RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 26 OTTOBRE 2021

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RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI

26 OTTOBRE 2021

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

Se ci fate caso, la gente si rincretinisce per pochissimo, mica perché rimane vittima di chissà quali raffinatezze.

DIEGO DE SILVA, Le minime di malinconico, Einaudi, 2021, pag. 31

 

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SOMMARIO

Foto di donne afghane disinibite cercansi. Periodo 2001 – 2021
CONTRO IL PARTITO DEL “POLITICAMENTE CORRETTO”.
Green Pass, schedatura universale. Prima del fatale 2024
Green Pass, ovvero il capitalismo della sorveglianza
Green Pass e picco di vaccinazioni: Draghi ha sparato una raffica di fake news
Bomba dall’Iss: appena 3.783 i morti “solo” per Covid
AstraZeneca, se Sileri sapeva perché non ha fermato gli Open Day? Lo scoop di Report
Il governo vuole un Green pass eterno: ecco fino a quando sarà prorogato l’obbligo
Siria: contenzioso tra truppe USA e russe
La nuova e ampia nuclearizzazione della Cina
Ministra tedesca della Difesa: “La NATO sia pronta a minacciare la Russia con armi nucleari”
Etica del corrispondere
Effetto Draghi: le molte facce dell’austerità
Il mistero dei bancomat scomparsi. Ecco perchè gli ATM sono sempre meno
L’INPS ha deciso di togliere l’assegno di invalidità a migliaia di cittadini
Gli Usa hanno finanziato i peggiori criminali per anni, talebani inclusi: ora servirebbe buonsenso
CAROLA RACKETE SEGUE LE ORME DI GRETA THUMBERG
Che cos’è la “maggioranza Ursula”
La direttrice del CDC: “Potremmo aver bisogno di aggiornare la nostra definizione di ‘completamente vaccinato’”
Basta propaganda: siamo seri, almeno coi morti
Scoperto un minerale che rivoluzionerà l’energia solare, e cambierà il mondo
Il Vaticano e lo spionaggio

 

Foto di donne afghane disinibite cercansi. Periodo 2001 – 2021

Lo avete notato anche voi? Da quando le milizie talebane (per lo più foraggiate dal Pakistan) hanno sconfitto l’esercito filoamericano e ripreso il controllo dell’Afghanistan, i social ed i media online continuano a proporci foto sbiadite di donne afgane in gonna e sorridenti. Ciò che lasciano intendere è che le donne in Afghanistan prima dell’arrivo dei talebani vivessero libere e disinibite, in minigonna e con i libri in mano.

Nientepopodimenoche!

Allora uno quando vede solo foto vecchiotte e in bianco e nero che fa? Approfondisce, e poi scopre ciò che sapeva anche prima, e cioè che le donne afghane hanno avuto un periodo di liberalizzazione in alcuni periodi della storia dell’area, ma molto ristretti nel tempo e risalenti soprattutto alla dominazione sovietica. A quanto pare l’immagine più famosa che circola in rete e che ritrae tre donne in gonna corta verrebbe addirittura dall’Iran e non dall’Afghanistan. Capisco l’attitudine mediatica a mentire, ma l’Iran è un paese, mente l’Afghanistan un altro. Ad ogni buon conto è senz’altro vero che – sulla carta – le donne afghane ottennero la parità con gli uomini dopo la cacciata dei talebani e la Costituzione del 2004, però questa insistenza a veicolare immagini di donne afghane ‘libere e belle’ mi ha insospettito non poco ed ho provato a cecare in rete.

A tal proposito approfitto anche per chiedere scusa a tutti gli Umberto Eco che guidano la nazione italiana per non avere avuto il tempo di andare a Kabul negli ultimi 20 anni e dunque si, anch’io faccio parte della pletora di imbecilli che si informa in Rete e non sui famosissimi libri di storia afghana scritti a Washington…

Tornando a noi, cari amici, cosa emerge sulla condizione della donna in Afghanistan durante il periodo eccitante dell’Enduring Freedom che va dal 2001 all’inizio del 2021? Al netto dell’eliminazione del burqa, pare che i militari governativi, e quindi eterodiretti dagli americani e dal resto della coalizione, si divertissero a violentare adolescenti e bambini. Spesso maschi, quindi ai margini del dibattito sui diritti delle donne, ma a me non è parsa comunque una cosa carina. Sono maschilista?

Nel corso del 2015, su fatti avvenuti a partire dal 2010, sui tabloid  emerse la notizia che il maggiore americano Jason Brezler era stato espulso dall’esercito per aver avvertito i colleghi marines che il comandante della polizia afghana abusava sessualmente di ragazzini.

Circa due settimane dopo che il maggiore Brezler ha inviato la nota via email, uno dei ragazzi più grandi che era stato abusato dal capo della polizia Sarwar Jan, ha afferrato un fucile e ha ucciso tre marines.

Secondo quanto riportato dal Times, il maggiore Brezler e un altro marine avevano convinto le autorità afghane ad arrestare il comandante per corruzione e sostegno ai talebani e rapimento di minorenni.

i dopo, Sarwar Jan è tornato con un’altra unità, lavorando presso la Forward Operating Base (FOB) degli Stati Uniti di Delhi, nella provincia di Helmand, nel sud dell’Afghanistan.

Il maggiore Brezler – venuto a conoscenza della nuova posizione di prestigio del comandante della polizia afghana – ha allora inviato un’e-mail agli ufficiali della marina al FOB Delhi, avvertendoli di Jan e allegando un dossier su di lui.

«Il 10 agosto 2012, uno dei ragazzi abusati, un diciassettenne, ha ucciso tre marines: Lance Cpl. Gregory Buckley, 21 anni; Il sergente maggiore Scott Dickinson, 29 anni; e Cpl. Richard Rivera Jr., 20. Anche se ha subito cinque ferite da arma da fuoco, un quarto marine è sopravvissuto per miracolo».

Ma chi è sto maggiore Brezler che ha avuto l’ardire di denunciare il tutto? Un veterano dell’Iraq e dell’Afghanistan che prestava servizio in distacco nella Riserva dei Marines mentre era dipendente dei vigili del fuoco di New York: è l’unico membro del servizio americano che è stato punito nelle indagini seguite agli omicidi.

“In una delle udienze del maggiore Brezler, gli avvocati dei Marines hanno avvertito che le informazioni sulla propensione del comandante della polizia afgana ad abusare dei ragazzi erano “riservate”, ha rivelato il NYT, osservando che il Corpo dei Marines aveva avviato un procedimento per rimuovere Brezler.

Un alto funzionario del Dipartimento della Marina a seguito delle sue rivelazioni ha deciso di confermare il congedo disonorevole del maggiore Brezler per la sua gestione di “informazioni riservate”.

Traduco?

L’esercito afghano durante la simpatica e osannata enduring freedom abusava di adolescenti e quando un marine si è permesso di far notare la cosa, lo hanno subito licenziato.

Secondo il times, alle truppe statunitensi in Afghanistan era stato detto di ignorare lo stupro di minori da parte dei loro alleati afghani.

“Di notte possiamo sentirli urlare, ma non ci è permesso fare nulla al riguardo”. Questo quanto riferito ad esempio da Gregory Buckley senior, il padre di uno dei militari uccisi pe vendetta e divenuto un caso celebre in tutti gli Stati Uniti, ricordando quanto riferitogli dal figlio prima di essere ammazzato nel 2012.

“Mio figlio mi ha riferito che i suoi ufficiali gli avevano detto di guardare dall’altra parte perché è la loro cultura”

L’abuso sessuale di ragazzi afghani da parte di uomini al potere, noto come Bacha Bazi (“gioco da ragazzi”), è un’usanza secolare in Afghanistan che poco o nulla ha a che fare con i talebani.

Detto in modo più chiaro, i talebani si comportano esattamente come i loro predecessori in Afghanistan e sarebbe ora di piantarla di pensare ai diritti umani e civili come a qualcosa di definitivo e scolpito nella pietra. Ogni popolo ha la sua visione di cosa siano i diritti e, ad essere perfidi, si potrebbe persino dire che la maggior parte degli abitanti del pianeta ha un’idea sui diritti molto diversa dalla nostra. Non so se le foto delle donne in minigonna degli anni ’70 aiutino qualcuno a sentirsi migliore. Io cerco quelle dal 2001 al 2021, anni di dominazione americana, e non trovo nulla, se non articoli di abusi su minorenni.

FONTE: http://micidial.it/2021/08/foto-di-donne-afghane-disinibite-cercansi-periodo-2001-2021/

CONTRO IL PARTITO DEL “POLITICAMENTE CORRETTO”.

Il politicamente corretto è una visione del mondo che ha dato vita secondo il prof. Eugenio Capozzi a dogmi feticci, come il multiculturalismo, la rivoluzione sessuale, l’ambientalismo radicale, la concezione dell‘identità come pura scelta soggettiva (il gender).

 

La formula del «politicamente corretto» oggi abusata e logorata, ha un forte bisogno di essere chiarita, soprattutto in questi tempi. «In ogni luogo del discorso pubblico i soggetti più disparati – politici, intellettuali, giornalisti, artisti – gareggiano nel dichiararsi politicamente scorretti, intendendo con ciò ‘anticonformisti’, ovvero estranei all’ortodossia ideologica, linguistica e culturale dominante, alla quale si riferiscono con atteggiamento sarcastico, sprezzante». Soltanto però che la dottrina ufficiale del politicamente corretto secondo il professore Eugenio Capozzi, è «viva e vegeta, ed ha una forza tale da esercitare una coercizione ferrea, imponendo terminologie, erogando censure e divieti».

Pertanto di fronte a questa forza, quelli che si considerano anticonformisti, facilmente si piegano, si inchinano e si auto correggono. E i pochi che hanno il coraggio (questi si che sono i veri anticonformisti) di continuare «a sostenere tesi non allineate vengono isolati, delegittimati e le loro opinioni bollate come offensive verso specifici gruppi di persone, a volte persino come hate speech, incitamento all’odio».

Il 4 aprile scorso Alleanza Cattolica, presso il Centro culturale“Rosetum” di Milano, ha presentato il libro di Capozzi, «Politicamente corretto. Storia di un’ideologia», edito da Marsilio Editori (2018). E’ stata una serata di studio come ha precisato, Marco Invernizzi, responsabile nazionale dell’associazione. Una sorta di scuola popolare in attoper uomini e donne che intendono combattere la “buona battaglia” del nostro tempo.

Eugenio Capozzi, professore ordinario di Storia contemporanea presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Napoli “Suor Orsola Benincasa”, in questo libro ricostruisce le origini ed evidenzia le attuali contraddizioni della retorica del politicamente corretto collegandola ad una vera e propria ideologia, che affonda le radici nella crisi della civiltà europea di inizio Novecento. Una ideologia che cresce negli anni sessanta, al tempo dei cosiddetti baby boomers e soprattutto dopo la fine della guerra fredda, con la morte dei totalitarismi. Si sviluppa e si impone con la globalizzazione e diventa egemone soprattutto nell’Occidente relativista e scettico.

Il politicamente corretto è una visione del mondo che ha dato vita secondo Capozzi a dogmi feticci, come il multiculturalismo, la rivoluzione sessuale, l’ambientalismo radicale, la concezione dell‘identità come pura scelta soggettiva (il gender).

Il professore napoletano, in questo libro ben documentato, sono straordinariamente tante le citazioni a piè di pagina delle opere consultate, soprattutto di autori anglosassoni, presenta gli evidenti eccessi e gli aspetti grotteschi del politicamente corretto. Soprattutto per Capozzi, lo ha sottolineato più volte durante la serata di Milano, è necessario proporre la storia di questa ideologia anch’essa totalitaria come quelle del Novecento. Una storia che si può studiare, proprio ora che il fenomeno culturale e politico secondo il professore, appare avviato verso la sua parabola discendente.

Tuttavia, Capozzi vede un’aperta ribellione, una certa ostilità di intellettuali, veramente anticonformisti, ma anche di tante maggioranze silenziose, che non vengono presentate nel mondo dei social media, verso le classi dirigenti, e la loro retorica del politicamente corretto. Nello stesso tempo stanno nascendo nuove forze politiche, che «si distinguono per essere apertamente polemiche verso aspetti qualificanti dell’agenda progressistapoliticalcorrettista, e che in genere vengono bollate dai sostenitori di quest’ultima come fenomeni pericolosi e regressivi». Capozzi si riferisce a quelle forze politiche, chiamate «populiste», o «sovraniste», o «neonazionaliste», nate in Europa quanto nel continente americano, che hanno conseguito rilevanti successi elettorali, e che hanno conquistato il governo dei loro paesi.

Un altro aspetto importante che Capozzi ha sottolineato nella serata milanese, è quello che noi spesso pensiamo che l’ideologia politicalcorrettista, la sua egemonia, la sua centralità, sia un dato naturale e non invece un fatto storicosoggetto come tutti gli altri all’incessante dialettica del divenire, cioè destinata a finire.

Il professore insiste, «per comprendere il politicamente corretto è indispensabile studiarlo in chiave storica, inserirlo nel suo contesto, ricostruirne lo sviluppo dalle origini a oggi, evidenziare le forze che lo hanno favorito e quelle che lo hanno contrastato e lo contrastano tuttora». Pertanto per contrastarlo efficacemente, occorre risalire alle sue radici profonde della visione del mondo che l’ha generato. «Questo libro– scrive Capozzi – intende dunque essere in primo luogo la ricostruzione di un fenomeno, una riflessione che tenta di individuare in esso ‘ciò che è vivo e ciò che è morto’, per usare una nota espressione di Benedetto Croce. A tale scopo è necessario innanzitutto classificarlo per ciò che è, definendone la natura».

Il «catechismo civile», del politicamente corretto che tende strutturalmente alla censura, non è una moda delle classi colte. Piuttosto, «rappresenta invece l’espressione di un’ideologia, impostasi nelle società occidentali nell’ultimo mezzo secolo, paradossalmente mentre il luogo comune dominante sosteneva la‘morte delle ideologie’».

Nei cinque capitoli del libro Capozzi definisce le forme e lo sviluppo dell’ideologia dalla quale derivano precetti del politicamente corretto, quel progressismo fondato sul relativismo etico radicale e sull’idea radicale dell’autodeterminazione del soggetto. E’ una Weltanschauung secondo Capozzi che ha segnato un mutamento profondo delle società occidentali. A questa idea si è formato un blocco sociale e una classe dirigente, che hanno abbracciato il nascente progressismo come filosofia di vita e fondamento della convivenza civile.

Un blocco sociale di uomini e donne capace di indirizzare secondo i loro interessi, i loro desideri, i loro gusti, l’economia, la politica, la cultura, la ricerca scientifica, la comunicazione mediatica.

Nel I° capitolo viene subito delineata la nuova ideologia: il progressismo diversitario, che arriva, nelle università dei paesi anglosassoni, ad esplicitare addirittura una condanna retroattiva, una specie di censura applicata allo studio del passato. Capozzi riporta l’esempio di Ovidio, di Shakespeare e di Mark Twain; nelle opere di questi letterati secondo i politicalcorrettisti, si intravede discriminazione, violenza, addirittura stupri. Inoltre negli atenei vengono poste in discussione i concetti stessi di civiltà in riguardo all’Occidente.

La pressione sui professori e gli studenti è molto forte, i programmi si devono adeguare al politicamente corretto. Tutto viene controllato dalla letteratura all’intrattenimento di massa, viene censurato, edulcorato e riscritto nei contenuti. Questo perchè ci sono ondate di proteste suscitate da presunte offese. Il metodo è sempre lo stesso: «un soggetto (intellettuali, giornalisti, organizzazioni della società civile) punta il dito contro una frase, un termine, un comportamento percepito come discriminatorio, e immediatamente si scatena sui media tradizionali e sui social – traducendosi poi in manifestazioni fisiche – una campagna che costringe alla rettifica, alle scuse, alle dimissioni coloro che vengono additati come colpevoli diretti o indiretti». Ricordo il caso Barilla.

E’ successo nel caso delle statue di nudi maschili e femminili nei Musei capitolini di Roma, che il governo italiano ha subito fatto coprire in occasione della visita ufficiale in Italia del presidente iraniano Hassan Rouhani. Una cosa simile è capitata anche nella metropolitana di Londra, la nudità di un’opera d’arte poteva essere considerata offensiva nei confronti dei molti abitanti musulmani.

Insomma in ogni contesto culturale e sociale c’è una costante pressione nel ridefinire il linguaggio, «che si traduce nella rimozione di espressioni, definizioni, modi di dire, e nella corrispondente adozione di una serie innumerevole ed elaborata di eufemismi, neologismi, perifrasi, approvati volta a volta dalle élite culturali, politiche e mediatiche più influenti».

Capozzi a questo proposito fa degli esempi eclatanti, come quelli delle accuse pesanti per molestie sessuali, che hanno subito certi noti personaggi Sono espressioni politically correct political correctiness che si sono diffusi a partire dal mondo anglosassone in senso negativo nei confronti dei comportamenti sociali delle classi colte. Formule molto simili al linguaggio usato dagli attivisti e dai documenti ufficiali comunisti dopo la rivoluzione bolscevica, e poi soprattutto negli anni trenta, «all’epoca della strategia staliniana dei fronti popolari, per descrivere i comportamenti giusti o sbagliati di militanti del partito comunista e di compagni ‘di strada’ (intellettuali fiancheggiatori) rispetto alla linea dettata dai vertici dell’organizzazione».

Tra l’altro, scrive Capozzi, si tratta della stessa terminologia usata da alcune frange della sinistra movimentista degli anni sessanta e settanta nel senso analogo di teorie e comportamenti conformi ai nuovi standard e slogan ideologici allora in voga. C’era qualcuno che aveva la pretesa del monopolio della verità, il partito totalitario, il movimento, lo Stato onnipotente.

Successivamente questi precetti si sono diffusi nelle società occidentali, a tal punto che si percepiscono come una severamorale sociale imposta dall’alto. Per Capozzi appare come una «morale pedante alla quale occorre rendere omaggio per non essere emarginati dal discorso pubblico, per rimanere nel consesso delle ‘persone perbene’ […]».

A questo punto Capozzi si pone la domanda sul perchè il catechismo del politicamente corretto, i suoi codici di prescrizioni e divieti ha conquistato un’egemonia indiscussa? E qui Capozzi narra un po’ la storia del Progressismo, dell’idea di progresso, comune a gran parte della cultura europea moderna. Si tratta di quel blocco dottrinario, di quell’ideologia, che vuole creare un mondo nuovo. Un’idea progressista ideologica che è apparsa e incarnata sotto diversi nomi: liberalismo, democrazia, nazionalismo, socialismo. «Tratto comune a tutte le forme di progressismo è l’obiettivo di estirpare dalle società disuguaglianze e ingiustizie ereditate dal passato per condurle verso un avvenire radioso, di volta in volta, attraverso l’ampliamento e l’estensione dei diritti civili (il liberalismo nella sua versione radicale), l’uguaglianza politica (la democrazia), l’uguaglianza sociale ed economica (socialismo, comunismo, anarchismo), la liberazione dei popoli dall’oppressione esterna (i nazionalismi)».

Addirittura per il nostro, persino le ideologie totalitarie o autoritarie del Novecento, come il nazismo e il fascismo, possono essere classificate per molti versi come espressioni di un progetto progressista, sebbene opposto alla vulgata liberale, democratica e socialista. Comunque sia tutte le forme di progressismo, tendenzialmente sono convinte che «attraverso la traduzione di una dottrina in azione politica, si possano colmare le lacune della natura umana».

Dunque il progressismo dottrinario diventa l’ideologia occidentale, che si base suuna «vita priva dell’orizzonte della trascendenza, ma che della religione trascendente mantiene l’anelito alla redenzione e alla salvezza, e l’attesa della fine dei tempi».

Per questo motivo tutte le ideologie intese come sistemi di idee per il governo delle società, «possono essere considerate religioni politiche o religioni secolari, secondo la definizioni che ne hanno dato rispettivamente Eric Voegelin e Augusto del Noce».

In particolare scrive Capozzi, «tutte le ideologie sono eredi di quella che sempre Voegelin considera la tendenza ‘gnostica’ della cultura europea moderna[…]».

Naturalmente la versione più assoluta seducente del progressismo è stato incarnata nel Novecento, «dal comunismo che a partire dalla rivoluzione bolscevica in Russia, ha dominato incontrastato l’immaginario politico occidentale e di conseguenza il dibattito ideologico».

L’Unione Sovietica appariva come il modello della società egualitaria, il “paradiso in terra”. Intanto si comincia ad abbattere non solo il capitalismo, ma anche la civiltà occidentale, come modello di vita, la sua cultura, le sue tradizioni. Adesso “l’uomo bianco”, diventa il nemico, il conquistatore schiavista, devoto al sacrificio e alla produzione, repressore di ogni slancio creativo, era il nemico della liberazione umana, il freno al vero progresso verso un mondo più giusto e felice.

Praticamente l’Occidente arriva a odiare se stesso. Il progressismo cerca di de-occidentalizzare il mondo e di fare un’opera di “trasvalutazione di tutti i valori” come l’aveva elaborata un secolo prima Friedrich Nietzsche. L’ideologia del politicamente corretto, potrebbe essere definita come l’«autofobia» occidentale, il grande conservatore Roger Scruton, prendendo in prestito dal vocabolario psichiatrico, l’avversione alla propria casa, alla propria patria, l’ha chiamata, «oicofobia», che corrisponde in simmetria l’«allofilia», quel valutare pregiudizialmente positiva qualsiasi aspetto- culturale, sociale, politico, persino estetico – delle civiltà non europee e non occidentali.

In questo modo l’ideologia del progressismo secondo il sociologo canadese Mathieu Bock-Cotè si propone come un’«utopia doversitaria»dove il protagonista, l’eroe della lotta per il nuovo paradiso in terra diventava l’Altro, ‘il diverso’, in tutte le sue possibili eccezioni». Il nuovo progressismo diversitario, non abbraccia più l’ingegneria sociale, ma una infinità di «soggetti diversi, liberati da ogni vincolo, che esprimono se stessi convivendo armoniosamente senza alcuna gerarchia». Arriviamo così a quell’ideale dove i protagonisti sono quei giovani degli anni sessanta che si ribellano, siamo alla controcultura del sessantotto europeo. Non più il mito del comunismo sovietico ma il parricidio dell’Occidente cattivo, imperialista, colonialista, repressivo, discriminatorio. In pratica si tratta di un «primo mondo» che dovrebbe abbandonare le proprie caratteristiche culturali, per cominciare un nuovo ciclo. La forza trainante di questo nuovo percorso saranno tutti gli esclusi, gli emarginati a qualsiasi titolo dal sistema di dominio, le minoranze più varie che unite formeranno una nuova classe che interpreterà il senso della storia. Questi soggetti, che saranno minoranze etnicheculturali, religiosesessuali (comprese le donne) sostituiranno il proletariato operaio eletto a suo tempo dal marxismo.

