può affermare che, con il varo del piano quinquennale – il cui scopo era spingere la Russia in un processo di industrializzazione forzata – la “patria del socialismo”, con un clamoroso salto indietro nel tempo, torna alla pratica dello schiavismo.

Non tanto clamoroso, in verità, quel salto all’indietro, dal momento che il servaggio della gleba in Russia fu abolito nel 1860! Il regime bolscevico decideva quindi di creare campi di “rieducazione attraverso il lavoro” in regioni remote e lontane dai grossi centri urbani. La Siberia – già utilizzata in epoca zarista – e la sterminata regione del Nord vennero usate come luogo per ospitare i campi. Ogni campo sarebbe distato dall’altro centinaia di chilometri, in uno spazio sterminato e ghiacciato. Assolutamente impossibile, per chiunque fosse riuscito a fuggire dal complesso carcerario, attraversare quel deserto bianco a piedi, e men che meno sarebbe stato possibile varcare il confine. Nel 1930 i detenuti nei lager sovietici salgono improvvisamente da 23.000 a 160.000, e nella primavera dello stesso anno viene creata una direzione unica di queste strutture denominata ULAG sotto la guida dell’OGPU.

Un ulteriore riforma amministrativa nell’anno seguente portò alla creazione del Gulag (Glavnoe upravlenje lagerei, Direzione centrale dei lager). è di quel periodo la decisione di sfruttare i detenuti per l’imponente costruzione del canale Mar Bianco-Mar Baltico: questo progetto sarà la chiave di volta sulla quale fiorirà il Gulag, che potrà fornire gratuitamente operai e ingegneri (tutti quelli arrestati per “sabotaggio” nelle cicliche “purghe anti-complotto”) al fine di realizzare costruzioni imponenti. Ovviamente, ciò che veniva costruito a prezzo del sudore (e della morte: solo per questo canale 15.000 persone perirono in condizioni disumane) di migliaia di detenuti veniva presentato all’estero come una gloriosa edificazione del socialismo sovietico. Contemporaneamente, in Occidente, i sindacati egemonizzati dai comunisti combattevano per i diritti dei lavoratori e glorificavano le conquiste della patria del socialismo.

Nel 1932 fu la volta della costruzione del canale Mosca-Volga, intorno al quale fiorirono diversi Gulag (l’ITL Dmiroski, 200.000 detenuti, l’ITL Bajkalo-Amurskij, 260.000 detenuti, il più grande della storia del Gulag). Nello stesso anno vengono eretti Gulag nella regione della Kolyma (l’ITL Nord-Est), che ospitò in 25 anni un milione di detenuti, destinati all’estrazione dell’oro e dello stagno, che mantenevano l’intero paese. L’anno 1934 vedeva, in tutta l’URSS, 510.000 persone “ospiti” del Gulag, e solo l’anno seguente, nel 1935, i dannati dell’inferno bianco salivano a 730.000!

La crescita esponenziale non si sarebbe fermata, perché all’orizzonte si affacciava il periodo più buio della storia sovietica: il Grande Terrore. Stalin lanciava il colpo finale all’interno del partito e gettava le basi di quel “culto della personalità” che lo porterà ad essere giudice della vita di ogni singolo cittadino sovietico. Robert Conquest – nel suo illuminante “Il grande terrore” – ricorda come ogni sovietico, in quegli anni, non si sentisse immune dalla possibilità di finire nel Gulag. Il cittadino sovietico, e gli stessi membri di partito, che finivano sotto le poco umanitarie attenzioni della polizia segreta imputavano allo sgherro di Stalin, il capo dell’NKVD Ezov, tutta la responsabilità del terrore. Nella memoria russa, infatti, il grande terrore passerà come “il periodo di Ezov”, ma lo stesso Conquest ricorda come, in quei terribili anni, la vita delle persone veniva decisa da un semplice segno di matita rossa da parte di Stalin. Ezov si limitava ad eseguire gli ordini. Il grande terrore portò ad un eccezionale sviluppo del Gulag. I Gulag che, fino al 1934 erano 14, diventarono 31 e, per la fine del 1938, i detenuti erano saliti al terrificante numero di due milioni di persone.

All’inizio del 1940 i Gulag erano già 57, 82 l’anno successivo, per una popolazione incarcerata di 2.350.000 persone. Un certo rallentamento si ebbe negli anni della Seconda guerra mondiale: la popolazione del Gulag scese a 1.750.000 persone e, nel 1944, toccò il numero di 1.200.000 persone. Con la fine del conflitto, però, il Gulag riprese a pieno regime: il nemico esterno era stato sconfitto e, per mantenere salde le redini del potere, Stalin necessitava di un nuovo “giro di vite”. L’aspetto più agghiacciante della storia del Gulag è sicuramente questo: che il numero di detenuti che avrebbe dovuto popolare il Gulag veniva deciso ad inizio anno, secondo direttive dello steso Stalin. Esisteva, quindi, una sorta di pianificazione degli arresti, che andava rispettata numericamente come si faceva per le direttive economiche di un Piano quinquennale. Stalin era pienamente cosciente che tutto il castello delle accuse ai condannati al Gulag era fondato sulla menzogna: il terrore gli serviva solamente per mantenere saldo il potere. In questo, lo “splendido georgiano” si attenne alle originali direttive del “grande padre” Lenin, che negli anni della guerra civile, auspicava l’uso del terrore nei villaggi e tra i contadini come arma rivoluzionaria necessaria alla vittoria. 

La fine della guerra, che comportava lo “scomodo” impegno a restituire i prigionieri militari nel frattempo impiegati come forza lavoro, spinse il regime stalinista a ributtarsi nel tetro “arruolamento” nelle file della popolazione sovietica. Gli schiavi servivano, e da qualche parte bisognava pur prenderli.

Nel 1948 le direzioni dei Gulag erano già una novantina, e la popolazione detenuta era tornata a toccare il record di 2.000.000 di persone. Nel maggio 1950 i “dannati” erano arrivati, incredibilmente, al numero di 2.800.000 persone. Con la morte di Stalin il sistema del Gulag venne riformato, ma di certo non cancellato. Nel marzo del 1953, a pochi giorni dalla morte del satrapo georgiano, venne interrotta la costruzione di nuovi Gulag, e un decreto di amnistia del Presidium portò alla scarcerazione di un milione di detenuti, e alla riduzione degli campi dal numero esorbitante di 175 al numero di 81. Anche le pene furono mitigate. A metà degli anni cinquanta la popolazione incarcerata nei Gulag era “solo” di un milione. Il 25 ottobre 1956 la risoluzione del CC del PCUS e del Consiglio dei ministri dell’URSS decise che era “inopportuna l’ulteriore esistenza degli ITL (altra forma burocratica per definire il Gulag, ndr)”. Nel mese di ottobre il Gulag cambiò nome in GUITK (Direzione centrale delle colonie di rieducazione attraverso il lavoro). L’inferno cambiava nome, ma le fiamme rimanevano le stesse, e non bruciavano certo di meno.

FONTE: https://www.cronologia.it/mondo26d.htm

Stalin e l’Arcipelago gulag

Dopo la presa del potere con la rivoluzione d’ottobre del 1917, Lenin – mentre procedeva a tappe forzate all’industrializzazione del paese e al miglioramento del livello dell’istruzione – mise in piedi in Russia un apparato di repressione delle classi non proletarie: la nobiltà, la borghesia e il clero. Il sistema concentrazionario, indicato dall’acronimo Gulag (Direzione generale lager: presiedeva alla reclusione e al lavoro schiavistico dei prigionieri o zek nella costruzione delle infrastrutture, delle mostruose companv-town subpolari, nelle miniere), ne era la sintesi.

Il sistema dei campi di concentramento puntitivi appartiene infatti alla storia sovietica sin dagli esordi, dai tempi di Lenin (già nel ’20, presso le isole Solovki, situate nel Mar Bianco, a circa duecento chilometri dal circolo polare artico, era stato creato un “lager di lavori forzati per i prigionieri della guerra civile”, dove vennero imprigionati tutti coloro che si opponevano al nuovo regime, non solo
zaristi quindi, ma anche anarchici, socialisti rivoluzionari, menscevichi).

Non furono anni di consenso assoluto da parte del popolo: particolarmente significativa fu la ribellione dei marinai di Kronstadt del marzo 1921, con la quale gli stessi uomini che, sollevandosi, avevano dato inizio alla rivoluzione dell’ottobre ’17, tentarono di rovesciare il potere comunista. Stavolta vennero “massacrati come anatre nello stagno” dall’armata rossa di Trotsky.

Il maggior sviluppo dei gulag avvenne però negli anni del consolidamento del potere di Stalin, e durante il suo lungo “regno”, che va dagli anni trenta fino alla metà degli anni cinquanta. Morto Lenin nel ’24, Stalin e gli altri proseguirono sulla strada da lui indicata: mandarono a scuola tutti i contadini, e immisero nelle campagne migliaia di trattori. Ma non per questo i contadini mostravano l’intenzione di trasferire la loro terra ai colcozi. Allora, dal 1929 al ’32, Stalin e i comunisti ‘repressero’ con fredda determinazione i kulaki e i subkulaki, deportandoli a morire con le mogli e i figli – quindici milioni di esseri umani – nelle tundre gelate della Russia europea e nelle zone disabitate della Siberia. A questa deportazione, e alla mancata messa a coltura di molti campi, fece seguito una terribile carestia (1932-33) che comportò altri sei milioni di morti.

Nel ’36 Stalin dichiarò ufficialmente costruito il socialismo (con la nuova Costituzione) e iniziata la costruzione del comunismo. Stalin sapeva però bene che il socialismo non era stato costruito affatto: reintrodusse quindi contemporaneamente – e sviluppò al massimo – alcune forme di repressione già attuate da Lenin su frange proletarie corrotte, e cioè l’epurazione (che divenne una sorta di setacciatura periodica, a turno, di tutti senza eccezione gli strati proletari). Introdusse inoltre la ‘rieducazione mediante il lavoro’ (forzato), allargando a dismisura la rete dei lager creata da Lenin per la rieducazione dei nemici di classe (si andò così formando lo sterminato ‘arcipelago Gulag’ descritto poi con tanta efficacia da Solgenìtsin: alla morte di Stalin, nel ’53’ vi erano rinchiusi 15 milioni di proletari: la mortalità vi era elevatissima, ben pochi ne uscivano vivi). Introdusse infine,   un indottrinamento quotidiano obbligatorio (almeno un’ora al giorno per ogni cittadino lavoratore).

Di queste tre forme di repressione quella che toccava più direttamente i membri del partito e in genere i detentori del potere era senza dubbio l’epurazione, la quale giorno dopo giorno, con le sue metodiche fucilazionì, così come setacciava gli altri strati, ‘purificava’ imparzialmente a turno (con o senza processi) anche gli strati dell’apparato comunista. Si pensi per esempio che nell’anno 1937 furono fucilati ben 400.000 ‘comunisti fedeli’. E non soltanto dei livelli inferiori: infatti delle 31 persone che fecero parte dal 1919 al 1938 dei politburo di Lenin e di Stalin, 19 complessivamente vennero fucilate, 2 si suicidarono, 4 morirono di morte naturale, solo 6 (Crusciov, Mikojan, Molotov, Kaganovic, Voroscilov e Andreev) sopravvissero a Stalin.

Non esiste un computo esatto delle perdite umane: Solgenitsin e gli altri dissidenti sovietici parlano in genere di 60 milioni.

Gli italiani nei Gulag

Durante gli anni Trenta, il terrore staliniano colpì duramente le comunità straniere che vivevano in Unione Sovietica e, fra queste, anche quella italiana conobbe l’esperienza della persecuzione e della deportazione nei Gulag. Sospettati, nella maggior parte dei casi, di attività antisovietica e di spionaggio, alcune centinaia di italiani, per lo più emigrati politici e giunti in URSS negli anni Venti, morirono fucilati dopo processi sommari o subirono lunghe sofferenze nei campi di lavoro forzato. A questa vicenda di dolore e di morte si aggiunse, negli anni della seconda guerra mondiale, la dura esperienza della deportazione e del lavoro coatto nelle colonie per gli italiani che vivevano a Kerc’, in Crimea, questi ultimi discendenti di famiglie pugliesi trasferitesi in Russia sin dal XIX secolo.

Bibliografia

  • Elena Aga-Rossi e Viktor Zaslavsky, Togliatti e Stalin, Il Mulino, 1997
  • Aldo Agosti Lorenzo Brunelli, I comunisti italiani nell’URSS. 1919-1943, in “Il partito comunista italiano. Struttura e storia dell’organizzazione”, n. anno XXI, a cura di Massimo Ilardi e Aris Accornero, “Annali della Fondazione Feltrinelli”, 1982
  • Pier Luigi Bassignana, Fascisti nel paese dei Soviet,
    Bollati Boringhieri, 2000
  • Robert Conquest, Il grande terrore, Edizioni BUR, 1999
  • Marcello Flores e Francesca Gori (a cura di), Gulag, il sistema dei lager in URSS,  Edizioni Gabriele Mazzotta, 1999
  • Varlam Šalomov, I racconti della Kolyma, Adelphi, 1999
  • Aleksandr Solzenicyn, Arcipelago Gulag, Oscar Mondadori, 1990

 <span “=””>per approfondire:

 Storia del Gulag Gli italiani nei gulag: biografie delle vittime, bibliografia, descrizione dei lager, mappe, approfondimenti

<span “=””> Il Pianeta Russia (con capitoli sui gulag e il “grande Terrore”, da www.cronologia.it )

 L’enciclopedia del terrore: così furono liquidati i nemici della rivoluzione (di Dario Fertilio, Corriere della Sera 25 ottobre 2001)

<span “=””> “Paradiso sovietico”: il Gulag (saggio di Ferruccio Gattuso)

 Le vittime delle repressioni staliniane La lista con nome e cognome di 40.000 dei milioni di vittime delle repressioni staliniane

<span “=””> Il Pci e i Gulag (articolo di Barbara Spinelli)

<span “=””> Le persecuzioni sovietiche contro i cattolici (sito Il Margine)

<span “=””> L’antisemitismo in Unione Sovietica (saggio di Valentina Piattelli)

 OSA. Open Society Archives Lettere, foto, documenti originali.

 i-Biblio La Storia dell’Urss con documenti originali

 Russian Prison Tattoos Il significato dei tatuaggi nei gulag

 Testimonianza dai gulag: don Enelio Franzoni (sito dell’Istituto G. Leopardi di Bologna)

 Testimonianza dai gulag: Bruno Cecchini (1) (sito dell’Istituto G. Leopardi di Bologna)

 Testimonianza dai gulag: Bruno Cecchini (2) (sito dell’Istituto G. Leopardi di Bologna)

 Omosessualità e comunismo (dal sito di Enrico Oliari)

FONTE: http://www.storiaxxisecolo.it/deportazione/deportazionealtri2.htm

 

 

 

I migliori libri sui gulag sovietici

La realtà dei gulag in Russia raccontato dai migliori libri sull’argomento

Libri sui gulag russiLa terribile realtà dei gulag sovietici analizzata e spiegata in dieci libri: di seguito vi presentiamo alcuni dei migliori volumi disponibili in italiano sul complesso ed estesissimo sistema di campi di lavoro forzato creato nell’Unione Sovietica, un sistema con milioni e milioni di reclusi e moltissimi morti, che rappresentò una modalità terrificante di porre a tacere qualunque oppositore politico dell’URSS (o presunto tale).

I saggi e i libri autobiografici o narrativi qui presentati, gettano una luce che mette a nudo l’arcipelago sovietico dei campi di prigionia, una realtà restata nascosta agli occhi del mondo fin troppo a lungo.

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Questo grande volume di saggistica pubblicato da Mondadori e firmato da Anne Applebaum analizza e racconta L’”arcipelago Gulag”, la fitta rete di campi di concentramento sovietici portata all’attenzione del mondo dal romanzo di Solzenicyn che segue in questa lista. “Da allora, e in particolare dopo il crollo dell’Unione Sovietica, documenti a lungo tenuti nascosti hanno gettato nuova luce sul ruolo svolto dal gulag: oltre a essere lo strumento repressivo di ogni forma di opposizione politica e sociale, esso fu l’arma segreta di Stalin, che fece del lavoro coatto la base dell’industrializzazione del paese. In questo libro Anne Applebaum ricostruisce il sistema sovietico dei campi, dalla sua nascita subito dopo la Rivoluzione d’ottobre al suo smantellamento negli anni ottanta”.


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Il grande e famosissimo romanzo autobiografico di Solzenicyn che ha svelato la realtà delle isole del Gulag; isole che formavano un invisibile arcipelago, popolato da milioni di cittadini sovietici. Nei Gulag è vissuta o ha trovato fine o si è formata un’”altra” Russia, quella di cui non parlavano le versioni ufficiali. In un fitto intreccio di esperienze dirette, di apporti memorialistici, di minuziose ricostruzioni dove non un solo nome o luogo o episodio è fittizio, «Arcipelago Gulag» racchiude una tragica cronaca di quella che è stata la vita del popolo sovietico “del sottosuolo” dal 1918 al 1956. Un’opera corale che ha visto la luce per la prima volta a Parigi nel 1973. Questa edizione recepisce le aggiunte e integrazioni apportate dallo stesso Solzenicyn nel 1980 e i successivi interventi volti a esplicitare nomi e luoghi nell’edizione curata da sua moglie nel 2006.


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Nel 1942 Josef Morawietz è uno studente di diciassette anni. Chiamato alle armi dal suo Paese, la Germania, riceve un addestramento da cecchino e viene inviato con l’esercito hitleriano sul fronte russo. Attraversa i terribili mesi della battaglia di Stalingrado, sopravvive al freddo, alla fame, alla decimazione dei compagni; fatto prigioniero dai russi, viene trasferito nel gulag 47, in un punto imprecisato della Russia meridionale. Da qui, dopo mesi di lavoro forzato, organizza un’incredibile fuga assieme a un compagno di prigionia, con il decisivo aiuto di un’infermiera incontrata nel gulag. La rocambolesca storia vera di Josef Morawietz non è finita: una lunghissima traversata a piedi nella steppa russa porterà i fuggitivi in Iran, da dove tenteranno di salpare per l’Inghilterra. Una storia, quella di Josef, sorprendente e terribile, che racconta la tenace volontà di sopravvivenza di un ragazzo investito dal turbine della guerra.


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La Kolyma è una desolata regione di paludi e di ghiacci all’estremo limite nord-orientale della Siberia. L’estate dura poco più di un mese; il resto è inverno, caligine grigia, gelo che può scendere anche a sessanta gradi sotto zero. Lì, dalla fine degli anni Venti, alcuni milioni di persone sono state deportate e sfruttate a fini produttivi e di colonizzazione della regione. Salamov arrivò alla Kolyma nel 1937, dopo essere già stato rinchiuso in un lager degli Urali fra il 1929 e il 1931 a causa della sua opposizione a Stalin. E alla Kolyma rimase fino al 1953. L’anno successivo, subito dopo il ritorno a Mosca, tassello dopo tassello Salamov cominciò a comporre il suo monumentale mosaico contro l’oblio, il suo poema dantesco sulla vita e sulla morte, sulla forza del male e del tempo.


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Vasilij Grossman scrisse questo libro, che è il suo testamento, fra il 1955 e il 1963. Come nel grandioso “Vita e destino”, non cambiò molto dello stile scabro e aspro che lo aveva reso celebre fra gli scrittori del realismo socialista. Ma vi infuse l’inconfondibile tono della verità. Con lucidità e fermezza, prima di ogni altro parlò qui di argomenti intoccabili: la perenne tortura della vita nei campi, ma anche l’altra tortura, più sottile, di chi ne ritorna e riconosce la bassezza e il terrore negli occhi imbarazzati di parenti e conoscenti; lo sterminio sistematico dei kulaki; la delazione come fondamento della società; il vero ruolo di Lenin e del suo “spregio della libertà” nella costruzione del mondo sovietico.


Gulag. Storia e memoria


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Questo volume costituisce una riflessione e un confronto, dopo l’apertura degli ex archivi sovietici, sulla storia del sistema repressivo dei Soviet fra il 1918 e gli anni del secondo dopoguerra. Nel quadro dello sviluppo del sistema del Gulag trova posto la storia dell’emigrazione italiana e della sua repressione soprattutto negli anni del terrore staliniano. Nell’Appendice sono contenute le biografie di circa mille italiani emigrati in Urss che finirono nei lager di Stalin, i verbali degli interrogatori e le lettere ai familiari rinvenuti negli archivi della polizia. Un’analisi che illumina alcuni nodi centrali della storia del XX secolo, dal rapporto fra URSS e paesi capitalisti a quelli fra PCI e partito comunista sovietico.