In questo quadro di minoranze escluse, vanno aggiunte l’ambiente e gli animali. Creando così le basi del filone del neo-progressismo ecologista.

La retorica e la propaganda riveste una importanza fondamentale per tutte le ideologie. Così «ogni religione secolare non soltanto ha i suoi testi sacri, i suoi santi, i suoi martiri, i suoi riti, le sue liturgie, i suoi simboli sacri, ma anche il suo catechismo». Soltanto che nell’ideologia del progressismo diversitario, il nemico, non è più come al tempo del marxismo, ma il nemico, si trova nelle nostre menti. Occorre vincere la resistenza oscurantista che c’è in noi. E quindi si arriva ben presto a delegittimare i nuovi avversari politici che saranno quelli che l’ideologia ha costruito come categorie spregiative per indicare le opinioni dei dissidenti.

Questi a sua volta sono relegati «in uno spazio di esclusione totale da qualsiasi possibilità di discussione civile, in quanto portatori di odio e discriminazione; l’avversario è ‘razzista’, ‘intollerante’, ‘sessista’, e poi ‘omofobo’, ‘islamofobo’, e via di questo passo». Praticamente secondo Capozzi questo nuovo tipo di ideologia è ancora più intollerante rispetto a quella comunista, che bene o male ti faceva dibattere, qui sei escluso e basta.

Il nuovo catechismo ideologico diversitario nato all’interno di una società dei mass media«sfrutta ogni occasione offerta dalla comunicazione, dall’industria culturale e dalla cultura pop per comunicare i propri messaggi, rendendoli comprensibili, accattivanti, persuasivi per il maggior numero possibile di persone».

Se nel passato, per le ideologie classiche, la funzione divulgativa, avveniva attraverso il partito, i manuali di propaganda, dai libretti rossi, dai manifesti murali, dai volantini, «per il progressismo diversitario viene esercitata dai film, dal teatro, dalle canzoni, da trasmissioni di informazione/intrattenimento televisivo, e infine dai contenuti veicolati attraverso il web e i social network».

Il nuovo catechismo ha conquistato la nuova borghesia senza radici, che si è manifestata a partire dal boom economico del secondo dopoguerra, sono i giovani baby boomers ribelli degli anni sessanta che intraprendono professioni liberali, entrano nel sistema dei grandi media, dell’editoria, dell’accademia, dell’intrattenimento di massa e vanno a costruire l’economia in via di essere globalizzata.

Insomma per Capozzi, l’ideologia diversitaria ha conquistato l’egemonia culturale nei paesi liberaldemocratici. Gli ex ribelli del sessantotto diventano borghesia, fino ad arrivare al vitalismo libertario dell’industria hi-tech di Silicon Walley, con i suoi leader riconosciuti, come Bill Gates o Steve Jobs. Paradossalmente l’ideologia di queste èlite, diventa dottrina ufficiale di certa sinistra occidentale, nonostante negli anni novanta, si imponevano i movimenti della contestazione No global.

Le classi dirigenti riescono a rovesciare quella diffusa contestazione, presentando la globalizzazione a favore dei nuovi diritti e delle opportunità individuali.

Come è stato scoperto il politicamente corretto? Per il professore si comincia con il 1994, un caso letterario clamoroso, un libro satirico di un umorista americano rivisita le più note fiabe europee secondo i canoni linguistici e morali delle retorica correttista. Si comincia con Cappuccetto Rosso, che si trasforma in una arringa a favore dell’emancipazione femminile e in una ferma condanna del cacciatore come simbolo del potere maschilista. Si prosegue con i Tre porcellini, i Sette nani di Biancaneve e così via. E’ un documento prezioso questo libro, perchè già allora, si mettono insieme in un unico bersaglio satirico femminismo, multiculturalismo e abientalismo/animalismo, considerandoli elementi di un unico sistema di pensiero.

In questo periodo in cui si profilava la nuova ideologia sono stati pubblicati dei libri che denunciavano l’avanzare di un conformismo politico-culturale, i suoi luoghi comuni, la crescente limitazione della libertà di pensiero e di espressione. Sono comunque delle voci minoritarie. Capozzi, cita, «Singhiozzo dell’uomo bianco» (1983) e «La tirannia della penitenza» di Pascal Bruckner, dove viene descritta la progressiva trasformazione del terzomondismo in un’ortodossia dogmatica, la civiltà europea è colpevole di tutti i mali sofferti dai popoli ex colonizzati. Ma il più potente atto di accusa nei confronti della nuova ideologia del politicamente corretto compare nel 1987, «La chiusura della mente americana» del filosofo Allan Bloom. L’autore denuncia entrando nei particolari, la riscrittura della storia del sistema formativo scolastico e universitario americano che demolisce dalle fondamenta la cultura occidentale. Successivamente ci pensa un altro volume, «La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto», di Robert Hughes, a criticare la sinistra americana per l’attenzione ossessiva ai diritti civili e al multiculturalismo, l’ipocrisia moralista, la fissazione per le ‘vittime dell’Occidente’.

Tuttavia ritornando all’ideologia diversitaria, Capozzi nel libro ne descrive tutti gli aspetti. Guardando i principali temi del dibattito, Capozzi ritiene che i dogmi del neo-progressismo si possono raggruppare in quattro blocchi principali: 1)l’equivalenza tra le culture e le civiltà (il multiculturalismo); 2) l’equivalenza tra desideri e diritti (la rivoluzione sessuale, antropologica, biopolitica); 3) la messa ai margini della civiltà umana rispetto alla salvaguardia dell’ambiente (ecologismo ideologizzato e antiumanesimo ambientalista); 4) la concezione dell’identità non come eredità naturale e storica, ma come scelta soggettiva, espressione dell’autodeterminazione individuale e collettiva.

Sono le quattro verità, articoli di fede, dell’ideologia correttista che si innesta facilmente nel nostro mondo occidentale relativista che peraltro sta morendo. Sono i quattro argomenti che Capozzi sviluppa nei capitoli successivi del libro.

L’Occidente è sempre colpevole. Oggi è diventato impossibile fare un discorso di appartenenza senza essere tacciato di etnocentrismo, di imperialismo culturale, se non di razzismo. Praticamente «tra gli intellettuali, politici, classi dirigenti si è imposto un relativismo culturale che condanna a priori qualsiasi gerarchia di organizzazione sociale, di costume, di valore»Ricordo sempre tanti anni fa quando una collega mi riprendeva a scuola perchè io sostenevo che gli Atzechi con i sacrifici umani non potessero essere considerati popoli civili. Siamo all’affermazione del multiculturalismo, dove le culture devono convivere, mescolarsi e integrarsi, senza che nessuna cultura prevalga. Anzi per la verità sottolinea Capozzi sono le altre culture a prevalere. Infatti in America viene messa in discussione la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo del 1948, perchè espressione di una cultura occidentale e quindi secondo l’antropologo culturale statunitense Melville J. Herskovits, «non avrebbe dovuto applicarsi astrattamente all’intero genere umano, ma tenere conto delle diverse culture e rispettarne le differenze». Infatti l’ideologia correttista si rifà a questo antropologo che aveva criticato la dichiarazione.

Comunque sia secondo Capozzi la conversione della sinistra dal marxismo classico al terzomondismo e alla contestazione dei modelli occidentali era stata preparata da molto tempo; nel secondo dopoguerra veniva fatta propria dai vari fronti di liberazione di molti paesi. L’anticolonialismo era sempre presente nelle forze politiche della sinistra. Alla base di quell’idea c’era che le «culture dei popoli extraeuropei assoggettati erano depositari di un’«innocenza» originaria macchiata dai dominatori».

Capozzi descrive bene quegli anni della guerra in Vietnam, dei movimenti di protesta, delle rivolte pacifiste dei giovani americani ed europei. La protesta contro la guerra in Vietnam, offre al relativismo un ambiente ideale in cui svilupparsi. In quegli anni assume una importanza incisiva il brano musicale di John Lennon, Imagine, del 1971. Un brano semplice che esprime «in una forma universalmente comprensibile l’utopia di un mondo dal quale sarebbero state estirpate tutte le cause della violenza». Un brano che si è trasformato nell’inno ufficiale del pacifismo, e in uno dei monumenti del catechismo politicamente corretto, ancora oggi un valido collante emotivo propagandistico. Non sto qui a riferire i contenuti della canzone, mi limito solo a scrivere quali sono i mali che intende rimuovere: la religione, le nazioni, la proprietà. In pratica i fondamenti della modernità euro-occidentale.

L’ultimo stadio del multiculturalismo è un mondo di migranti. Secondo la vulgata multiculturalista, le politiche dei governi occidentali non avrebbero dovuto pretendere che i nuovi arrivati si omologassero al contesto politico e giuridico, l’obiettivo è quello di fare società globali aperte, fluide, fondate sulle contaminazioni.

Il 3° capitolo riguarda la rivoluzione sessuale in atto nelle nostre società. “Ogni desiderio è un diritto”.

Capozzi affronta i temi connessi alla libertà sessuale in tutte le sue forme. Negazione di ogni repressione o differimento della soddisfazione dei desideri. Chiunque in Occidente «riproponga la validità di una morale imperniata su autodisciplina e continenza viene messo in ridicolo, oltre che accusato di essere reazionario, nostalgico di un passato oscuro». Oppure come è capitato ai partecipanti al Congresso delle Famiglie di Verona viene classificato come medievale.

Nel capitolo Capozzi risponde alla domanda sul perché i temi legati alla sessualità sono diventati uno tra i pilastri del nuovo progressismo nel secondo Novecento.

Il testo fa una splendida sintesi degli avvenimenti che caratterizzarono il sessantotto. Soprattutto della controcultura di quei movimenti, dei gruppi, degli hippie e poi dei festival che hanno segnato la storia della musica pop: MonterreyWoodstock. Ma fa anche i nomi dei gruppi musicali. In questo ambiente si prospettava una liberazione dai vincoli e un risveglio delle energie interiori, ritrovarsi insieme uniti non per norme etiche universali, tradizioni, leggi o istituzioni, ma da istinti, emozioni, desideri comuni. Vivere alla giornata. Il nuovo metro di giudizio del progresso sarà il piacere soggettivo. Si arriva alla rivoluzione sessuale attraverso “la politica del piacere”.

Naturalmente Capozzi fa i nomi dei vari filosofi, studiosi che hanno teorizzato questa emancipazione dell’uomo e della donna. La scuola di Francoforte con Eric Fromm, ma soprattutto con l’austriaco Wilhelm Reich, con la sua celebra opera, “La rivoluzione sessuale”. E poi Herbert Marcuse, che ha dato alla sessualità un sostegno filosofico criticando sistematicamente l’organizzazione sociale occidentale.

A poco a poco si pone l’attenzione sui gruppi più discriminati: le donne e i gay, i cultural studies influenzano il movimento femminista e quello dei diritti degli omosessuali. «contribuendo a diffondere l’identificazione di pratiche non legate alla stabilità familiare e riproduttiva con una sorta di proletariato della vita emotiva, istintuale, etica».

Con la seconda ondata del femminismo, la donna ha pieni poteri sulla vita. Le donne sono liberate dall’essere mogli e madri. Riconquistano la sovranità sul proprio corpo, demolendo le prigioni in cui erano relegate.

Nel 4° capitolo Capozzi affronta il tema dell’utopia dell’antiumanesimo ambientalista. Secondo i politicalcorrettisti, l’uomo non è necessario. Perchè l’uomo inquina, costruisce, distrugge. A poco a poco negli anni, la sensibilità ecologica viene trasformata in rivendicazione etico-politica e l’ambientalismo entra a pieno titolo tra i temi della sinistra. Pertanto per la“salvezza del pianeta”, si arriva a prescrivere una serie di precetti che investono non soltanto i comportamenti delle classi politiche ma anche quelli dei privati cittadini.

Le forme dell’ecologismo radicale concordano sul fatto che l’unico modo per garantire la salvaguardia dell’ambiente, è quello di ritornare per certi versi allo stadio precedente alla civilizzazione e allora contro l’imperialismo del genere umano, si propone veganesimo e antispecismo.

Infine il 5° e ultimo capitolo si occupa dell’autodeterminazione dell’essere umano. “Puoi essere quello che vuoi”. Per cambiare sesso basta una semplice attestazione di “sentirsi” maschio o femmina. Pertanto si possono avere diverse identità. L’uomo viene spogliato della sua essenza, viene ridotto a semplice hub di percezioni, emozioni, desideri. Il percorso giunge a un’umanità neutra, quella del Gender: essere quello che si vuole.

Quinto de Stampi MI, 14 aprile 2019

FONTE: http://mimmobonvegna1955.altervista.org/analisi-storica-del-fenomeno-culturale-del-politicamente-corretto/

Green Pass, schedatura universale. Prima del fatale 2024

Raccontano gli appassionati di astrologia che il periodo che si aprirebbe il 22 gennaio 2024 potrebbe coincidere con l’inizio di una stagione epocale e liberatoria, per l’umanità, propiziata dallo “storico” ingresso di Plutone in Acquario. Qualcuno può pensare che siano favolette. Altri studiosi precisano: l’astrologia non determina mai cambiamenti così immediati, attorno a una data-spartiacque. Altri ancora, forse più prosaicamente, fanno notare come i portavoce del potere – anche se non lo ammetterebbero mai – siano attentissimi proprio alla simbologia energetica che presumono sia legata al moto degli astri: del governo Draghi non c’è un solo decreto, avverte Nicola Bizzi, che sia stato emanato in un giorno a caso, senza prima aver dato un’occhiata al cielo. A proposito: ha ben poco di astrologico, l’attenzione che Bizzi (e molti altri osservatori) concentrano sul “fatidico” 2024. Secondo alcuni, è vero, coinciderebbe con la nascita di una nuova “era precessionale”. Ma non si esauriscono qui, le voci sull’ipotetico traguardo in calendario. C’è ben altro, che bolle in pentola.

A partire da quell’anno, infatti, la Terra comincerebbe a essere visitata da presenze diverse, rispetto a quelle abituali, segnalate nel 2020 dalla Us Navy e poi confermate nel 2021 dal Pentagono. Per intenderci, stiamo parlando di entità aliene. Premette il biblista Mauro Biglino: 2024_mfino a ieri, poteva ancora essere canzonato chi fosse stato accusato di “credere all’esistenza degli Ufo”. Ora, invece, dopo che le autorità militari Usa li hanno finalmente sdoganati (sia pure ribattezzandoli Uap), non è più possibile negarne l’esistenza. Tuttavia, aggiunge Biglino, non ci hanno spiegato cosa sarebbero esattamente, quei velivoli: chi li fabbrica, da dove vengono, chi li pilota. Amici o nemici? Amici, ha detto a fine 2020 Haim Eshed, docente universitario, per trent’anni a capo della sicurezza aerospaziale di Israele. Amici? Sì, ha spiegato il generale Eshed: da trent’anni – ha dichiarato – collaboriamo stabilmente con alcuni di loro, nell’ambito di una Federazione Galattica, con basi condivise sulla Terra, sulla Luna, su Marte e su altri pianeti.

Reazioni, alla sortita di Eshed? Silenzioso imbarazzo, ma nessuna smentita. Pochi mesi prima, Donald Trump aveva ufficialmente annunciato l’esistenza di una non meglio precisata Space Force americana. Nello stesso periodo, il simbologo e massone Gianfranco Carpeoro aveva aggiunto un tassello in più: il rapporto fra extraterrestri ed élite massonica statunitense. Rapporto che, secondo Carpeoro, risalirebbe all’immediato dopoguerra, sotto la presidenza Einsenhower. Uno scienziato come Corrado Malanga, mai tenero con la libera muratoria, di recente è giunto a esporre la seguente congettura: i grandi massoni al potere nel mondo non sarebbero che i burattini-prestanome dei Deva e degli Asura, “divinità” extraterrestri che si contenderebbero segretamente il controllo del Uappianeta da migliaia di anni, anche attraverso la dialettica politica – essenzialmente fittizia – tra conservatori (Deva) e progressisti (Asura). Complottismo a buon mercato?

Ricostruzioni e interpretazioni che potrebbero apparire ultra-fantasiose, se non fosse per due aspetti: da un lato la strana “disclosure” in corso, con le progressive ammissioni sugli Ufo, e dall’altro le deliranti politiche autoritarie imposte con l’alibi della dichiarata emergenza pandemica. Proprio su questo fronte è facilissimo misurare la distanza (cosmica, è il caso di dire) tra la versione ufficiale e la verità dei fatti. Punto d’arrivo: la schedatura universale, sempre dietro al pretesto sanitario, per arrivare all’estensione anche in Occidente di un tipo di regime sempre più simile a quello cinese, fondato sul “credito sociale”: l’accesso a benefit e servizi condizionato all’obbedienza. Sotto questo profilo, in effetti, riepilogare la vicenda Covid non può che essere illuminante, oltre che desolante. Il 31 gennaio 2020, il governo Conte – in gran silenzio – vara lo stato d’emergenza, mentre la Tv parla dell’epidemia di Wuhan come qualcosa di ancora remoto.

L’Italia non corre alcun pericolo, assicura profeticamente lo stesso Roberto Burioni, star televisiva dei neo-virologi nazionalpopolari. Due mesi dopo, la catastrofe: lockdown, ospedali al collasso, sfilata di camion militari carichi di bare. Il governo Conte, che non ha mai aggiornato il piano pandemico dell’Oms, ignora anche quello “vecchio”, comunque utile. Peggio: impone ai medici di non effettuare autopsie sulle vittime. Il protocollo è increscioso: Tachipirina e vigile attesa. In altre parole: è come se il malato “dovesse” aggravarsi, per poi essere ricoverato solo dopo molti giorni, ormai malconcio. Assistito in ospedale, sì: ma magari fuori tempo massimo. E affidato a medici che – anziché l’eparina – gli somministreranno l’ossigeno, in diversi casi “bruciandogli” i polmoni. Parallelamente: decine di medici, nel frattempo, De Donnoscovano terapie che paiono efficaci. Ma vengono sistematicamente ignorati, quando non banditi. Il primo, Giuseppe De Donno, l’anno seguente sarà trovato impiccato nella sua abitazione. Con la sua cura (plasmaferesi) aveva salvato 58 pazienti su 58. Costo della terapia: poche decine di euro.

Arriva l’estate 2020, ma la fiction continua: distanziamento e mascherine, Tachipirina e vigile attesa. Tutto pronto per l’annunciatissima “seconda ondata” autunnale, con anche l’introduzione del coprifuoco. Sempre ignorati, intanto, i medici curanti: che hanno messo a punto protocolli con antibiotici e antinfiammatori, idrossiclorochina, ivermectina e diversi altri farmaci (ostacolati in ogni modo). La loro soluzione? Cure precoci a domicilio. Motivo: con terapie somministrate in modo tempestivo, all’ospedale non finisce più quasi nessuno (ma così, addio emergenza). I medici di “Ippocrate” esibiscono un bilancio schiacciante: 60.000 guariti, da casa, senza ricorrere al ricovero. Risposte, dal governo? Zero, nessuna: come se quei medici italiani non esistessero. I media? Tutti allineati all’omertosa verità ufficiale, salvo rarissime eccezioni. Ma il bello doveva arrivare con Mario Draghi: solo continuando a ignorare i medici e i loro risultati sarebbe stato possibile tener vivo il terrore del virus, in modo da vendere il “vaccino” come unica, possibile via d’uscita.

Scontato il successo della prima infornata di inoculi sperimentali: un italiano su due non vedeva l’ora di sottoporvisi, convinto di mettersi al riparo dalla patologia influenzale. Poi c’è stato bisogno di convincere molti anziani, dubbiosi: a questo è servito, anche, l’arruolamento di un generale in uniforme da alpino. Ma i numeri non erano ancora soddisfacenti, per i “vaccinatori”. Così, Mario Draghi ha fatto ricorso all’obbligo, introducendo una sorta di Tso. Vuoi continuare a lavorare? Devi sottoporti all’inoculo, prendere o lasciare. Prime vittime del ricatto: personale sanitario e operatori scolastici. A ruota, dal 15 ottobre tutti gli altri. Nel frattempo, la situazione è degenerata: la farmacovigilanza dell’Ema ora parla di 24.000 morti sospette, Schwabcorrelabili al “vaccino”, e 2 milioni di europei che hanno dovuto ricorrere a cure sanitarie dopo aver ricevuto le dosi. E proprio il carattere ricattatorio del Green Pass, che secondo vari giuristi sarebbe del tutto incostituzionale, ha messo in subbuglio mezza Italia.

Cartina di tornasole: le elezioni amministrative di ottobre sono state disertate da un elettore su due. Le piazze hanno preso a riempirsi, e lo Stato si è abbassato a ricorrere alla violenza per sgomberare i portuali di Trieste, insorti contro il decreto “infame”. In parallelo, molto clamore ha suscitato l’ennesimo suggello simbolico, giusto il 15 ottobre: l’apertura della Porta dell’Inferno (sfortunata opera “maledetta” di Auguste Rodin) alle Scuderie del Quirinale. Come dire: abbiamo in serbo qualcosa di poco piacevole, per i sudditi? Ma attenti: il Green Pass obbligatorio è solo l’antipasto. Lo sostiene Roberto Mazzoni, giornalista che ha seguito dalla Florida le presidenziali Usa 2020, al termine delle quali sarebbe stato “eletto” Joe Biden, con l’aiuto del voto postale e dei computer di Dominion. Elezioni “sporche”: come se si dovesse togliere di mezzo a tutti i costi un politico ostile al Grande Reset, cioè il programma globale candidamente annunciato – in diversi libri – da Klaus Schwab, il patron di Davos. Precisamente: fine delle libertà individuali, in nome di un controllo orwelliano sugli individui.

La “pandemia”? Un’ottima occasione per imporre comportamenti che – senza il terrorismo sanitario – non sarebbero mai stati accettati. Ergo: oggi il Green Pass “vaccinale” (da rinnovare in eterno) non sarebbe che il prologo del “passaporto a punti”, di stampo cinese, destinato agli ex cittadini occidentali, un tempo liberi, quando ancora funzionava la loro pur difettosa democrazia. Incubi? Lo si verificherà presto, data la fretta – più che sospetta – con cui il piano procede. E attenzione: i desiderata di Davos coincidono con l’agenda Onu e con il Green New Deal dell’Ue, propiziato dall’innocente, inconsapevole Greta. Previsione: archiviato il Covid-19, sarà la pretesa “emergenza climatica” ad armare le prossime imposizioni, costringendo le persone a nuove, drammatiche rinunce. Sacrifici che rafforzeranno il dominio dell’élite Bergoglio e Draghimondialista fino al punto – paventano i pessimisti – da imporre l’inoculo di nanochip, attraverso cui controllare ogni aspetto della vita di ciascuno, compreso l’accesso alla moneta (solo digitale, a breve).

Allucinazioni distopiche? Non la pensa così Ilaria Bifarini: il Grande Reset, dice l’economista, è pienamente in corso. E con Mario Draghi sta accelerando vertiginosamente. Un colossale test, per vedere fino a che punto è possibile “strapazzare” l’Italia, da sempre paese-laboratorio per i destini dell’Occidente. Paese che, oltretutto, ospita il Vaticano. Appunto, e Bergoglio? Eccolo in azione, il “progressista” Papa Francesco: a fine 2020 ha rifiutato di ricevere Mike Pompeo, confermando la cessione al regime di Pechino del potere di nomina dei vescovi cattolici in Cina. E oggi definisce “un atto d’amore” il fatto di sottoporsi all’inoculo del siero genico sperimentale. Il Pontefice fa coppia con Draghi, secondo cui – testualmente – se non ti “vaccini”, muori (e fai morire anche gli altri). Sottinteso: il “vaccino” per il Covid funziona. Cioè: protegge dal contagio ed evita gli effetti peggiori della malattia. Magari fosse vero: chi si è “vaccinato” continua a infettarsi, anche ammalandosi, e a contagiare il prossimo.

Ammette il ministero della sanità della Gran Bretagna: nelle terapie intensive, sono “vaccinati” quattro pazienti su cinque. Peraltro, il Regno Unito ha somministrato il siero C-19 alla quasi totalità della popolazione. Cosa che i media evitano di ricordare, mentre biasimano la “irresponsabile” decisione di Londra di revocare ogni restrizione. Così i contagi galoppano, scrivono i giornali. Tacendo però sull’altra verità: e cioè che l’epidemia non fa differenze tra “vaccinati” e non. Segno che il “siero magico” è largamente inefficace. Importa a qualcuno, saperlo? Forse sì: c’è una coscienza critica che si sta diffondendo a macchia d’olio, nonostante la censura “cinese” imposta dai social, anche Vaxin Italia. Numeri che impressionano un osservatore speciale come Carlo Freccero: l’Istituto Superiore di Sanità ha appena ammesso che il terribile virus avrebbe ucciso – da solo, senza l’aiuto di gravi malattie compresenti – meno di 4.000 italiani, contro i 130.000 classificati “morti per Covid”.

Nonostante questo, però, si accelera: Green Pass obbligatorio. Come se le notizie non esistessero. Come se non esistessero le terapie, né i medici curanti (molti dei quali nel frattempo sospesi, se non radiati). E peggio: sempre per generare ansia sociale, ora si torna a manovrare anche la leva socio-economica. Pur in assenza di vere crisi energetiche, si paventa un inverno spaventoso (guardacaso, come la porta infernale di Rodin). Facile: si rallenta la distribuzione, in modo artificioso, e così i prezzi volano alle stelle. Iper-inflazione, che colpisce ovunque: dal pieno di benzina alla spesa quotidiana. L’obiettivo non cambia, a quanto pare: dopo il panico sanitario, anche l’insicurezza sociale. Per ottenere cosa? Ovvio: un’obbediente sottomissione, sempre in ossequio all’agenda di Davos. Domanda: perché proprio adesso?

Ecco, appunto. Su questo si interroga lo storico Nicola Bizzi, editore di Aurora Boreale e co-autore del fortunato, coraggioso instant-book “Operazione Corona”. Appassionato di archeologia “proibita”, Bizzi vanta anche contatti con il mondo dell’intelligence. E conferma: c’è chi teme che, nel citato 2024, la Terra potrebbe ricevere visite problematiche. L’ipotesi: sarebbero di ritorno le “divinità” che la tradizione eleusina chiama “titaniche”? La letteratura antica le descrive come “sfrattate” dal nostro pianeta 20.000 anni fa, al termine della Titanomachia di cui parla Esiodo. Bizzi prova a leggere tra le righe della mitologia, scovando un dettaglio: non è curioso che la principale La costellazione della Balenavittima del golpe mondiale chiamato Operazione Corona sia proprio l’Occidente, fino a ieri protetto dalla sua democrazia? Nel mirino, in effetti, si ritrovano soprattutto l’Europa, il Nord America, l’Australia e la Nuova Zelanda.

Secondo il mito eleusino, i Titani “atlantidei” venuti da Tau-Ceti generarono una particolare parte dell’umanità, quella occidentale (che secondo questa ipotesi corrisponderebbe, a livello preistorico, all’Uomo di Cro-Magnon). Semplici suggestioni? Nelle Georgia Guidestones si auspica che la popolazione mondiale non superi il mezzo miliardo di unità. Nel 2017, il sito statunitense “Deagel” presentava proiezioni in base alle quali la popolazione occidentale sarebbe stata letteralmente dimezzata. In altri termini, l’Istat ha appena ricordato che l’Italia – perdurante la denatalità che la affligge – potrebbe ridursi a essere un paese di appena 32 milioni di abitanti. Una voce come quella di Fausto Carotenuto (già analista dell’intelligence) nell’attuale direzione del massimo potere riconosce le storiche direttive del Club di Roma: usare l’ideologia “green”, maneggiata dall’oligarchia finanziaria, per contenere la demografia, tagliare e ridurre. Ergo, necessariamente: centralizzare. E quindi digitalizzare progressivamente l’essere umano, per poterlo controllare meglio.

C’è qualcosa di potenzialmente “alieno”, nel piano – a tappe forzate – che parte dallo sfruttamento manipolato del Covid per arrivare al “vaccino” e quindi al Green Pass, cioè al punto di partenza dell’eventuale regime totalitario universale basato sul “credito sociale”, di marca cinese, per ottenere neo-sudditi definitivamente controllabili, in ogni aspetto della loro vita? In tempo di pace, qualsiasi idea meriterebbe un Lorenzo de' Medicirispettoso dibattito, ma oggi questa possibilità sembra sia esclusa. Il mainstream pratica la più brutale e inaudita delle censure: tutte le ipotesi sgradite vengono classificate “bufale”. Poi c’è chi condanna i cosiddetti complottisti (spesso iperbolici, nelle loro tesi) accusandoli di aiutare involontariamente l’establishment a screditare l’intero pensiero libero. Verissimo, ma a patto che non si dimentichi un dettaglio essenziale: è il potere, in prima battuta, a essere reticente o fuorviante. In assenza di verità accertate, quindi, è scontato aspettarsi anche le illazioni più spericolate.

Discorsi comunque difficili, da affrontare, in un mondo che – direbbe Mauro Biglino – crede ancora che la Bibbia (letta obbligatoriamente sempre e solo in chiave simbolico-teologica) parli del Dio unico dei monoteismi, anziché degli Elohim che avrebbero “fabbricato” con la genetica una parte dell’umanità. Un altro studioso italiano, Riccardo Magnani, ha appena dimostrato che Cristoforo Colombo non solo non ha mai “scoperto l’America”, ma addirittura non sarebbe mai neppure esistito. In compenso, lo stesso ricercatore – in un libro di prossima uscita – si prepara a documentare la sua ultima intuizione: Lorenzo il Magnifico non era italiano, ma americano. Seriamente: Lorenzo, dice Magnani, era di stirpe reale Inca. Sarebbe finito a Firenze (adottato dai Medici) in seguito ai viaggi oceanici intrapresi, almeno mezzo secolo prima, dalla signoria fiorentina. Obiettivo dell’alleanza: fare in modo che a guidare l’Europa fosse l’America del culto solare, scalzando l’oscurantismo varato dalla religione romana violentemente imposta da Teodosio nel quarto secolo dopo Cristo.

Una religione che sarebbe stata “costruita” a tavolino da personaggi come Paolo di Tarso, Giuseppe d’Arimatea, lo storico Giuseppe Flavio e, pare, il filosofo Lucio Anneo Seneca. Uomini forse vicini alla elusiva, potentissima Struttura di cui parla Paolo Rumor nel libro “L’altra Europa”? Un network occulto che reggerebbe ininterrottamente il mondo da 12.000 anni, cioè da quando la civiltà terrestre sarebbe riemersa dalle macerie dopo i devastanti cataclismi di origine stellare ora individuati con precisione dai geofisici. Ergo: quegli oligarchi ante litteram avrebbero ereditato il ruolo dei plenipotenziari precedenti, gli antichi sacerdoti delle “divinità” dotate di astronavi? E quindi: le loro costruzioni – imperi, religioni, ideologie e credenze – sarebbero frutto di manipolazione? La “grande opera” di una super-casta che avrebbe custodito il monopolio della conoscenza? Punti di vista, certo. Supposizioni in libertà. Del resto, ci vollero mille anni prima che qualcuno Pinotti(l’umanista Lorenzo Valla, in quel caso) svelasse finalmente la reale identità del Lascito di Costantino: un volgarissimo falso, fabbricato per legittimare il potere temporale dei Papi.

D’accordo, si potrebbe obiettare: ma tutto questo che attinenza potrebbe mai avere, con il Covid e il Green Pass? Chi lo sa. Tutte domande destinate a restare in sospeso, scommette qualcuno, fino all’esiziale, fantascientifico 2024. Davvero c’è chi teme – qui e ora – che fra due anni e mezzo potrebbe fare i conti con visitatori indesiderati? Uno studioso come Roberto Pinotti, ufologo di fama internazionale, ripete: i governi non avranno mai il coraggio di ammettere di essere semplici marionette, al servizio di poteri alieni. Letteralmente: poteri esercitati da extraterrestri, stabilmente presenti sul nostro pianeta. E se le ultime indiscrezioni sugli Ufo servissero a preparare il terreno, abituando l’opinione pubblica all’idea di dover affrontare – un giorno – una minaccia spaziale? Cioè: alieni ostili a quelli che (stando a Pinotti) oggi controllano la Terra? E poi: gli eventuali intrusi sarebbero nemici dell’umanità, o solo dell’élite – terrestre e non – che la starebbe dominando da millenni? Comunque sia: se uno pensa all’apocalisse-Covid, non può non domandarselo: perché tutto questo avviene proprio adesso?

Già: perché questa gran fretta di introdurre il Green Pass, il Green Deal, il Green Armageddon? Restiamo coi piedi per terra, implorerebbe il realista: parliamo di cose serie, di contagi e tamponi. Benissimo: i contagi sono larghissimamente asintomatici, ma vengono spacciati per anticamera del ricovero. I tamponi? Non sono affidabili: lo ha detto l’inventore del test Pcr, Premio Nobel, e l’ha ribadito l’azienda che ha brevettato i “cotton fioc”. Il campione biologico prelevato viene “amplificato” troppe volte, facendo emergere le tracce di qualsiasi virus pregresso. Eppure: è proprio l’inattendibile tampone, il “purgatorio” cui è obbligato a sottoporsi, oggi, chi si sottrae all’inoculo genico. Il tutto, senza il minimo senso del ridicolo. E a proposito di serietà: quando “servivano” per creare allarme, i tamponi erano gratuiti. Oggi invece costano un salasso, per il lavoratore medio che deve pagarne 3 a settimana. Con che coraggio, quindi, deridere chi oggi sfoglia libri antichi nel tentativo di scrutare l’enigmatico cielo del 2024?

(Giorgio Cattaneo, 24 ottobre 2021).

FONTE: https://www.libreidee.org/2021/10/green-pass-schedatura-universale-prima-del-fatale-2024/

 

 

 

Green Pass, ovvero il capitalismo della sorveglianza

Cosa c’è dietro il green pass? Non (solo) la spinta, sotto ricatto, alla vaccinazione. C’è il primo segnale del mondo distopico alle porte, un mondo nel quale  gli algoritmi delle piattaforme globali gestite dalla finanza transnazionale detteranno le regole della nostra vita. Una studiosa di fama internazionale, la Zuboff, lo ha battezzato “capitalismo della sorveglianza”, che da il titolo al suo omonimo libro.

In pratica, dietro al green pass vaccinale c’è lo stesso software, lo stesso sistema (informatico e legale) che può stravolgere le nostre vite: con il green pass pagherete le tasse, con il green pass salderete le multe. Anzi, non farete nulla: il danaro vi sarà direttamente prelevato senza che voi facciate nulla, perché tutto sarà gestito da un potere centrale che vuole la trasparenza totale. La trasparenza delle vostre finanze, la trasparenza del vostro stato di salute: la privacy non è più un diritto e nemmeno un valore.

L’euro digitale mira all’abolizione totale del contante.

Con esso l’Europa potrebbe portarsi persino più avanti della Cina nell’evoluzione dello Stato moderno verso il totalitarismo della sorveglianza assoluta. Con l’euro digitale, ogni vostro acquisto sarà tracciato. Quanto spendete in cibo, vestiti, servizi. I prodotti stessi che consumate: la marca dei gelati, la griffe del maglione, il titolo del film, il medicinale omeopatico per l’ansia. Dove andate in vacanza, in che albergo, quale ristorante. Tutti dati che al fisco interessano – e non solo al fisco. Interessano alla Sanità, al Ministero degli Interni, a quello degli Esteri.  Interessano anche a «terze parti». I dati sono il petrolio del XXI secolo si dice. Il green pass è un’automobile che vi costringono a comprare per attaccarvi al nuovo ciclo del combustibile.

Di più: ogni vostra transazione può essere impedita. Avete il diabete? Il sistema potrebbe impedirvi di comprare la Nutella. Domenica senz’auto? Vi possono impedire di acquistare la benzina. Voglia di approfondire? Certi libri no-vax non si possono comperare – su Amazon, lo sapete, è già così: tanti autori sono spariti.

Tutto può essere controllato in tempo reale da algoritmi talmente potenti da non poter nemmeno spiegare se stessi. Incrociano i dati in modi incomprensibili per la mente umana, e danno un responso che decide della vita di una persona: è quello che si vede in Cina, dove il sistema del pass è stato implementato immediatamente durante la pandemia, con le persone controllate all’uscita della metropolitana – se ti capitava il coloro rosso, dovevi ritornartene a casa e metterti in quarantena. Nessuna spiegazione. Lo Stato e il suo cervellone non ve ne devono alcuna.

Questa è la destinazione del mondo moderno: la sottomissione dell’individuo. La nuova schiavitù economica, informatica e biotica che tocca al XXI secolo.

Qualche lettore potrà dire: comodo, non avere più la roga di pagare più le multe, ora che te lo potranno prelevare direttamente. La realtà è che alla vostra comodità non pensano minimamente. L’idea è quella di abolire ogni passo intermedio, cioè lo spazio per la reazione ad una decisione calata dall’alto: non avrete il tempo di opporvi, subirete la sentenza e basta. È la disruption, la disintermediazione dello Stato di diritto. Lo stiamo già vedendo con i social media, che bannano e censurano, «depiattaformano» migliaia di persone senza nemmeno dire loro cosa hanno fatto che non va. Nessun processo, tantomeno un «giusto processo». È la nuova civiltà autoritaria che si nasconde dietro il mito della trasparenza.

E, visto che parliamo di processi, pensiamo davvero a cosa succederà al sistema legale. Sarà più facile, sarà immediato, ottenere i danari in un decreto ingiuntivo – o vederveli sottratti. Al contempo, immaginate quando un giudice potrà bloccare o cancellare tutti i vostri beni con un clic. Non avrete più di che vivere, perché non ne avrete nemmeno di nascosti sotto il materasso, perché il contante sarà illegale, e anche l’elemosina avverrà (se sarà ancora consentita) per via digitale – quindi potranno stopparvi anche quella.

Ora capiamo meglio perché hanno insistito tanto con il vaccino.

Ora capiamo meglio perché per il green pass sono andati allo scontro totale con la società e con un numero cospicuo di lavoratori – con il rischio di innescare un autunno di lotte operaie che potrebbe paralizzare l’Italia e l’Europa.

I pagamenti saranno facili e rapidissimi, spariranno i bancomat e forse anche le cassiere. Tanti ebeti (quelli che hanno votato, magari, un partito il cui guru aveva promesso in effetti tutto questo) saranno felicissimi: «io non ho niente da nascondere». Con l’ID account del green pass, avremo il conto dove metteranno gli euro digitali creati dal niente della Eurotower. Magari, per aiutarci ad iniziare a usarli, potrebbero addirittura regalarcene in quantità.

Milioni cadranno nella trappola. Qualsiasi cosa faranno, dovrà avere il marchio elettronico.

Il futuro prossimo dello Stato moderno, e delle nostre vite, passa di lì. Un sistema di sorveglianza totalista che non ha precedenti nella storia.

Un sistema che, tuttavia, ci era stato descritto da migliaia di anni.

«Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome» 

(Apocalisse 13, 16-17)

Roberto Dal Bosco

FONTE: https://www.maurizioblondet.it/green-pass-ovvero-il-capitalismo-della-sorveglianza/

 

 

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

Green Pass e picco di vaccinazioni: Draghi ha sparato una raffica di fake news

 

 

 

Bomba dall’Iss: appena 3.783 i morti “solo” per Covid

«Non è una notizia, è una bomba: se ne dovrebbe parlare in ogni talk televisivo». Carlo Freccero commenta così la novità della settimana: secondo l’Istituto Superiore di Sanità, sono appena 3.783 le persone uccise in Italia “solo” dal Covid, cioè prive di gravi malattie preesistenti. Numeri pazzeschi, che demoliscono qualsiasi delirio securitario, dal coprifuoco di Conte al Green Pass di Draghi. «Rendetevi conto: meno di 4.000 vittime, contro le 130.000 esibite, in un paese in cui ogni anno, mediamente, i decessi sono 650.000», fa notare lo storico Nicola Bizzi. «La semplice influenza stagionale può uccidere anche 15.000 persone», osserva il professor Alessandro Meluzzi, nel frattempo sospeso dall’Ordine dei Medici per aver rifiutato il Tso governativo. Notizia nella notizia: a “sparare” il report dell’Iss è stato un solo quotidiano, “Il Tempo”, diretto da Franco Bechis (a sua volta ripreso soltanto da un’altra testata, “La Verità”, di Maurizio Belpietro). Da tutti gli altri, silenzio. Anzi: si parla solo di “casi” e contagi in rialzo, per spingere disperatamente sul tasto dell’inoculo genico sperimentale, ancora chiamato “vaccino”: misura coercitiva che Draghi impone sul lavoro ricorrendo col ricatto, pena la perdita dello stipendio.

E tutto questo, per un virus che avrebbe ucciso – da solo – molto meno dell’influenza stagionale? Siamo di fronte a qualcosa che scredita l’intera narrazione dell’emergenza pandemica, avverte Freccero, già direttore di Rai2, ospite su YouTube il 22 ottobre della trasmissione Brusaferro, IssL’Orizzonte degli Eventi”, condotta da Tom Bosco con Matt Martini e lo stesso Bizzi, co-autori del saggio “Operazione Corona” (Aurora Boreale) citato da Freccero come esempio di ricerca della verità per smantellare la montatura mondiale ancora in corso. «Sapevamo fin dall’inizio che i dati allarmistici erano truccati, e infatti l’abbiamo scritto», ricorda Martini, chimico farmaceutico. «E’ vero, ma è sconcertante che oggi sia proprio l’Istituto Superiore di Sanità – dice Freccero – a scodellare dati che, di fatto, smentiscono di colpo tutta la narrazione della paura allestita dai grandi media, interamente controllati – a livello di vertice – da editori ben collegati al potere, tramite comuni interessi finanziari».

A rompere il muro di silenzio è stato Bechis, già in prima linea – qualche anno fa – nel denunciare (insieme al presidente dell’Ordine dei Biologi) la presenza di vaccini “sporchi”, tra quelli resi obbligatori, per i bambini, dalla legge Lorenzin. Stavolta, è l’Iss diretta da Silvio Brusaferro a fornire le cifre (vere) del profilo sanitario del problema, maneggiato in modo sleale per rinchiudere la gente in casa e demolire le piccole aziende, e ora condizionare – con il ricatto “vaccinale” – la ripresa della vita sociale. «Il virus che ha messo in ginocchio il mondo avrebbe ucciso assai meno di una comune influenza», sintetizza il direttore del “Tempo”. «Secondo il campione statistico di cartelle cliniche raccolte dall’istituto – scrive – solo il 2,9% dei decessi registrati dalla fine del mese di febbraio 2020 Bechissarebbe dovuto al Covid-19». Tradotto: «Dei 130.468 decessi registrati dalle statistiche ufficiali al momento della preparazione del nuovo rapporto, solo 3.783 sarebbero dovuti alla potenza del virus in sé».

Tutti gli altri italiani che hanno perso la vita «avevano da una a cinque malattie che, secondo l’Iss, lasciavano loro poca speranza». Addirittura il 67,7% soffriva di più di tre malattie compresenti, e il 18% di almeno due. Sempre secondo l’Iss – continua Bechis – il 65,8% degli italiani che non ci sono più dopo essere stati infettati dal Covid era malato di ipertensione arteriosa (pressione alta), il 23,5% era anche demente, il 29,3% aggiungeva ai malanni un po’ di diabete, il 24,8% pure la fibrillazione atriale. Non basta: il 17,4% aveva già i polmoni ammalati e il 16,3% aveva avuto un cancro negli ultimi 5 anni. Ancora: il 15,7% soffriva di scompenso cardiaco e il 28% aveva una cardiopatia ischemica. In più, uno ogni dieci era anche obeso; un altro (su dieci, sempre) aveva avuto un ictus; e altri ancora – sia pure in percentuale più ridotta – avevano problemi gravi al fegato, erano in dialisi o colpiti da malattie auto-immuni. «Se non è il virus a uccidere gli italiani – si domanda Bechis – allora mi spiegate perché la scienza ha imposto tutto quello che abbiamo visto in questo anno e mezzo abbondante? Dalle mascherine, al distanziamento, al lockdown e così via?».