Il primo Gulag


Il primo Gulag. (Le isole Solovki)
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In mezzo al Mar Bianco, a 165 chilometri dal Circolo Polare Artico, sono situate le isole Solovki. Per secoli disabitate, nel XV secolo furono scelte dai monaci ortodossi per costruire un importante monastero. Proprio quel complesso religioso divenne nel corso del Novecento un triste simbolo di violenza: requisito dallo Stato nel 1923 con un decreto firmato da Lenin, dopo la fucilazione degli ultimi monaci fu trasformato nel primo campo di concentramento sovietico, il gulag da cui trasse origine il progetto di sterminio di tanti figli della grande Russia. Pagina dopo pagina, il libro ci fa entrare nella dimensione della tragedia e ciò che si avverte fin dall’inizio come ineluttabile… effettivamente si produce: dietro alla cortina fumogena dei “campi di rieducazione” si profila un mondo fatto di fame, odio, prevaricazione, banalizzazione della morte.


Ritorno in Russia


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Ritorno in Russia. Discorsi e conversazioni (1994-2008)
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«Venticinque anni fa siamo tornati in un nuovo Paese. Io incontravo quella società nella quale il volere della sorte mi aveva fatto nascere ma non crescere. Non avevo particolari associazioni d’idee col passato e neppure rappresentazioni del possibile futuro di quei luoghi. Ne facevo semplicemente la conoscenza. Ma per mio padre tutto era ovviamente molto più complicato. Nonostante la sua esperienza personale e la conoscenza del passato, sognava una Russia del futuro guarita dai suoi mali. Lo spiegava così: anche in assenza di evidenti motivi per essere ottimista, l’incontro di quell’estate con centinaia di persone gli aveva restituito forze e fede. Era tornato a casa, e la sua casa era quanto aveva di più caro. Nei successivi quattordici anni non era più uscito dai confini del Paese». Gli interventi contengono le riflessioni che Aleksandr Solzenicyn maturò negli ultimi anni della sua vita, in cui la prima e pressante preoccupazione fu tornare a parlare con la gente, ricomporre il quadro della situazione economica e sociale della Russia, per riprenderne la narrazione da dove si era interrotta.


Lo specchio del gulag in Francia e in Italia


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Lo specchio del gulag in Francia e in Italia. La ricezione delle repressioni politiche sovietiche tra testimonianze, narrazioni, rappresentazioni culturali (1917-1987)
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Studiare la ricezione delle repressioni politiche sovietiche come memoria europea significa scoprire le basi su cui poggia oggi questa memoria, così incerta e traballante, nonché comprendere da quali versanti si può muovere per recuperare a questa memoria il posto che le spetta all’interno della coscienza memoriale europea e, in ultima analisi, del sentire collettivo. Questo libro intende aprire una nuova prospettiva di indagine sul più longevo totalitarismo europeo. Si tratta di una prospettiva problematica e multidisciplinare, fondata su un assetto metodologico innovativo che ha al suo centro la ricerca e la ricomposizione della “traccia” della ricezione del Gulag nell’Occidente europeo. Si intende, così, aprire una riflessione che promuove la conoscenza di una memoria, quella del Gulag, come memoria identitaria europea; una memoria che stia al fianco di altre memorie del male, ufficializzate e certificate da istituzioni e tribunali internazionali, come la Shoah o il genocidio degli armeni. Il volume contiene interventi in italiano, francese e inglese.


Non dimenticatemi


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Non dimenticatemi. Le lettere dal gulag del grande matematico, filosofo e sacerdote russo
Prezzo: 14,40 €

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Rinchiuso per anni nel gulag delle isole Solovki, uno dei più terribili luoghi di repressione della dittatura staliniana, Pavel Florenskij aveva un unico contatto con il mondo esterno, la corrispondenza con moglie e figli. Nonostante le lettere venissero sottoposte a rigorosa censura, l’epistolario di padre Florenskij rappresenta un documento di particolare eccezionalità per il rilievo esistenziale e teoretico: biografia e pensiero, metafisica ed esistenza, ragione e passione si congiungono intimamente nell’esperienza tragica di un testimone tra i più autentici e radicali del nostro tempo.

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Gulag, “Glavnoe upravlenie ispravitelno-trudovych lagerej”, ovvero “Direzione principale dei campi di lavoro correttivi”, è il termine che indica la parte di polizia dell’URSS che imbastì e in gestì il complesso sistema dei campi di lavoro forzato, utilizzato in maniera estremamente estesa per reprimere, silenziare e uccidere gli oppositori politici dell’URSS.

Da alcuni dati emerge che il tasso di mortalità nei campi sovietici nell’anno prebellico era tra il 3 e il 7%, mentre durante la guerra raggiunse il 17%. Quando parliamo di utilizzo massiccio del sistema di incarceramento nei campi facciamo riferimento a numeri spaventosi: si stima infatti che il numero complessivo di detenuti fra il 1929 e il 1953 fu di circa 18 milioni.

FONTE: https://www.librinews.it/varie/libri-gulag-sovietici/

 

 

 

Il dramma dei gulag sovietici in “Quanto vale un uomo” di Evfrosinija Kersnovskaja

Mercoledì, 21 gennaio 2009

Un gulag

Debutta in libreria in anteprima mondiale da Bompiani “Quanto vale un uomo” di Evfrosinija Kersnovskaja. Il libro, autobiografia illustrata di una donna sopravvissuta ai gulag, verrà presentato a Milano il prossimo 27 gennaio 2009 – ore 18.30 presso la Feltrinelli, Piazza Piemonte, 2. Saranno presenti Elena Kostioukovitch e Vittorio Strada, mentre Igor Chapkovskij, erede dell’autrice, sarà a Milano disponibile per interviste dal 22 al 28 gennaio.

In questo volume di memorie, illustrato da centinaia di suoi disegni, Evfrosinija Kersnovskaja ripercorre la sua straordinaria vicenda umana e il suo viaggio attraverso i vari gironi del Gulag. Deportata in Siberia come molti suoi compatrioti dopo l’occupazione sovietica della Bessarabia, conosce il lavoro massacrante al taglio del bosco, le più crudeli angherie e la fame, finché si decide a fuggire.

Editoria/ Arriva in libreria “Il libro dei deportati”

Percorre così a piedi millecinquecento chilometri da sola nella tajga, prima di venire nuovamente catturata e condannata alla fucilazione. Ma la condanna è commutata in dieci anni di lager, e Kersnovskaja li sconta in diversi campi, dove lavora come muratore, veterinario, infermiera, minatore… Anche qui, incontra compagni di sventura e aguzzini, raccoglie centinaia di storie. Il libro è una testimonianza davvero unica ed estremamente convincente, anche grazie all’efficacia delle illustrazioni, della capacità dell’autrice di resistere all’orrore e conservare anche attraverso le più dure esperienze il proprio volto umano, la capacità di indignarsi e di provare compassione.

 

 

Il racconto di una vita trascorsa nel Gulag staliniano ci pone di fronte a una realtà raccapricciante che tutto sommato ci sembra di avere già conosciuto attraverso testimonianze altrettanto drammatiche. Ma Evfrosinija Kersnovskaja riesce a creare quell’impatto che fa tornare in mente, a lettura finita, innumerevoli episodi, volti, voci, con un procedimento che all’inizio del Terzo Millennio appare di stupefacente novità. Raramente le vittime di un regime totalitario hanno raccontato la loro esperienza con un gusto della narrazione e con una sensibilità estetica che non vengono meno di fronte all’orrore e all’abbrutimento. La lettura di queste pagine, illustrate dai disegni dell’autrice, cattura la nostra attenzione per l’azione in sé e per il ritmo infuso dalla vitalità della protagonista. La formula della Kersnovskaja è quella del romanzo illustrato. È nuovo il ruolo del lettore, che, quasi come in un gioco ipertestuale, entra nelle immagini, ascolta la voce narrante e partecipa alle vicende. Non esistono riprese documentarie del Gulag, tanto meno girate dalle vittime. Ma grazie a questo incomparabile “fumetto”, a distanza i settant’anni dagli eventi, dal permafrost siberiano emergono volti e voci, quasi fossero le parole surgelate di cui parla Rabelais.

Nuovissimo il tono della narratrice. Ci si aspetterebbe la voce di una vittima, di una donna che subisce, patisce, che è piccchiata, seviziata, sbattuta nelle carceri di rigore. E invece l’io narrante è quello di una vincitrice fisica e morale. Frosja (Evfrosinija) Kersnovskaja, proprietaria terriera di famiglia aristocratica russo-greca, è stata allevata nell’agiatezza, ha studiato lingue e musica, disegno artistico e materie umanistiche nei migliori ginnasi del suo tempo. Eppure in certi momenti si dichiara fiera di avere fatto a pugni con prostitute e malviventi, di avere lavorato a pari condizioni con manovali e minatori maschi, e di averli superati! Non è una donna umiliata e impaurita dalle beffe sadiche dei carcerieri. Anche quando testimonia l’umiliazione delle donne nude, calpestate, violate nella loro intimità, riporta di sfuggita le proprie esperienze, presentandosi come una fra le tante, anzi come una che forse ha sofferto meno delle altre. Per lei la cultura funziona come àncora di salvezza in termini assoluti (nella cella di rigore, d’inverno, denudata, costretta a passare la notte su un piede solo nella stanza piena di escrementi, si salva declamando ad alta voce versi del suo poeta preferito). La cultura le serve anche da magica lente d’ingrandimento, che ingigantisce nella memoria le sue esperienze private. Raccontate e illustrate, le vicende private diventano straordinarie. Nella tragedia immane, ci è dato percepire “quanto vale un uomo”, nel caso specifico, quanto vale questa donna.” Elena Kostioukovitch.

Evfrosinija Kersnovskaja (1907-1994) è nata a Odessa da padre russo, di professione giudice, e da madre greca, insegnante di lingue. Nonostante una educazione letteraria e musicale di ottimo livello e la conoscenza di almeno sei lingue, privilegia il lavoro dei campi specie dopo il trasferimento della famiglia in Bessarabia per sfuggire al regime sovietico. Deportata in Siberia come molti suoi compatrioti, è stata condannata alla fucilazione e internata nel gulag, ma ha continuato a scrivere e disegnare per raccontare la sua avventura. Al suo ritorno a casa nei primi anni Sessanta ha iniziato a riscrivere e a  ridisegnare tutto quello che non poteva certo dimenticare.

FONTE: https://www.affaritaliani.it/culturaspettacoli/libri-dramma-dei-gulag-sovietivi-in-quanto-vale-uomo210109.html?refresh_ce

La Russia di Putin divisa sul ricordo del gulag

Le porte delle celle di un gulag esposte nel museo della storia del gulag a Mosca, 21 maggio 2018. (Celestino Arce, NurPhoto/Getty Images)

Soldati dell’esercito che scavano fosse comuni per cercare di mostrare che lo stato non era responsabile dei morti. Uno storico che dissente con forza mentre si trova in prigione per accuse che molti ritengono false. Organizzazioni che lo sostengono attaccate da un potere onnipotente. Sembra un film ma è la Russia del 2020. E queste sono tre istantanee della guerra attualmente in corso su come ricordare il gulag.

Il gulag era il sistema di campi di concentramento sovietici, nel quale almeno venti milioni di persone sono state imprigionate nell’arco di più di sessant’anni. In generale il gulag indica le diverse componenti della repressione sovietica, compresi gli arresti, le esecuzioni e l’esilio forzato di migliaia di vittime mai imprigionate nei campi.

Queste dolorose memorie sono sempre state controverse. E spesso sabotate da forze che, in Russia, preferiscono che siano dimenticate. Nel corso degli anni novanta e duemila sono state mantenute vive da organizzazioni non governative, associazioni civili, e una manciata di ricercatori non sostenuti dallo stato russo, che spesso facevano affidamento su borse provenienti dall’estero. Buona parte di questo lavoro è stato condotto dall’organizzazione Memorial, con sede a Mosca.

Lo stato cambia tattica
Per fare solo alcuni esempi, Memorial ha archiviato migliaia di copie di documenti statali sul sistema dei gulag, resi pubblici all’inizio degli anni novanta dopo la caduta del comunismo, ma il cui accesso è stato poi progressivamente limitato.

Nel frattempo il museo Perm-36, che si trova nell’ex sede di un gulag vicino alla città di Perm, nel centro della Russia, è stato aperto nel 1995 grazie a pochi attivisti di Memorial che hanno deciso di restaurare a loro spese le rovine del luogo. Due anni dopo, due dirigenti regionali di Memorial, Irina Flige e Veniamin Iofe, insieme allo storico amatoriale Yuri Dmitriev, hanno scoperto una fossa comune contenente più di settemila vittime dello stalinismo a Sandormokh, in Carelia, nella Russia occidentale: una delle pochissime fosse mai portate alla luce.

Gli anni dieci di questo secolo hanno portato cambiamenti drammatici. Nel 2012 lo stato ha approvato la “legge sugli agenti stranieri”, un nuovo regime cui sono sottoposte le ong russe che ricevono fondi dall’estero e impegnate in “attività politiche”. Queste sono da allora inserite di forza in un registro degli “agenti stranieri”, soggette a regolamenti speciali, e pesantemente multate se risulta che li abbiano violati. La maggior parte delle ong impegnate a preservare la memoria del gulag è stata pesantemente colpita. Tra queste Memorial e il centro Sakharov, anch’esso con sede a Mosca.

Varie testate giornalistiche hanno condotto una campagna diffamatoria contro questi “agenti stranieri”, che hanno determinato attacchi e minacce contro ong, ricercatori e attivisti. Memorial è stata multata ai sensi di questa legge più di venti volte. Contemporaneamente in ogni angolo della Russia sono apparse statue di Stalin, mentre il consiglio di amministrazione di Perm-36 è stato sciolto dalle autorità nel 2014, e il museo è stato riformato in modo da apparire meno critico nei confronti del leader comunista.

Il caso Dmitriev
Ma il governo russo ha anche cominciato a occuparsi seriamente della memoria del gulag, e in modi apprezzabili. Ha aperto un nuovo museo della storia del gulag a Mosca, nel 2015. Nel 2017 il presidente Putin e il patriarca Kirill di Mosca hanno inaugurato un maestoso monumento alle vittime della repressione sovietica, il “muro del dolore”. È stato inoltre aperto un “fondo per la memoria” consacrato al gulag, sotto gli auspici del presidente.

Lo stato stava quindi finalmente investendo in maniera massiccia per preservare la memoria del gulag, ma le ong che se ne occupavano lottavano per sopravvivere. Poi nel dicembre 2016 Yuri Dmitriev, uno degli scopritori di Sandormokh, è stato arrestato con accuse di pedofilia.

Filo spinato esposto in una mostra sulla dichiarazione universale dei diritti umani al museo della storia del gulag a Mosca, 10 dicembre 2018. - Sergei Fadeichev, Tass/Getty Images

Filo spinato esposto in una mostra sulla dichiarazione universale dei diritti umani al museo della storia del gulag a Mosca, 10 dicembre 2018. (Sergei Fadeichev, Tass/Getty Images)

Molti attivisti e molte ong hanno sostenuto che le accuse erano false, e vari esperti hanno confermato l’innocenza di Dmitriev durante il processo. Dmitriev è stato assolto nell’aprile 2018, ma è stato arrestato di nuovo due mesi dopo, con accuse simili. L’accusa ha chiesto per lui 15 anni di detenzione in una colonia penale: quasi una condanna a morte per un uomo di 64 anni. In seguito Dmitriev è stato scagionato dalla maggior parte dei capi d’imputazione, ma condannato a tre anni e mezzo per una delle accuse di violenza sessuale: una sentenza piuttosto sorprendente, considerando che la pena minima imposta nel codice penale russo per questo reato è di 12 anni. Molti esperti ritengono che una condanna così lieve sia un chiaro segno dell’innocenza di Dmitriev, soprattuto visto che, secondo statistiche recenti, solo lo 0,36 per cento dei processi in Russia si chiude con un’assoluzione. Nelle prossime settimane potrebbe esserci un processo d’appello ma, allo stato attuale, le decine di lettere aperte d’intellettuali, attivisti e universitari russi e stranieri che chiedono la sua liberazione non hanno avuto effetto.

Far tacere il dissenso
In tutto questo alla Società storica militare russa, finanziata dallo stato, è stato concesso d’inviare dei soldati a effettuare scavi nelle fosse comuni di Sandormokh ed esumare alcuni corpi. La finalità di tale missione era dimostrare che i morti non erano vittime del gulag, ma soldati dell’armata rossa uccisi dall’esercito finlandese: una teoria ritenuta storicamente errata da decine di ricercatori.

Che lezione trarre da questi eventi contraddittori? La risposta sembra che, dopo aver ignorato ong e ricercatori per due decenni, alcune istituzioni russe hanno prima deciso di attaccarli, poi d’“invadere” uno spazio che è difficile inquadrare all’interno della retorica d’orgoglio nazionale per i grandi traguardi raggiunti dalla Russia.

Il gulag è un “tragico periodo della nostra storia” che “deve essere ricordato”, ha detto lo stesso Putin durante l’inaugurazione del muro del dolore. Tuttavia ha aggiunto che “la cosa non può portare a un regolamento di conti. Non possiamo spingere nuovamente la società verso una pericolosa linea di scontro. Oggi è importante per tutti noi fondarci su valori di fiducia e stabilità”.

A quanto pare chi dissente dalla narrativa di stato, perlopiù celebrativa, sulla storia russa è nemico di “fiducia e stabilità”. Mentre Dmitriev promuove l’idea di “stato al servizio dell’individuo, e non di individuo al servizio dello stato”.

Memorial ha pubblicato una lista di responsabili degli orrori del gulag, chiedendo giustizia per le vittime. Dalla caduta dell’Unione Sovietica infuria in Russia una guerra della memoria. Ong, ricercatori e attivisti continuano a lavorare infaticabilmente per preservare una memoria indipendente del gulag, mentre lo stato cerca di controllarla. Durante la pandemia di coronavirus, le targhe che ricordavano le vittime del massacro di prigionieri polacchi a Katyn del 1940, durante la guerra, sono state rimosse dalla città di Tver.

Eppure la memoria del gulag è più viva che mai. Questo è dovuto in parte a iniziative finanziate dallo stato. Il museo di storia del gulag, per esempio, ha promosso decine di progetti, mostre e conferenze pubbliche. E paradossalmente, grazie al caso Dmitriev, il gulag è diventato uno dei temi più pressanti nell’odierna cultura russa.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Una versione di questo articolo è uscito su The Conversation.

FONTE: https://www.internazionale.it/notizie/andrea-gullotta-2/2020/07/24/putin-storia-gulag

 

 

Pavel Florenskij, uno scienziato nei gulag staliniani
di  Anselmo Palini

 

Solo in questi ultimi anni la vicenda di Pavel Florenskij ha iniziato ad essere conosciuta in Italia per merito di alcuni appassionati traduttori e studiosi 1 . Eppure già nei primi decenni del secolo scorso diversi pensatori russi parlarono di Florenskij come di un “Pascal russo” o di un “Leonardo da Vinci della Russia”. Ci troviamo infatti di fronte ad una intelligenza straordinaria, in grado di unire le più alte speculazioni metafisiche con la matematica e l’ingegneria, la storia dell’arte con la filosofia del linguaggio, l’invenzione scientifica con la creazione artistica, la teologia con la semiotica e la simbologia. Pavel Florenskij era un uomo dalla cultura poliedrica, che riusciva a coniugare con ardite intuizioni scienza e fede, cristianesimo e cultura, vita e pensiero 2 .

Dopo la sua morte, per oltre cinquant’anni, un completo e assoluto oblio, imposto dal regime sovietico, era caduto su questo grande personaggio, come su tanti altri testimoni e intellettuali, divenuti scomodi per il potere comunista. Proprio mentre si ritenevano ormai del tutto distrutte e scomparse le principali opere scientifiche, letterarie e teologiche di Pavel Florenskij, dagli anni ’90 del secolo scorso in poi molte vicende oscure si sono chiarite, a cominciare dalla sua tragica fine; molte preziose testimonianze sono improvvisamente riaffiorate alla storia e numerosi importanti documenti sono stati trovati negli archivi dell’ex Unione Sovietica, finalmente aperti agli studiosi. Nel contempo sono state pubblicate diverse opere ormai da tempo irreperibili ed ora si sta tentando una ricognizione sistematica della sua vasta produzione 3 .

Pavel Florenskij è oggi riconosciuto come uno dei maggiori pensatori del XX secolo, dotato di una personalità davvero poliedrica: ingegnere elettrotecnico, studioso di estetica, teologo, filosofo della scienza, matematico e altro ancora. Lo stupore maggiore per chi accosta Pavel Florenskij non è dato comunque essenzialmente dalla sua opera, che attraversa con competenza e padronanza dei più svariati registri formali le molteplici forme della scienza e della conoscenza, bensì dall’integrità umana e spirituale della sua persona. Ha osservato Sergej Bulgakov nella commemorazione dell’amico scomparso: “Padre Pavel non era solo un fenomeno di genialità, ma anche un’opera d’arte. (…). L’attuale opera di padre Pavel non sono più i libri da lui scritti, le sue idee e parole, ma egli stesso, la sua vita” 4 .

Soprattutto, però, Pavel Florenskij è stato un martire della Chiesa ortodossa: ha voluto rimanere fedele fino in fondo ai grandi valori che aveva posto alla base della propria vita, rendendo così una testimonianza alla verità nel cuore della tragedia del Novecento.

In Florenskij la vita e l’opera, malgrado siano rimaste tragicamente incompiute, costituiscono un’unità indissolubile, un’unica totalità organica, una sorta di unico tessuto. Questa immagine del tessuto esprime in modo adeguato il senso dell’interazione e della connessione esistente tra l’attività teoretica e l’integrità spirituale di Pavel Florenskij. È ancora Sergej Bulgakov a dire che in lui si sono incontrate e unite Atene e Gerusalemme, ossia il rigore speculativo e scientifico e la ricerca teologica.

La figura di Pavel Florenskij è stata ricordata anche da Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et ratio (74) proprio per il modo originale e rigoroso con cui il pensatore russo ha saputo coniugare i dati della conoscenza scientifica con quelli della fede.

Florenskij “viene oggi riscoperto in gran parte d’Europa non soltanto come la punta di diamante del pensiero religioso russo del Novecento, ma anche come uno degli interlocutori privilegiati del pensiero contemporaneo, per tentare di comprendere più a fondo il destino presente e futuro della Russia, della sua cultura filosofica ed ecclesiale” 5 .

La situazione della Russia tra fine Ottocento e inizi del Novecento

L’impero russo nel corso dell’Ottocento risulta molto esteso: va dall’Europa orientale all’oceano Pacifico. Al suo interno convivono decine di popoli, con lingue e tradizioni diverse, che rivendicano da tempo autonomia e indipendenza. La Russia è governata da una monarchia assoluta, quella degli zar, che reprime ogni forma di dissenso e di opposizione, difendendo con decisione il proprio potere. Nell’Ottocento l’economia russa si basa sulla produzione agricola; l’industria è ancora molto arretrata. Nel 1861 lo zar Alessandro II abolisce la servitù della gleba, avviando anche una timida riforma agraria, che permette ai contadini di riscattare la terra che lavoravano. Non cambia molto: il 90% della terra coltivabile resta in mano alle grandi famiglie nobili, alle chiese e ai monasteri. A partire dal 1870, con il massiccio ingresso di capitali stranieri, ha notevole impulso il settore industriale, soprattutto a Mosca (per l’industria tessile), a Pietroburgo (per il settore metalmeccanico), a Baku (per i giacimenti petroliferi). La crescita dell’industria porta alla nascita di un proletariato urbano, tutto concentrato nelle poche regioni industriali del Paese, che risulterà importante nelle vicende dei primi decenni del Novecento. Oltre il 70% della popolazione attiva continua tuttavia ad essere impiegata nell’agricoltura e versa in condizioni di spaventosa arretratezza sociale ed economica. Nel 1898 viene fondato il Partito Operaio Socialdemocratico Russo, al cui interno si creano ben presto due blocchi contrapposti: i bolscevichi (termine che in russo significa “maggioranza”), guidati da Vladimir Il’ic Uljanov, che prende poi il nome di battaglia di Nicolaj Lenin, e i menscevichi (= la minoranza) con a capo Julij Osipovic Cederbaum, detto Martov. Questi due gruppi hanno obiettivi nettamente diversi: i menscevichi sostengono la necessità di realizzare una serie di riforme in campo economico e sociale, senza avanzare ipotesi rivoluzionarie e alleandosi con la borghesia; i bolscevichi intendono, tramite la rivoluzione, abbattere l’assolutismo zarista e creare uno Stato socialista in cui sia abolita la proprietà privata e posto tutto nelle mani dello Stato. Nel 1905, anche a seguito dello sforzo finanziario sostenuto per la guerra contro il Giappone, le condizioni di vita della popolazione peggiorano e ovunque scoppiano proteste. A Pietroburgo l’esercito interviene con decisione contro i manifestanti, causando oltre mille morti. La situazione precipita ulteriormente con la prima guerra mondiale. La fragile economia russa si dimostra subito non in grado di sostenere il peso di un conflitto: la necessità di aumentare le spese militari comporta un peggioramento delle condizioni di vita della popolazione. La produzione di grano diminuisce e i prezzi dei prodotti alimentari crescono. Ciò porta a nuovi scioperi e dimostrazioni. Il 23 febbraio del 1917 a Pietrogrado (ex Pietroburgo) gli operai in massa scendono in piazza. L’esercito, inviato a sedare la rivolta, si schiera dalla parte dei manifestanti. Lo zar Nicola II è costretto ad abdicare: ha termine così l’impero dei Romanoff e la Russia diviene una repubblica. Viene creato un governo provvisorio di tendenza liberale, espressione della Duma (Parlamento), presieduto dal principe Georgij L’vov, appoggiato da tutti i partiti, tranne i bolscevichi. Questo governo stabilisce la fine delle discriminazioni religiose ed etniche, concede le libertà democratiche e il suffragio universale, ma non riesce a porre rimedio ai gravi problemi economici, che hanno portato alla fame larghe fasce della popolazione. Ad agosto del 1917 la guida del governo viene affidata ad Aleksandr Kerenskij, un socialrivoluzionario moderato. Frattanto nell’aprile del 1917 Lenin era tornato dall’esilio in Svizzera e con le sue Tesi di aprile si schiera subito su posizioni radicali e rivoluzionarie, sulla base di tre obiettivi: tutto il potere ai soviet 6 ; la terra ai contadini; uscita dalla guerra e pace subito. Tra il 24 e il 25 ottobre del 1917 le guardie rosse, espressione militare dei bolscevichi, occupano prima i punti più importanti di Pietrogrado e successivamente il Palazzo d’Inverno, sede del governo. Viene creato il Soviet dei Commissari del popolo, guidato da Lenin e composto da soli bolscevichi. Per molto tempo questa presa del potere da parte dei bolscevichi guidati da Lenin è stata presentata anche sui libri di storia come un grande e positivo evento rivoluzionario. In realtà si è trattato di un atto di forza, di una presa del potere realizzata in modo violento ad opera di una minoranza ben organizzata, ma che non aveva assolutamente l’appoggio della popolazione. Questa minoranza, costituita dai bolscevichi, non godeva del sostegno neppure di tutti gli operai, di cui tramite i soviet diceva di essere espressione. Assolutamente estranea a queste vicende la gran massa dei contadini. I bolscevichi poi posero fine non al potere degli zar, che avevano già abdicato, bensì ad un governo che stava faticosamente cercando di avviare la Russia sulla strada della democrazia, il governo Kerenskij, espressione del Parlamento e delle principali forze politiche del tempo.

Il 12 novembre 1917 si svolgono le elezioni per la formazione di un’Assemblea Costituente. I risultati decretano la sconfitta dei bolscevichi, che si ritrovano così in minoranza in questo organismo. Lenin allora pensò bene di sciogliere l’Assemblea. Da questo momento in poi si pongono le basi per la realizzazione in Russia di uno stato totalitario. In breve, infatti, già con Lenin, tutto il potere viene assunto dal partito comunista formato dai soli bolscevichi, mentre le altre forze politiche vengono dichiarate fuori legge. Raggiunto il potere, i bolscevichi riterranno di essere i veri interpreti della volontà popolare e delle leggi della storia, in definitiva i depositari della verità. Non poteva dunque essere tollerato ciò che poneva ostacoli al processo rivoluzionario. Vengono chiusi tutti i giornali non bolscevichi, fra cui 205 testate socialiste. Nascono, a partire dal 1918, i primi campi di concentramento, in cui rinchiudere tutti i “nemici del popolo”, ossia gli aderenti ai partiti di opposizione, i membri della borghesia e dell’aristocrazia, gli esponenti dell’intellighenzia contrari alla rivoluzione, i soldati che disertano, i contadini ribelli, gli ecclesiastici e altre categorie di persone. Nonostante questa feroce repressione, coloro che dissentono e reclamano la libertà e la democrazia faranno comunque sempre sentire la propria voce 7 . Pavel Florenskij è tra costoro e, senza aver compiuto alcun particolare reato, si ritrova a trascorrere numerosi anni di carcere, per poi essere fucilato poiché ritenuto un “pericolo per la rivoluzione”.

L’infanzia di Pavel Florenskij

Pavel Florenskij nasce il 9 gennaio 1882 nei pressi di Evlach, in Azerbajgian. Suo padre, Aleksandr Ivanovic, è un ingegnere delle ferrovie, di cui tutti lodavano “la nobiltà, la magnanimità, la generosità, l’intelligenza e l’onestà” 8 , mentre la madre, Ol’ga Sapar’jan, di origine armena, “era alteramente timida e schiava di una rettitudine morale che rasentava l’asocialità; a stento espletava i consueti doveri sociali, le sue visite di cortesia erano quanto mai rare e non parevano nemmeno tali” 9 . A Evlach, dove è nato, Pavel Florenskij trascorre in tutto un anno e mezzo. Qui il padre è direttore della locale tratta della ferrovia transcaucasica, che fu lui a costruire. Questa cittadina si trova in piena steppa, in mezzo a villaggi di tartari e a covi di briganti. L’alloggio è un vagone merci foderato di tappeti; solo in un secondo momento hanno una baracca di lamiera.

La famiglia di Pavel Florenskij si trasferisce poi a Tbilisi, il principale centro culturale, commerciale e industriale dell’area del Caucaso, posto sulla direttrice di traffico tra mar Nero e mar Caspio. Questa città non lascerà tuttavia in Pavel un particolare ricordo: gli appare priva di vita, con un caldo che soffoca e toglie le forze. La sistemazione è comunque migliore rispetto a quella trovata a Evlach.

Pavel trascorre la prima infanzia e la giovinezza oltre che a Tbilisi, anche a Batumi, località quest’ultima posta sulle rive del mar Nero. La sua famiglia è, come molte del tempo, assai numerosa: vi sono infatti le sorelle Julia, Elizaveta, Ol’ga, Raisa e i fratelli Aleksandr e Andrej. In casa Florenskij viveva poi la sorella del padre, Julia Ivanovna, e le sorelle della madre, Raisa Pavlovna, Sofija Pavlovna, Elizaveta Pavlovna.

I genitori di Pavel fanno di tutto per isolare la propria famiglia da quanto la circonda, tagliandola fuori dall’ambiente sociale e dallo stesso passato familiare. Il padre si fa carico di tutte le difficoltà della vita, che non vuole far pesare sulla famiglia. L’infanzia di Pavel, dei suoi fratelli e delle sorelle si svolge dunque come su un’isola solitaria, in un posto desertico. Gli altri avrebbero potuto, secondo i genitori, attentare alla purezza e al rigore di quel “paradiso”, che invece va preservato dalle intemperie esterne, dal freddo e dai rapporti sociali che possono esercitare influenze negative. “A casa nostra c’era troppo calore, troppo affetto, e soprattutto troppa onestà e rettitudine. Andavamo d’amore e d’accordo. Mai una brutta parola, mai un interesse di bassa lega, mai una dimostrazione di egoismo: sempre e solo la reciproca premura di tutti verso tutti, la bontà grande e attiva di mio padre per chi ci circondava, per gli altri” 10 .

La coscienza di Pavel si abitua ben presto a questa raffinatezza e la accetta come un qualcosa di naturale. Non può essere diversamente. Le persone non possono essere altro che educate, oneste, magnanime. E il mondo intero deve essere così.

L’educazione religiosa

In casa Florenskij non vi è ostilità nei confronti della religione, ma nel contempo non se ne riconosce alcuna. “Quanto alla religione, crebbi completamente selvatico. Non mi portavano mai in Chiesa, non parlavo con nessuno di argomenti religiosi e non sapevo nemmeno come si faceva il segno della croce. Però sentivo che c’era tutto un ambito della vita, importante e misterioso, e c’erano dei gesti particolari che preservavano dalla paura. In segreto ne ero attratto, ma non li conoscevo e non osavo domandarne notizia. Captavo quel che potevo e di nascosto cercavo, come mi era possibile, di applicare le mie osservazioni. Sotto una coltre di indifferenza, il mio rapporto con la religione era fluttuante e non poteva certo essere definito distaccato. Ero combattuto fra un’appassionata attrazione e degli accessi di ostilità contro quanto non conoscevo, ma la cui realtà mi era data imperiosamente. Avevo la sensazione che quella questione a me sconosciuta andasse necessariamente chiarita e che o dovevo affermare in me Dio, con tutte le conseguenze che ne derivavano, oppure…Oppure non sapevo neanch’io che cosa significasse quell’oppure, perché l’eventualità di una semplice negazione non mi passava neanche per la testa” 11 .

I genitori di Pavel vogliono ricreare in famiglia una sorta di paradiso e i figli devono rimanere il più a lungo possibile in questo ambiente protetto. In un tale mondo familiare la religione, nelle sue diverse manifestazioni storiche, non è contemplata. Non si teorizza l’assenza di Dio, ma nemmeno si sostiene il contrario.

La madre di Pavel, che è di origine armena, teme, per vari e anche misteriosi e mai del tutto esplicitati motivi, tutto ciò che è legato all’Armenia e si chiama fuori anche dalla Chiesa armena; il padre è lontano dalla Chiesa ortodossa russa anche, ma certo non solo, per delicatezza verso la madre di Pavel e per evitare con ciò di sottolineare il suo essere russo. C’era tuttavia un profondo rispetto per le varie religioni e per i loro ministri di culto: è un riguardo dovuto al fatto di non voler assolutamente offendere l’uomo nelle sue convinzioni più profonde.

I genitori di Pavel ritengono avventato negare la religione, ma nel contempo sostengono sia impossibile separarne il fondamento reale dalle credenze storiche che si sono formate nel corso del tempo. La coscienza infantile deve crescere senza essere condizionata da alcuna religione, in modo da decidere liberamente, una volta adulta, quale strada intraprendere, senza influssi determinati fin dall’infanzia. Non c’è dunque bisogno di simboli e di puntelli artificiali; non serve una mediazione religiosa per crescere. Il vangelo del padre è il Faust di Goethe, la sua Bibbia è Shakespeare. La “religiosità” da coltivare in famiglia è quella della nobiltà, della magnanimità, della reciproca dedizione; la religione, in una sua qualsiasi determinazione storica, fa parte delle cose sconvenienti, da evitare. Di fronte alle varie credenze religiose, l’unico dogma accettato in famiglia è la coscienza della loro relatività. Il padre di Pavel coglie, in particolare del cristianesimo, il grande spessore, tuttavia ritiene che proprio una religione che diffonde l’idea della propria assolutezza non può che essere fonte di intolleranza. “Umanità: era questa la parola preferita di mio padre, quella con cui voleva rimpiazzare il dogma religioso e la verità religiosa. Nell’umanità, nella benevolenza, egli scorgeva il regolatore universale di ogni sorta di rapporti sociali e personali da sostituire alla religione, al diritto e alla morale, l’unica cosa da predicare e instillare” 12 . Il padre di Pavel ha una venerazione per la propria famiglia; ritiene che debba essere una famiglia particolare, che debba rappresentare l’inizio di una nuova era. La sua “religiosità”, se così la possiamo chiamare, ha dunque un centro ben preciso: la propria famiglia.

Una grande curiosità per la natura e la scienza

“Mi piacevano l’aria, il vento, le nuvole; mi erano vicine le rocce, sentivo spiritualmente affini i minerali, soprattutto i cristalli, amavo gli uccelli, ma più di ogni cosa le piante e il mare” 13 . Queste parole di Pavel Florenskij rappresentano molto bene una caratteristica della sua personalità, che fin da piccolo si manifesta chiaramente: una grande curiosità verso la natura. Suddivide il regno della natura in due categorie: il bello e il particolare. Ogni elemento appartiene all’una o all’altra categoria. Le passeggiate, in particolare nei dintorni di Batumi, sono occasioni per un’osservazione ininterrotta e per una continua scoperta. Un interesse sempre vivo anima Pavel Florenskij. “Della mia infanzia mi è rimasta la sensazione di non essere mai, o quasi mai, giunto ad uno stato di quiete; la frenesia non mi abbandonava mai per tutta la giornata, durante la quale o parlavo senza sosta oppure dentro di me era tutto un cantare e uno sgorgare di suoni estatici. Non credo che si trattasse della normale vivacità di un bambino. Evidentemente nel mio cervello accadeva qualcosa se non di strano, quanto meno di insolito, che mi procurava non poche sofferenze. Ricordo bene le emicranie iniziate sin dalla più tenera età e che sarebbero cessate solo verso i dieci anni, se non vado errato, e che in parte possono essere paragonate alla stanchezza che si prova quando si è giunti alla fine di un prolungato e intenso lavoro mentale. (…). Qualunque fosse stata la causa, tuttavia, tutto ciò che veniva dalla natura mi interessava e non dava un attimo di tregua alla mia mente” 14 .

Ben presto Pavel Florenskij sviluppa una grande attrazione e curiosità anche per la musica. A suo tempo la madre di Pavel aveva studiato canto, entrando nel Conservatorio di Lipsia, nelle classi di canto e pianoforte, ma poi per motivi di salute aveva dovuto interrompere questi studi. Anche alcune cugine di Pavel, particolarmente dotate in campo musicale, avevano dovuto interrompere le proprie esibizioni proprio per motivi di salute. C’era poi una persona leggendaria, Aleksandra Gotlibovna Pekok, una lontana parente, che calcava i palcoscenici della lirica e si era esibita anche in Italia. Di questa persona, per lo più avvolta nel mistero, e delle sue esibizioni si parlava in casa. Infine una zia, che viveva in casa Florenskij, studiava i classici tedeschi e così Pavel inizia ad apprezzare quelli che diverranno i suoi autori preferiti: Wolfgang Amadeus Mozart e Ludwig van Beethoven.

Già al ginnasio Pavel Florenskij è fortemente interessato alla fisica, alla geologia, all’astronomia e alla matematica. Ciò che più attira la sua attenzione sono comunque non tanto le leggi della natura, quanto le loro eccezioni, ossia l’elemento irrazionale presente anche nelle leggi apparentemente più ferree. Pavel è naturalmente portato al pensiero scientifico e ciò, secondo lui, è anche un fatto ereditario, in quanto diversi familiari che lo hanno preceduto sono stati validi uomini di pensiero. Inoltre va considerato il fatto che il tipo di vita, di fatto isolato, che conduce la sua famiglia, predispone alla riflessione e allo studio. “Il giorno in cui non aggiungevo almeno qualche paragrafo alle mie Ricerche sperimentali, come mi piaceva chiamare i miei taccuini, rifacendomi all’amato Faraday 15 , o non annotavo una qualche osservazione naturalistica su certi quaderni, non scattavo qualche fotografia di carattere geologico, meteorologico o archeologico, o non scrivevo anche solo qualche pagina esponendo a grandi linee i miei esperimenti e le mie considerazioni e quel che chiamavo, sull’esempio dei fisici francesi di fine Settecento e della prima metà dell’Ottocento, mémoires, un tal giorno mi pareva perduto, perso in modo quasi criminale” 16 .

Florenskij legge tutto ciò che riesce a procurarsi di fisica e di materie affini. Molti i testi e le riviste in inglese e francese, oltre a dizionari enciclopedici in altre lingue ancora. Si costruisce lui stesso gli strumenti di cui poi ha bisogno per i vari esperimenti che conduce.

In famiglia questo interesse per la natura e per la scienza è sostenuto e stimolato. “Mio padre, la zia Julja e, più di rado, mia madre ci raccontavano e ci spiegavano ogni cosa, scacciando senza pietà il soprannaturale: nello spirito del naturalismo ogni cosa aveva una sua spiegazione schematica, semplice e comprensibile in tutto e per tutto. Nel contempo si sottolineavano la rigida logicità della natura e la continuità di tutte le sue manifestazioni” 17 .

L’assolutizzazione della scienza, propugnata dai genitori di Pavel, comporta però il rischio di un dogmatismo e di un fanatismo, ossia proprio di quegli atteggiamenti che si vogliono combattere. “I miei genitori, e soprattutto mio padre, volevano educare in me il pensiero critico, volevano recidere ogni eventualità di dogmatismo religioso e, di conseguenza, di fanatismo e di intolleranza, che secondo la profonda convinzione di mio padre era quanto di più pericoloso potesse esserci. Per estirpare da se stesso e dagli altri ogni possibile fanatismo, egli minava la foga delle convinzioni con l’assioma della relatività di ogni sapere e di ogni opinione.(…). In luogo del dogmatismo religioso universale e dell’universale intolleranza religiosa, dentro di me stava sbocciando il dogmatismo scientifico, la catechesi di una concezione scientifica del mondo, fondamentalmente innaturale, poiché il succo della scienza è decisamente l’inverso, ossia il criticismo” 18 .