«E come facevamo ad avere quasi 126.000 italiani ridotti in quelle condizioni con 3, 4 o 5 malattie gravi, destinati comunque ad andarsene se anche non fosse mai esistito il coronavirus in poco tempo? Quei numeri – sottolinea sempre il direttore del “Tempo” – sarebbero un atto di Frecceroaccusa clamoroso, nei confronti del sistema sanitario italiano, da cui pure provengono». All’inizio di questa storia, ricorda il giornalista, «l’Italia mostrava di essere il paese del mondo più impreparato e pure incapace di affrontare la pandemia». Dagli scienziati, rapporti interlocutori: «Bisognava dire che questo virus non uccideva in sé», visto che per riuscire letale doveva essere «accompagnato ad altri malanni, in persone fragili». Poi, una volta comparsi i “vaccini genici”, l’esigenza governativa è diventata quella diametralmente opposta, scrive Bechis. E cioè: «Drammatizzare e spingere chiunque verso la salvezza delle fiale messe a disposizione».

Problema: «Si sono dimenticati di aggiornare le istruzioni sul rapporto mortalità, che ha seguito – nella sua pubblicazione, sempre più diradata nel tempo e mai tambureggiata – l’impostazione data all’inizio». Risultato: «Una gran confusione», che oggi «alimenta anche paure» e irrigidisce le resistenze dei milioni di italiani che alla campagna “vaccinale” hanno scelto di sottrarsi, anche a costo di subire le drastiche conseguenze introdotte dal governo Draghi. Imposizioni contro le quali si sono coraggiosamente schierati i portuali di Trieste, e prima ancora Nunzia Alessandra Schilirò (subito sospesa dal suo ruolo di vicequestore di Roma). E a proposito di Trieste, dice Matt Martini, la notizia è che il porto è tuttora Puzzerparalizzato: all’agitazione dei portuali, violentemente sgomberati, ha infatti aderito anche il personale che pilota i rimorchiatori. «Quindi le navi sono tutte ferme, alla fonda: non le sta scaricando nessuno. E non scordiamoci che da Trieste passa il 40% del petrolio che poi raggiunge la Germania».

Carlo Freccero ringrazia, offrendo il suo endorsement: «Se vi interessa sapere cosa succede davvero – dice, al pubblico – non perdetevi “L’Orizzonte degli Eventi”, con i preziosi aggiornamenti settimanali forniti da Matt Martini e commentati da Bizzi». Lo stesso Martini, in chiusura, propone una riflessione su un dettaglio forse rivelatore: il berretto blu indossato da Stefano Puzzer negli ultimi giorni è identico a quello della squadra di baseball dei Marines. Ipotesi: c’è la manina dei “trumpiani” (che negli Usa contrastano la “democratura-Covid” di Biden) dietro la tenacia dei ragazzi triestini? «Il blu è anche il colore della nostra polizia», sottolinea Freccero. Come dire: non stupirebbe più di tanto, se si scoprisse che sia stato qualche agente, magari della Digos, a convincere i portuali a rinunciare al corteo previsto, dato il rischio di infiltrazioni violente da parte dei soliti noti. «L’altro giorno – racconta Freccero – in una stazione mi ha fermato un poliziotto, dopo la mia partecipazione alla trasmissione di Barbara Palombelli, in cui ho esposto le mie preoccupazioni sull’operazione Covid. Ebbene, quel poliziotto mi ha detto: tenga duro, Freccero, vada avanti così».

«Non è una notizia, è una bomba: se ne dovrebbe parlare in ogni talk televisivo». Carlo Freccero commenta così la novità della settimana: secondo l’Istituto Superiore di Sanità, sono appena 3.783 le persone uccise in Italia “solo” dal Covid, cioè prive di gravi malattie preesistenti. Numeri pazzeschi, che demoliscono qualsiasi delirio securitario, dal coprifuoco di Conte al Green Pass di Draghi. «Rendetevi conto: meno di 4.000 vittime, contro le 130.000 esibite, in un paese in cui ogni anno, mediamente, i decessi sono 650.000», fa notare lo storico Nicola Bizzi. «La semplice influenza stagionale può uccidere anche 15.000 persone», osserva il professor Alessandro Meluzzi, nel frattempo sospeso dall’Ordine dei Medici per aver rifiutato il Tso governativo. Notizia nella notizia: a “sparare” il report dell’Iss è stato un solo quotidiano, “Il Tempo”, diretto da Franco Bechis (a sua volta ripreso soltanto da un’altra testata, “La Verità”, di Maurizio Belpietro). Da tutti gli altri, silenzio. Anzi: si parla solo di “casi” e contagi in rialzo, per spingere disperatamente sul tasto dell’inoculo genico sperimentale, ancora chiamato “vaccino”: misura coercitiva che Draghi impone sul lavoro ricorrendo col ricatto, pena la perdita dello stipendio.
E tutto questo, per un virus che avrebbe ucciso – da solo – molto meno dell’influenza stagionale? Siamo di fronte a qualcosa che scredita l’intera narrazione dell’emergenza pandemica, averte Freccero, già direttore di Rai2, ospite su YouTube il 22 ottobre della trasmissione “L’Orizzonte degli Eventi”, condotta da Tom Bosco con Matt Martini e lo stesso Bizzi, co-autori del saggio “Operazione Corona” (Aurola Boreale) citato da Freccero come esempio di ricerca della verità per smantellare la montatura mondiale ancora in corso. «Sapevamo fin dall’inizio che i dati allarmistici erano truccati, e infatti l’abbiamo scritto», ricorda Martini, chimico farmaceutico. «E’ vero, ma è sconcertante che oggi sia proprio l’Istituto Superiore di Sanità – dice Freccero – a scodellare dati che, di fatto, smentiscono di colpo tutta la narrazione della paura allestita dai grandi media, interamente controllati – a livello di vertice – da editori ben collegati al potere, tramite comuni interessi finanziari».
A rompere il muro di silenzio è stato Bechis, già in prima linea – qualche anno fa – nel denunciare (insieme al presidente dell’Ordine dei Biologi) la presenza di vaccini “sporchi”, tra quelli resi obbligatori, per i bambini, dalla legge Lorenzin. Stavolta, è l’Iss diretta da Franco Brusaferro a fornire le cifre (vere) del profilo sanitario del problema, maneggiato in modo sleale per rinchiudere la gente in casa e demolire le piccole aziende, e ora condizionare – con il ricatto “vaccinale” – la ripresa della vita sociale. «Il virus che ha messo in ginocchio il mondo avrebbe ucciso assai meno di una comune influenza», sintetizza il direttore del “Tempo”. «Secondo il campione statistico di cartelle cliniche raccolte dall’istituto – scrive – solo il 2,9% dei decessi registrati dalla fine del mese di febbraio 2020 sarebbe dovuto al Covid-19». Tradotto: «Dei 130.468 decessi registrati dalle statistiche ufficiali al momento della preparazione del nuovo rapporto, solo 3.783 sarebbero dovuti alla potenza del virus in sé».
Tutti gli altri italiani che hanno perso la vita «avevano da una a cinque malattie che, secondo l’Iss, lasciavano loro poca speranza». Addirittura il 67,7% soffriva di più di tre malattie compresenti, e il 18% di almeno due. Sempre secondo l’Iss – continua Bechis – il 65,8% degli italiani che non ci sono più dopo essere stati infettati dal Covid era malato di ipertensione arteriosa (pressione alta), il 23,5% era anche demente, il 29,3% aggiungeva ai malanni un po’ di diabete, il 24,8% pure la fibrillazione atriale. Non basta: il 17,4% aveva già i polmoni ammalati e il 16,3% aveva avuto un cancro negli ultimi 5 anni. Ancora: il 15,7% soffriva di scompenso cardiaco e il 28% aveva una cardiopatia ischemica. In più, uno ogni dieci era anche obeso; un altro (su dieci, sempre) aveva avuto un ictus; e altri ancora – sia pure in percentuale più ridotta – avevano problemi gravi al fegato, erano in dialisi o colpiti da malattie auto-immuni. «Se non è il virus a uccidere gli italiani – si domanda Bechis – allora mi spiegate perché la scienza ha imposto tutto quello che abbiamo visto in questo anno e mezzo abbondante? Dalle mascherine, al distanziamento, al lockdown e così via?».
«E come facevamo ad avere quasi 126.000 italiani ridotti in quelle condizioni con 3, 4 o 5 malattie gravi, destinati comunque ad andarsene se anche non fosse mai esistito il coronavirus in poco tempo? Quei numeri – sottolinea sempre il direttore del “Tempo” – sarebbero un atto di accusa clamoroso, nei confronti del sistema sanitario italiano, da cui pure provengono». All’inizio di questa storia, ricorda il giornalista, «l’Italia mostrava di essere il paese del mondo più impreparato e pure incapace di affrontare la pandemia». Dagli scienziati, rapporti interlocutori: «Bisognava dire che questo virus non uccideva in sé», visto che per riuscire letale doveva essere «accompagnato ad altri malanni, in persone fragili». Poi, una volta comparsi i “vaccini genici”, l’esigenza governativa è diventata quella diametralmente opposta, scrive Bechis. E cioè: «Drammatizzare e spingere chiunque verso la salvezza delle fiale messe a disposizione».
Problema: «Si sono dimenticati di aggiornare le istruzioni sul rapporto mortalità, che ha seguito – nella sua pubblicazione, sempre più diradata nel tempo e mai tambureggiata – l’impostazione data all’inizio». Risultato: «Una gran confusione», che oggi «alimenta anche paure» e irrigidisce le resistenze dei milioni di italiani che alla campagna “vaccinale” hanno scelto di sottrarsi, anche a costo di subire le drastiche conseguenze introdotte dal governo Draghi. Imposizioni contro le quali si sono coraggiosamente schierati i portuali di Trieste, e prima ancora Nunzia Alessandra Schilirò (subito sospesa dal suo ruolo di vicequestore di Roma). E a proposito di Trieste, dice Matt Martini, la notizia è che il porto è tuttora paralizzato: all’agitazione dei portuali, violentemente sgomberati, ha infatti aderito anche il personale che pilota i rimorchiatori. «Quindi le navi sono tutte ferme, alla fonda: non le sta scaricando nessuno. E non scordiamoci che da Trieste passa il 40% del petrolio che poi raggiunge la Germania».
Carlo Freccero ringrazia, offrendo il suo endorsement: «Se vi interessa sapere cosa succede davvero – dice, al pubblico – non perdetevi “L’Orizzonte degli Eventi”, con i preziosi aggiornamenti settimanali forniti da Matt Martini e commentati da Bizzi». Lo stesso Martini, in chiusura, propone una riflessione su un dettaglio forse rivelatore: il berretto blu indossato da Stefano Puzzer negli ultimi giorni è identico a quello della squadra di baseball dei Marines. Ipotesi: c’è la manina dei “trumpiani” (che negli Usa contrastano la “democratura-Covid” di Biden) dietro la tenacia dei ragazzi triestini? «Il blu è anche il colore della nostra polizia», sottolinea Freccero. Come dire: non stupirebbe più di tanto, se si scoprisse che sia stato qualche poliziotto, magari della Digos, a convincere i portuali a rinunciare al corteo previsto, visto il rischio di infiltrazioni da parte dei soliti noti. «L’altro giorno – racconta Freccero – in una stazione mi ha fermato un poliziotto, dopo la mia partecipazione alla trasmissione di Barbara Palombelli, in cui ho esposto le mie preoccupazioni sull’operazione Covid. Ebbene, quel poliziotto mi ha detto: tenga duro, Freccero, vada avanti così».

 

 

 

BELPAESE DA SALVARE

AstraZeneca, se Sileri sapeva perché non ha fermato gli Open Day? Lo scoop di Report

Una campagna vaccinale gestita come peggio non si sarebbe potuto. Con gli Open Day di AstraZeneca organizzati nonostante la consapevolezza dei tanti dubbi che circondavano il vaccino inglese, considerato pericoloso soprattutto per i più giovani, e poi di colpo sospesi dopo la morte della giovane Camilla Canepa, scomparsa a Sestri Levante a soli 18 anni. Errori evidenti, emersi in un’inchiesta condotta dalla trasmissione Report, in onda su Rai Tre, nella quale è stato affrontato il tema dello scudo fornito dall’Europa all’azienda farmaceutica, messa al riparo da qualsiasi possibile conseguenza per gli effetti indesiderati sui pazienti.

Un’inchiesta condotta magistralmente e che ha visto la giornalista Claudia Di Pasquale confrontarsi con il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri proprio a proposito della scelta di lanciare comunque gli Open Day AstraZeneca dedicati ai ragazzi, in controtendenza con altri Stati europei che avevano preferito adottare invece maggiore cautele. “Rimasi perplesso anche io – è stata la ricostruzione di Sileri – forse non era il vaccino preferenziale per i soggetti più giovani, soprattutto donne. Più di una volta ho sottolineato come avrei evitato di fare la somministrazione se fossi stato una donna al di sotto dei 40 anni. A chi me lo chiedeva ho sempre dato questo parere”.

Peccato, viene da pensare, che Sileri si sia limitato a spiegare questo concetto soltanto alla sua ristretta cerchia di amici, senza invece dire in maniera chiara alle ragazze italiane: “Non fate il vaccino AstraZeneca”. La giornalista di Report ha poi chiesto numi al sottosegretario sul destino dei tanti farmaci anti-Covid prodotti dall’azienda inglese, acquistati dall’Italia a peso d’oro e ora sospesi: “Ho chiesto alla struttura commissariale per chiedere cosa ne faremo e la scadenza – ha spiegato Sileri – ma non è un problema che riguarda solo noi. La soluzione dovrà essere europea”.

Resta in piedi, come confermato dallo stesso Sileri, l’ipotesi che i farmaci in eccesso vengano donati ai Paesi più poveri, sopratutto africani, dove si fa più fatica a vaccinare la popolazione. Un passaggio che solleva altri, agghiaccianti interrogativi: perché inviare in altri Stati vaccini sulla cui sicurezza permangono dubbi? Non è forse un atto sconsiderato e pericoloso, compiuto in nome di una pelosa carità buonista? In attesa di capire cosa ne sarà, alla fine, dei farmaci AstraZeneca, una certezza c’è: quando Sileri invoca “particolare attenzione alla scadenza” non fa che confermare, tra le righe, come il governo abbia buttato via i soldi degli italiani.

FONTE: https://www.ilparagone.it/attualita/astrazeneca-se-sileri-sapeva-perche-non-ha-fermato-gli-open-day-lo-scoop-di-report/

 

 

 

Il governo vuole un Green pass eterno: ecco fino a quando sarà prorogato l’obbligo

Se pensavate, dando un’occhiata a dati che ci raccontano di un’emergenza Covid sempre più alle spalle, che nei prossimi mesi avremmo assistito al naturale allentamento delle misure restrittive sappiate che vi sbagliate, di grosso. Anzi. Draghi e i suoi ministri sono pronti a giocare il proverbiale asso nella manica, la proroga del Green pass obbligatorio addirittura fino a marzo prossimo. Una mossa da annunciare addirittura il prima possibile così da spingere, nelle intenzioni del premier, altre persone a rassegnarsi al vaccino, cedendo così al ricatto di Stato.

Come rivelato da La Stampa, Draghi avrebbe infatti deciso di dichiarare guerra a chi, facendosi due conti in tasca, si era nel frattempo reso conto di poter andare avanti fino al 31 dicembre con una spesa di circa 200 euro al mese per i tamponi. Come ormai evidente da tempo, però, il premier e i suoi fedelissimi vogliono costringere gli italiani a vaccinarsi, senza eccezioni. E a confermarlo sono arrivate le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Non possono prevalere i pochi che vogliono far imporre le loro teorie antiscientifiche, con una violenza a volte insensata”.

Insomma, nessuno può illudersi di sfuggire alla morsa del governo Draghi. Pronto non solo ad allungare l’obbligo di Green pass, ma anche a prorogare il tanto discusso stato di emergenza non appena i dati sui contagi, con l’inverno, faranno segnare una risalita. Pierpaolo Sileri, sottosegretario alla Salute, ha chiarito proprio in queste ore: “Ci vorrà cautela nel cancellare le misure restrittive. Toglieremo prima il distanziamento, poi le mascherine al chiuso e infine il Green pass”. Il tutto accompagnato da appelli sulla necessità di un nuovo giro di inoculazioni: “La terza dose? Dovranno farla tutti”.

Dopo gli over 60, tra gennaio e febbraio la terza dose interesserà i cinquantenni e da marzo ad aprile i quarantenni. Un passaggio considerato ormai necessario, nei giorni in cui, ormai, le prime dose si sono fatte addirittura inferiori alle terze, a conferma di come non sia bastata nemmeno l’introduzione di un Green pass vigliaccio a piegare gli italiani ai diktat dei santoni-virologi.

FONTE: https://www.ilparagone.it/attualita/il-governo-vuole-un-green-pass-eterno-ecco-fino-a-quando-sara-prorogato-lobbligo/

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

Siria: contenzioso tra truppe USA e russe

PUBBLICATO IL 29 LUGLIO 2021

Mentre fonti locali siriane hanno riferito, il 29 luglio, di un presunto sconto tra le forze armate statunitensi e quelle russe nell’area Orientale di Hassakeh, l’ambasciatore della Federazione a Washington, Anatoly Antonov, ha sottolineato che i due Paesi hanno avviato un format per discutere della de-escalation in Siria.

Fonti locali siriane hanno diffuso, giovedì 29 luglio, un video che mostrava scontri tra le forze russe e quelle statunitensi nella campagna di Hassakeh, nella Siria Orientale. A riferirlo è stata la testata di opposizione SY-24, citata dall’agenzia di stampa Syrian Observer. Stando alle fonti, un gruppo di veicoli corazzati degli USA avrebbe bloccato una pattuglia affiliata a Mosca mentre passava i villaggi di Batrzan e Derni, nella campagna di Hassakeh. Gli scontri sviluppatisi in seguito non avrebbero causato né morti né feriti da ambo i fronti.

Nel frattempo, il giorno precedente Antonov ha dichiarato che la Casa Bianca e il Cremlino hanno concordato la linea da adottare al fine di avviare un dialogo costruttivo sulla situazione in Siria. L’agenzia di stampa siriana SANA ha poi citato le dichiarazioni rilasciate da Antonov. Quest’ultimo ha ricordato che durante il vertice tenutosi a Ginevra il 16 giugno, il presidente russo, Vladimir Putin, l’omologo statunitense, Joe Biden, hanno discusso della situazione in Siria. A seguito di tale epilogo, è stato avviato un dialogo costruttivo a livello di esperti ed entrambi i Paesi sono consapevoli “dell’importanza di mantenere la comunicazione continua nel quadro del meccanismo di prevenzione delle collisioni”.

La Russia ha fatto il suo ingresso nel panorama siriano il 30 settembre 2015, ponendosi a fianco delle forze associate al presidente del Paese, Bashar al-Assad, nel quadro del perdurante conflitto, scoppiato il 15 marzo 2011. A scontrarsi con l’esercito filogovernativo vi sono i gruppi ribelli, sostenuti dalla Turchia. Al contempo, le forze russe e l’esercito di Damasco sono impegnate nella lotta contro lo Stato Islamico, le cui operazioni interessano soprattutto le regioni centrali della Siria. In tale contesto, il 21 luglio, fonti locali hanno rivelato che la Russia ha continuato a lanciare attacchi aerei contro la regione di Badia, servendosi di missili altamente esplosivi.

In tale cornice, poi, nel corso degli ultimi colloqui di Astana, svoltisi a Sochi il 16 e 17 febbraio scorso, i partecipanti hanno concordato di estendere la tregua nel governatorato Nord-occidentale. Ad ogni modo, l’esercito di Assad non sembra essere disposto ancora a lasciare che i gruppi di opposizione prendano il controllo definitivo di Idlib. La Turchia, dal canto suo, ha istituito dal 2017 più di 65 postazioni militari nel Nord e nel Nord-Ovest della Siria, sulla base delle intese firmate con la Russia, ma, al contempo, si è ritirata da altre postazioni cadute sotto il controllo delle forze di Assad. Oltre Idlib, anche il Nord Est della Siria continua a rappresentare un’area al centro delle tensioni, che vedono protagoniste, tra gli altri, le Syrian Democratic Forces (SDF), le quali continuano ad essere bersaglio dello Stato Islamico.

L’intervento della Russia in Siria è stato accolto con sorpresa dagli osservatori internazionali. Secondo gli analisti, il fatto che il Cremlino si sia schierato con le forze governative è legato a una pluralità di fattori. La caduta di Assad avrebbe avuto conseguenze negative per la Russia perché, da una parte, Mosca avrebbe perso un importante alleato regionale, dall’altra il sovvertimento di potere in Siria avrebbe minacciato gli interessi di Mosca nell’area. Inoltre, la decisione di intervenire nel conflitto rifletteva anche il timore che le “rivoluzioni colorate” prendessero piede in Russia. È importante ricordare che, a partire dal 2000, tali movimenti filo-europeisti hanno dato il via a proteste antigovernative in numerosi Stati post-sovietici, come l’Ucraina e la Georgia. Pertanto, Mosca temeva che il potenziale successo dei movimenti contro il governo in Siria avrebbe provocato un’analoga reazione in Russia. Anche i rapporti con l’Occidente, sempre più tesi, hanno spinto il Cremlino a schierarsi dalla parte di Assad. Infine, l’ascesa dell’ISIS ha fornito a Mosca l’opportunità di giustificare l’intervento attraverso la retorica della lotta al terrorismo.

FONTE: https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2021/07/29/siria-contenzioso-truppe-usa-russe/

 

 

 

La nuova e ampia nuclearizzazione della Cina

Quando “la Cina si rende ‘intoccabile’ sul piano militare”

 

 

Ministra tedesca della Difesa: “La NATO sia pronta a minacciare la Russia con armi nucleari”

La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha criticato la recente dichiarazione del ministro della Difesa tedesco sulla Russia, definendola del tutto inammissibile.
In precedenza, Annegret Kramp-Karrenbauer aveva fatto scalpore dopo aver affermato che la NATO dovrebbe essere pronta a contenere la Russia con armi nucleari e prevenire qualsiasi “violazione” dello spazio aereo sugli Stati baltici e intorno al Mar Nero.

“Il capo del ministero della Difesa della Repubblica federale di Germania (…) ha fatto alcune dichiarazioni assolutamente inammissibili sul contenimento della Russia e sulla possibilità di usare (…) armi nucleari”, ha detto Zakharova.

A seguito della controversa dichiarazione della Annegret Kramp-Karrenbauer, l’addetto militare tedesco è stato convocato al ministero della Difesa russo.

FONTE: https://www.maurizioblondet.it/ministra-tedesca-della-difesa-la-nato-sia-pronta-a-minacciare-la-russia-con-armi-nucleari/

 

 

 

CULTURA

Etica del corrispondere

Ricordiamo il filosofo francese Jean-Luc Nancy, scomparso il 23 agosto, pubblicando questo intervento uscito sul numero 1/1997 di MicroMega.

Jean-Luc Nancy 

Di che cosa siamo responsabili? Per esempio, degli effetti possibili della sonda che viaggia fuori del sistema solare – della fragile costituzione della Bosnia-Erzegovina – dei problemi giuridici posti da Internet – della trasformazione degli oggetti di culto africani in curiosità artistiche – della diffusione dell’Aids – della ricomparsa dello scorbuto – dell’invenzione di un’agricoltura marina – dei programmi televisivi – del sostegno pubblico alla poesia – della poesia, assistita o meno – della memoria e della spiegazione di tutti i genocidi – della storia dell’Occidente diventato il mondo – e siamo responsabili, se non altro, nel senso indicato da Deleuze quando dice «che non siamo responsabili delle vittime, ma di fronte alle vittime» (1). Noi siamo responsabili insomma di tutto quello che si può definire in termini di attività o di costumi, di natura o di storia, siamo – ci diciamo, o comunque alcuni pensatori e scrittori lo dicono, e questo già ci impegna – responsabili dell’essere, di Dio, della legge, della morte, della nascita, dell’esistenza, della nostra e di quella di tutti gli enti. Ma noi chi? Noi, ognuno individualmente, nella misura in cui è possibile sapere dove comincia e dove finisce un individuo (ed è proprio dal punto di vista della responsabilità che è estremamente difficile determinarlo), e tutti insieme, nella misura in cui è possibile sapere che cos’è un essere-insieme (e anche in questo caso la responsabilità costituisce un problema di scelta). Ora anche questi saperi, con i loro problemi e le loro aporie, cadono sotto la nostra responsabilità. Che cosa poi significhi una responsabilità che non ha limiti né nello spazio né nel tempo, né nei soggetti d’imputazione né nel campo di applicazione, anche questo, e in definitiva soprattutto questo, cade sotto la nostra responsabilità: e per di più si tratta di una responsabilità che non si esercita di fronte a nessun altro, se non di fronte a noi stessi.

Non è una caricatura. Se, a prima vista, può sembrarlo, è perché, in effetti, ci è difficile accomodare lo sguardo su una situazione che possiamo tenere a distanza e che tuttavia ci rappresenta da ogni parte l’autocoscienza del nostro tempo. Niente può sottrarsi a una responsabilità che tende a confondersi con l’esistenza stessa, presa assolutamente, dal momento che niente – nessuna autorità, nessuna potenza, nessun indice di senso o di non-senso – prende su di sé un destino (nel senso più largo del termine, come storia, sorte, provvidenza, destinazione), dal momento che, cioè, non c’è nessuna istanza che ci misuri la responsabilità, determinandone i territori e definendone l’ampiezza. Se la parola «destino» dovesse ancora avere senso, nell’una o nell’altra delle sue versioni (tragedia o progresso, salvezza o catastrofe, liberazione o erranza, moiraananke, vocazione, invio), finirebbe ormai per confondersi con la parola responsabilità. Una responsabilità smisurata che è, essa sola, a misura di una destinazione che sfida tutte le dimensioni del destino.

In una forma così estrema questa parola «responsabilità» ha ancora un senso? Una responsabilità senza misura, certo, rischia di dissolvere ogni responsabilità effettiva, rinviando l’imputazione di soggetto in soggetto, all’infinito, e annegando l’obbligazione in un’equazione, assoluta e inafferrabile, di libertà e necessità. Si diffonde così una duplice ideologia della responsabilità generalizzata: da un lato, la responsabilità di istanze collettive sempre più larghe, organizzazioni, stati, mercati, reti, sistemi, dall’altro, la responsabilità sempre più pressante dell’individuo al quale si ingiunge di assumersi la sua vita, il suo lavoro, il suo tempo libero, il suo ambiente, i suoi rapporti e, in maniera impercettibile, tutta l’interdipendenza degli stessi sistemi. Da un lato si fa appello a connessioni ininterrotte e infinite, dall’altro a solidarietà ramificate tra soggetti considerati come persone assolute di ragione e di diritto. Alla fine i due lati vengono a coincidere dissolvendosi l’uno nell’altro. Il soggetto responsabile fugge, rendendosi introvabile.

Non c’è dubbio che, in questa prospettiva, il compito morale, giuridico e politico consiste nel determinare ogni volta, in una legislazione, in una valutazione, nell’istruzione di un caso, ciò che permette di determinare con prudenza (nel senso antico e forte del termine che prelude in effetti al senso di «responsabilità») la misura di una responsabilità imputabile. Proprio questo esige, però, una sorta di responsabilità anticipata, dal momento che l’imputazione non è data o programmata, che le vie della prudenza sono poco o per niente battute, che il «ragionevole» e il «conveniente» non sono che mezzi mediocri e fragili. Volendo individuare delle essenze, potremmo dire: in un mondo della colpa il rapporto con la legge è dato e fissato. In un mondo della responsabilità l’impegno del soggetto precede ed eccede la legge. (Tra l’uno e l’altro si situa il mondo cristiano del peccato, in cui è in questione soprattutto il peccatore, e non tanto la colpa.) Questo è anche il motivo per cui l’esercizio della responsabilità può essere, in base al suo risultato, tanto ricompensato e onorato quanto punito e, analogamente, io posso rendermi responsabile di ciò che nessun’altra istanza mi ha imposto.

Se, pertanto, dobbiamo assumerci la responsabilità di misurare le responsabilità e individuare i responsabili, le loro obbligazioni e i loro impegni, senza che nessun legislatore ci dia una misura a priori, non a torto, allora, l’autocoscienza del nostro tempo coglie una dismisura sconcertante della responsabilità, capace di provocare tanto l’angoscia quanto un’allegria irresponsabile. «Responsabile» è il nome dell’essere che è capace di promettere: è quanto dichiara Nietzsche, che è probabilmente il primo a parlare di una responsabilità totale, di un’umanità che è responsabile, senza limiti, di se stessa e del mondo (2). L’umanità diventa allora la promessa di se stessa: forse questa è la sua storia moderna e il suo divenire mondo. Non più essere dato, non più essere promesso o rimesso da qualcun altro né a qualcun altro, ma essere interamente promessa di sé – «rispondere di sé come avvenire» (3) dice Nietzsche – in modo tale che il «sé» si confonde con questa promessa ed è impegnato, così, a rispondere di un’anticipazione de iure infinita: questa è la nostra verità, strana, provocatoria, tagliente come ogni verità.

*  *  *

Non è irrilevante che Nietzsche chiami «filosofo» il soggetto di questa responsabilità. Egli scrive: «Il filosofo come lo intendiamo noi, noi spiriti liberi – come l’uomo che ha la responsabilità più vasta e per cui il completo sviluppo dell’umanità è un fatto di coscienza» (4). Questa frase può essere letta in due modi. La si può intendere come una frase «totalitaria» e supporre così che «il filosofo» sia una figura specifica, individuale o collettiva, portatrice di una visione dell’uomo su cui cerca di modellare gli altri. Ma si può anche pensare che quello che qui è chiamato «il filosofo» non sia affatto una figura e non brandisca alcun fantasma, ma sia colui che si definisce solo attraverso questa responsabilità illimitata, che è la responsabilità dell’uomo, proprio in quanto la sua figura non è data, dell’uomo come «animale non ancora stabilmente determinato», come dice Nietzsche poco dopo (5). «Filosofia» non significa quindi sapere o credenza, ma responsabilità per ciò di cui non c’è né sapere né rivelazione, per ciò che non è a disposizione in alcun modo e di cui non c’è neppure concetto o significato.

Queste frasi di Nietzsche sottolineano quella che va considerata come una delle tradizioni più potenti della filosofia moderna, se non addirittura come la sua tradizione per eccellenza o come la sua virtù principale: quella che pone al sommo o al culmine del pensiero l’atto di un impegno verso un’esigenza incondizionata che gli viene solo da lui stesso, dal pensiero come pensiero dell’uomo, nel doppio senso del genitivo.

Questo era inizialmente, infatti, il senso della libertà kantiana e, con essa, di una responsabilità, il cui soggetto – la «persona intelligibile» si trova di fronte a se stesso come di fronte a «un Essere santo» e «considera tutti i suoi doveri come comandamenti divini» (6). Ma proprio questi doveri, appunto, sono de iure senza fine: sono il dovere di trattare come un fine l’uomo che è l’essere dei fini e che nient’altro – né una razionalità data né una natura – definisce. L’uomo kantiano, di cui tutti siamo eredi, è, nel suo essere, responsabile di se stesso come di un fine infinito.

Potrei mostrare, ma avrei bisogno di troppo spazio, che questo pensiero si sviluppa e si modula tanto in Hegel (la cui Ragione non è niente di dato e consiste solo nell’impegnarsi e nel decidersi per se stessa) quanto in Schopenhauer, in Kierkegaard, come in Marx o in Husserl (che qualifica la filosofia di «responsabilità ultima») (7), in Bruno Bauch, in Nicolai Hartmann, in Heidegger (in cui l’esser-colpevole ontologico si fonda sul modello ontico della responsabilità (8). (Mi interrompo per notare che ci sarebbe molto da dire sull’importanza, negli anni Venti e Trenta, all’indomani della Grande guerra e alla vigilia di ciò di cui non si aveva ancora sentore, di un diffuso pensiero della responsabilità che tendeva a diventare esso stesso la risposta ed entrava così in un dibattito intimo e complesso con i motivi del destino, della storia o della fatalità – le riflessioni di Valéry ne sono, per esempio, una buona testimonianza.) Com’è noto, infine, la responsabilità è presente in maniera continua nel pensiero di Sartre (solo una citazione che vale forse per tutti: «Rendersi responsabili del mondo come se fosse una nostra creazione» (9), di Blanchot, di Adorno o di Bloch, di Levinas, di Jonas o di Derrida.

Il filo rosso che unisce, in questa prospettiva, tanti nomi così diversi è intrecciato con due elementi diversi: da una parte, prevale il motivo della responsabilità, dell’essere o dell’esistenza che vengono definiti mediante la responsabilità e, dall’altra, si ritrova il motivo della filosofia o del pensiero come responsabilità e come responsabilità «assoluta». L’intreccio di questi due motivi merita attenzione e permette di affinare l’analisi di Nietzsche. Non soltanto la responsabilità è diventata, nella modernità, un tema più che centrale, un tema ontologico, non soltanto ha assunto una grande ampiezza (responsabilità dell’intera storia, della natura e della cultura, di Dio stesso, come in Hans Jonas), ma, addirittura, la filosofia che pensa questa responsabilità senza frontiere pensa se stessa, come l’esercizio di un archi-responsabilità. In altri termini, il pensiero non si dà soprattutto, e comunque non soltanto, nella forma, nel tono, nello stile, del sapere o della «concezione del mondo», ma si espone – e, d’un tratto, il suo tono e la sua scrittura cambiano – come un impegno e una promessa (o come una «profezia» nel senso di Bloch): il pensiero assicura che in esso e per esso non ne va soltanto di una rappresentazione o di un’interpretazione, ma ne va di una posta complessiva in cui è il pensiero stesso a essere in gioco. Per dirlo con un’espressione dei linguisti: questo pensiero è già, in se stesso, un performativo della responsabilità che vuole pensare.

Si dirà che questa è stata sempre la pretesa della filosofia – e che in effetti non ci potrebbe essere «filosofia», se non a questo prezzo. Ma quando la filosofia giunge a dichiararsi e a «performarsi» responsabile, e responsabile assolutamente, vuol dire che essa s’impegna per un senso e, dunque, per un senso a venire o per l’avvenire di un senso, invece di limitarsi a descrivere o a consegnarsi a un senso che c’è già. Questa filosofia non propone ma, piuttosto, si espone e il fondo del suo proposito o della sua proposta (il suo senso o la sua verità) è inseparabile da questa esposizione in cui essa s’impegna, si promette e si mette a rischio.

Qui non è in questione, dunque, semplicemente un pensiero responsabile. È in questione, piuttosto, un pensiero di cui la responsabilità costituisce insieme il contenuto e l’atto o, parafrasando Husserl, il noema e la noesi. Questo pensiero può pensare solo nell’impegno responsabile: pensare, per esso, non significa liberare dei significati latenti, ma assumere l’apertura verso un senso possibile, non dato, ma promesso, garantito come a venire – e questo non significa affatto «assicurato per domani», ma al contrario, messo a rischio come l’ignoto e l’imprevedibile di ciò che è ancora a venire. A essere assicurato è, in effetti, solo questo rischio: ma questa non è la lingua delle assicurazioni e ciò non significa che il rischio sia coperto, ma che è aperto.

Ciò per cui questo pensiero s’impegna e di cui si rende responsabile è la responsabilità, il contenuto di un «principio responsabilità». Raddoppiamento, mise en abyme o regressione infinita, il pensiero s’impegna perché sia in questione l’impegno, l’essere essenzialmente responsabile, e l’esserlo assolutamente, essere responsabile, cioè, di tutto e in tutto, una responsabilità senza limiti e che è, di nuovo, la responsabilità dell’essere stesso e del tutto dell’ente o di Dio (Jonas) o dell’«uno per l’altro» (Levinas), responsabilità dell’infinito o dell’assoluto, della verità, della sua eternità e del presente della sua manifestazione.

Rinasce allora la questione: di che cosa c’è responsabilità? Questione resa più acuta e inquieta da questa testimonianza insistente, ossessiva che la filosofia porta su di sé, una testimonianza così potente che bisogna o squalificarla interamente come ideologia, come l’illusione di riparare a un fallimento inevitabile e a una delusione dell’azione – o affrontarla senza mezzi termini.

*  *  *

In che cosa può, allora, consistere una responsabilità assoluta – una responsabilità della responsabilità o per la responsabilità? In che cosa può consistere una responsabilità nuda, che non è responsabile di niente di definito e che è responsabile solo di fronte a se stessa, ma di fronte a se stessa come di fronte a ogni altro o a un completamente-altro, di fronte a un soggetto della responsabilità che può essere definito solo come analogon della santità (per usare ancora una volta un’espressione kantiana) e al quale il carattere analogico toglie ogni positività e ogni determinazione? È la responsabilità che è santa, ma questa santità è senza paradiso né beatitudine, senza gloria, senza grazia né virtù.

Ci viene allora da pensare che questa responsabilità non sia altro che quella del senso – e che il senso sia anche, forse sempre, ciò che risponde a una responsabilità. Voglio dire che ciò di cui siamo assolutamente responsabili è il senso (il senso o la verità, qui mi limiterò ad assimilarli), ma che il senso non è come un’altra cosa di cui posso essere responsabile (la gestione di un’impresa, la solidità di un muro, la salute, la felicità o la vita di qualcuno). Giacché il senso non è in sé indipendente dalla responsabilità del senso. Il senso si dà solo a colui che si mette nella posizione di rispondere di esso: ogni atto di linguaggio, ogni scambio di segni, comporta l’anticipazione del senso, la sua promessa o la sua garanzia come ciò che deve venire all’altro – anche all’altro che è in me – ciò che deve venire nell’altro e che sarà o farà senso solo in lui, per lui e attraverso di lui. Non garantisco, quindi, il senso perché già lo possiedo, non attingo a una riserva sicura del senso che mi limito a trasmettere: ma prometto, annuncio e anticipo nell’annuncio un senso che tuttavia non c’è e non ci sarà mai come una cosa compiuta e presentabile; perché è sempre un senso nell’altro e secondo l’altro, che è già in me come un andare all’altro, che ha o fa senso solo nell’essere esposto all’altro, al rischio di non fare senso – al rischio – sempre sicuro – di cambiare senso nell’altro e di essere, quindi, sempre altro, sempre alterato e sempre altrove, in quanto esso è per se stesso, in quanto senso, un essere infinitamente-per-altro.

Senza questa infinità non c’è senso e non può essercene, quindi, senza una responsabilità, priva di limiti, per questa infinità. La responsabilità assoluta ci è venuta con l’infinità assoluta dei fondamenti e dei fini, con la legge morale e la volta stellata, con la morte di Dio e la nascita del mondo, con l’esistenza rimessa alla nostra responsabilità assoluta. Nient’altro conta, nient’altro è seriamente in gioco, e soprattutto non quei valori, quelle virtù e quei sostituti d’anima di cui alcuni chiacchierano per professione e che non hanno alcun senso senza questo squarcio assoluto di tutti gli orizzonti ricevuti.

Ciò che si precede infinitamente nell’altro o ciò che dell’altro si precede infinitamente in me e, via via, in tutti gli altri, senza che nulla possa trattenere e fissare questa propagazione, è il senso: il senso che non ha né direzione né significato, che prende tutte le vie di scambio e gioca in tutti i rimandi dei segni. Ciò che fa senso è, in verità, sempre al di là del senso: un avvenire, un incontro, un’opera, un evento; e, quando l’avvenire è diventato presente, quando l’incontro ha avuto luogo, l’opera si è realizzata, l’evento si è spento, allora il senso – il loro senso – passa al di là e altrove. Quando una ragione di vivere è data, ammesso che ciò possa accadere, quando è data, depositata e disponibile (abbia essa la forma di vita di un bambino o di una società giusta), è necessario che abbia anch’essa un’altra ragione al di là di se stessa, al di là della vita o della giustizia stessa, una ragione che non è presente – altrimenti è il momento di morire, che è ancora un’altra maniera per sottolineare il senso attraverso la verità del suo rinvio all’altro e l’assenza della sua assicurazione. Il senso garantisce solo dando in pegno il proprio movimento di espansione o di fuga, il proprio contagio immanente o il proprio eccesso trascendente.

Il senso ha, dunque, la struttura della responsabilità: è impegno, giuramento. Spondere è impegnarsi con un giuramento solenne (10). Alla sponsio dell’uno risponde la responsio dell’altro. La risposta è innanzitutto un impegno di ritorno – di ritorno rispetto a ciò che ci ha impegnati o si è impegnato per noi, il mondo, l’esistenza, gli altri. È scambio della garanzia di fare senso gli uni con gli altri. Giuramento reciproco di veridicità, senza il quale nessuna parola, nessuno sguardo sarebbero possibili. Così quando si risponde di, si risponde sempre anche a – a un appello, a un invito, a una domanda o a una sfida del senso. E quando si risponde a, si risponde anche di – del senso che si promette, di cui ci si fa garanti. Se mi chiedono l’ora, garantisco di dire l’ora vera. Se mi si chiede amore o giustizia, garantisco l’infinità, senza assicurazioni, di queste parole. Ciò che generalmente si chiama una «risposta» è una soluzione, ma qui si tratta del rinvio della promessa o dell’impegno. Il senso è l’impegno di molti fra loro e la verità è sempre, inevitabilmente, in questo fra o in questo con.

Questa è la nostra responsabilità, quella che non ci si aggiunge come un compito, ma che fa il nostro essere. Noi esistiamo in quanto responsabilità, cioè, con le parole di Heidegger, noi ek-sistiamo, siamo esposti gli uni agli altri e, insieme, al mondo – il mondo che non è altro che questa esposizione stessa. L’esistenza è responsabilità dell’esistenza. E bisogna subito precisare che potremmo aggiungere o sostituire la difficile parola «democrazia» e la logica resterebbe la stessa.

Questa responsabilità è tanto vuota quanto assoluta. Questo vuoto è la sua verità: l’apertura del senso. Questo vuoto è tutto, tranne un niente del senso, così come l’intende il nichilismo. Il nichilismo afferma che non c’è nessun senso, che il cielo del senso è vuoto. La responsabilità assoluta dice in un certo senso la stessa cosa: dice che non c’è nessun senso dato (presente, disponibile, configurato, attestato, depositato, assicurato) e perfino che il senso non può mai essere un dato. Ma dice che l’esistenza è impegnata in questa assenza di dato, per dare al senso tutte le sue chance – e forse il senso è fatto solo di chance.

*  *  *

C’è una responsabilità smisurata perché c’è, da una parte, un’interdipendenza illimitata degli uomini, delle cose, della natura, della storia, dell’informazione e della decisione e, dall’altra, un soggetto d’imputazione che è ognuno di noi e tutti insieme e, in ognuno di noi e in tutti, un numero indefinito di istanze, di trasmissioni, di amplificazioni e di connessioni. Si può perciò dire con Derrida che «la coscienza di una responsabilità limitata è una “buona coscienza”» (11) e che la «buona coscienza» è la negazione della coscienza. La responsabilità della «persona intelligibile» è venuta a coincidere con quella del mondo. Il mondo è responsabile di se stesso. Meglio ancora: il mondo – o l’insieme dei rimandi di senso – è questa responsabilità e nient’altro. Il mondo è quindi costituito da una promessa-di-sé, da un’anticipazione del suo essere e della sua verità di mondo. Ma l’anticipazione non significa in questo caso la previsione o la predizione di un futuro. Impegna certo una previdenza, ma non assicura nessuna provvidenza. Non significa che il mondo si precede, si supera, si trascende o si trasgredisce in un senso-del-mondo che ne costituisce la verità. Questo superamento verso di sé in quanto altro, questo eccesso dell’altro in sé è, al tempo stesso, il senso e la responsabilità. L’uno nell’altra e l’uno attraverso l’altra: questo è ciò che si chiama pensiero.

Non il pensiero come esercizio riservato né come disciplina filosofica. Ma il pensiero come praxis responsabile del senso. Il pensiero che si fa nel giuramento di verità, nell’impegno, nel mettere in pegno e, insieme, in gioco la risposta a ciò che non cessa di fare appello, di «interpellare» come si dice oggi, di fare appello a quel soggetto del senso che ognuno di noi è, allo stesso modo. Ognuno di noi lo è; e lo è infinitamente, assolutamente, molto al di là o al di qua di ogni egoità, di ogni personalità, intesa come individuo o come comunità.