Oltre la scienza. La scoperta della dimensione spirituale dell’esistenza

Il pensiero scientifico ben presto si dimostra inadeguato a rispondere alle domande di significato che Pavel Florenskij si pone sempre più fortemente. La fiducia assoluta nella scienza e l’appagamento completo, fornito inizialmente dagli studi e dagli esperimenti scientifici, vengono messi in crisi da una sensazione di incompiutezza, che occupa sempre più la mente di Florenskij. “Se prima non dormivo le notti, eccitato all’idea dell’esperimento del giorno seguente, ora che l’esperimento poteva essere davvero significativo e nuovo, che il mio orizzonte intellettuale si era ampliato e le abitudini intellettuali formate, ora esso era diventato un’incombenza riconducibile più che altro al senso del dovere e che solo a sprazzi riaccendeva l’entusiasmo. Sentivo la fisica e quanto a essa connesso come un abito non mio o come una pelle morta che ormai si era staccata da me. Ma non osavo confessare a me stesso quant’era accaduto e cercavo di convincermi che si trattava di uno stato d’animo temporaneo” 19 .

Un’esperienza che influenza molto questo cammino di chiarimento interiore di Pavel Florenskij è la visita alle rovine della cattedrale di Bagrat, dove più volte si reca con suo padre. Quella grande Chiesa, con le volte crollate, con massi sparsi dappertutto, con i mastodontici capitelli, conferma in Florenskij la convinzione dell’esistenza di una vita spirituale che neppure il tempo e le devastazioni hanno potuto cancellare. “Tra quelle rovine nulla mi ricordava la visione del mondo con cui lottavo dentro di me; anzi, quei muri cadenti emanavano gli effluvi spirituali di un’altra cultura, alla quale, senza rendermene conto, io tendevo con tutta l’anima. Quelle pietre vivevano e continuavano a vivere, e io non potevo non sentire le forze spirituali che vi aleggiavano e che di sé dicevano, in beffa alla fisica, molto più di quanto si potesse dire con elucubrazioni filosofiche e teologiche. Lì la mia educazione natural–scientifica officiava, come officiò molte altre volte in seguito, una liturgia contro il pensiero scientifico che avrebbe dovuto onorare: mi costringeva a fare i conti con quanto recepito senza mediazioni di sorta più che per il tramite di concetti astratti. Compresa l’indubbia per me, seppur incompatibile con la fisica, vita spirituale di quelle rovine, in armoniosa unione con la vita della natura” 20 .

Importante nel cammino che porta Florenskij alla scoperta di una dimensione religiosa dell’esistenza, ormai non più ignorabile, è la ricerca filosofica sul problema del simbolo in generale e successivamente del simbolo trinitario in particolare. “ Per tutta la vita ho riflettuto su un solo problema, il problema del simbolo. (…). Il positivismo mi disgustava, ma non meno mi disgustava la metafisica astratta. Io volevo vedere l’anima, ma volevo vederla incarnata. Qualcuno vorrà chiamarlo materialismo. Non si tratta però di materialismo, ma della necessità del concreto o simbolismo. Sono sempre stato un simbolista. (…). Era mio desiderio conoscere il mondo proprio in quanto incognito, senza violare il suo mistero, ma spiandolo. E il simbolo era spiare il mistero. Poiché dai simboli il mistero del mondo non viene celato, ma anzi rivelato nella sua vera sostanza, cioè in quanto mistero” 21 . Sotto la maschera del visibile si cela sempre, per Florenskij, una realtà invisibile. La vera conoscenza non può che partire dalla chiara percezione di questo mistero, che abbraccia ogni relazione con il mondo. C’è sempre “un al di là” rispetto a ciò che noi percepiamo. Qui si inserisce per Florenskij la fondamentale realtà del simbolo: l’azione personale, la relazione con la natura e con il mondo acquisiscono il loro vero significato in quanto espressione e incarnazione di una realtà eccedente, di un altro mondo, dunque in quanto simbolo. A fronte pertanto delle posizioni positivistiche allora ancora dominanti e della visione scientifico – naturalistica, Florenskij propone una concezione del simbolo che attraversa i diversi ambiti conoscitivi e permette di accostarsi all’inconoscibile, pur senza possederlo compiutamente, appunto perché mistero.

Importante per la definitiva scoperta della dimensione religiosa dell’esistenza da parte di Pavel Florenskij è l’incontro con due grandi guide spirituali: il vescovo Antonij Florensov, conosciuto nel 1903, e lo starec 22 Isidor Gruzinkij, ieromonaco presso il monastero della Trinità di San Sergio, del quale scrive anche un intenso ritratto spirituale 23 .

Il percorso scolastico e accademico

A Tbilisi, dopo gli studi primari, frequenta il ginnasio e il liceo, dove si appassionerà in particolare allo studio delle lingue classiche. In questi anni dell’adolescenza gli interessi di Pavel si indirizzano soprattutto verso le scienze naturali, la botanica, la geologia, la matematica e la fisica. La lettura dell’opera di Lev Tolstoj lo aiuterà ad abbandonare una concezione positivistica della realtà per volgersi verso una più attenta considerazione della prospettiva spirituale.

Nel 1900 si iscrive alla facoltà di Fisica e Matematica dell’Università di Mosca. Partecipa anche alle lezioni di filosofia antica e di psicologia, presso la facoltà di Storia e Filosofia. Nel 1904 si laurea in Matematica e Fisica, sotto la direzione di Nikolaj V. Bugaev, uno dei più eminenti matematici russi, tra i fondatori della “Società matematica moscovita”. Pavel Florenskij discute una tesi che suscita molta sorpresa e interesse: Sulle caratteristiche delle curve piane come luoghi di violazione del principio di continuità . Gli viene subito offerta la possibilità di continuare il lavoro di ricerca in ambito universitario. Pavel Florenskij si avvia così verso una brillante carriera accademica, ma ben presto l’abbandona per dedicarsi a tutt’altro: si iscrive infatti all’Accademia Teologica di Mosca e si pone alla ricerca delle radici della spiritualità e della tradizione teologica ortodossa. Approfondisce con particolare interesse le lingue antiche, oltre a dedicarsi con entusiasmo agli studi relativi alla Bibbia, alla liturgia, alla patristica e alla dogmatica. Pavel Florenskij non abbandona comunque i suoi interessi per la matematica, anzi cerca di indagare ancora di più il rapporto fra finito e infinito, unità e molteplicità.

In questi anni di grandi fermenti culturali, Florenskij frequenta assiduamente a Mosca un circolo letterario simbolista, occupandosi in particolare di teoria della conoscenza, di storia della filosofia, di archeologia e di cultura ebraica. Importante a questo riguardo il rapporto di amicizia che lo lega a Andrej Belyi (figlio di Bugaev), teorico del simbolismo, oltre che narratore e poeta. Scrive anche i suoi primi saggi filosofico-teologici, tra i quali Sui simboli dell’Infinito (1904) e Il concetto di Chiesa nella sacra Scrittura (1906), e il poema lirico Il Mosaico escatologico. In contrasto con la cultura del tempo, che era fortemente anticlericale, Pavel Florenskij matura un crescente interesse per la cultura religiosa.

Nel 1908 termina gli studi all’Accademia Teologica con una tesi Sulla verità religiosa, che verrà pubblicata sulla rivista “Voprosy religii”. Presso la stessa Accademia da lui frequentata gli viene poi assegnata la cattedra di Storia della Filosofia. Qui tiene lezioni e seminari dedicati in particolare a problematiche relative alla storia delle idee e della Weltanschauung.

Il 23 agosto 1909 sposa Anna M. Giacintova (1889 – 1973), da cui avrà cinque figli: Vasilij, Kirill, Ol’ga, Mikail e Marija Tinatin. Nel 1911, viene consacrato sacerdote ortodosso.

Dal 1911 al 1917 gli viene affidata la direzione redazionale della prestigiosa rivista teologica “Bogoslovkij Vestnik” (Messaggero Teologico), che contribuisce a rinnovare sia nella metodologia di lavoro che nell’orientamento teologico.

In questi anni che precedono la rivoluzione russa, Florenskij scrive numerosi saggi e pubblica due importanti volumi: La colonna e il fondamento della verità, un’opera imponente che suscita vasto interesse nella cultura russa di quegli anni e che oggi è stata riscoperta come una delle opere più significative del pensiero filosofico e teologico del Novecento; il secondo testo è Il significato dell’idealismo, dove raccoglie i suoi studi su Platone e sul rapporto “uno – molteplice”. Partecipa inoltre in modo attivo alla vita e al dibattito culturale, venendo in contatto con S. Bulgakov, N. Berdjaev e con altri importanti intellettuali e uomini di Chiesa di quel tempo 24 .

Dopo la rivoluzione russa (ottobre 1917), la vita di Florenskij cambia nettamente. Il nuovo regime professa e pratica l’ateismo. L’Accademia Teologica viene chiusa e nel contempo vengono introdotte precise forme di censura, rivolte soprattutto verso la ricerca e l’attività religiosa. Nel nuovo Paese comunista che si intende costruire, le Chiese, di qualunque confessione esse siano, devono scomparire, per lasciare il posto ad un “uomo nuovo”, nelle cui convinzioni la religione non trova spazio in quanto considerata una sovrastruttura, una forma di alienazione.

Molti intellettuali russi prendono la via dell’esilio 25 . Florenskij invece decide di rimanere in patria, a fianco della sua gente, con la speranza di riuscire a modificare, con i mezzi che ha a disposizione, i perversi meccanismi della nuova ideologia che ha preso il potere. Il regime socialista comincia a conferire nuovi incarichi a Pavel Florenskij, al fine di sfruttarne pienamente l’eccezionale competenza scientifica. Nel 1921 gli viene assegnata a Mosca una cattedra agli Atelier superiori tecnico-artistici di Stato. Viene anche incaricato di approfondire il problema dell’elettrificazione della Russia e pubblica vari contributi scientifici su questo argomento. Nello stesso tempo però Pavel Florenskij continua ad esercitare il suo ministero di sacerdote. Inoltre ai vari appuntamenti scientifici si presenta sempre rigorosamente in abito talare.

Fondamentale è in questo periodo il suo contributo scientifico alla Gravelektro (Amministrazione centrale per l’elettrificazione della Russia) e al Goeltro (Istituto Elettrotecnico di Stato), per i quali mette a disposizione le proprie capacità di ingegnere elettrotecnico e le ricerche che aveva effettuato nel campo dei materiali isolanti ed elettrici.

Fra gli anni Venti e Trenta Florenskij scrive una serie di saggi contro la campagna di dissacrazione dei luoghi e degli oggetti sacri, avviata dal nuovo regime, ed anche contro il massiccio cambiamento dei nomi delle città e delle strade, che era finalizzato a distruggere le basi storiche e religiose della cultura russa.

Le ricerche scientifiche lo portano alla pubblicazione di opere come Gli immaginari in geometria, ben presto colpita dalla censura, poiché riporta alcune tesi collegate alla concezione metafisica dello spazio presente nella Divina Commedia di Dante. Altra importante pubblicazione di questo periodo è l’opera Agli spartiacque del pensiero. Lineamenti di metafisica concreta, in cui cerca di approfondire l’elaborazione teorica e concreta dell’antropodicea. Un’importante serie di saggi verrà raccolta nell’opera L’incarnaziona della forma. Azione e strumento.

Nel 1927 Pavel Florenskij viene nominato coredattore della grande Enciclopedia tecnica, per la quale cura la stesura di ben centoventisette voci.

Dai primi arresti al gulag 26

Verso la fine degli anni Venti il potere sovietico inizia a porre in atto precise forme di persecuzione nei confronti della Chiesa ortodossa, considerata “oscurantista”. Prima della rivoluzione vi erano in Russia circa settantamila tra chiese e cappelle. Nel 1939, alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale, restavano aperte solamente un centinaio di chiese e quattro vescovi in attività.

Il monastero della Santissima Trinità di San Sergio, uno dei luoghi più significativi della spiritualità russa, viene naturalmente preso di mira. In questo monastero risiede Florenskij.

Il potere sovietico, pur interessato allo sfruttamento delle grandi competenze scientifiche di Pavel Florenskij, non può accettare il fatto che egli continui ad essere un sacerdote ortodosso e che si presenti sempre in abito talare. Non è ammissibile che un grande scienziato sia credente e per di più presbitero: “un pope” oscurantista non può essere così bravo in campo scientifico. Così nel 1928 Pavel Florenskij viene arrestato per la prima volta, in quanto considerato una minaccia per il potere sovietico. Viene condannato a tre anni di confino da scontarsi a Niznij Novgorod. Trascorre alcuni mesi in carcere, ma poi viene rilasciato grazie all’interessamento della responsabile della Croce Rossa Politica, Ekaterina Pavlovna Peskova, ex moglie di Gorkij. A questo punto ha la possibilità di andare in esilio a Parigi, ma sceglie di condividere fino in fondo il destino del suo popolo e di rimanere a fianco della sua comunità costretta a subire le stesse violenze e gli stessi soprusi. Ha scritto a questo riguardo Sergej Bulgakov: “Non è stato un caso che egli non sia partito per l’esilio, dove poteva legittimamente attendersi un brillante avvenire scientifico e forse anche la gloria, che per lui, comunque, era come se non esistessero nemmeno. Sicuramente sapeva quello che lo aspettava in patria, troppo implacabilmente lo testimoniavano i destini dei suoi connazionali, a cominciare dal bestiale assassinio della famiglia imperiale fino alle innumerevoli violenze del potere. Si può dire che la vita lo abbia posto di fronte alla scelta tra Solovski e Parigi, e che egli abbia scelto la sua patria, fosse anche Solovski, perché voleva condividere fino in fondo il destino del suo popolo. Padre Pavel non voleva e non poteva organicamente diventare un émigré, separarsi volontariamente o involontariamente dalla sua patria. Lui e il suo destino sono la gloria e la grandezza della Russia, e nello stesso tempo il suo più grande delitto” 27 .

Quando alcuni suoi studenti e amici gli chiedono un consiglio in merito alla possibilità di andare in esilio, essendo ormai evidente il clima di persecuzione e la mancanza di libertà, la risposta di Pavel Florenskij è questa: “Quelli tra voi che si sentono abbastanza forti da resistere devono restare, invece quelli che hanno timore e non si sentono saldi e sicuri possono andare” 28 .

Per alcuni anni Pavel Florenskij può continuare nelle proprie attività. Viene nominato vice-direttore di un Istituto elettrotecnico e membro della Direzione centrale per lo studio del materiale elettro-isolante. Prosegue anche la propria intensa attività di studio e ricerca, in campo filosofico, scientifico e teologico.

Il 26 febbraio 1933 padre Pavel Florenskij viene arrestato per la seconda volta, con l’accusa di far parte di un’organizzazione controrivoluzionaria. Trascorre sei mesi nel tristemente noto carcere della Lubjanka, dove è sottoposto a continue minacce e torture. Alla fine, dopo un processo farsa, di cui recentemente negli archivi dell’ex Unione Sovietica sono stati trovati vari documenti, Pavel Florenskij sceglie di autoaccusarsi, per permettere così la liberazione di altri compagni di prigionia. Il 26 luglio del 1933 è condannato a dieci anni di lavori forzati, con l’obbligo, però, di proseguire nella propria attività scientifica. L’arresto di Pavel Florenskij risponde al proposito del potere bolscevico di distruggere lo storico e profondo riferimento del popolo russo alla Chiesa, non solo con la chiusura e la distruzione dei luoghi tradizionali della fede russa, ma anche con l’arresto e l’eliminazione delle guide e dei responsabili delle varie comunità 29 . La persecuzione non si rivolge solo contro le comunità cristiane, bensì prende di mira anche tutte le altre religioni presenti nel Paese.

Nell’agosto del 1933 Pavel Florenskij viene inviato nel lager di Skovorodino, nella Siberia occidentale, ove è incaricato di condurre ricerche sul gelo perpetuo e sul suo utilizzo in campo elettrotecnico 30 . In breve tempo Pavel Florenskij realizza importanti ricerche e scoperte in merito ai liquidi anticongelanti e al permafrost.

Il 1 settembre 1934 viene trasferito nel lager delle isole Solovki, situate nel mar Bianco. Qui viene incaricato della direzione di un laboratorio per l’estrazione dello iodio e dell’agar-agar dalle alghe marine. Approfondisce anche, nonostante le terribili condizioni di lavoro e i pochi mezzi a disposizione, vari aspetti di chimica organica e di botanica.

Le isole Solovski ospitavano, prima della rivoluzione russa, un antico complesso monastico, che costituiva uno dei maggiori centri di spiritualità della Chiesa ortodossa russa 31 . Con la presa del potere ad opera dei bolscevichi, questo antico santuario, considerato dal totalitarismo comunista “simbolo di oscurantismo”, viene trasformato, a partire dal 1923, prima in un luogo di “rieducazione al lavoro”, poi in una gigantesca prigione, caratterizzata da durissime forme di repressione, che spesso sfociavano nella malattia e nella morte dei detenuti. In questo “cantiere infernale”, come molti testimoni hanno definito le isole Solovski, trovarono la morte oltre un milione di persone 32 .

Questa nuova “vocazione” delle isole Solovski, trasformate in luogo di rieducazione, viene così delineata su un giornale del tempo: “Per cinque secoli le Solovski hanno ottenebrato le menti del popolo. Oggi vi sorge un campo di concentramento, dove vengono rieducati i cittadini che hanno commesso dei crimini. Si è spento l’eco delle campane delle Solovski. Si è destata una nuova vita. Lambite dalle onde impetuose del mare, le stesse Solovski rivivono di una nuova impetuosa vita. Le Solovski sono diventate ora il sanatorio che risana le infermità del passato. Si è spenta l’eco della preghiera nella chiesa grande e solo raramente echeggiano suppliche nella chiesa del cimitero, ma del resto sono ormai pochi quelli che le ascoltano” 33 .

Dal lager, uno sguardo ecumenico

Nel libro La colonna e il fondamento della verità 34 , scritto appena prima della rivoluzione del 1917, Pavel Florenskij aveva avuto parole molto dure nei confronti della Chiesa cattolica e di quella protestante. Successivamente, soprattutto gli anni trascorsi nei lager portano Florenskij ad avere uno sguardo chiaramente ecumenico, come emerge molto bene da queste sue riflessioni: “Anche i fossati più profondi tra le religioni non possono creare tra di loro divisioni tali da rompere definitivamente la loro radicale unità.(…). Ogni confessione e ogni religione poggiano in qualche misura sull’autentica realtà spirituale e quindi non sono completamente prive della luce della verità. Per quanto possano essere grandi e profonde le differenze religiose e confessionali, esse sono comunque relative: alcune confessioni vivono in piena libertà, altre in parchi recintati, altre in cortili piccoli ma con alte mura di cinta, altre in torri auguste, altre in tende con una stretta apertura per il fumo, altre ancora non hanno sulla testa che una stretta fessura. E gli uomini che si trovano in queste differenti situazioni sono in condizioni psicologiche e fisiche differenti, e possiedono orizzonti molto diversi. Il cielo, da cui tutti ricevono luce, non appare omogeneo sulle loro teste e tuttavia è un unico cielo. Vederlo magari anche attraverso una fessura è meglio che non vedere nulla. Questo cielo è Dio. Avere una fede qualsiasi è meglio che non averne nessuna, poiché la fede dà un autentico contatto con il mondo spirituale. (…). Il mondo religioso è frantumato, soprattutto perché le religioni non si conoscono reciprocamente. Anche il mondo cristiano è frantumato per lo stesso motivo, perché le varie confessioni non si conoscono reciprocamente.Tutte occupate in una polemica che esaurisce, non hanno la forza di vivere per se stesse. (…). Se anche una minima parte dell’energia che si disperde nell’ostilità verso gli altri, fosse usata per amare se stessi, l’umanità potrebbe riposare e prosperare” 35 .

La fucilazione

Pavel Florenskij sta diventando una figura sempre più scomoda per il regime. Nonostante le persecuzioni e gli anni trascorsi in carcere, continua a professare la propria fede. Ciò è inaccettabile per il potere totalitario, poiché un grande scienziato non può essere anche un credente.

Il 25 novembre 1937 la trojka speciale della zona di Liningrado condanna Pavel Florenskij alla pena suprema, considerandolo un pericoloso controrivoluzionario e dunque una minaccia per lo Stato sovietico. Assieme ad altre cinquecento persone viene trasportato dalle isole Solovki a Leningrado (oggi san Pietroburgo): sono cinque giorni di viaggio in condizioni disumane nei cosiddetti “vagoni della morte”. In un bosco poco lontano dalla città, Pavel Florenskij viene fucilato nella notte dell’8 dicembre 1937.

Gli atti giudiziari rimarranno a lungo segreti. Solamente negli anni ’90 sarà possibile avere accesso agli archivi di stato. È così che l’11 gennaio 1990, una lettera del KGB di Mosca comunica ai familiari di Pavel Florenskij le circostanze della sua morte. Ancora oggi è sconosciuto il luogo della sepoltura. Negli ultimi anni, tuttavia, sono state scoperte nel bosco di Sandormoch, nei pressi di San Pietroburgo, delle fosse comuni di prigionieri che provenivano dalle isole Solovki. I resti di Pavel Florenskij sono probabilmente in quelle fosse comuni.

Alla notizia della sua morte, il teologo Sergej Bulgakov così lo ricorda: “Di tutti i contemporanei che ho avuto la ventura di conoscere nel corso della mia lunga vita, egli è il più grande. E tanto più grande il delitto di chi ha levato la mano su di lui, di chi lo ha condannato a una pena peggiore della morte, a un lungo e tormentoso esilio, a una lenta agonia” 36 .

Le lettere dal lager

Durante gli anni trascorsi nei lager, Pavel Florenskij riesce, due o tre volte al mese, a scrivere delle lettere ai propri familiari. Questi testi, raccolti in un volume e pubblicati in Russia solo nel maggio del 1998, rappresentano un documento eccezionale, di assoluta bellezza e intensità 37 . Si tratta della testimonianza straziante di un uomo che un potere cieco ha privato della libertà tentando, senza riuscirci, di umiliarne l’intelligenza e la fede. Pavel Florenskij, dall’inferno delle Solovki, cerca con queste sue lettere di contribuire alla crescita umana, culturale e spirituale dei figli e intende farli partecipi del suo lavoro. Si rivolge con premura e delicatezza ad ognuno di loro, cercando di stimolare lo sviluppo dei talenti e degli interessi personali di ognuno. Non smette nemmeno nel lager di proseguire nella propria attività e ricerca intellettuale, come testimoniano le lettere in cui parla di Shakespeare e di Puskin, di Bach e di Mozart, di Dostojevki e di Tolstoj. Frequenti sono anche le riflessioni sugli aspetti naturalistici e scientifici, sulla botanica, la cosmologia, la mineralogia. Nell’epistolario dal lager non emergono le posizioni teologiche e le riflessioni di Pavel Florenskij sulle varie tematiche di fede. Il freddo ed intransigente controllo della censura impediva a lui, sacerdote, di esprimere le proprie riflessioni in tal senso. Così le lettere di Florenskij rappresentano uno dei primi tentativi di riflessione teologica condotta senza far ricorso alle categorie e al linguaggio proprio di una tale attività, a partire dal paradosso di parlare di Dio senza mai nominarlo 38 . Da questo punto di vista le lettere offrono una nitida rappresentazione della tragedia vissuta dalla cristianità ortodossa sotto il dominio del totalitarismo sovietico. Dalle lettere emerge una situazione desolante, di grande sofferenza fisica e morale. Nonostante ciò, si avverte un forte radicamento spirituale che porta Pavel Florenskij a sperare contro ogni speranza e a ricercare la serenità interiore. Dalle parole di Pavel non affiora né odio né rivolta, bensì tanta amarezza, ma anche altrettanta misericordia. Pur nella consapevolezza che la fine si sta avvicinando, Pavel Florenskij respinge ogni forma di odio poiché ciò renderebbe, secondo lui, il mondo ancora più inospitale

PAVEL FLORENSKIJ

Lettere dal lager 3

18 agosto 1933

Dopo essere stato arrestato, Pavel Florenskij viene portato alla Lubjanka, il luogo di carcerazione preventiva più tristemente famoso di Mosca. Da qui inizia il suo viaggio verso i gulag della Siberia. La lettera qui riportata si riferisce proprio alla prima parte di questo viaggio.

Cara mammina 40 ,

ti scrivo da Sverdlovsk, dove ci siamo fermati, probabilmente per alcuni giorni. Il tragitto fino a Sverdlovsk non è stato facile; come sarà in seguito, non lo so. La mia destinazione è la città di Svobodnyj, nell’Estremo Oriente, ma forse da lì mi manderanno da qualche altra parte. Nel frattempo, ero molto preoccupato per la tua salute, ma dopo ho saputo da Anna che non stai male. Sono lieto d averti visto l’estate scorsa.

Ho appena appreso che partiremo da qui il 21 agosto. Negli ultimi quattro anni più volte mi sono rallegrato per Gosja 41 , poiché avrebbe dovuto soffrire troppo e non ce l’avrebbe fatta. Non ho nessuna notizia di Lilja 42 , Sura 43 e Andrej 44 . Quando scriverai loro, salutameli.

Mi dispiace molto di non avere gli occhiali e quindi di non potere vedere i paesaggi del tragitto, sebbene nel vagone detenuti, anche avendo gli occhiali, sarebbe difficile fare tali osservazioni. In viaggio tutti vengono derubati dai ladruncoli che nel vagone sono superiori di numero: per questo bisogna viaggiare avendo pochissima roba. Inoltre anche gli accompagnatori ti chiedono in dono di tutto e te lo strappano di mano. Tutti siamo affamati, cenciosi e ridotti male.

Ti bacio, cara mammina. Un saluto a Ljusja 45 e a zia Sonja.

6 ottobre 1933

Questa lettera, scritta durante la detenzione in un lager della regione Zabajkalskij, in Siberia, oltre il lago Bajkal, permette di conoscere i molteplici interessi scientifici di Florenskij, culminati in pubblicazioni o in manoscritti che stavano per essere pubblicati prima dell’arresto.

Cara Anna 46 ,

non ti ho scritto per così tanto tempo, perché non avevo soldi per comprarmi un francobollo e poi aspettavo un eventuale trasferimento in un altro posto. Attualmente, già da una settimana, vivo in un luogo nuovo, situato più verso Oriente, ma sempre in riva all’Urium. Le montagne qui sono più alte, il paesaggio più bello, ma l’ambiente è più urbano. Del resto lavoriamo la terra assieme agli udarniki 47 per cui non sto sempre chiuso in camera, ma passo circa cinque ore all’aria aperta. Il sole continua a brillare. Di notte fa molto freddo, saranno più di 30° sotto zero, ma se si sta al sole, si sta bene. Il freddo comunque qui non si sente come a Mosca: i 30° di qui corrispondono approssimativamente ai nostri 10°. È nevicato un po’ e la neve leggera ha cosparso le montagne, cosicché il loro rilievo ora si delinea in modo particolarmente evidente. Al sorgere del sole e al tramonto tutto è purpureo e purpureo-roseo. Dalle nove di mattina fino all’una o alle due di notte si lavora, ma a metà della giornata, dalle cinque alle sette, c’è un intervallo, durante il quale tutti pranzano e dormono. Non c’è un attimo per fare qualcosa in modo autonomo ed è quasi impossibile trovare tempo anche per mettersi a scrivere una lettera.

Ultimamente, prima di trasferirmi in un nuovo alloggio, dovevo camminare molto a causa del lavoro, spesso da solo. A volte seguivo le rotaie della ferrovia, altre volte i sentieri in montagna, tra polloni di larice. Qui vicino non ci sono veri boschi, ma piuttosto alberelli bassi, che crescono a fitti gruppi e che sono poco frondosi. Tuttavia, per le necessità del cantiere edile, portano da fuori grossi tronchi di larici, purpurei e violacei sotto la scorza esterna, di un colore meraviglioso. I toni violacei, rosei e purpurei sono qui preponderanti, almeno in questo periodo, cioè in autunno e in inverno, e conferiscono al paesaggio un carattere del tutto speciale.

Ora che abito nel nuovo alloggio, vedo l’ambiente naturale solo passando per strada o durante i lavori, quando facciamo gli straordinari; in genere, sto in camera a fare calcoli e a scrivere. È veramente molto difficile stare senza occhiali; qui non è possibile procurarseli. Speditemeli, come da ricetta allegata che, per ogni eventualità, riproduco qui sotto:

lenti biconcave, 4D, distanza fra i centri 62 millimetri.

È meglio prendere lenti allungate e non rotonde, ma non è indispensabile.

Ho sempre in mente tutti voi e vivo solo di questo. Sono estremamente preoccupato per non avere finora ricevuto da voi nemmeno una riga; non so come e con quali mezzi vivete. Come ho già scritto, desidererei tanto che Michail Vladimirovic pubblicasse il Dizionario dei nomi dei materiali isolanti nell’industria elettrica . Da questa pubblicazione lui e voi riceverete qualcosa. Le bozze può spedirmele per le relative correzioni(ci vorrà un mese perché arrivino qui e tornino indietro), ma non spedite il manoscritto.

Dì a Vasia di trovare i miei manoscritti:

1 – sull’asfalto di Giungar (in una cartella speciale, a Mosca);

2 – sulla capillarità del suolo: calcolo riguardante particelle elissoidali (in una cartella speciale a Mosca) e di spedirmeli. Io cercherò di completarli per la pubblicazione. Ma è necessario aggiungervi anche quei materiali che sono già pronti per questi lavori e che si trovano sempre nelle cartelle. Il primo lavoro esiste in diverse copie; non speditemele tutte. Il secondo è un manoscritto, c’è anche una tavola numerica e alcuni diagrammi.

Inoltre Vasia 48 dovrebbe dire (anche per mezzo di qualcun altro) a un impiegato del VEI 49 , K. A. Adrianov 50 , di spedirmi una copia dello scritto relativo alla re sistenza chimica dei materiali isolanti oppure di provvedere egli stesso alla pubblicazione, ma le bozze devono essere spedite a me comunque.

Un altro scritto già completo, sull’utilizzo di pellicole laccate, si trova al VEI. È necessario che sia pubblicato oppure spedito a me; una parte di questo scritto ce l’ha Kremnevskij 51 , il resto Volkenstein 52 : ci dovrebbe pensare Kremnevskij.

Un altro articolo, scritto a macchina sulla carta velina, era a Mosca, sulla mia scrivania o nella mia borsa. Là si tratta del tempo di polimerizzazione della bachelite. Dovrebbero esserci anche i disegni relativi ad esso, ma non so se siano da me o se li abbia Kremnevskij. Speditemi anche questo scritto con i disegni.

Spero, in base a quello che mi è stato detto, di essere trasferito prossimamente verso est, nella città di Svobodnyi, in cui dovrei avere la possibilità di studiare, mentre qui non ci sono né libri, né laboratori, né tempo, perché il tipo di lavoro è totalmente diverso, legato ai calcoli e cose simili. Anche se l’avevo già scritto, per ogni eventualità scrivo di nuovo sui soldi. Puoi ritirare ciò che mi spetta:

  1. alla redazione dell’Enciclopedia Tecnica;

  2. per la traduzione del libro di Stager Materiali di isolamento potrebbe farlo Michail Vladimirovic;

  3. alla cassa (di risparmio) del VEI: la procura te l’ho spedita; dovrebbe esserci una certa somma;

  4. si potrebbe forse avere qualcosa (ma penso che sia difficile) dalla redazione di “Chimplastmassy”: anche queste trattative potrebbero essere svolte da Michail Vladimirovic. La procura per ricevere questi soldi l’ho data un anno fa al redattore tecnico, ma lui, o non ha ricevuto i soldi, o non me li ha consegnati. Forse Michail Vladimirovic potrebbe parlagliene e, se lui non dà i soldi, restituisca almeno la procura. Perché sia eliminata.(…).

Come sta di salute la tua mamma e come va la mia? I figli mi ricordano ancora con amore o cominciano a dimenticarmi? Dì a Vasja che qui ho scritto un breve articolo, ma di contenuto importante, e che l’ho spedito all’Accademia delle Scienze. Questo scritto è dedicato al cosiddetto teorema dei quattro colori in cartografia.

Scrivimi come stanno i ragazzi: Vasja e Kira 53 si sono arrangiati con la camera, la roba e il mangiare? Scrivimi anche dei bambini di Olja 54 , di Mik 55 e di Tika 56 , della mamma. Un bacio forte a te, mia cara, e a tutti voi; salutami la tua mamma e Anastasia Fedorovna 57 .

12 novembre 1933

Le due lettere che seguono esprimono molto chiaramente la preoccupazione educativa che animava Pavel Florenskij. Sono infatti ricche di suggerimenti per l’educazione e l’istruzione dei propri figli.

Cara Olecka 58 ,

ho ricevuto la tua lettera e ora mi metto a risponderti. Innanzitutto, non ti preoccupare per i tuoi insuccessi a scuola: tutto andrà bene e si aggiusterà nel modo migliore. Studia con tranquillità, momento per momento, ciò che ti è accessibile; cresci, completa il tuo sviluppo e sii sicura che tutto quello che accumulerai con il tuo lavoro oggi, che sei giovane, un giorno ti servirà, anzi, succederà che ti occorrerà proprio questo sapere che ora sembra casuale. Te lo dico sulla base di una lunga esperienza di vita.

Cosa devi fare allora? Per prima cosa bisogna acquisire certe nozioni che sono necessarie indipendentemente dal mestiere che farai in seguito: lingue, letteratura, matematica, fisica e scienze naturali, disegno (almeno un po’), anche pittura e musica. Queste cose sono indispensabili in qualunque situazione di vita e qualsiasi attività si svolga. Impara ad esporre i pensieri, tuoi e quelli degli altri, impara a descrivere; acquista l’abitudine a un atteggiamento attento verso la parola, lo stile, la costruzione. È bene che tu abbia cominciato a studiare il tedesco in modo serio; non dimenticare però di studiare anche il francese: per questo leggi ogni giorno almeno una pagina, ma assolutamente a voce alta, e cerca le parole sconosciute nel vocabolario. Non è male anche leggere in francese avendo la traduzione russa del testo e confrontando cosa e come è tradotto, cogliendo i difetti della traduzione.

In generale, cerca di far sì che le lingue, quella russa come quelle straniere, siano per te un suono vivo e non solo segni sulla carta. Ricorda pertanto di leggere ad alta voce anche gli scritti russi, se non interi, almeno in parte, cogliendo la perfezione del suono e il ritmo della costruzione, sia dal punto di vista sonoro, sia da quello contenutistico ed espressivo. Leggi immancabilmente a voce alta belle poesie, soprattutto quelle di Puskin e di Tjutcev; mentre gli altri ascoltino, per imparare e riposarsi. Mi sono imbattuto qui in un volume di Puskin, dell’edizione del Polivanov. Quanto è stato bello, dopo il pranzo, in riva al fiume Urjum, leggere le poesie di Puskin a voce alta e meditare sulla somma perfezione di ogni parola, di ogni modo di dire, senza parlare della costruzione del tutto!

Per la matematica, cerca non solo di ricordare semplicemente cosa e come fare, ma anche di capirlo e di apprenderlo come si apprende un pezzo musicale. La matematica non deve essere nella mente come un peso portato dall’esterno, ma come un’abitudine del pensiero: bisogna imparare a vedere i rapporti geometrici in tutta la realtà e individuare le formule in tutti i fenomeni. Chi è capace di rispondere all’esame e di risolvere i compiti, ma dimentica il pensiero matematico quando non si parla direttamente di matematica, non ha appreso la matematica.

Mi chiedi se devi studiare la botanica. Certamente, nei limiti del tempo e delle possibilità, sforzati se non di studiare, almeno di prepararti a tali studi: guarda più spesso le illustrazioni nei testi di botanica, confrontando le piante disegnate con quelle vere, cerca di comprendere lo stile delle specie, quell’unità artistica e biologica che sta alla loro base. Devi infine a poco a poco accumulare quanti più nomi di piante, ma in modo che non siano nomi vuoti, ma salvadanai in cui si raccoglieranno le informazioni sulla vita, sulle proprietà e sull’utilità delle piante contraddistinte da questi nomi.

Tieni conto che non è bene accedere ad alcuna scienza senza un bagaglio acquisito precedentemente: ciò costringe a trascinare una zavorra morta e nociva e gli studenti, non potendola digerire subito, rimangono per sempre con le teste ingombre. Quando passeggiavamo insieme, cercavo di rivolgere la vostra attenzione sulla somiglianza di singole piante, di dirvi i nomi di alcune di esse. Ora a queste informazioni bisogna aggiungere le caratteristiche tecniche delle piante. In particolare, leggi ogni tanto la Vita delle piante di Kerner von Marilaun: lì troverai molte cose utili; non avere fretta, è meglio che tu legga a porzioni, tranquillamente, assimilando e riflettendo. È molto importante guardare le raffigurazioni della stessa pianta in diversi libri, e in genere tornare più volte alla stessa pianta per saperla riconoscere.

Un bacio a te, cara Olecka, bacia la mammina. Vivi con forza e allegria, lavora e sii sana. Tuo papà. Dì alla mamma di non preoccuparsi per me, perché trovo sempre qualcuno che ha cura di me e mi aiuta a organizzarmi col cibo e le altre cose quotidiane.

14 novembre 1933

In questa lettera Pavel Florenskij descrive l’ambiente che lo circonda. Siamo oltre il lago Bajkal, in piena Siberia, verso l’estremo confine orientale della Russia. La località si chiama Ksenievskaja ed è situata lungo la linea della ferrovia.

Caro Mik,

ho ricevuto da te una sola lettera con i tuoi voti di scuola. Mi è dispiaciuto che non mi abbia scritto niente dell’estate, cioè di come l’hai passata e di quanto hai camminato per il bosco e le paludi. I tuoi voti sono buoni, ma la geografia dovresti conoscerla particolarmente bene, visto che tu ed i tuoi fratelli siete spesso in viaggio. Leggendo i libri ed ascoltando le storie che ti capita di sentire, sarebbe bene che tu individuassi tutti i luoghi sulla carta, misurassi le distanze fra di essi, ti informassi della loro altitudine sul livello del mare e provassi a trovare qualcosa sulla loro natura e popolazione. Se ti imbatti nel nome di qualche animale o pianta, cercalo su un’illustrazione nel libro o nel Dizionario Enciclopedico. Così leggere sarà per te più interessante e anche più utile. Dovresti acquisire l’abitudine di cercare sempre tutte le informazioni che non conosci relative a ciò che hai letto.

Ho sempre il ricordo tuo, di Tika e di tutti voi. Vorrei farti vedere il fiume Urium, trasparente e pulito, i larici, i monti e i bellissimi colori del cielo e di tutto il paesaggio, soprattutto al sorgere del sole. Ti riferisco alcune informazioni sul posto in cui mi trovo: eccoti ancora qualcosa che fa parte della geografia. Mi trovo nella regione al di là del lago Bajkal, relativamente vicino all’estremo est della Russia. Ma anche questo posto è molto a Est: gli Urali, il Caucaso, tutto questo è a Ovest di noi. Anche l’India Orientale e la Persia rispetto a noi si trovano a Occidente. Il sole sorge da noi sei ore più tardi che a Zagorsk: quando vado a pranzare alle tre, tu stai andando a scuola. Quindi, trasferitomi qui, sono invecchiato di ben sei ore.

Il posto è alto, si trova a più di 1500 metri sul livello del mare. L’aria pertanto qui è lieve, il cuore batte più forte del solito e per questo si deve andare a fare pipì molto spesso: non solo io, ma tutti, ce la facciamo appena a resistere fino all’ultimo. L’aria è pulita e trasparente; anche nei gabinetti, molto sporchi, non c’è nessun puzzo, perché non avviene la fermentazione. Il clima è continentale secco, le precipitazioni sono rarissime, i cambiamenti di temperatura sono bruschi. Si dice che qui piova assai poco. E difatti finora non ho visto neanche una pioggia; la neve, sì: è nevicato per una o due notti e la neve ha coperto un po’ le montagne, con uno strato molto sottile che si vede da qualche parte. Vento non ce n’è e il fumo si leva a colonne direttamente verso l’alto: è uno spettacolo molto bello.

Di pomeriggio, al sole, fa caldo anche in questa stagione, ma di notte, dopo il tramonto, diventa freddo e gela fino a meno 30°, e dicono che d’inverno si arrivi a meno 60°. Tuttavia, per la mancanza di venti, è più facile sopportare i meno 30° di qui che i meno 15° di Zagorsk. Quando c’è il sole, basta entrare nell’ombra per avere subito freddo. Ma il cielo è quasi sempre sereno, il sole brilla dalla mattina alla sera. L’acqua nel fiume è assolutamente trasparente. Le sabbie qui sono ovunque aurifere e sulle sponde si trovano gli insediamenti dei cercatori d’oro. Sembra che i cercatori d’oro e i cacciatori siano quasi gli unici abitanti di queste zone, senza contare coloro che stanno nei lager; per il resto, il posto, soprattutto fuori dall’area della ferrovia, è del tutto disabitato. Sulle montagne crescono larici e, in parte, pini; ma nella maggior parte dei casi gli alberi sono piccoli, sono piuttosto cespugli che un bosco vero e proprio. Il larice, scorticato un po’, ha un colore purpureo di una bellezza particolare, mentre il legno, seppure non sempre, è arancione.