L’esistenza, allora, si sa responsabile «fino all’irresponsabilità», come ha potuto dire Blanchot a proposito di Bataille (12) e come ha detto, in maniera molto simile, Adorno a proposito dell’arte (13). L’esistenza sa di dover rispondere, alla fine, dell’assenza di risposta e quindi anche di una totale libertà e dispersione delle risposte. Bisogna essere capaci di impegnarsi fino al gioco e alla gaiezza, promettere l’ebbrezza o non promettere più niente.

Siamo responsabili del senso e il senso non è la risposta di un significato che verrebbe a saturare l’annuncio, l’invio o il dono del senso, mettendo fine in questo modo alla nostra responsabilità. Così, per esempio, Ernst Tugendhat può determinare la responsabilità nella comunità, interrogando ciò che potrebbe definire l’idea della «vita buona» e accostandola alla questione della verità, suggerendo che «la prospettiva del bene ci è offerta nel sapere del non-sapere» (14).

Possiamo essere certi, d’altronde, che mai nessun significato ultimo – Dio o Uomo, Sapere o Giustizia, Potere o Felicità – potrebbe avere la funzione di abolire l’infinità del senso e l’assolutezza dell’(ir)responsabile. Ciò che oggi ci accade è proprio il sapere cosciente – sapere del non-sapere, di nuovo – che ogni significato supremo significa sempre, al di là di se stesso, la responsabilità di un’irresponsabilità ultima del senso. In ultima istanza siamo responsabili della dismisura e ci è richiesto di essere capaci di assumere e di regolare, con precisione e prudenza, l’assenza di ogni risposta data e l’eterno ritorno di questo silenzio in risposta. Esistere impegna a questo, proprio a questo.

È l’esigenza più rigorosa e più severa. È il luogo stesso del rigore, logico, etico, poetico, è il luogo di quella responsabilità che è il pensiero: non lasciarsi prendere in una trappola del senso, non identificarlo, non assegnarlo né incarnarlo, figurarlo o reificarlo, farne una dottrina o un affare di intellettuali. Ma riprendere incessantemente e infinitamente l’impegno, reimpegnarlo al di là di ogni assicurazione possibile, metterlo a rischio nella sua smisuratezza, facendone la nostra misura più propria. E abbandonare, così, l’atteggiamento austero e le precauzioni meticolose dei responsabili che danno lezioni.

L’esistenza e la democrazia – se queste parole non debbono designare l’orizzonte piatto delle certezze acquisite – l’esistenza democratica non è né un dato, né un affare di regime, né un’armatura di diritti. È una partizione uguale ed esigente del pensiero come responsabilità assoluta di senso.

Ma non basta – spero di averlo fatto intendere – nominare questo senso, lasciandolo nella sua indeterminatezza, come se fosse una parola magica. Tanto più che questa parola, di cui ho creduto di potermi servire ancora oggi, è già visibilmente consegnata all’usura e all’inflazione. Va ripetuto, quindi, che «il senso» non è un’entità disponibile o costruibile, così come non è il riempimento, più o meno illusorio, della sua pura intenzione. Il senso è ciò che rimanda dall’uno all’altro e che permette, dunque, che ci sia l’uno con l’altro. Per questo esso è sempre dell’ordine della risposta: non la risposta a una domanda, risposta che chiude la ricerca o alleggerisce la richiesta, ma la risposta di ritorno a un appello. Ci si rivolge sempre alla verità in me – e io, a mia volta, mi rivolgo sempre alla verità nell’altro. È stato spesso detto che la filosofia si limita a porre domande. Direi che oggi essa deve limitarsi a pensare la risposta: non una risposta-soluzione, né una risposta-verdetto, ma una corrispondenza. Nella corrispondenza – che fa la nostra corresponsabilità – non c’è bisogno di ciò che chiude lo scambio, ma al contrario di ciò che l’instaura e lo rilancia. C’è bisogno di voci, di timbri e di modi singolari. Le voci sono per se stesse, nella loro corrispondenza, creazione di senso. La responsabilità democratica è responsabilità di una tale creazione. Ma ciò vuol dire, immediatamente e innanzitutto, che la stessa democrazia non è niente di dato, nessun senso disponibile. È responsabile proprio di ciò che non è dato: il demos, il popolo o gli uni con gli altri.

NOTE

(1) G. Deleuze, Che cos’è la filosofia, Einaudi, Torino 1996, p. 101.

(2) F.W. Nietzsche, Genealogia della morale, II, 2 e Al di là del bene e del male, § 61.

(3) F.W. Nietzsche, Genealogia della morale, II, 1.

(4) F.W. Nietzsche, Al di là del bene e del male, § 61.

(5) F.W. Nietzsche, Al di là del bene e del male, § 62.

(6) I. Kant, Metafisica dei costumi,  Dottrina della virtù, I, § 13.

(7) E. Husserl, «Phänomenologie und Anthropologie», in Husserliana, Bd. XXVII,  Kluwer, Dordrecht 1989, p. 172.

(8) M. Heidegger, Essere e tempo, § 58.

(9) J.-P. Sartre, Verité et existence, Gallimard, Paris 1989, p. 63.

(10) Cfr. E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, II, Einaudi, Torino 1976, p. 408.

(11) J. Derrida, Du droit à la philosophie, Galilée, Paris 1990, p. 108.

(12) M. Blanchot, L’Amitié, Gallimard, Paris 1971, p. 326.

(13) Th.W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1975, p. 57.

(14) E. Tugendhat, Selbstbewusstsein und Selbstbestimmung, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1979.

FONTE: https://www.micromega.net/etica-del-corrispondere-jean-luc-nancy/

 

 

 

ECONOMIA

Effetto Draghi: le molte facce dell’austerità

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Sta aleggiando in Italia la visione secondo cui il premier Mario Draghi, godendo di ampio credito politico internazionale, potrebbe fare “Whatever he wants” in materia di conti pubblici, e stia permettendo all’Italia di rinunciare all’austerità e attuare politiche di bilancio espansive. Sebbene le previsioni sui disavanzi pubblici italiani, riportati del Documento di Economia e Finanza 2021 (DEF 2021) e nella sua nota di aggiornamento (NADEF 2021), sarebbero i più alti a partire dall’inizio degli anni ’90, è utile analizzare con molta attenzione questi dati per giudicare quanto siano davvero espansive le politiche messe in campo dal governo Draghi e se effettivamente l’Italia spenda di più rispetto ad altri paesi europei proprio grazie alla presenza di sua maestà, il presidentissimo Mario Draghi.

Per una questione relativa alla disponibilità dei dati, per poter svolgere un confronto europeo, attualmente si possono avere le previsioni di spesa e di deficit realizzate dalla commissione europea a maggio 2021 relative all’anno in corso. Chi ci racconta che l’Italia sta facendo politiche fiscali fortemente espansive, e quindi che lo Stato sta mettendo pesantemente mano all’economia per risollevarla dalla crisi, fa ad oggi riferimento a questa fonte. Stando a queste previsioni, l’Italia sarebbe uno degli stati che a fine 2021 avrà speso di più per sostenere l’economia, con un livello del rapporto deficit/PIL dell’11.7%, seguita dalla Grecia (10%), Francia (8.5%), Spagna (7.6%), e Germania (7.5%). Tuttavia, è importante sottolineare due aspetti: da un lato, per valutare il reale impatto espansivo di una politica di bilancio occorre fare riferimento al saldo primario e non a quello complessivo. Dall’altro, per valutare la discrezionalità di una manovra espansiva, quanto cioè essa derivi da un reale intenzione politica, una misura più efficace è rappresentata dal rapporto deficit/PIL aggiustato per il ciclo economico. Andiamo con ordine.

Per quanto riguarda la prima questione, rispetto al saldo complessivo, il saldo primario non considera la spesa per interessi sul debito pubblico. Questa spesa ha effetti macroeconomici sostanzialmente nulli in quanto finisce in gran parte nei profitti di banche e altre grandi istituzioni finanziarie e non va a finanziare aumenti di spesa e di consumi. Analizzando il disavanzo al netto degli interessi, queste differenze tra i Paesi si assottigliano. Le previsioni sul rapporto tra deficit primario e PIL (Tabella 1) ridimensionano la portata espansiva della politica fiscale del governo Draghi. Infatti, pur rimanendo uno dei primi paesi per rapporto tra saldo di bilancio primario e PIL (-8.4%), il divario con gli altri Paesi si assottiglia (ad esempio, la differenza rispetto alla Germania passa dai 4.2 punti percentuali se si guarda al saldo complessivo, ad un più modesto 1.4 se si guarda al saldo primario). La portata espansiva della manovra fiscale del governo sembra meno eccezionale, dunque, di quanto possa apparire.

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Tabella 1. Previsioni deficit-PIL primario.

Inoltre, per valutare la discrezionalità di una politica fiscale e quindi analizzare la tesi per cui l’esecutivo si sta impegnando senza tregua per risollevare le sorti dell’economia italiana, un indicatore fondamentale è il rapporto deficit primario-PIL aggiustato per il ciclo economico. Questo indicatore rappresenta in modo più chiaro la discrezionalità di una politica fiscale poiché non considera tutte quelle componenti di spesa che variano in modo automatico in quanto legate all’andamento del ciclo economico (come, ad esempio, la spesa per sussidi di disoccupazione che aumenta automaticamente quando la disoccupazione aumenta a causa di una recessione), senza che ci sia un vero cambiamento nelle scelte politiche. C’è inoltre da aggiungere che il drammatico calo del PIL registrato lo scorso anno, al quale non ha fatto seguito una ripresa di pari entità nell’anno in corso, comporta una riduzione fisiologica del gettito fiscale rispetto ai periodi pre-pandemia, con un naturale ‘ammanco’ di entrate nelle casse: questo elemento, al pari degli stabilizzatori automatici, contribuisce a far aumentare l’entità di un disavanzo indipendentemente dalle scelte politiche del Governo di turno. Come mostrato in Tabella 2, le previsioni deficit primario-PIL aggiustato per il ciclo italiane sono sostanzialmente in linea con i maggiori Paesi europei, come ad esempio Francia e Germania. Da ciò, inoltre, si evince come il disavanzo complessivo sia dovuto, oltre che alla spesa per interessi, anche alla drammatica severità della crisi in Italia.

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Tabella 2. Previsioni deficit-PIL primario aggiustato per il ciclo.

Vi è, inoltre, una questione più strettamente politica per valutare l’indirizzo, oltre che l’impatto economico, di una politica fiscale che riguarda le riforme economiche ed istituzionali che ad essa si accompagnano. Come abbiamo già osservato in diverse occasioni, gli interventi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) finanziate dal Recovery Fund (chiamato anche Next Generation EU) sono accompagnati da una strategia di riforme, clausole e condizioni subordinate all’erogazione dei fondi Europei. L’obiettivo di queste riforme e condizioni (ben 528), come ci siamo impegnati a dimostrare, è quello di rimuovere gli ultimi residui di stato sociale presenti nel nostro Paese, trasformandolo così in una economia di mercato al servizio del profitto privato che riduce al minimo i diritti sociali di molti, per favorire ulteriormente i privilegi economici di pochi. Le prime riforme approvate riguardano:

I) la semplificazione delle procedure amministrative che deregolamentano le procedure di appalto, minando una serie di tutele ambientali e di legalità e trasparenza delle procedure;
II) la riforma del processo civile e penale che porterà, ad esempio, ad una riduzione dei tempi per il pignoramento e lo sfratto dei nuclei famigliari insolventi che di solito non fanno parte delle classi sociali più agiate.

Altre riforme che penderanno come una spada di Damocle sulla testa delle classi lavoratrici saranno:

I) la riforma delle pensioni e l’innalzamento dell’età pensionabile;
II) il federalismo fiscale;
III) la riforma del mercato del lavoro.

Proprio su quest’ultima, i precetti del PNNR assumo dei tratti particolarmente infausti. La riforma, infatti, avrà l’obiettivo di “Aumentare il tasso di occupazione, facilitando le transizioni lavorative e dotando le persone di formazione adeguata”, “Ridurre il mismatch di competenze”, e “Aumentare quantità e qualità dei programmi di formazione dei disoccupati e dei giovani, in un contesto di investimento anche sulla formazione continua degli occupati”. Come abbiamo spesso sottolineato, dietro gli altisonanti proclami di migliorare la formazione dei lavoratori si celano le note politiche attive del lavoro. Queste, mentre da un lato si occupano di fornire alle imprese manodopera qualificata e formata a spese dello Stato, dall’altro si fondano su un presupposto teorico sbagliato. L’idea, cioè, che la disoccupazione sia frutto dell’inadeguatezza dei lavoratori e che l’occupazione si possa accrescere semplicemente incrementando le ‘abilità’ del lavoratore stesso. Ciò, tuttavia, è smentito sia dalla realtà dei fatti, sia dalla ricerca empirica ed economica che ha mostrato come l’aumento dell’occupazione si ottenga solo a seguito di un aumento della spesa per consumi ed investimenti. Il compito di determinare questi aumenti di spesa – specialmente in periodi di vacche magrissime – è dello Stato che, qualora volesse davvero sconfiggere la disoccupazione, dovrebbe impegnarsi in importanti politiche fiscali espansive.

La realtà dei fatti ci racconta, tuttavia, un’altra storia. Da un lato, la politica fiscale del governo Draghi non è così espansiva e salvifica come ci viene raccontato. Dall’altro, la sua azione si incardina in un sentiero reazionario, fatto di riforme liberiste e contro la classe lavoratrice, che ben chiarisce da cosa derivi questa “credibilità internazionale” celebrata dai commentatori: dal rappresentare una clausola indiscutibile di salvaguardia del sistema, a perenne tutela dell’interesse delle classi dominanti.

coniarerivolta.org

Scelto da Jacopo Brogi e pubblicato da Verdiana Siddi per ComeDonChisciotte.org

FONTE: https://comedonchisciotte.org/effetto-draghi-le-molte-facce-dellausterita/

 

 

 

FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI

Il mistero dei bancomat scomparsi. Ecco perchè gli ATM sono sempre meno

26 Ottobre 2021
Gli sportelli automatici, essenziali per potersi munire di denaro contante, stanno spaventosamente sparendo dal territorio italiano. A lanciare l’allarme il Giornale.it che propone la fotografia fornita dalle rilevazioni di Bankitalia i cui numeri vengono rielaborati dal sindacato Uilca.
Stando a quanto viene riferito sul sito: “In quattro anni, dal 2016 al 2020, gli Atm sono diminuiti del 6,9%. Siamo passati da 36.754 a 34.204 unità. Ancora di più stanno diminuendo le filiali, scese del 19,1%: da 29.039 a 23.480 unità. In particolare nell’anno della pandemia si è ridotto il numero di sportelli per prelevare sia dentro le banche che al di fuori. 2.800 sono i Comuni italiani che non hanno più nemmeno uno sportello bancomat, sono un’enormità considerando che c’è stato un calo del 9,2% rispetto alla fine del 2015.

Bancomat Spa comunica che nel 2020 i prelievi sono calati del 22% annuo (in totale 510 milioni di operazioni), per un totale di poco inferiore a 80 miliardi e con prelevi medi di 154 euro.

La comunità in questo modo subisce dei danni enormi. Basti pensare al caso della regione Umbria, una tra quelle con il più alto tasso di anziani che hanno difficoltà ad usare il digitale e che spesso sono impossibilitati ad utilizzare il cash. Sapete perchè? A Nocera Umbra c’è un solo bancomat che, se si rompe, costringe i cittadini a fare 30 chilometri per raggiungere Foligno.

La carenza sul territorio è voluta dalle banche che stanno svuotando i piccoli centri sia di sportelli che di Atm. “Cinque anni fa, in Umbria, si contavano 730 bancomat, ossia il 20% circa in più rispetto a oggi. E le filiali sono diminuite ancora di più” osserva il segretario regionale della Fabi, Enrico Simonetti, a Repubblica. “Quale danno subisce la comunità di un piccolo paese che vede chiudere l’unica istituzione bancaria nel raggio di decine di chilometri e vede dissolversi rapporti professionali e umani? Chi occuperà il vuoto? Riteniamo che non si possa solo ragionare in termini di redditività, ma che debba esserci una responsabilità sociale verso i territori”.

E se da un lato diminuiscono sempre di più i punti grazie ai quali è possibile prelevare il contante, dall’altra le banche pensano anche di aumentare le commissioni se il prelievo viene effettuato presso sportelli non propri. “Bancomat Spa si trova al centro di un’istruttoria dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) perché vuole aumentare il costo delle commissioni quando si prelevano contanti da sportelli diversi da quelli della propria banca”.

Insomma grazie alle misure adottate dai recenti governi per incentivare l’uso dei pagamenti elettronici ed eliminare quello dei contanti, gli italiani si ritrovano a dover fare i conti con non pochi disagi, senza contare i regali che vengono fatti alle banche, commissione dopo commissione, conto corrente dopo conto corrente.

Ci stanno trasformando in numeri digitali, basterà un click per far sparire tutto.

FONTE: https://www.ilparagone.it/attualita/il-mistero-dei-bancomat-scomparsi-ecco-perche-gli-atm-sono-sempre-meno/

 

 

 

LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI

L’INPS ha deciso di togliere l’assegno di invalidità a migliaia di cittadini

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

L’ordine di Westfalia andrà superato – verso l’alto

Una riflessione – ed una lezione magistrale di

Aleksandr Dugin

Chiunque ha studiato, anche superficialmente, Relazioni Internazionali san che l’ordine mondiale in cui ancora viviamo si chiama ordine di Westfalia. Questa espressione è diventata un luogo comune, ma vale ancora la pena ricordare: cos’è il Trattato di Westfalia, concluso il 24 ottobre 1648.
In questo giorno, a Münster e Osnabrück, è stato concluso un accordo tra le principali potenze europee per porre fine alla Guerra dei Trent’anni. Nella storia europea, la Guerra dei Trent’anni è vista come il confine tra l’ordine medievale e l’inizio a pieno titolo dei tempi moderni. Questa fu l’ultima guerra combattuta sotto le bandiere della religione.

I paesi cattolici hanno combattuto contro quelli protestanti. La questione da decidere era: chi vincerà: la Riforma o la Controriforma?

Il modello della politica e dell’ideologia medievali in questa guerra fu rappresentato dalle potenze del sud europeo, che combatterono sotto la bandiera del cattolicesimo e dell’impero absburgico. I paesi protestanti – principalmente l’Inghilterra e gli stati scandinavi, così come i sostenitori di Lutero in altre parti d’Europa – si opposero al dominio dei papi e al dominio dell’Impero. A causa del tradizionale odio per gli Asburgo, una Francia formalmente cattolica, ma già profondamente modernizzata, combatté dalla parte dei protestanti.

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La guerra ha fatto perire un terzo della popolazione europea; alcune aree hanno perso oltre il 70% della popolazione. Fu una vera guerra mondiale, poiché colpì non solo il territorio della Vecchia Europa, ma anche le colonie.
Le forze in guerra erano quasi uguali e nessuna delle parti, nonostante le enormi perdite, riuscì a ottenere un vantaggio decisivo. Questo equilibrio è stato fissato dalla pace di Westfalia, che ha riconosciuto i diritti di entrambi i campi in guerra.
Sebbene il sud cattolico sia riuscito a difendere la sua posizione di fronte all’offensiva protestante e l’impero asburgico abbia conservato se stesso e la sua influenza, anche se in forma sminuita, è stato il nord protestante a raggiungere il suo obiettivo ideologico.

I paesi protestanti fin da principio hanno insistito sul fatto che nella politica europea non dovrebbe esserci alcun esempio che si ergesse al di sopra della sovranità nazionale – né il potere della Chiesa romana, né il potere dell’Impero austriaco.

(“Silete Theologi in munere alieno!” – Tacete teologi in faccende che non vi riguardano!, intimava da Londra il giurista Alberto Gentili)

Fu allora che il principio dello Stato-Nazione, dell’Etat-Nation e della sovranità nazionale fu finalmente riconosciuto da tutti. Sebbene il Cattolicesimo e l’Impero sopravvivessero, furono ormai riconosciuti non come istituzioni sovranazionali, ma come Stati europei separati insieme a tutti gli altri.

L’impero fu ridotto al livello di uno degli stati europei, e lo status del Papa si conservava esclusivamente nei paesi cattolici, e quindi come autorità puramente religiosa. Cioè, sebbene i protestanti (e i francesi che si unirono a loro, che furono per molti versi gli iniziatori) non vinsero completamente gli avversari, riuscirono a imporre la loro idea di politica normativa a tutta l’Europa.
È questo ordine che si chiama westfaliano: si basa sul principio della sovranità nazionale, al di sopra del quale non sono riconosciute autorità e autorità, né religiose né imperiali. D’ora in poi, le questioni della religione, della struttura politica e dell’ordine sociale divennero affari di ogni Stato nazionale, e nessuno poteva influenzarlo per conto di alcuna struttura sovranazionale.

La pace di Westfalia coincise con l’ascesa della borghesia, che a quel tempo stava conducendo feroci battaglie contro l’ordine medievale, dove la società era guidata dai ceti dei sacerdoti e dall’aristocrazia militare. La borghesia europea, nella persona dei papi, ha attaccato il sacerdozio e nella persona dell’Impero austriaco – la casta dell’aristocrazia militare. Sì, questa non era ancora una democrazia borghese a tutti gli effetti, poiché tutti i paesi protestanti rimasero monarchie. Ma queste erano monarchie di un nuovo tipo, una specie di monarchie borghesi.
E sebbene il cattolicesimo romano e gli Asburgo cercassero di preservare il vecchio ordine europeo sui loro territori, furono costretti ad accettare le regole del gioco della Westfalia. In queste regole, era lo stato nazionale a diventare normativo, che nella sua ideologia aveva già contribuito alla crescita della borghesia e all’uscita dal Medioevo. Non solo nei paesi protestanti, ma anche in quelli cattolici.

È significativo che nella stessa Inghilterra, un anno dopo la pace di Westfalia, durante la guerra civile, iniziata ancor prima, sia stato giustiziato re Carlo I. La Francia seguirà lo stesso percorso di regicidio e presa del potere da parte dei rappresentanti dell’oligarchia borghese nel successivo Settecento. I paesi cattolici hanno aderito al vecchio ordine più di altri e la borghesia alla fine ha trionfato in essi solo nel ventesimo secolo.

Così, la pace di Westfalia segna la storica vittoria della borghesia laica nell’ordine di classe cristiano-imperiale. Fu allora che il nazionalismo emerse come l’arma più importante della borghesia europea nella battaglia contro il sacro ordine medievale. La pace di Westfalia ha posto le basi per gli stati nazionali.
Più tardi, la borghesia iniziò a sentirsi oppressa dal nazionalismo e allo stesso tempo ad abbandonare gli stati nazionali – un esempio di ciò è la moderna Unione Europea.

Così gradualmente la pace di Westfalia cominciò ad essere smantellata dalle stesse forze che la costruirono. Ma questa è già la pagina successiva nella storia delle ideologie politiche e delle relazioni internazionali. Rispetto al globalismo moderno, lo Stato nazionale ne è lontano, ma già alle sue origini è qualcosa di dubbio e di antitradizionale, poiché è qualcosa di borghese. Altrettanto dubbio e irto di contraddizioni insolubili è il nazionalismo, che deve essere superato.
Non una nazione, ma un impero. Non la pace borghese di Westfalia, ma l’ordine sacro di un grande spazio.

FONTE: https://www.maurizioblondet.it/lordine-di-westfalia-andra-superato-verso-lalto/

Gli Usa hanno finanziato i peggiori criminali per anni, talebani inclusi: ora servirebbe buonsenso

1 09 2021 – Jacopo Fo

Il modo migliore per vincere una guerra è non farla: dedicarsi invece a prevenirla.

Quando si tenta questo discorso con un amante dei carri armati ti dice subito: sì va beh, ma il passato è passato: visto che stiamo a questo punto la guerra è inevitabile! Per questo ho iniziato questa serie di post spiegando cosa si poteva realizzare in 20 anni in Afghanistan al posto dei bombardamenti e come, comunque si sarebbe potuta gestire la guerra in altro modo.

Ora vorrei dimostrare che gli Usa, seguendo la loro realpolitik perversa, si creano da soli i problemi. Sollevano la famosa pietra per farsela poi ricadere sui piedi. In tutte le nazioni dove hanno cercato di influenzare gli equilibri politici hanno sempre stretto alleanze con i peggiori criminali e i più odiosi fascisti. Prendiamo la storia dell’Iraq. Gli Usa non hanno mai appoggiato le forze democratiche perché temevano lo sviluppo di un movimento di centro e di sinistra che avesse idee proprie e magari difendesse gli interessi nazionali. Hanno invece foraggiato una belva sanguinaria come Saddam Hussein, che si è adoperato per distruggere ogni prospettiva democratica ammazzando e torturando, finché ha fatto un’alzata di testa e gliel’hanno tagliata. I danni collaterali e i soldati della coalizione dei liberatori ammazzati o tornati a casa col tumore a causa dei proiettili all’uranio impoverito sono stati considerati costi collaterali sostenibili. Idem le centinaia di migliaia di morti tra i civili.

Gli statunitensi ci hanno perso miliardi, ci hanno invece guadagnato quelli che han venduto armi, preso gli appalti per la ricostruzione, depredato le ricchezze del paese. E fa specie che chi giudica utile far la guerra si dimentichi che furono gli Usa a privilegiare i talebani tra i tanti gruppi della resistenza all’invasione sovietica dell’Afghanistan. I talebani andavano bene proprio perché erano contro ogni forma di democrazia, cattivi e determinati. Che le loro donne portassero il velo integrale non importava.

E vogliamo parlare di Bin Laden? Era un amico degli Usa! E gli hanno riempito le tasche di dollari e inviato tante belle armi. Come combatteva bene i russi! Allora, secondo me, se negli Usa si scatenasse una tempesta di buon senso potrebbe anche succedere che si chiedano se non sarebbe meglio fermarsi a pensare cinque minuti prima di appoggiare i peggiori. A volte ti si rivoltano contro e ti fanno una strage immensa come nel caso dei massacri dell’11 settembre, organizzati da Bin Laden, l’amico.

A volte provocano disastri in altro modo.

Fidel Castro non avrebbe preso il potere a Cuba se gli Usa non avessero appoggiato un dittatore sanguinario. Cosa sarebbe successo se avessero sostenuto i democratici moderati e una riforma sociale del paese? E lo Scià di Persia fu coccolato come un fratello mentre sterminava migliaia di oppositori democratici, socialisti e comunisti. Eliminò tutti i moderati e alla fine la rabbia popolare portò al potere gli islamici radicali. E fu sensato appoggiare la destra violenta contro i sandinisti in Nicaragua? Certamente a volte gli è andata benino: Argentina, Cile, Filippine, Brasile, solo per citarne alcuni… Se si dimenticano le centinaia di migliaia di democratici ammazzati e le torture…

Ma a uno statunitense illuminato potrebbe anche venire da pensare che la pervicace cinquantennale lotta contro la democrazia e il progresso sociale e culturale non sia stato un vantaggio per il popolo degli Stati Uniti, che oggi è di certo la nazione più odiata del mondo. Inoltre, i reduci delle tante guerre Usa hanno portato in patria, insieme a parecchi disturbi post traumatici, anche una persistente nebbia culturale che si abbevera nella violenza e nella cultura della soluzione dei problemi complessi a calci e pugni.
Vedo una connessione tra la pratica della guerra, le rivolte nei sobborghi, le stragi dei killer solitari nelle scuole e nelle piazze, per non parlare del terrorismo interno fascista, responsabile di numerosi attentati e massacri. Credo che oggi parlare di pace, di prevenzione della guerra, di gestione morbida delle tensioni internazionali sia fondamentale. Anche perché l’idea che i problemi si affrontano con la forza dei muscoli, colpendo forte, è una malattia che non coinvolge solo le nazioni. Le vite di milioni di persone sono rovinate dall’incapacità di parlarsi, ascoltarsi, essere tolleranti e valorizzare le differenze. La cultura della comunione, del dialogo dell’ascolto è l’unica che può salvare vite e amori. Ne parlerò nel prossimo post. Buon ascolto a tutti!
FONTE: https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/09/01/gli-usa-hanno-finanziato-i-peggiori-criminali-per-anni-talebani-inclusi-ora-servirebbe-buonsenso/6306323/

 

 

 

 

POLITICA

CAROLA RACKETE SEGUE LE ORME DI GRETA THUMBERG

DALL’IMMIGRAZIONISMO DI RACKETE ALL’ECOLIGISMO GRETINO.

Il giornale di ieri riprendendo una intervista a Carola Rackete di Formigli a “Piazza Pulita”, quasi si meraviglia che la capitana tedesca della Sea Watch abbia partecipato allo sciopero globale per il clima a Berlino. Anche Carola, ripete il mantra di questi mesi: «La Terra sta morendo e noi adulti siamo responsabili». La Rackete, rivolgendosi alla folla, ha detto: «Noi adulti siamo responsabili per il fatto che la Terra sta morendo», poi ha invitato la folla a unirsi alla protesta del movimento Extinction Rebellion in programma per il 7 ottobre e promettendo che “non finirà qui”.

La capitana tedesca, diventata un idolo della sinistra chic insieme a Greta Thumberg, prossimamente pubblicherà un libro sui temi dell’immigrazione e dell’ambiente. Pertanto dalla trasmissione tv di Formigli emerge una “Carola Rackete è molto più di quello che i media di tutto il mondo hanno raccontato in quei giorni concitati: è una attivista con una chiara visione e una fortissima passione civile, un modello per tanti ragazzi e ragazze che scelgono di impegnarsi per un mondo migliore, e con questo libro ci ispira a combattere in difesa dell’ambiente, dei diritti umani, del nostro pianeta, perché agire oggi non è più una scelta ma una necessità”. (Roberto Vivaldelli, Carola Rackete come Greta: ora fa l’ecologista, 22.9.19, Il Giornale)

Il giornalista de Il Giornale sottolinea la svolta “green” di Rackete. Pertanto «dall’immigrazionismo all’ecologismo gretino il passo è brevissimo. D’altronde il mantra della sinistra chic è sempre lo stesso: i migranti scappano sempre di più dalle loro terre a causa dei cambiamenti climatici, che sono colpa dell’uomo (rigorosamente bianco)»Vivaldelli conclude il suo intervento con una interessante analisi: «Carola, infatti, è figlia di quella sinistra liberal che appoggia una forma radicale e totalitaria di multiculturalismo […] Proviene da quella cultura globalista da figli di papà annoiati che è, a differenza di ciò che lei crede, fortemente elitaria e provoca tensioni sociali soprattutto nei ceti meno abbienti. Perché, alla fine, per quelli come la “Capitana”, tutta la colpa è sempre “nostra”, dei bianchi occidentali, responsabili delle migrazioni così come dei cambiamenti climatici. E ora Carola si fa portavoce, insieme a Greta, del nuovo millenarismo green e climaticamente corretto». (Ibidem)

Per approfondire i presupposti ideologici dell’alleanza immigrazionista e ambientalista consiglio la lettura dell’interessante libro del professore Eugenio Capozzi“Politicamente corretto, Storia di un’ideologia, pubblicato da Marsilio (2018). Le riflessioni del professore Capozzi offrono dei chiarimenti per comprendere l’alleanza tra le due eroine della sinistra radicalchic.

Capozzi studia in chiave storica l’ideologia del politicamente corretto, risalendo alle profonde radici della visione del mondo che ha generato questa ideologia totalitaria. Tra i tanti aspetti il professore analizza il multiculturalismo e i suoi miti, compreso l’immigrazionismo e l‘utopia dell’antiumanesimo ambientalista.

Per cogliere la deriva dell’immigrazionismo Capozzi coglie i vari passaggi storici fino a giungere al multiculturalismo. Si parte dal presupposto che l’Occidente è sempre colpevole e quindi odia se stesso. In questo contesto c’è il primato delle culture “altre”. L’altro è raffigurato come buono, innocente, vergine. Siamo noi occidentali i corrotti.

Nella prospettiva multiculturalista, «L’altro […] è una categoria quasi religiosa[…], è il redentore, è colui che viene dall’”esterno” della concezione tradizionale della civiltà occidentale […], che la costringe a trasformarsi e che permette di celebrare il processo alla nostra presunta chiusura nei confronti della diversità». In questo contesto, nessuno deve osare di stilare graduatorie delle civiltà. Anzi ci sono convinzioni, come quelle dell’americano Herskovits, che la «Dichiarazione dei diritti dell’uomo non avrebbe dovuto applicarsi astrattamente all’intero genere umano, ma tenere conto delle diverse culture e rispettarne le differenze».

A nessuno è permesso introdurre idee di giusto o sbagliato, bene e male, anche perchè li troviamo in tutte le società. Ora le convinzioni dell’antropologo Herskovits si sono affermate nel nuovo pensiero dominante. La nostra civiltà euro-occidentale viene contestata fin dalle fondamenta e condannata da gran parte degli intellettuali e delle classi politiche. La nuova sinistra pensa che la salvezza viene dal terzo mondo. Dietro a questa tesi c’è l’anticolonialismo, pertanto le culture dei popoli extraeuropei assoggettati erano depositarie di un”’innocenza” originaria macchiata dai dominatori.

L’antioccidentalismo è alimentato dalla cultura del buon selvaggio a cui si sono rifatti i cosiddetti hippie del 68, con il modello “Imagine”, il famoso brano di John Lennon. Per Capozzi Imagine, costituisce un manuale del relativismo culturale antioccidentale.

Pertanto dialogo e tolleranza diventano il totem, le parole-chiave dell’universalismo debole multiculturalista, e quindi della pedagogia civile politicamente corretta. Addirittura Capozzi scrive che il modello multiculturalista/interculturale potrebbe tradursi in una universale «comune hippie».

Arriviamo ai migranti. L’ultimo stadio del multiculturalismoè un mondo di migranti. L’obiettivo è quello di costruire attraverso i flussi migratori, una società globale aperta, fluida, fondata sulle contaminazioni. Tutto questo per il professore Capozzi comporta il ripudio e la condanna dei fondamenti di uno Stato nazionale: la sua sovranità. Pertanto abolizione dei confini e si preferisce parlare di “migrante”, termine di perenne instabilità. Fino ad auspicare una umanità nomade che si sposta non come condizione di straordinarietà, ma ordinaria. Questa è una piattaforma ideologia che ha influenzato in misura decisiva le politiche sull’immigrazione di molti governi occidentali.

Per comprendere l’utopia antiumanista dell’ambientalismo per Capozzi occorre partire dai risvolti politici procurati dal film-documentario, «una scomoda verità», prodotto negli Usa e poi utilizzato dall’esponente del Partito democratico Al Gore. Il film affrontava il tema del global warming, l’innalzamento delle temperature dovuto principalmente all’azione dell’uomo.

L’elemento inedito era che per la prima volta un leader politico si giocava tutto su questo tema e poi che l’argomento venisse affidato a un film per far passare la tesi secondo cui l’uomo era in grado di provocare conseguenze apocalittiche irreversibili sull’equilibrio ecologico. Assomigliava molto alla paura imposta all’opinione pubblica con la possibilità dello scoppio bomba atomica, durante il periodo della guerra fredda. Pertanto già allora si profilava «l’idea che la fine del mondo potesse essere provocata dall’uomo non solo attraverso le armi di distruzione di massa, ma anche attraverso un deterioramento irreversibile della natura».

In pratica si mette in atto un processo alla società industriale della modernità, dove i riferimenti filosofici e culturali sono Jean-Jacques Rousseau, con l’innocenza dell’uomo nello stato di natura, con la sua decadenza per colpa della civilizzazione. E poi un richiamo al pastore anglicano Thomas Robert Malthus al suo “Saggio sul principio di popolazione” (1798). Malthus era preoccupato per la crescita sostenuta della popolazione, che andava regolamentata.

Continuando ad analizzare il passato, per Capozzi la sensibilità per l’ambiente, aumenta nell’opinione pubblica durante il boom economico del dopoguerra, quando fioriscono disordinatamente gli insediamenti produttivi, l’ondata imponente di urbanizzazione, dove tante città si sono trasformate in megalopoli. L’aumento del traffico veicolare con l’incremento dell’inquinamento.

Ben presto nel corso degli anni i temi dell’ambientalismo entrarono a pieno titolo tra i temi agitati dalla sinistra movimentista.

L’ecologismo politico nato con l’ideologia dello sviluppo sostenibile, arrivò a sostenere che «la civiltà industriale avesse in sé un difetto originario, in quanto era figlia di quella razionalità occidentale votata ala dominio, allo sfruttamento, alla discriminazione che il neo-progressismo relativista del secondo dopoguerra aveva indicato come causa di tutti i mali politici». Sostanzialmente si concordava che l’Occidente strutturalmente considerava «l’ambiente come una risorsa da depredare, un mezzo per raggiungere profitto».

Poi arriva la deriva ideologica dell’ambientalismo con l’ipotesi Gaia, qui l’umanità lungi da essere «la manifestazione più alta della vita, diventa un fattore di disturbo, una sorta di malattia della natura, a causa del suo eccessivo sviluppo[…]».

Seguendo gli sviluppi dell’ideologia ambientalista, Capozzi ne sottolinea il suo fondamentale aspetto apocalittico. Arrivando a scatenare il panico dopo i soliti convegni promossi qua e là per il mondo. Pertanto secondo Capozzi, «l’ideologia verde si era mutata in un complesso di precetti che investivano non soltanto i comportamenti delle classi politiche, ma anche quelli dei privati cittadini delle democrazie». Questi nuovi paladini della terra propongono, una serie di regole prescrittive per una sorta di purificazione morale «delle società occidentali, nella direzione di un’espiazione dei loro “peccati” storici, equiparati alle altre colpe ataviche dell’Occidente».

Il tema centrale dell’ambientalismo occidentale diventa il cosiddetto “riscaldamento globale”. Così alcuni studiosi e movimenti ambientalisti incominciano a diffondere previsioni catastrofiche: desertificazione, scioglimento dei ghiacciai e delle calotte polari, inondazioni, esaurimento delle risorse idriche entro pochi decenni.

La maggior parte delle classi politiche occidentali sono profondamente influenzate dalla nuova ideologia. Tuttavia Capozzi registra che non tutta la comunità scientifica crede al global warming. Quanto meno si prospetta di guardare alle teorie allarmistiche con uno spirito critico. Visto che questi organismi che lanciano in continuazione allarmi, vivono finanziariamente sulla paura delle loro teorie. Purtroppo secondo Capozzi, queste teorie allarmistiche, nonostante le ombre e le contraddizioni, continuano a godere consensi «nelle reti dei mass media e tra le classi dirigenti, politiche e intellettuali[…]». Naturalmente precisa Capozzi, «le opinioni dissenzienti rispetto alla vulgata politicamente corretta consolidatasi in materia sono state delegittimate, isolate, addirittura bollate da qualche attivista o opinion leader come “negazioniste”, sebbene quell’epiteto sia nato in un contesto diverso».

Il professore napoletano non intende soffermarsi sul merito scientifico delle argomentazioni, però vuole sottolineare come questo ambientalismo catastrofista sia diventato una specie di religione, con i suoi dogmi, molto simile a quell’ideologia comunista del secolo scorso. Una sorta di religione secolare, con «articoli di fede che le fonti ufficiali della dottrina considerano blasfemo anche soltanto discutere e impongono attraverso continui messaggi ansiogeni e colpevolizzanti». Pertanto Capozzi evidenzia un bieco conformismo da parte delle classi dirigenti nell’ideologia ambientalista: «la militanza o la partecipazione alle sua cause diventa una sorta di lasciapassare, una patente pubblica di rispettabilità, per chiunque voglia affermarvisi, dalla politica alla cultura di massa, allo spettacolo e all’informazione». Tutto questo si traduce nella pratica quotidiana, in una serie di norme pratiche, si prescrive, «l’uso o l’interdizione di determinati prodotti e risorse, una certa disciplina dei consumi, l’una o l’altra modalità di spostamento o di lavoro, di riduzione e smaltimento dei rifiuti, la dottrina anti-global warming si configurava come una serie di istruzioni dettagliate per la vita quotidiana di ciascuno, realizzando in maniera esemplare l’aspirazione di ogni ideologia contemporaneail controllo sociale capillare in nome di una redenzione della società stessa, della formazione di un uomo nuovo, dell’eliminazione del male del mondo». Praticamente è lo stesso schema utilizzato dall’ideologia comunista del 900 dei vari Lenin e Stalin.

Si giunge a una sorta di neo-misticismo ecologista, dove a rigor di logica, l’essere umano più virtuoso verso il pianeta, è quello che consuma poche risorse, anzi l’unico propriamente virtuoso, è quello che non ne consuma alcuna, cioè che non esiste.

L’ambientalismo radicale estremo per Capozzi rischia di sfociare in un’avversione verso ogni forma di civiltà.

L’essere umano per la deriva ambientalista, diventa «un’entità relativa, della quale si può fare a meno in nome dell’ideologia: in questo caso in nome della “purezza” di un ambiente integro, di un mondo “pulito”».

Negli ultimi anni il professore Capozzi rileva che si sono moltiplicati quei gruppi ambientalisti oltranzisti che predicano (mi sembrano i catari) «un calo dei consumi fino al limite essenziale della pura sopravvivenza, l’opzione dei rifiuti zero, con riciclo totale delle risorse consumate, o addirittura la riduzione volontaria della popolazione terrestre attraverso la scelta di non generare figli per risparmiare inquinamento e materie prime[…]».

Sostanzialmente secondo Capozzi tutte le forme di ecologismo radicale concordano che per salvaguardare l’ambiente occorra «’riavvolgere il nastro’ della storia, fermare lo sviluppo, ritornare a uno stadio precedente della civilizzazione: che non è la nostalgia di un’epoca, o una forma di tradizionalismo, ma al contrario l’aspirazione a sradicare sopraffazione e violenza per ripristinare l’innocenza dell’Eden. Persino a costo dell’estinzione di Homo sapiens».

Idee del genere portano a sostenere «un regime alimentare rigidamente regolato secondo il criterio della “minimizzazione del danno” arrecato al pianeta». La via è tracciata: coltivazioni biologiche o biodinamiche senza agenti chimici e a basso utilizzo di concimi e acqua, vegetarianesimo, veganesimo. «A questi precetti si accompagna un’aggressiva condanna morale nei confronti di quanti continuano a nutrirsi seguendo il proprio gusto e piacere, la curiosità, le tradizioni alimentari, addidati come assassini della biosfera[…]». E’ recente la notizia di un bimbo denutrito di una coppia di vegani di Nuoro, ricoverato urgentemente all’ospedale per malnutrizione.

Naturalmente a tutto questo c’è la dottrina etico-filosofica chiamata “animalismo”.e poi l’”antispecismo”, l’idea che non esiste nessuna gerarchia morale e spirituale tra l’uomo e gli altri esseri viventi.

Capozzi conclude l’argomento con una domanda: quanto sono politicamente e culturalmente rilevanti le argomentazioni ambientaliste nel discorso pubblico occidentale dell’epoca globale? Basta dare uno sguardo ai media ai social, alle scuole, alle organizzazioni internazionali, persino alle Chiese cristiane, alle organizzazioni religiose cattoliche. «Il catechismo ecologista viene somministrato continuamente, e rappresenta un elemento cardinale della vulgata politicalcorrettista». Concludiamo con le amare riflessioni di Capozzi: «l’ideale generico di un mondo pulito contro uno “sporco” è troppo semplice e attraente, il mito dottrinario dell’uomo prevaricatore sulla natura è troppo forte e diffuso, perché tanti appartenenti alle classi neo-borghesi istruite occidentali, o aspiranti tali, non si lascino persuadere […]».

Quinto de Stampi MI, 23 settembre 2019

Festa di S. Pio da Pietrelcina                                                    Domenico Bonvegna

FONTE: http://mimmobonvegna1955.altervista.org/carola-rackete-segue-le-orme-di-greta-thumberg/

 

 

 

Che cos’è la “maggioranza Ursula”

28 GENNAIO 2021

L’avete già sentita un’altra volta, e nella stessa situazione: è considerata una delle poche soluzioni alla crisi di governo

Da giorni sui giornali circola l’ipotesi della cosiddetta “maggioranza Ursula” per risolvere la crisi politica e di governo. Nelle ultime ore l’espressione è stata utilizzata anche da alcuni partiti e gruppi parlamentari per indicare la nascita di un governo sostenuto da una maggioranza simile a quella che, nel 2019, aveva permesso la conferma della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen: composta cioè dai partiti conservatori e progressisti, e anche da un pezzo degli euroscettici più moderati. Proprio come quella ipotizzata per il prossimo governo italiano, in uno degli scenari considerati più plausibili per la risoluzione della crisi, anche se sembra ancora molto difficile prevedere come andrà a finire.