Ecco, caro ragazzo, ora puoi farti un’idea del luogo in cui vivo. Bisogna anche aggiungere che sulle montagne corrono capre di montagna e geiran 59 , e sembra che ci siano anche i maral 60 .

Un bacio forte al mio caro figliolo. Bacia per me la mamma, i fratelli e le sorelle. Salutami le nonne.

28 novembre 1933

Le autorità sovietiche sapevano perfettamente che Pavel Florenskij era un grande scienziato. Pertanto nei lager, che erano dei campi di lavoro, gli affidano compiti in qualche modo collegati alla sua preparazione scientifica. Così Florenskij, pur con pochi mezzi a disposizione, può continuare a studiare, ricercare e progettare. Le due lettere che seguono evidenziano come Florenskij fosse ad esempio molto interessato a trovare le modalità per sfruttare il gelo perpetuo tipico delle regioni siberiane in cui si trovava a vivere.

Ho appena saputo che è deciso il mio trasferimento per la città di Svobodnyi, e partirò domani, naturalmente se troverò posto in treno, il che non è sempre così semplice, essendo qui i treni sempre sovraccarichi.

Mi dispiace lasciare Ksenievskaja, perché mi sono già abituato alle persone e in parte anche al lavoro. Tutti però dicono che là, a Svobodnyi, ci saranno condizioni migliori per il lavoro scientifico. Forse là sono già arrivate le vostre prime lettere. Il clima a Svobodnyi è più temperato che qui, per via della minor altitudine e della vicinanza (naturalmente relativa) al mare. Secondo le proporzioni di qui, mille chilometri sono da considerarsi “vicino” e, poiché fino a Svobodnyi dovrò percorrere 1200 chilometri, diciamo che è vicino. (…).

Qui godo del sole. Ogni giorno, dal mattino presto alla sera tardi, il cielo è senza nubi e splende il sole, cosicché anche quando il gelo è forte, al sole si sta bene e tutto è pieno di luce.(…). Dicono però che anche a Svobodnyi il sole non sia meno frequente. Una persona che ci ha vissuto per tre anni mi ha assicurato che su 365 giorni 360 sono di sole. Quindi è una vera e propria stratosfera! In queste condizioni si può fare un buon lavoro sul gelo perpetuo del suolo e dei terreni, cosa che finora non è ancora stata studiata, nonostante la straordinaria importanza di questo fenomeno in tutti i campi dell’economia e in generale per la comprensione del mondo.

Quasi la metà dell’Unione Sovietica si trova nella condizione del gelo perpetuo (il 47% del territorio) e fino ad oggi non conosciamo con esattezza la frontiera della zona gelata, per non parlare delle cause, delle dinamiche, del significato e dei mezzi per lo sfruttamento del gelo o per la lotta con esso.

Ti scrivo queste cose per farti vedere le grandi possibilità di lavoro in questa regione. Già fin d’ora, pur non avendo ancora cominciato ad affrontare questi problemi, mi sembra di intravedere diverse conseguenze pratiche di questo lavoro, per l’utilizzo del gelo nel campo dell’industria elettrica, cosa che può essere importantissima per l’imminente elettrificazione di questa regione. Non preoccuparti, dunque, per me e soprattutto bada bene alla tua salute.

Ti bacio con affetto, cara mammina. Baciami Ljusja e dille di non lavorare troppo.

Tra l’altro, qui spesso incontro delle persone del Caucaso e perciò ricordo i luoghi in cui sono stato, il mare e le montagne. E siccome anche l’ambiente naturale ricorda il Caucaso, i ricordi d’infanzia mi si ripresentano particolarmente luminosi 61 .

Finisco la lettera per poterla consegnare in tempo.

Un altro bacio.

6-9 dicembre 1933

Caro Kirill,

ecco che ancora una volta ti scrivo da un posto nuovo, ossia dalla città di Svobodnyj, lungo il fiume Zeja 62 . Sono arrivato il 2 dicembre al mattino presto, ho cominciato a sistemarmi e oggi, 9 dicembre, che riprendo questa lettera, mi sono del tutto stabilito.

Sto cominciando un grande lavoro sullo studio della fisica del gelo; ora stendo un piano di lavoro e leggo la letteratura scientifica. Probabilmente, tra due mesi, da qui andrò alla Stazione di studi sul gelo, dove potrò fare degli esperimenti. Questi lavori sono ben collegati a una parte di ciò che facevo a Mosca. Spero di poter fare qualcosa di utile per lo sviluppo economico di quelle regioni il cui territorio è sempre ghiacciato, e in particolare per l’estremo est russo. Al gelo perpetuo è legata una gran quantità di fenomeni caratteristici della natura di qui.

A proposito, l’ambiente naturale di Svobodnyi non è interessante. La vasta valle del fiume Zeja è irrimediabilmente piatta e triste, spuntano solo le dune di terra sabbiosa sulle quali crescono le querce della Manciuria, che hanno l’aspetto di cespugli (così mi sono state descritte, io stesso le ho viste solo di lontano e non le conosco). Il luogo è abbastanza basso e l’aria è del tutto diversa da quella di Ksenievskaja, il cielo non è così terso, il sole è pallido e riscalda debolmente. La città è costituita da case basse di legno, piuttosto distanti una dall’altra, in vie molto larghe e lunghe. Il terreno è sabbioso e il manto di neve è talmente sottile che spesso si interrompe e lungo le strade non vedi la neve, ma la sabbia mescolata alla neve. Insomma, non c’è niente di bello o attraente.

13 ottobre 1934

Pavel Florenskij aveva potuto incontrare la moglie e i figli, per la prima e ultima volta dopo il suo arresto, agli inizi di luglio del 1934. A questo incontro fa riferimento in questa lettera.

Dopo vari trasferimenti, ora Pavel Florenskij scrive dalla città di Kem’, in riva al mar Bianco, dove si trovava un lager di smistamento. Qui venivano accolti i detenuti spediti dalle carceri della Russia per essere poi trasferiti alle isole Solovki. Il lager di Kem’ era tristemente famoso per le brutalità che venivano commesse nei confronti dei detenuti 63 .

Cara Annulja 64 ,

sono molto preoccupato per voi, perché sono ormai due mesi che non so nulla, e voi, per giunta, avete dovuto affrontare il viaggio. Prima non mi era permesso scrivere e in ogni caso non avevo niente da dire, perché non sapevo nulla di preciso. Il 16 agosto sono partito da Ruchkovo, dal 17 al 1 settembre sono rimasto recluso in un carcere di isolamento a Svobodnyj, dal 1 al 12 settembre, scortato da guardie speciali, sono andato fino a Medvezja gora, dal 12 settembre al 12 ottobre sono stato recluso in un carcere di isolamento a Medvezja gora, e il 13 sono arrivato a Kem’, dove attualmente mi trovo.

Arrivato al lager, sono stato derubato nel corso di un attacco armato ed ero sorvegliato da uomini con tre asce; ma, come vedi, mi sono salvato, anche se sono rimasto privo di vestiti e di soldi; del resto, una parte dei vestiti è già stata trovata. Durante tutto questo tempo ho sofferto fame e freddo. In generale la mia situazione era assai più grave e peggiore di quanto avessi potuto immaginare partendo dalla stazione di Skovorodino. Sarei dovuto andare alle Solovki, il che non sarebbe male, ma sono rimasto bloccato a Kem’ e sono impegnato nella riscrittura e nella compilazione delle schede di registrazione. Tutto si mette disperatamente male, ma non vale la pena di scriverne. Non c’era alcun motivo particolare per portarmi qui e ora parecchi vengono trasferiti al nord.

Un bacio forte a tutti voi, soprattutto ai ragazzi che non ho potuto vedere. Chiedi a Pavel Nikol di spedire la mia roba – biancheria intima e altro – a te e non a me, perché io non ho la possibilità di occuparmene. Vivo adesso in una baracca colossale, in una stanza enorme, insieme a persone di diverse minoranze etniche, per cui sento discorsi in tutte le lingue orientali. Non posso spedire un telegramma perché non ho soldi, per fortuna mi hanno venduto due cartoline. Sono sano, ma certamente molto dimagrito e indebolito. Kem’ è una città disgustosa: tutta piena di fango, grigia, spenta e triste. Sperare in un’attività scientifica qui è assolutamente impossibile; non solo per qualcosa di serio, ma di qualsiasi tipo.

Ho continuamente l’immagine di tutti voi davanti a me, nonostante un forte indebolimento della memoria e l’intontimento generale.

Scrivetemi all’indirizzo: Città di Kem’, 1mo punto lager del 9° reparto del canale mar Bianco – mar Baltico.

Aspetto una vostra lettera.

Scrivetemi al più presto.

Un forte bacio.

7 novembre 1934

Il 23 ottobre 1934, dopo l’attraversamento del mar Bianco, Pavel Florenskij è giunto alle isole Solovki 65 .

Sono seduto nell’ufficio e sono di turno al centralino telefonico. Voglio comunicarvi subito che ieri ho traslocato in una nuova stanza, molto più piccola, più calda e gradevole della precedente.

In occasione delle feste d’ottobre 66 è stata organizzata qui una piccola mostra di prodotti locali, soprattutto verdure e ortaggi. Nonostante la latitudine, qui si coltivano ortaggi di straordinarie dimensioni: patate, navoni, rape da foraggio e rape bianche; le carote e le rape rosse sono più piccole e meno buone; molto buono è il cavolo, anche il cavolfiore. I cereali che si trovano sono: avena, segale, frumento. Proprio ieri ho lavorato in un campo da miglioria: la torbiera di un bosco paludoso viene ora trasformata in terreno agricolo e bisogna togliere dal suolo della palude tutte le radici e accatastare i tronchi. Ieri è caduta la prima neve, che ha dato al paesaggio un aspetto migliore; il cielo invece rimane disperatamente grigio.

Da molto tempo sono arrivato alla conclusione che, nella vita, tutti i nostri desideri si realizzano, ma si realizzano con troppo ritardo e in modo irriconoscibile e caricaturale. Negli ultimi anni desideravo una vita a stretto contatto con un laboratorio e questo si è realizzato, ma a Skovorodino. Avevo intenzione di occuparmi di problemi del suolo e pure questo si è avverato, sempre lì. In passato sognavo di vivere in un monastero e adesso ci vivo, ma sulle isole Solovki. Durante l’infanzia avevo l’idea segreta di vivere su un’isola, di osservare l’alta e bassa marea e di occuparmi di alghe. Ora sono su un’isola, qui c’è sia l’alta che la bassa marea e forse presto mi occuperò di alghe. I desideri si realizzano, ma in maniera tale che non li riconosci e soltanto quando sono ormai sfumati.

Ti bacio forte, mia cara Annulja.

Non scoraggiarti, tieni alto il morale.

5 novembre 1934

Cara mammina,

finalmente mi sono giunte le vostre notizie; una cartolina da te, una lettera di Anna, un telegramma di Anna che è arrivato in ritardo e il tuo pacchetto che mi ha spedito Anna. Naturalmente ho molto gioito delle vostre lettere, sono l’unica cosa piacevole qui. Ma non mi fido troppo delle rassicurazioni che voi state bene.

La mia vita scorre in modo pressoché uguale a dopo il mio arrivo, cioè estremamente scomoda, poco confortevole e faticosa. In definitiva, la mia impressione delle isole Solovki non si è affatto attenuata, ma ha piuttosto trovato conferma. Qui non è possibile occuparsi di qualcosa di sensato. Per il momento sto apprendendo i cosiddetti lavori comuni, che cambiano giornalmente, o al più ogni due-tre giorni. In ordine cronologico ho fatto quanto segue: selezionare le patate, lavarle e sbucciarle, fare il turno al centralino, setacciare il “mangime combinato” (qualcosa come crusca per il bestiame), fare lavori di sterro, aiutare a caricare sacchi con rape bianche e rape da foraggio, accatastare le rape bianche. Tutto questo, a causa della norma di lavoro giornaliero molto elevata e delle mie scarse forze, è assai pesante per me, per non parlare poi dello spreco mortale di tempo. Forse però potrò presto avere un lavoro “in laboratorio”. Cioè, non è un vero laboratorio, ma un piccolo luogo di produzione; e sebbene non si faccia alcuna ricerca scientifica, è comunque sempre meglio che le patate.

Ti ringrazio per il pacco, che mi è stato di grande sollievo. Cerca però di fare a meno di mandarmi pacchi, sono soldi sprecati. A proposito: quando riceverete questa lettera, qui da noi già non accetteranno più i pacchi. Per favore, non inviate denaro, tanto non mi viene consegnato e qui non c’è nulla da comprare. A parte le cose che io stesso chiedo, non mandatemi nulla. Altrimenti potete star certi che tutto ciò che mi arriva sparisce immediatamente. Ora mi trovo in biblioteca, nel tempo libero preparo un catalogo dei libri stranieri. Poi mi metterò a leggere i classici francesi, per i quali nutro un vivo interesse. Naturalmente potrò leggere soltanto se troverò un luogo adatto, per il momento non ne ho. Abito in uno stanzone in cui sono sistemate cinquanta persone che non hanno niente in comune con me; questo è molto scomodo.

Scrivetemi più spesso, mi farà piacere; da me invece non aspettate lettere, perché posso scrivere una sola lettera al mese e non vi posso quindi rispondere.

Ti bacio affettuosamente, cara mammina.

Grazie che mi hai pensato.

Bacio Ljusja, salutami i fratelli e la zia Lilja.

Scrivimi sulla salute di Sasa.

Ti bacio ancora con affetto.

25 gennaio 1935

Caro Kirill,

ti ricordo spesso, soprattutto quando di sera vado a letto tardi. Ricordo con dolore di averti amareggiato, non considerando la tua età e chiedendo ciò che tu non comprendevi. Caro figliolo, come vorrei – non correggere il passato che è già passato ed è incorreggibile – ma in qualche modo risarcirtelo! Vorrei lasciarvi in eredità un nome onorabile e la consapevolezza del fatto che vostro padre ha lavorato tutta la vita disinteressatamente, senza pensare alle conseguenze del suo lavoro per la sua persona. Ma proprio per questo disinteresse ho dovuto privarvi delle comodità godute dagli altri, dei divertimenti propri della vostra età e persino della vicinanza con voi. Ora mi rattrista che da tutto questo mio impegno, anziché trarre qualche vantaggio, voi non ricaviate neanche quello che riceve la maggior parte dei vostri coetanei, nonostante che i loro genitori abbiano vissuto per se stessi.

La mia unica speranza è che tutto ciò che si fa rimane: spero che un giorno, in qualche modo pur a me sconosciuto, sarete ricompensati di tutto ciò che ho tolto a voi, miei cari. Se non fosse per voi, rimarrei in silenzio; la cosa più orribile della mia sorte è la cessazione del lavoro e la sostanziale distruzione dell’esperienza di tutta la mia vita, esperienza che è maturata solo adesso e che adesso potrebbe dare frutti autentici. Ebbene, se non fosse per voi, non mi lamenterei di aver subito questa sorte. Se la società non ha bisogno dei frutti del lavoro della mia vita rimanga pure senza di essi: bisogna ancora vedere chi subisca il maggior danno se io o la società, per il fatto che non darò ciò che potrei dare. Ma mi dispiace di non poter far voi partecipi della mia esperienza e soprattutto di non potervi accarezzare, come vorrei fare e come faccio sempre nei miei pensieri.

In gennaio ti ho scritto una lettera, ma non so se ti sia giunta. Come vivo, lo saprai dalla lettera alla nonna. Un bacio forte a te, caro. Devo finire la lettera, è ormai molto tardi e casco dalla stanchezza.

30-31 gennaio 1935

Caro Mik,

ora è notte, sono le due. Mi trovo nel laboratorio, poiché oggi per la prima volta abbiamo sperimentato l’apparecchiatura da me inventata per precipitare e filtrare lo iodio. Si tratta di un grosso impianto, dotato di due filtri, di un miscelatore elettrico e di un tubo provvisto di ventilatore, più altri dispositivi. Finora il precipitato si otteneva a mano. Ciò era faticoso per gli operai, ma soprattutto molto nocivo, dato che vengono emanati abbondanti vapori di bromo, ossidi di azoto, vapori acidi e di iodio; diventava impossibile respirare e la salute ne risentiva in modo grave. Inoltre anche il processo di precipitazione e filtrazione dello iodio, fatto a mano, non poteva essere impostato correttamente. Il dispositivo costruito qui dalle mani dei nostri operai, su mio disegno, funziona bene. Odore quasi non ce n’è, sforzi non occorre farne, tutto funziona automaticamente e non richiede che sorveglianza. A me dispiacevano sia i danni alla salute degli operai, sia lo spreco di iodio, e per questo mi sono occupato della cosa. Spero che ora tutto vada avanti bene. (…).

15 novembre 1935 – Solovki

Cara mammina,

è da tanto tempo che non ricevo lettere da te e non so bene come stai. Vasja, che probabilmente passa ogni tanto da te, non mi scrive. Anna può andare a Mosca solo raramente e Kira anche lui non mi scrive. La mia vita, esteriormente, non è male, ma interiormente sento una grande tristezza. Non ho neanche un minuto per poter stare solo con me stesso. La natura non la vedo mai e poi in questo periodo anche la natura è sempre triste, grigia e uggiosa. Quanto al lavoro, si svolge in un’atmosfera che non predispone affatto all’entusiasmo e all’attivismo. Perciò il tempo passa e io non faccio niente di fecondo; o meglio, a qualcuno ciò che faccio sarà utile, ma a me personalmente non dà niente.(…).

Vivo in uno stato di continuo torpore spirituale: è l’unico modo per sopravvivere; i giorni e le settimane si susseguono sempre uguali. Se in questo dormiveglia c’è qualcosa di vivo, sono i ricordi e i pensieri rivolti a voi, tutto il resto è illusorio e passa come un’ombra. Così sono le Solovki da ogni punto di vista: così qui sono la natura, il tempo e gli uomini. La realtà sembra un sogno e spesso mi ritrovo a pensare che, se mi sveglio, la visione si dileguerà. Lo stesso inverno qui non è un inverno vero e proprio, ma una poltiglia continua, così come l’estate non è una vera estate, ma pure una poltiglia, un po’ più calda di quella invernale.

Sono in camera. Dietro la porta, nel corridoio, è stato allestito un angolo rosso 67 . La radio è accesa, ma a causa del chiasso non si capisce che trasmissione è. Ci saranno una trentina di persone, se non di più. Chi gioca a scacchi, chi discute, cercando di gridare più forte del rumore, chi canta, chi strimpella la chitarra o qualche altro strumento. I ragazzini bisticciano, si spingono, saltano. Un baccano infernale, insomma, ma di quelli innocenti. Vedere i ragazzi è una pena, mi fanno venire in mente gli uccelli allo zoo, nonostante i loro sforzi di essere allegri. C’è anche qualcuno che si fa la barba. Altri stanno imparando il mestiere del parrucchiere e tagliano i capelli al primo che capita, a quanto pare in modo abbastanza decente. A volte la baraonda cessa in parte: cantano tutti in coro o organizzano un’orchestra di tre o quattro strumenti. La cosa riesce senza troppi intoppi. Tuttavia, intoppi o no, studiare è assolutamente impossibile, non riesco a concentrarmi neanche sulla lettere e infatti mi interrompo ad ogni frase.

A volte, purtroppo di rado, alla radio trasmettono le romanze di Schubert: E il mio canto… e altre. E allora mi ritorna in mente, in modo straordinariamente vivo, come tu le cantavi e questi ricordi si ricollegano a Batumi. È curioso che, delle impressioni di Batumi, particolarmente nitide siano le prime, di quando vivevamo accanto alla ferrovia, nei pressi del passaggio a livello, non lontano dal generatore. Vedo chiaramente di fronte a me la galleria, la casetta che il papà vi aveva costruito sopra, e la famiglia degli attori che vivevano nel cortile, quei contrabbandieri e falsari che fuggirono all’improvviso. Ricordo in maniera precisa il mio vestito da cacciatore, il negozio ‘Triandopulo’, il sapone tridas, le perle veneziane, la banchina ecc. I più piccoli dettagli mi stanno davanti agli occhi, come se tutto accadesse ora. Anche il periodo successivo della vita a Batumi lo ricordo bene, ma non in modo così chiaro.

Ti mando un grosso bacio, cara mammina.

Salutami Ljusja e la zia.

Nelle due lettere che seguono Pavel Florenskij, oltre alle preoccupazioni per la salute dei suoi cari, esprime il proprio forte rammarico per non aver potuto portare a compimento tutti gli studi scientifici che aveva avviato e che aspettavano solamente di essere conclusi, sistemati e pubblicati.

Caro Vasjuska,

sono molto preoccupato per il tuo modo errato di porti nei confronti del lavoro e della salute. Tu ti sovraffatichi e, oltre a ciò, non cerchi di recuperare le forze perdute, nutrendoti in maniera soddisfacente e al momento giusto. Innanzitutto, è possibile che tu voglia proprio ritrovarti nella situazione di Olja? Un organismo esaurito non può combattere neanche la più stupida delle malattie e tanto meno l’influenza dei nostri giorni. Dappertutto si sente parlare di complicazioni post-influenzali che possono portare all’invalidità.

Oltre a ciò, tu devi produrre qualcosa di unitario e significativo, ma perché le cose maturino occorrono tempo e tranquillità e tu non puoi continuamente sballottare, con la tua confusione, tutto ciò che hai dentro. L’incapacità di organizzare la propria vita anche per ciò che riguarda i suoi aspetti più semplici come il cibo, il sonno, il riposo, è segno o di pensieri falsi, o di confusione interiore, ma io non voglio vedere in te né una cosa né l’altra. Quante sofferenze inutili, che potrebbero facilmente essere evitate, causate alla mamma con la vostra testardaggine e sconsideratezza!

La mia vita prosegue come prima, così monotona esteriormente e così uguale di giorno in giorno, che sto perdendo la nozione del tempo. I giorni si susseguono in un baleno. D’altronde, devo dire di avere fatto parecchio, ma non sono le cose che sarei chiamato a fare e non danno quindi nutrimento diretto al pensiero, anche se arricchiscono, ma solo esteriormente. Mi sto facendo un’esperienza più solida nel settore dei colloidi e della chimica organica, in parte anche della chimica biologica, o meglio, mi sto esercitando l’occhio e mi sto facendo la mano. Mi sento più o meno in possesso di una serie di processi, di cui molti non hanno che una vaga idea.

Ma, alla mia età, è un lusso troppo grande trattare tutti i fenomeni spendendoci tempo così generosamente: sarebbe ora di trarre conclusioni, riassumere, sommare. Ma non c’è tempo neanche per esaminare con l’intensità desiderabile le opere che sto svolgendo: mi si richiede infatti di procedere alla produzione al più presto, dare al più presto più e più prodotti, anche adesso, nelle condizioni di un’officina artigianale. La quantità (questa categoria del pensiero che io odio!) uccide, perché già oggi servono chili della sostanza, per cui siamo costretti ad utilizzare tonnellate di acqua. Fin da bambino la categoria della quantità mi è stata nemica e la parola “molto” mi portava allo sconforto, o mi terrorizzava, oppure mi faceva venire l’angoscia. E la produzione tutta quanta è costruita sul “molto”.

Come sta Natasa di salute? Salutamela. Ha ricevuto la mia lettera? Un bacio forte a te, caro Vasja. Mi dispiace che tu non possa assistere alle lezioni di matematica che sto dando: credo che ti sarebbero potute essere utili.

Ti bacio ancora.

10-11 marzo 1936 – Solovki

Cara Annulja,

oggi ho ricevuto la tua lettera n. 9 del 23 febbraio 1936, la cartolina di A.I. e lo stampato (la brochure di Vernadskij) da Mik. Chiedi della mia n. 46. È una lettera, come anche le nn. 37, 42, 49, a mamma.

Sbagli a pensare che le tue lettere mi diano noia, al contrario, ciò che mi fa soffrire è pensare ai problemi che tu hai e all’assenza di gioie per te, e perciò cerco di ispirarti a utilizzare la vita al meglio.

L’opera della mia vita è distrutta e io non potrò mai, né vorrò, ricominciare dall’inizio il lavoro di cinquant’anni. Non ne avrò la volontà, perché non ho lavorato per me stesso né per il mio tornaconto, e se l’umanità, per amore della quale non ho mai conosciuto una mia vita privata, ha ritenuto possibile distruggere semplicemente ciò che era stato fatto per il suo bene e che non necessitava che degli ultimi ritocchi, ebbene tanto peggio per l’umanità. Ci provino loro a rifare ciò che hanno distrutto. Anche se in modo discontinuo, qualche libro mi arriva, e mi rendo conto che altri cercano di risolvere quelle questioni che sono già state trattate da me e da me solo, ma lo fanno alla cieca, a tentoni. Naturalmente, ciò che io ho fatto verrà, parzialmente e a poco a poco, rifatto da altri, ma ci vorranno tempo, forze, denaro e l’occasione giusta. Pertanto, distruggendo quanto era stato fatto nella scienza e nella filosofia, la gente si è punita da sé, perché dunque dovrei preoccuparmi di me stesso?

Vi penso. Lavoro sì, ma ormai su altre cose, di secondaria o perfino terziaria importanza: né le condizioni di lavoro e di vita, né l’età, e infine lo stato psicologico mi permetterebbero di occuparmi di cose di primaria importanza. Conosco abbastanza bene la storia e lo sviluppo storico del pensiero per poter prevedere che un giorno si metteranno a raccogliere i cocci di ciò che hanno distrutto. Tuttavia, questo non mi rallegra affatto, anzi mi infastidisce questa odiosa stupidità umana, che perdura fin dagli inizi della storia e sembra intenzionata a durare fino alla fine. Ma basta parlare di me, ciò non è interessante. (…).

22 novembre 1936 – Solovki

Cara Annulja,

per quanto riguarda Mik, sono sicuro in cuor mio che il suo scansare le occupazioni serie è un fenomeno temporaneo e che lui cambierà del tutto. Forse è anche meglio che egli stia di più all’aria aperta e non si affatichi troppo, visto che è sempre troppo nervoso e debole. Ciononostante, vorrei che Mik accumulasse più impressioni concrete della natura, dell’arte, della lingua. È molto importante accedere, in seguito, alle occupazioni serie, avendo già un bagaglio di percezioni e non strutturare se stessi nel vuoto e in modo astratto. Allora, se esiste questo corredo di immagini concrete, di colori, di odori, di suoni, di gusti, di paesaggi, di piante ecc., questo corredo potrà facilmente acquistare forma e produrre un terreno fermo per sistemi astratti. Se invece tale bagaglio non c’è, se un concetto non è accompagnato da un’immagine, se l’astrazione è soltanto astratta, allora è priva di qualsiasi valore e per lo sviluppo della mente è più dannosa che utile: diventa un dogma mortifero, comprime lo spirito, lo priva della libertà e della capacità creativa. Sarà un sistema nel senso brutto ella parola. Systemglaube ist Aberglaube, ha detto Novalis 68 : la fede nel sistema è superstizione.

Gli uomini dei tempi nuovi, a partire dall’epoca del Rinascimento, si sono ammalati sempre più di fede nel sistema, sostituendo erroneamente il senso della realtà con formule astratte che non hanno più la funzione di essere simboli della realtà, ma diventano un surrogato di essa. Così l’umanità si è immersa nell’illusionismo, nella perdita del contatto con il mondo e nel vuoto, il che inevitabilmente ha portato alla noia, allo sconforto, allo scetticismo corrodente, alla mancanza del buon senso. Uno schema, in quanto schema, per se stesso, se non è controllato dalla viva percezione del mondo, non può neanche essere seriamente valutato: qualunque schema può essere bello, cioè strutturato bene in se stesso. Ma la visione del mondo non è il gioco degli scacchi, non è costruire schemi a vuoto, senza avere il sostegno dell’esperienza e senza tendere risolutamente alla vita. Per quanto ingegnosamente possa essere strutturato in se stesso, senza queste basi e senza questo scopo, ogni schema è privo di valore. Ecco perché credo che sia assolutamente necessario accumulare da giovani una concreta percezione del mondo e darle forma solo a un’età più matura.

Naturalmente mi piacerebbe poter aiutare Mik ad entrare più profondamente in ciò che vede con i suoi occhi, ma questa non è la cosa più importante: spero che ce la faccia da solo a suo tempo.

Un bacio forte a te, mia cara. Ora si sta proprio male, qui: il vento soffia, sibila, ulula e raffiche fredde attraversano velocemente la stanza. Tanto più fortemente penso a voi.

3-4 gennaio 1937 – Solovski

Cara Annaluja,

avrei voluto scrivervi di notte, al momento in cui è cominciato il 1° giorno del nuovo anno, ma non è stato possibile. Ma vi ho pensati in modo particolarmente intenso e mi sono rallegrato all’idea che in quel momento voi eravate tutti assieme. Ho ricevuto la tua lettera n. 36 del 21 dicembre, e in breve tempo, il 30 dicembre. Ti rispondo secondo l’ordine della tua lettera. (…).

Mi scrivi del piccolo e di mio padre. Mi sembra, da alcune informazioni, che lui fosse sempre in ansia, anche quando io ero piccolo, e che verso la fine della vita stesse in un’ansia insormontabile per la mamma e per noi; e i tentativi di calmarlo provocavano una forte irritazione. Era una condizione morbosa, in parte provocata dalla malattia fisica, la quale a sua volta era forse aggravata dall’ansia.

Ma non indaghiamo sul futuro che a nessuno è noto. Lasciamo che il piccolo cresca circondato dall’amore e dall’affetto, che si nutra culturalmente e che viva senza conoscere preoccupazioni. Tocca a noi assumerci preoccupazioni e ansie. Infatti, l’obiettivo della vita non è quello di vivere senza ansie, ma quello di vivere decorosamente e non essere una nullità e la zavorra del proprio Paese. Se nasci in un periodo burrascoso della vita storica del tuo Paese e anche di tutto il mondo, se sono in gioco problemi mondiali, ciò, certamente, è difficile, richiede sforzi e sofferenze; ma proprio allora devi dimostrare che sei un uomo e manifestare la tua dignità. Ci sono stati infatti dei periodi calmi e pacifici. Ma la maggior parte delle persone ha forse approfittato di questi anni di calma? Certamente no, si sono invece dati alle carte, agli intrighi, al vaniloquio, hanno fatto pochissime cose degne di essere rilevate. Erano soddisfatti? No, languivano dalla noia, si tuffavano a capofitto in qualche attività, arrivavano perfino a farla finita con la vita.

Volgendomi indietro e rivedendo la mia vita (e alla mia età è particolarmente necessario farlo) non vedo in che cosa, in sostanza, dovrei cambiare la mia vita se dovessi ricominciarla da capo e nelle stesse condizioni di prima. Certo, so di aver fatto molti singolari errori, gaffe, esagerazioni; ma queste cose non mi hanno fatto deviare dalla direzione principale e quanto ad essa non ho niente da rimproverarmi. Potrei dare molto di più di ciò che ho dato, le mie energie neanche oggi sono esaurite, ma l’umanità e la società non sono tali da poter prendere da me ciò che è più valido. Non sono nato nel tempo giusto e, se parliamo di colpe, è colpa mia. Forse fra centocinquant’anni le mie potenzialità potrebbero anche essere usate meglio. Ma, considerando l’ambiente storico della mia esistenza, non sento rimorsi per la mia vita nel suo insieme. Anzi, sento piuttosto il contrario.

Mi pento (anche se questo pentimento non raggiunge la profondità) del fatto che, avendo un atteggiamento passionale rispetto al dovere, non mi sono consumato abbastanza a favore di me stesso; per “me stesso” intendo voi, che sento come una parte di me stesso: non ho saputo darvi gioia e rallegrarvi, non ho dato ai figli tutto ciò che avrei voluto dare loro.(…).

13 febbraio 1937

Cara Annulja,

ecco che di nuovo, per qualche motivo, non ricevo lettere da te; in compenso, ne ho ricevuta una dalla mamma. Naturalmente sono preoccupato, anche se inutilmente, dato che dalla mia preoccupazione voi non avete alcun vantaggio. In ogni caso è difficile restare imperturbabili non sapendo già da tempo come state.

Ora qui da noi ci sono giornate senza vento e perfino soleggiate. Ma la forza che ha avuto il vento fino al 10-11 del mese non ve la potete neppure immaginare. Se ti mettevi sottovento, ti costringeva a correre, se eri di traverso, ti buttava fuori dalla strada, ti faceva cadere e ti trascinava. Era interessante a questo proposito ricordare che sull’isola di Vrangel’, d’inverno, non si può andare da un edificio all’altro senza tenersi a delle corde tese tra di essi, altrimenti il vento strappa e porta via; la persona non riesce a tornare indietro e muore di freddo e di fame. Da noi non si arriva a questo punto; comunque è certo che non ci si può reggere sulla superficie ghiacciata.

(…). Ho ricevuto un giornale zeppo di Puskin. Fa piacere anche solo il fatto di questo interesse per Puskin. Per il nostro Paese non importa tanto ciò che si dice di lui, quanto il fatto che se ne parli; poi Puskin parlerà da sé e dirà ciò che è necessario. Ma a questo piacere si mescola l’amarezza, un’amarezza insensata, per la sorte di Puskin. Non riesco a liberarmi da questo sentimento. La definisco insensata, perché in Puskin si manifesta in fondo solo quella legge universale che vuole che si lapidino i profeti e poi si costruiscano loro i sepolcri, dopo che sono stati uccisi. Puskin non è né il primo né l’ultimo: retaggio della grandezza è la sofferenza, sofferenza che viene dal mondo esterno e sofferenza interiore, che viene da noi stessi.

Così è stato, è, e sarà. Perché sia così, è del tutto chiaro: è una sfasatura; sfasatura della società rispetto alla grandezza e sfasatura della persona rispetto alla propria grandezza; cioè, una crescita diseguale, inadeguata, e la grandezza è proprio il distinguersi dalle caratteristiche medie della società e della propria struttura, poiché anch’essa appartiene alla società. Ma noi non ci accontentiamo che si risponda alla domanda “perché?” ed esigiamo una risposta alle domande: “ a che scopo?”, “con quale fine?”.

Sì, la vita è fatta in modo che si può dare qualcosa al mondo solo pagandone poi il fio con sofferenze e persecuzioni. E più il dono è disinteressato, più crudeli sono le persecuzioni e dure le sofferenze. Tale è la legge della vita, il suo assioma di base. E anche se nel tuo intimo hai coscienza dell’irrevocabilità e dell’universalità di questa legge, quando ti scontri con la realtà, con ogni caso specifico, resti colpito come se fosse qualcosa di imprevisto e di nuovo.

Con tutto ciò, ti rendi conto che non è giusto il tuo desiderio di respingere questa legge e di sostituirla con la tranquilla aspettativa da parte dell’uomo che offre il proprio dono all’umanità; un dono che non può essere ripagato né dai monumenti, né dai panegirici dopo la sua morte, né dagli onori o dai soldi durante la vita. Al contrario, per il dono della grandezza è l’uomo che deve pagare con il proprio sangue. E la società fa di tutto perché questi doni non le siano offerti. Nessun uomo illustre ha mai potuto dare tutto ciò di cui era capace, poiché ne è stato volutamente impedito da tutto ciò e da tutti coloro che lo circondavano. E se non riescono a impedirglielo con la violenza e con le persecuzioni, si insinuano con lusinghe e regali, per corromperlo e sedurlo.

Quale dei più significativi poeti russi ha avuto una vita facile? Forse solo Zukovkij 69 , ma anche contro di lui oggi si scoprono intrighi, compresa l’accusa di aver capeggiato la rivoluzione russa. Anche i filosofi si trovano nella stessa situazione (per filosofi intendo non coloro che parlano di filosofia, ma coloro che pensano in modo filosofico), cioè sono perseguitati, circondati da ostacoli, hanno la bocca tappata. La sorte degli scienziati è di poco migliore, tuttavia solo nel caso in cui siano mediocri. Lomonosov 70 , Mendeleev 71 , Lobacevskij 72 – per non parlare poi del gran numero di innovatori del pensiero, ai quali la società non ha permesso di realizzarsi appieno (Jablockov, Kulibin, Petrov e altri) – neppure uno di loro ha percorso una via piana, con l’appoggio dei propri contemporanei e senza ostacoli, ma tutti sono stati disturbati e si è cercato in ogni maniera di frenarli.

Sono sempre stati in auge, invece, i mediocri, coloro che rubano le idee altrui e che cercano di farsi grandi; sono stati in auge perché hanno adattato e falsificato ciò che è veramente grande secondo i gusti e gli interessi materiali della società.

Qualche tempo fa ho provato invidia per Edison 73 , per il modo in cui ha potuto utilizzare il tempo e le energie, grazie al fatto che era provvisto di tutto dal punto di vista materiale e soprattutto grazie alla sua autonomia. Da noi invece il tempo passa inutilmente, lo si perde per cose di nessun conto, nonostante l’enorme dispendio di forze, e ciò perché non è possibile organizzare le cose come si vorrebbe.

Ti bacio con tanto affetto, cara Annulja.

Un altro bacio. (…).

4 aprile 1937

Cara Olen 74 ,

mi sembra di averti già scritto della Storia d’Inghilterra di David Hume che sto leggendo in una traduzione francese. Il quadro è espressivo e vivo, ma infinitamente pesante. Guerre incessanti, ora esterne, ora intestine, al cui senso e ai cui motivi non si riesce a risalire; non credo, del resto, che essi fossero noti agli stessi personaggi del XIV secolo. Ma la loro assurdità non ha affatto impedito a queste guerre di essere estremamente sanguinose: gli uni cercavano di sterminare completamente gli altri e chi non moriva in battaglia, finiva sul patibolo. E siccome trionfava ora un partito, ora l’altro, nel corso per esempio della guerra fra la Rosa Bianca e la Rosa Rossa (trent’anni) 75 , le classi superiori dell’Inghilterra furono totalmente cancellate dalla faccia della terra, senza poi parlare degli innumerevoli contadini. Il fatto che le guerre fossero immotivate lo dimostrano chiaramente i ripetuti passaggi del corpo ufficiali e delle loro truppe da una parte all’altra; quindi, non avevano nessun progetto e nessun previo interesse per l’esito finale del conflitto.

Mi stupisce l’assurdità delle azioni umane che non trovano giustificazione nemmeno nell’egoismo perché gli uomini agiscono a scapito anche dei propri interessi. Della parte morale non parlo neanche. Dappertutto spergiuro, inganno, assassini, uccisioni, servilismo, mancanza di qualsiasi principio. I legami di parentela si buttano da parte, la legge si crea e si abolisce per far piacere alla necessità del momento, e comunque non viene rispettata da nessuno. Se prendi le cronache di Shakespeare, esse solo parzialmente manifestano la verità storica, riducono gli orrori e non li caricano, come si potrebbe pensare al primo sguardo.

La mia conclusione (del resto, sono giunto ad essa già da tempo) è questa: nell’uomo c’è una carica di furore, di ira, di istinti distruttivi, di odio e di rabbia, e questa carica tende a riversarsi sulle persone circostanti, contrariamente non solo ai dettami morali, ma anche al vantaggio personale dell’individuo. L’uomo si lascia prendere dal furore per pura brutalità. Le catene di un potere duro lo trattengono fino ad un certo punto, ma poi l’uomo si ingegna a fare le stesse cose, eludendo la legge, ma in una forma più fine. Certamente non sarebbe giusto affermare che tutti siano così. Ma sono così molti, moltissimi, e col loro attivismo questi elementi rapaci dell’umanità arrivano ad occupare i posti dirigenziali della storia e costringono pure il resto dell’umanità a diventare rapace.

Ecco, cara Olen’, che cosa ho notato partendo da un caso particolare: quello dell’Inghilterra del XIV secolo. L’umanità è migliorata da allora? Ne dubito. È diventata più decente esternamente, ha rivestito la violenza di forme meno vistose, cioè quelle che non forniscono trame per tragedie ad effetto, ma la sostanza delle cose non è cambiata. (…).

13 maggio 1937 – Solovki

Caro Kirill,

su un giornale ho trovato segnalato che viene istituito un dipartimento di tecnologia delle alghe presso l’Accademia delle Scienze; la mamma, poi, mi scrive sulle conferenze di P.N. dedicate al gelo. In questa maniera mi viene tolto ciò che era il mio lavoro, in cui ho raggiunto certi risultati e nella cui preparazione ho messo tanta fatica. Ripassando nella mente la mia vita (è ora di tirare le somme), noto una serie di campi e questioni che ho iniziato io e di cui, dopo, si sono occupati tutti, o almeno tanti, mentre io o sono stato costretto ad abbandonare l’opera, o l’ho abbandonata di mia volontà, perché ho orrore di studiare problemi dei quali tutti vogliono occuparsi e cercano di impadronirsi.

Forse ti interesserà l’elenco di quelli più importanti.

In matematica : 1) I concetti matematici come elementi costitutivi della filosofia (discontinuità, funzioni…). 2) La teoria degli insiemi e la teoria delle funzioni delle variabili reali. 3) Gli immaginari geometrici. 4) L’individualità dei numeri (numero – forma). 5) Lo studio delle curve in concreto. 6) I metodi di analisi della forma.

In filosofia e storia della filosofia : 1) Le radici culturali delle origini della filosofia. 2) La base culturale e artistica delle categorie. 3) Le antinomie della ragione. 4) Lo studio storico-filologico-linguistico della terminologia. 5) Le basi materiali dell’antropodicea. 6) La realtà dello spazio e del tempo.

In critica d’arte : 1) I metodi di descrizione e datazione degli oggetti dell’arte antica russa (intaglio, articoli di gioielleria, pittura). 2) La spazialità nelle opere d’arte, in specie nelle arti figurative.

In elettrotecnica : 1) Lo studio dei campo elettrici. 2) I metodi di analisi dei materiali elettrici: la base della scienza dei materiali elettrici. 3) Il significato delle strutture dei materiali elettrici. 4) La diffusione delle resine sintetiche. 5) La diffusione e l’elaborazione degli elementi della depolarizzazione aerea. 6) Le classificazioni e la standardizzazione di materiali, elementi ecc. 7) Lo studio dei minerali di carbonio come gruppo. 8) Lo studio di una serie di rocce. 9) Lo studio sistematico della mica e la scoperta della sua struttura. 10) Lo studio di suoli e terreni. E così via.

Sono poi a parte: la fisica del gelo; l’uso delle alghe.

Avrei voluto scrivertelo in dettaglio, ma, trasferitomi nel Cremlino 76 , ho perduto un po’ i pensieri; ricordo però di aver dovuto scrivere molte cose. Vorrei una sola cosa: che voi utilizzaste almeno un po’ i miei lavori, li metteste in ordine e li faceste vostri; in essi ho messo tanto sforzo e tante riflessioni, e so che di ciascuno di essi si può fare un libro. Un’altra cosa: le osservazioni e gli esperimenti acquistano il loro senso solo quando sono formulati matematicamente. E per questo, non sempre serve una grande finezza dell’analisi, anzi, si riesce spesso ad ottenere buoni risultati con metodi primitivi. Devi pertanto abituarti a formulare i risultati di un lavoro almeno con semplici curve e con le loro equazioni.

Un bacio forte a te, caro Kira.

Anselmo Palini vive e lavora in provincia di Brescia. È docente di materie letterarie nella scuola superiore e saggista. Nei suoi studi ha approfondito soprattutto i temi della pace, dell’obiezione di coscienza, dei diritti umani, della nonviolenza. Più recentemente ha preso in esame le problematiche connesse con i totalitarismi e le dittature del XX secolo, approfondendo in particolare le testimonianze di chi si è opposto a tali sistemi. Tra i suoi ultimi libri: Testimoni della coscienza. Da Socrate ai nostri giorni (Ave, 2005); Voci di pace e di libertà. Nel secolo delle guerre e dei genocidi (Ave, 2007); Primo Mazzolari. Un uomo libero (Ave, 2009); Oscar Romero. «Ho udito il grido del mio popolo» (Ave, 2010); Sui sentieri della profezia. I rapporti fra Giovanni Battista Montini-Paolo VI e Primo Mazzolari (Messaggero, 2012);Primo Mazzolari. In cammino sulle strade degli uomini (Ave, 2012); Pierluigi Murgioni. «Dalla mia cella posso vedere il mare» (Ave, 2012); Marianella García Villas. “Avvocata dei poveri, compagna degli oppressi, voce dei perseguitati e degli scomparsi ” (Ave, 2014); Più forti delle armi. Dietrich Bonhoeffer, Edith Stein, Jerzy Popieluszko ( Ave, 2016); Una terra bagnata dal sangue. Oscar Romero e i martiri di El Salvador (Paoline 2017). È inoltre autore di articoli, saggi e inserti apparsi su varie riviste. Per saperne di più si veda il sito: www.anselmopalini.it.

1 In Italia il maggior conoscitore di Pavel Florenskij è Natalino Valentini, che, unitamente a Lubomìr Zac, ha curato, tra l’altro, la pubblicazione di Non dimenticatemi. Dal gulag staliniano le lettere alla moglie e ai figli del grande matematico, filosofo e sacerdote russo , A. Mondadori, Milano 2000 e di Ai miei figli. Memorie di giorni passati, A. Mondadori, Milano 2003. Entrambi questi testi riportano delle ampie introduzioni di Natalino Valentini. Si veda anche: N. Valentini, Pavel Florenskij, Morcelliana, Brescia 1998.

2 Dedicato interamente a Pavel Florenskij è il n. 4, luglio – agosto 2003, della rivista “Humanitas”, bimestrale di cultura dell’editrice Morcelliana di Brescia. Una delle prime introduzioni al pensiero di Florenskij è stata realizzata da Maria Giovanna Valenziano con il volume Pavel Florenskij, la luce della verità, ed. Studium, Roma 1986.

3 Una delle più importanti operazioni di recupero dell’opera di Florenskij è quella in atto presso l’editore Mysl’ di Mosca, che sta pubblicando i più significativi lavori di Florenskij. Tra le opere di Pavel Florenskij pubblicate in italiano possiamo ricordare, oltre ai due testi citati alla nota 1, le seguenti:Lo spazio e il tempo nell’arte, Adelphi, Milano 1995; Il cuore cherubico. Scritti teologici e mistici, Piemme, Casale Monferrato 1999; La colonna e il fondamento della verità, San Paolo Milano 2010; Il significato dell’idealismo, Rusconi, Milano 1999 ; Il sale della terra. Vita dello starec Isidoro, edizioni Qiqajon, Magnano 1992; La prospettiva rovesciata e altri scritti sull’arte, Gangemi, Roma 1983; Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, Milano 1977; Attualità della parola: la lingua tra scienza e mito, Guerini e associati, Milano 2013; Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 2007; L’infinito nella conoscenza, Mimesis, Milano 2014; Bellezza e liturgia. Scritti su cristianesimo e cultura, Mondadori, Milano 2010; L’arte di educare, La Scuola, Brescia 2015; Stupore e dialettica, Quodlibet, Macerata 2013; Il concetto di Chiesa nella Sacra Scrittura, San Paolo, Milano 2008.

4 S. N. Bulgakov, in Vestnik russkogo christanskogo studenceskogo dvizenija, 101-102 (1971), p. 130. Testo riportato anche da Natalino Valentini nel suo intervento su Pavel Florenskij in Credere Oggi 2/2004, edizioni Messaggero di Padova, numero monografico sui “Teologi ortodossi del XX secolo”.

5 Natalino Valentini, in Credere oggi, op. cit., pag. 49.

6 I soviet erano consigli elettivi di soldati, operai e contadini. I primi si costituirono nel 1905. All’inizio del 1917, dopo l’abdicazione dello Zar, i soviet rappresentavano un vero e proprio contropotere rispetto ai governi provvisori che si trovavano a guidare il Paese. I soviet più importanti erano quelli di Mosca e di Pietrogrado.

7 Marta Dell’Asta, Una via per incominciare. Il dissenso in Urss dal 1917 al 1990 , La Casa di Matriona, Milano 2003.

8 Pavel Florenskij, Ai miei figli. Memorie di giorni passati, A. Mondadori, Milano 2003, p. 101. Questo testo, scritto dal 7 novembre 1916 al 6 novembre 1925, ha potuto vedere la luce solo settant’anni dopo la stesura. Queste Memorie sono il frutto di un paziente lavoro, attraverso il quale Florenskij si propone di lasciare in eredità ai propri figli ciò che è essenziale per realizzare la più ardua e complessa delle opere, la costruzione della propria vita. Autorevolezza, premura e delicatezza sono i tratti salienti del tono che usa Florenskij verso i figli. Più che libro dei ricordi, questo è un libro della memoria; Florenskij, dunque, non cerca solo di evocare ciò che è accaduto nel passato e di recuperare l’esperienza sapienziale che si è accumulata nel corso del tempo, bensì anche di far percepire che la memoria è la presenza del tempo nell’eternità, è cioè simbolo di eternità. Pur essendo destinato ai figli, questo materiale autobiografico offre significative informazioni anche sulle origini e gli sviluppi delle idee – chiave che sono alla base della Weltanschauung di Florenskij.

9 Ibidem , p. 101.

10 Ibidem , p. 101.

11 Pavel Florenskij, Ai miei figli, op. cit., pp. 191 – 192.

12 Ibidem , p. 166.

13 Ibidem , p. 108.

14 Ibidem , p. 134.

15 Michael Faraday (1791 – 1867), fisico e chimico britannico. Durante la gioventù, Faraday iniziò a tenere un taccuino su cui annotava tutto ciò che destava la sua attenzione, un’abitudine che continuò per tutta la vita. Alcuni dei lavori di Faraday furono intitolati Ricerche sperimentali ed è a questi che allude Florenskij.

16 Pavel Florenskij, Ai miei figli, op. cit., pp. 245 – 246.

17 Ibidem , p. 211.

18 Pavel Florenskij, Ai miei figli, op. cit., pp. 213 – 214.

19 Ibidem , p. 275.

20 Ibidem , p. 289.

21 Idem , pp.201 – 206.

22 Lo starec, nella Chiesa ortodossa russa, era una persona di preghiera, riconosciuto dalla comunità come maestro e direttore spirituale. Di solito si trattava di un monaco.

23 Il sale della terra. Vita dello starec Isidoro , op. cit. Il monastero della Santissima Trinità di San Sergio costituiva uno dei centri più importanti della cultura religiosa russa. Qui risiedeva Florenskij con la sua famiglia quando venne arrestato per la prima volta nella primavera del 1928.

24 Pavel Florenskij è oggi considerato uno dei maggiori teologi ortodossi del secolo scorso. Al riguardo si può vedere il saggio di Natalino Valentini riportato nel numero monografico della rivista “Credere oggi” 2/2004, op. cit., dedicato appunto ai maggiori teologi ortodossi del XX secolo.

25 Per avere un’idea della vastità di questo fenomeno, basta consultare il testo di N. Struve, Soixante-dix ans d’émigration russe. 1919 – 1989, Fayard, Paris 1996. Molti di questi intellettuali fuggiti dalla Russia si distingueranno nei vari campi della vita scientifica e culturale in vari Paesi del mondo.

26 La parola gulag, dopo la pubblicazione del libro di Aleksandr Solzenicyn, è diventata l’espressione più utilizzata per indicare la repressione attuata in Unione Sovietica durante gli anni del totalitarismo comunista. Mentre il termine “lager” stava a indicare un preciso campo di concentramento, la parola “gulag” è la sigla russa di “Glavnoe Upravlenie Lagerej” – Direzione centrale dei lager, cioè dei campi di concentramento, sfruttamento e annientamento. Dall’inizio degli anni Trenta e fino alla morte di Stalin tale organismo era preposto alla direzione di tutti i lager dell’Urss. Sulla realtà dei lager e sulle drammatiche condizioni di vita si possono in particolare vedere i seguenti testi di tre intellettuali perseguitati dal regime comunista: innanzitutto la fondamentale opera di Alexander Solzenicyn, Arcipelago gulag, A. Mondadori, Milano 1973; poi di Varlam Salamov, I racconti della Kolyma, Adelphi, Milano 1995; infine di Vasilij Grossman, Vita e destino, Jaca Book, Milano 1998.

27 Testo citato da Natalino Valentini nell’introduzione a Non dimenticatemi, op. cit., pp. 21 – 22.

28 Andronik Trubacev, in The Journal of the Moscow Patriarchate, 1 (1991), p. 42.

29 Aleksandr Jakovlev, presidente della commissione per la riabilitazione delle vittime delle repressioni politiche, ha affermato che tra il 1917 e il 1980 circa duecentomila membri del clero ortodosso russo sono stati condannati a morte.

30 Mentre è ancora a Skovorodino, Florenskij riceve, nel luglio 1934, l’ultima visita dei familiari, che rimasero fino a metà agosto. Dopo questo incontro altri permessi non furono più concessi.

31 Una “Guida della Russia settentrionale” così descriveva questo luogo nel 1899: “Il viaggiatore è ripagato del suo viaggio. Davanti a lui si profila uno dei luoghi più sacri della terra russa, meta di pellegrinaggi, il monastero di Solovki. Cinte da mura fortificate in blocchi di pietra, biancheggiano chiese e celle dalle cupole e dai tetti verdi. Davanti alle mura, sulla riva, abbiamo una serie di cappelle; a sinistra del porto, l’edificio in pietra a tre piani della foresteria della Trasfigurazione, per i visitatori del santo monumento”. Testo riportato da Andrea Riccardi nel suo libro Il secolo del martirio, Mondadori, Milano 2000, pag. 35.

32 Si può vedere a questo riguardo il testo di Jurij Brodskij, Solovski le isole del martirio. Da monastero a primo lager sovietico , La Casa di Matriona, Milano 1998. Si vedano anche: F. Bigazzi , Il primo gulag. Le isole Solovski, Mauro Pagliai editore, 2017; M. Ciampa, L’epoca tremenda. Voci dal gulag delle Solovski, Morcelliana, Brescia 2010.

33 “Messaggero della Carelia” 1-2 (1925), riportato in J. Brodskij, Solovski, op. cit., pag. 132.

34 Trad. it., Rusconi, Milano 1974.

35 P. A. Florenskij, Note sull’ortodossia, in “L’altra Europa”, XVI (1991) 1 (235), pp. 26 – 31.

36 Intervento riportato da Natalino Valentini nell’introduzione a Non dimenticatemi, op. cit., p. 11.

37 Pavel Florenskij, Non dimenticatemi, op. cit.

38 Interessanti a questo riguardo le riflessioni proposte da Maria Giovanna Valenziano nel saggio Pavel Florenskij, la santità e la bellezza dal lager delle Solovki , in Natalino Valentini (a cura di), Testimoni dello spirito. Santità e martirio nel XX secolo, Paoline, Milano 2004, pp. 89 – 125. Per Maria Giovanna Valenziano tutte le lettere di Florenskij, pur senza parlare di Dio, sono intrise di pura dottrina teologica. E questo, anche e soprattutto per la forza simbolica del pensiero florenskijano.

39 Le lettere qui riportate sono tratte da Non dimenticatemi. Dal gulag staliniano le lettere alla moglie e ai figli del grande matematico, filosofo e sacerdote russo , a cura di Natalino Valentini e Lubomìr Zac, A. Mondadori, Milano 2000.

40 Ol’ga Pavlovna Florenskaja, madre di Pavel Florenskij.

41 Raisa Aleksandrovna Florenskaja, sorella minore di Pavel Florenskij, pittrice.

42 Elizaveta Aleksandrovna Konieva, sorella di Pavel Florenskij, pittrice e pedagoga.

43 Aleksandr Aleksandrovic Florenskij, fratello di Pavel Florenskij. Geologo, archeologo ed etnografo, fu arrestato nel 1937 e fucilato nel lager di Sussuman, nella regione di Magadan.

44 Andrej Aleksandrovic Florenskij, fratello di Pavel Florenskij, grande esperto di armamento militare pesante.

45 Julja Aleksandrovna Florenskaja, sorella maggiore di Pavel Florenskij, medico psichiatra.

46 Anna Michajlovna Florenskaja, moglie di Pavel Florenskij.

47 “Lavoratori d’assalto”: dalla metà degli anni Venti del secolo scorso furono così definiti coloro che svolgevano volontariamente i “lavori comunisti”, una specie di straordinari non retribuiti.

48 Vezzeggiativo del nome di Vasilij Pavlovic Florenskij, figlio primogenito di Pavel Florenskij.

49 Istituto Nazionale di Elettrotecnica, dove Pavel Florenskij lavorò dal 24 marzo 1925 come ingegnere capo del laboratorio di sperimentazione dei materiali da lui stesso creato; il 5 gennaio 1939 fu nominato vicedirettore del VEI.

50 Questo impiegato Kuz’ma Adrianovic Adrianov, chimico, riceverà il premio Stalin nel 1943 e il premio Lenin nel 1963; nel 1964 verrà nominato accademico dell’Unione Sovietica.

51 Chimico, collaboratore di Florenskij.

52 Impiegato del VEI.

53 Vezzeggiativo del nome di Kirill Pavlovic Florenskij, secondo figlio di Pavel Florenskij.

54 Vezzeggiativo del nome di Ol’ga Pavlovna Trubaceva, figlia maggiore di Pavel Florenskij.

55 Diminutivo del figlio minore di Florenskij, Michail Pavlovic.

56 Diminutivo del nome della figlia minore di Pavel Florenskij, Maria Tinatin Pavlovna.

57 Anastasia Fedorovna Chlebnikova, dentista, visse presso la famiglia di Pavel Florenskij per diverso tempo.

58 Diminutivo della figlia maggiore di Florenskij, Ol’ga Pavlovna.

59 Una specie di gazzella.

60 Cervo siberiano.

61 Pavel Florenskij trascorse la sua infanzia prima a Tbilissi, antica capitale della Georgia, poi a Batumi, città portuale sulla costa orientale del mar Nero, e più tardi di nuovo a Tbilissi, dove rimase con la sua famiglia fino al 1900, anno in cui, conclusi gli studi al liceo classico, si trasferì a Mosca per iscriversi all’università.

62 È un affluente dell’Amur.

63 “Sfiniti dal lungo viaggio, dalla minuziosa perquisizione, sconvolti dall’insolenza dei nuovi guardiani, obbedivamo in silenzio ai comandi. Era uno spettacolo barbaro vedere sacerdoti e vescovi, con la talare, anziani monaci, ragguardevoli uomini di scienza, voltare a destra e a sinistra centinaia di volte, nei ranghi, segnare il passo e marciare al comando di un mostro urlante, che per di più bestemmiava instancabilmente il nome di Dio” (testimonianza riportata in J. Brodskij, Solovki le isole del martirio. Da Monastero a primo lager sovietico, op. cit.

64 Vezzeggiativo indicante Anna Michajlovna Florenskaja, moglie di Pavel Florenskij.

65 Un detenuto, M. Nikonov, ricorda così il suo arrivo a queste isole: “Arrivammo alle Solovki senza avere alcun idea di che cosa fossero, senza sapere che si chiamavano ‘Isole delle lacrime’. Dopo l’interminabile procedura dell’accettazione e della perquisizione, come si faceva in tutte le prigioni, dopo il rituale del bagno, entrammo finalmente nella 13ma compagnia di quarantena.(…). La nostra camerata conteneva settanta uomini. Sdraiati sui pancacci, nessuno parlava. Ispira un senso di orrore il silenzio mortale di settanta uomini, istupiditi dall’accoglienza ricevuta a Kem’ e dal trasbordo nella stiva gremita fino a scoppiare, annichiliti dalla sensazione di aver toccato il fondo dell’inferno mettendo il piede alle Solovki. Probabilmente ciascuno rimuginava dentro di sé il pensiero della fine che lo attendeva. A me perlomeno si presentava in tutta la sua ineluttabilità: non mi sentivo le forze per affrontare torture bestiali come quelle che avevo patito a Kem’. E i ceckisti non nascondevano il futuro che probabilmente ci aspettava: restare qui per sempre, impantanati in queste paludi” (citato in J. Brodskij, Solovki le isole del martirio, cit., p. 62).

66 Si riferisce alle feste nella ricorrenza della Rivoluzione d’Ottobre.

67 Una sorta di circolo dove ci si poteva riunire anche informalmente per giocare e divertirsi.

68 Novalis (pseudonimo di Friedrich von Hardenberg, 1772 – 1801), poeta e filosofo tedesco, massimo esponente del preromanticismo.

69 Vasilij Andreevic Zukovskij (1783 – 1852), poeta e letterato di raffinata cultura, compose suggestive ballate e tradusse molti poeti tedeschi e inglesi. Tradusee anche l’Odissea.

70 Scienziato e scrittore russo (1711 – 1765), uno dei fondatori dell’università di Mosca.

71 Chimico russo (1834 – 1907).

72 Matematico russo (1793 – 1856), che formulò il primo sistema geometrico non euclideo.

73 Thomas Alva Edison (1847 – 1931), inventore statunitense, autodidatta, titolare di oltre 1.200 brevetti.

74 Altro vezzeggiativo del nome di Ol’ga Pavlovna Trubaceva, figlia maggiore di Pavel Florenskij.

75 La guerra delle due Rose (1455 – 1485) per il possesso del trono d’Inghilterra fu combattuta dalle case di Lancaster e di York e terminò con il matrimonio di Enrico VII Tudor (erede per via materna dei Lancaster) con Elisabetta di York.

76 Luogo all’interno del lager delle Solovki.

FONTE: http://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/articolo.aspx?id_articolo=34&tipo_articolo=d_persone&id=145

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