Nel 2019, il nome di Ursula von der Leyen – ex ministra tedesca della Famiglia, del Lavoro e della Difesa ed espressione dei Popolari – era venuto fuori alla fine di un lunghissimo e complicato negoziato in sede di Consiglio Europeo, l’organo che riunisce i capi di stato e di governo dell’UE. A luglio, dopo settimane di trattative e incontri con i vari gruppi e partiti, von der Leyen era stata confermata presidente della Commissione – l’organo esecutivo dell’Unione Europea – dal Parlamento Europeo, con una maggioranza molto risicata, superando di solo nove voti la maggioranza assoluta.

Nonostante lo scrutinio fosse stato segreto, sulla base delle dichiarazioni precedenti al voto, per la conferma di von der Leyen – già sostenuta dal Partito Popolare Europeo, da una parte dei socialdemocratici (S&D) e dai liberali – erano stati determinanti i voti di alcuni partiti euroscettici, tra cui il Movimento 5 Stelle. La Lega, che fa parte del gruppo Identità e Democrazia, aveva votato contro, così come Fratelli d’Italia. All’epoca Matteo Salvini governava con il M5S, ed era stato molto critico, ma anche profetico, nei confronti del suo alleato: «Da due giorni sono già al governo insieme, per ora a Bruxelles».

Per quanto riguarda l’Italia, dunque, von der Leyen era stata sostenuta da Forza Italia (che fa parte della famiglia politica del Partito Popolare Europeo), dal Partito Democratico (che appartiene al gruppo dei Socialisti e Democratici), e dal Movimento 5 Stelle.

Oggi, c’è chi ipotizza l’uscita dalla crisi grazie alla formazione di un governo composto da PD, LeU e M5S – che già sostengono Conte – con l’aggiunta di Forza Italia, i cui voti sarebbero necessari per sostituire Italia Viva, il partito di Renzi che ha innescato la crisi uscendo dal governo e dalla maggioranza. L’ipotesi preferita da Conte, dal PD e dal M5S era quella di trovare abbastanza parlamentari disposti a passare alla maggioranza, formando una nuova forza politica che sostituisse Italia Viva senza però arrivare a un governo che coinvolgesse parte del centodestra.

Ma nonostante gli estesi sforzi degli ultimi dieci giorni, sembra che non ci sia margine per questa operazione: la maggioranza Ursula quindi sarebbe la soluzione per non andare al voto, ipotesi sgradita a gran parte dell’attuale maggioranza, senza però riammettere nel governo Renzi e i suoi, considerati ormai alleati inaffidabili e colpevoli di aver fatto cadere il governo.

Finora però chi si è espresso esplicitamente a favore di questo tipo di maggioranza ha anche chiesto che il presidente del Consiglio non sia Giuseppe Conte.

In mattinata, uscita dalle consultazioni con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Emma Bonino di +Europa ha detto ad esempio di aver «manifestato con chiarezza che non siamo disponibili a nessun tipo di continuità, ma siamo disponibili a discutere di contenuti con un nuovo eventuale presidente incaricato con un autorevole profilo europeista e riformatore con una maggioranza più ampia e pari a quella che nella Commissione Ue sostiene Ursula von der Leyen». Qualche giorno fa Giovanni Toti, governatore della Liguria e fondatore di Cambiamo!, si era detto a sua volta favorevole a una maggioranza Ursula, ma senza Conte.

Finora, Silvio Berlusconi ha parlato di un governo di larghe intese, che cioè coinvolga sia i partiti di maggioranza che di opposizione, per gestire i prossimi mesi di pandemia in attesa di nuove elezioni. Potrebbe essere intesa come una posizione favorevole alla maggioranza Ursula, ma anche Forza Italia non sembra disposta ad accettare un terzo governo Conte. Vorrebbe dire comunque rompere l’unità del centrodestra, in cui Forza Italia ha un ruolo sempre più marginale per la consolidata supremazia della Lega e la più recente ascesa di Fratelli d’Italia.

Di maggioranza Ursula si era parlato anche nell’estate del 2019, per evitare di andare a elezioni dopo la crisi del primo governo Conte, nato da un accordo tra Movimento 5 Stelle e Lega. Romano Prodi, in un articolo scritto per il Messaggero, aveva fatto un positivo ed esplicito riferimento all’ipotesi di un accordo tra PD e M5S: «Forse bisognerebbe battezzare questa necessaria coalizione filoeuropea “Orsola”, cioè la versione italiana del nome della nuova presidente della Commissione europea». Alla fine però Forza Italia era rimasta unita al centrodestra, all’opposizione.

FONTE: https://www.ilpost.it/2021/01/28/ursula-maggioranza/

 

 

 

SCIENZE TECNOLOGIE

La direttrice del CDC: “Potremmo aver bisogno di aggiornare la nostra definizione di ‘completamente vaccinato’”

Kit Knightly
off-guardian.org

Ieri, in una conferenza stampa, la direttrice del CDC ha avvertito che potrebbero dover “aggiornare” la definizione di “completamente vaccinato.”

Alla conferenza stampa virtuale tenutasi dopo l’approvazione dei richiami “mix-and-match” [l’autorizzazione ad usare come richiamo anche un vaccino diverso da quello utilizzato per la prima dose], la dottoressa Rochelle Walensky ha detto ai giornalisti che:

Continueremo a tenere in considerazione il problema. In futuro potremmo aver bisogno di aggiornare la nostra definizione di “completamente vaccinato.”

Una definizione “aggiornata” significherebbe che solo le persone che hanno avuto il secondo “richiamo,” la terza dose, sarebbero considerate “completamente vaccinate,” mentre chi avrà ricevuto solo le due somministrazioni canoniche non sarà più, a tutti gli effetti, “completamente vaccinato.”

Mentre l’avvertimento potrebbe essere solo uno stratagemma per spaventare la gente ed indurla a fare il “richiamo” senza dover ricorrere alla costrizione, va notato che una definizione di “completamente vaccinato” è già stata adottata in altri Paesi.

Per esempio, è già in atto in Israele dove, all’inizio di settembre, avevano “aggiornato ciò che significa essere vaccinati.” Ora è necessaria una terza somministrazione, altrimenti non si è più considerati vaccinati.

Ne avevamo scritto all’epoca [tradotto su CDC qui]e avevamo previsto che altre nazioni avrebbero probabilmente seguito l’esempio.

In effetti, sui media alternativi qualcuno lo avevano predetto già da un po’.

Guardate questa clip di agosto della YouTuber WhatsHerFace:

Per quanto riguarda i possibili utilizzi di una “definizione aggiornata”, beh, potrebbero essercene due.

In primo luogo, permetterebbe loro di mantenere il controllo. Costringere la gente a fare i salti mortali solo per “riavere” diritti che una volta si davano per scontati crea un’atmosfera che normalizza la tirannia dello stato.

In secondo luogo, e più cinicamente, permetterebbe loro di manipolare artificialmente le statistiche per sovradimensionare l’efficacia dei vaccini, minimizzandone i danni.

Sappiamo già che, negli Stati Uniti e in altri Paesi, non si è considerati “vaccinati” se si è fatta solo la prima dose o la seconda da meno di due settimane. Quindi, qualsiasi paziente infettato dalla “Covid” in questo arco di tempo viene considerato “non vaccinato,” NON un caso di infezione post vaccinale.

Ridefinendo il concetto di “completamente vaccinato” possono trasformare in “non vaccinati” milioni di persone che hanno già avuto le due somministrazioni  e impedire loro di diventare potenziali “casi di rottura” e danneggiare le statistiche di efficacia del vaccino.

Questo, a sua volta, camufferà qualsiasi eccesso di mortalità in coloro che avranno ricevuto solo due dosi del vaccino (per esempio a causa del potenziamento anticorpo-dipendente), perché tutti i deceduti saranno ufficialmente considerati “non completamente vaccinati.”

Probabilmente questa normativa verrà approvata presto, prima della stagione influenzale del prossimo inverno, così ogni morte per influenza potrà diventare un “decesso covid in un non vaccinato.”

E, chiunque si sia fatto siringare due volte pensando di poter riavere indietro la propria vita, sappia che ci dispiace, ma era stato avvertito che sarebbe andata a finire così.

Kit Knightly

Fonte: off-guardian.org
Link: https://off-guardian.org/2021/10/23/cdc-director-we-may-need-to-update-our-definition-of-fully-vaccinated/
23.10.2021

FONTE: https://comedonchisciotte.org/la-direttrice-del-cdc-potremmo-aver-bisogno-di-aggiornare-la-nostra-definizione-di-completamente-vaccinato/

Basta propaganda: siamo seri, almeno coi morti

di Paolo Bellavite – 16 Ottobre 2021

Sfero.me

Si sa che personalmente non sono contrario ai vaccini per partito preso, tanto che ho iniziato la “carriera” di vaccinologo nel 2017 con un libro intitolato “Vaccini sì, obblighi no”. Se dovessi riscriverlo, sceglierei il titolo “Vaccini se, obblighi no”, dove il “se” indica la valutazione accurata dei rischi e dei benefici. Comunque non sono un “novax”, sono solo contrario agli obblighi vaccinali, tomba della scienza e dell’etica medica, e sono contrario alla disinformazione. Non può esservi libertà di scelta se non c’è corretta informazione.

Uno degli argomenti di maggiore interesse per l’opinione pubblica riguarda gli effetti avversi dei vaccini e in particolare la mortalità. Per questo vale la pena commentare  un articolo di Antonio Socci, comparso su Libero del 13 Ottobre, intitolato “Ma perché qualcuno ha più paura del vaccino che del COVID? Una riflessione statistica”. Tale articolo è emblematico di quale confusione si possa generare su un argomento così delicato e per questo prendendo spunto da questo ritengo utile trattare in modo tecnico alcuni aspetti della questione. Per brevità, pubblico il testo nel mio fascicolo in “Sfero” in attesa di altre eventuali possibilità di pubblicazione.

Socci analizza il tema delle morti improvvise, che definisce “uno dei temi più diffusi, fra i Novax, forse quello che più alimenta la paura e il rifiuto della vaccinazione”. I cosiddetti “Novax” sono accusati di rilanciare sui socials le notizie di cronaca relative a morti di persone che da pochi giorni hanno fatto il vaccino, come se ciò fosse espressione di ignoranza di statistica. Successivamente, l’autore si lancia in considerazioni tecniche in difesa delle vaccinazioni che lasciano stupiti per la loro scarsa consistenza scientifica.

Già il fatto di chiamare “Novax” chi rifiuta questi  cosiddetti vaccini – in realtà sono sostanze biotecnologiche capaci di manipolazioni dell’espressione genica –  lascia perplessi, ma altrettanto criticabile è attribuire tale qualifica in senso dispregiativo a chiunque abbia dei motivi per esitare. Secondo Socci, la convinzione che il vaccino sia pericoloso sarebbe “un’idea vaga e del tutto indimostrata” e per supportare la sua difesa del vaccino ricorre ad un certo Omar Ottonelli, un economista, che si lancia in calcoli statistici dei morti post-vaccino per concludere che sarebbero morti lo stesso. Partendo dalle 176 mila persone che nel 2014 sono morte in Italia per malattie cardiache o cardiovascolari calcola che ogni giorno è statisticamente attesa la morte per le citate malattie di 8 persone per milione di abitante. Considerando che ci sono circa 6 milioni di persone che hanno assunto una dose di vaccino negli ultimi 20 giorni, ne deriva, secondo Ottonelli come riferito da Socci, che “si prevede la morte – per cause indipendenti dal vaccino – di circa 48 persone (appunto: 8 per milione) che hanno assunto un vaccino negli ultimi 20 giorni. Quindi ci si deve attendere addirittura che 2 o 3 sfortunati, ogni giorno, muoiano di infarto, trombosi, embolia o simili entro le 24 ore dal vaccino: tutto a prescindere dal vaccino stesso”. In breve, si lascia intendere che tutto l’allarme dei “novax” sui morti sarebbe un abbaglio.

L’argomento delle morti comunque attese è serio, viene ripetuto più volte ed è stato estratto dal cappello anche dal viceministro Sileri in un recente dibattito televisivo su “La7”.  Questo approccio denota scarsa conoscenza di problemi reali che interessano la vaccinologia e nella fattispecie la questione degli anti-COVID-19. Segnalo per punti gli errori e omissioni più gravi.

Il numero di decessi nei 20 giorni successivi al vaccino è probabilmente molto superiore al valore di 2-3 al giorno fatto credere da Socci/Ottonelli. Questo numero sarebbe corrispondente alla media dei morti dopo il vaccino se i sistemi di rilevazione fossero corretti. Purtroppo non è affatto così. I morti dopo il vaccino finora segnalati in Italia sono circa 600, quindi 10 per milione di abitanti, circa 2-3 al giorno, ma si tratta di farmacovigilanza “spontanea”, vale a dire che si segnalano solo i decessi che si ha tempo e voglia di segnalare. La farmacovigilanza si basa sulle segnalazioni “spontanee” e non su studi rigorosi basati sul follow-up dei vaccinati. Io e altri abbiamo stimato che di tutti gli eventi gravi che si verificano nei giorni e settimane seguenti l’inoculo, meno di uno su 100 viene effettivamente segnalato (1). Questo problema si verifica anche ai vaccini anti-COVID19 se si pensa solo al fatto che AIFA riferisce di circa 16 eventi avversi gravi ogni 100.000 dosi, mentre gli studi sperimentali per la registrazione, quelli pubblicati, hanno riportato un’incidenza di circa 4000 reazioni avverse gravi ogni 100.000 dosi (2).

Perché tali discrepanze? Le ragioni sono molteplici a partire dallo scarso interesse ad approfondire l’argomento da cui potrebbero derivare messaggi di allarme per la popolazione (su quanto questo atteggiamento negazionista sia etico si potrebbe discutere). In Europa, dove i sistemi di segnalazione funzionano un po’ meglio (anche se prevalentemente basati sempre sulla spontaneità) si tratta di 25.000 morti finora registrati, quindi 50 decessi per milione di abitanti. Prendendo per buona questa cifra (comunque sottostimata) si avrebbero in Italia 300 decessi ogni 6 milioni di abitanti, non i 48 di Ottonelli che sarebbero la mortalità attesa.

Ma la cosa più grave è che si segnalano solo i decessi che il volontario segnalatore ritiene che sia dovuto al vaccino, non tutti i decessi, come si dovrebbe fare in una farmacovigilanza corretta. Comunemente si crede che le segnalazioni debbano essere fatte solo se c’è il sospetto che la causa sia stata il vaccino, mentre invece le segnalazioni si dovrebbero fare in ogni caso e spetterebbe poi ad una commissione di esperti multidisciplinare stabilire se esiste un nesso causale. Che questo sia un vero problema che interessa anche le autorità sanitarie si dimostra leggendo quanto ha dichiarato il sottosegretario di Stato alla Salute Andrea Costa (10 settembre 2021) in risposta a una interpellanza parlamentare del deputato Maria Teresa Bellucci: “La sospetta reazione avversa alla vaccinazione viene segnalata quando sussiste un ragionevole sospetto che gli eventi siano correlati e si necessario effettuare approfondimenti”. Questo concetto è sbagliato e fuorviante, porta inevitabilmente ad una preventiva censura del fenomeno, che certo non fa comodo considerare a chi parte dall’idea che un vaccino sia un bene sempre e comunque. È ovvio che se si procede come dichiara il sottosegretario Costa, molte reazioni avverse non vengono segnalate perché chi le osserva non “sospetta” che siano correlate. È noto che all’inizio della campagna vaccinale molte segnalazioni di fenomeni trombotici erano considerate come casuali o non correlate perché sembrava impossibile che i vaccini potessero causare trombosi. Eppure vari autori tra cui il sottoscritto già spiegarono il meccanismo con cui questi vaccini provocano la trombosi (3-5) e ne informai AIFA ed EMA già in febbraio 2021.

Un altro clamoroso errore del calcolo dei 2-3 morti al giorno attesi sta nel fatto che questo numero risulta da una stima della mortalità immaginata come distribuita uniformemente nel corso dei 20 giorni dopo il vaccino (48 morti distribuiti in 20 giorni). Essendo un economista, Ottonelli probabilmente non sa che le morti  dopo il vaccino (non quelle per altre malattie di più lunga durata la cui entità non si conosce ancora) non si distribuiscono in modo uniforme ma hanno un picco nei primi due giorni (vedi figura gentilmente concessa dal dr. P.A. McCoullough, Chief Medical Advisor, Truth for Health Foundation, ottenuta sulla base dei dati del sistema di segnalazione VAERS americano).

Andamento nel tempo delle morti dopo vaccini anti-COVID-19 negli USA

Questo dimostra che non è corretto paragonare un andamento stabile nel tempo come quello delle malattie cardiovascolari (48 morti attesi in 20 giorni) con quello della mortalità da vaccino (concentrata in 2 o tre giorni). Stupisce che uno statistico, per quanto economista, faccia un errore del genere. Inoltre, dal grafico si vede chiaramente che l’alta mortalità che segue alla vaccinazione va decrescendo nei giorni successivi fino a raggiungere la normalità dopo circa un mese. Se il fenomeno fosse dovuto al “rumore di fondo” per la normale mortalità da malattie cardiovascolari, si dovrebbe osservare un andamento più o meno stabile nel periodo considerato. Invece il fatto che il rischio di morte decresca man mano che passa il tempo dopo il vaccino, fino ad approssimare il tasso di morte normale è proprio indicativo del fatto che sia stato proprio quell’intervento ad innescare la variazione statistica.

Se poi Socci volesse informarsi meglio di cosa dicono veramente i dati della vaccinovigilanza, scoprirebbe la differenza drammatica di segnalazioni tra i vaccini comuni (tipo gli antiinfluenzali) e questi di ultima fattura. Si veda ad esempio quanto emerge dagli USA: le morti dopo i vaccini erano meno di 200 all’anno, mentre solo nel 2021 hanno superato i 25000  (figura gentilmente concessa dal dr. P.A. McCoullough, con dati indicativi, di qualche mese fa).

Reports di vaccinovigilanza di eventi avversi (sinistra) e dei decessi (a destra) in diversi anni negli USA. I dati del 2021 sono indicativi e parziali, ai primi di ottobre i decessi erano già oltre 20.000

Un simile rapporto tra segnalazioni di morti dopo i vaccini c’è anche in Italia, laddove i morti segnalati  solitamente erano meno di una ventina mentre ora siamo già a oltre 600.  Come si spiega la differenza di segnalazioni di 30 volte, nello stesso sistema di rilevazione e nello stesso database, visto che la mortalità “attesa” per malattie cardiovascolari è rimasta invariata? Socci non lo dice, non lo sa, o non lo vuol dire.

L’articolo di “Libero” poi si lancia in banali considerazioni sulla “correlazione”, sostenendo che “è comprensibile che l’impatto emotivo di questi tragici eventi possa indurre familiari e amici della persona morta a immaginare una correlazione con il vaccino e tutto questo solitamente finisce sulle cronache dei giornali che parleranno della morte improvvisa di una persona appena vaccinata. Ma non ha senso stabilire una correlazione automatica, l’eventuale correlazione deve essere stabilita caso per caso dai medici. Non sorprende dunque se molte analisi mediche tendono sinora ad escludere, con discreta regolarità, l’esistenza di un rapporto di causa ed effetto con il vaccino.” Si legge anche che “Riflettere con serena razionalità su questi dati dovrebbe indurre a non stabilire più correlazioni automatiche e dovrebbe far capire che è obiettivamente sbagliata la paura del vaccino.”  La difesa del vaccino diventa poi pura propaganda quando Socci rilancia l’opinione di Burioni: “Non dovete avere paura di un vaccino che è tra i farmaci più sicuri della Terra e vi protegge da un virus che è tra i più pericolosi della Terra. Vaccinatevi. Con la salute non si scherza”. Francamente, sono proprio affermazioni superficiali come queste che paiono degli “scherzi”, e di cattivo gusto.

Tralascio di commentare altre idee del tipo che il vaccino “è più sicuro di quanto lo sia il viaggio in auto che ogni giorno facciamo per andare a lavoro” o  che “possono esserci effetti collaterali, come per tutti i farmaci, ma non in proporzioni che possano destare allarme collettivo” o “del resto può essere pericolosa qualsiasi medicina ma non risulta che i Novax rifiutino farmaci e cure ospedaliere.”

Quando tratta della causalità Socci dovrebbe astenersi di entrare in campi che non conosce. È vero che spesso la gente ragiona “post hoc, propter hoc”, cioè stabilisce una causalità sulla base di una semplice correlazione temporale.  D’altra parte, si usa spesso questo stesso “ragionamento” quando si sostiene che dopo l’introduzione dei vaccini le malattie sono diminuite. Oltretutto non risulta.

All’opposto di quanto corre sui tanto disprezzati “socials”, sulle cronache del mainstream nella maggior parte dei casi di morti dopo il vaccino si legge subito che non vi sarebbe correlazione. Quanto questa conclusione sia di solito affrettata si può facilmente capire dal fatto che la correlazione causale (oltre che temporale) tra una certa malattia e la vaccinazione si può stabilire statisticamente solo dopo una lunga serie di studi di confronto tra gruppi di soggetti comparabili (fase 2-3) , che invece sono ancora in corso. Ora tali studi erano previsti di durata di almeno 24 mesi, al termine dei quali si sarebbe dovuto fare un bilancio e dare finalmente la autorizzazione definitiva alla vendita. Tuttavia ben presto si è cominciato a vaccinare anche i volontari del gruppo di controllo (6). Ma così facendo si è vanificato lo studio di lungo corso e non si potrà avere la prova rigorosa di quanto dura la protezione e neppure delle conseguenze dei vaccini a medio-lungo termine. Una cosa è certa, in assenza degli studi controllati, non si può escludere la correlazione causale per alcune malattie e prima che si abbiano valutazioni statistiche serie sull’incidenza dei vari eventi che si registrano, con metodi adeguati di farmacovigilanza e di stima. Certe evidenze statistiche stanno emergendo proprio, ad esempio per l’amento di casi di sindrome di Guillain-Barré, di miocarditi, di herpes zoster, trombosi di vario tipo, autoimmunità, problemi mestruali e via dicendo.

Un aspetto della questione che sfugge totalmente a Socci riguarda il metodo per valutare “nesso di causalità”. Bisogna sapere che l’analisi della correlazione è fatta, come scrive la stessa AIFA, col metodo indicato dall’OMS, il quale però è difettoso e si presta facilmente a errori, come io e altri abbiamo dimostrato in vari lavori (1, 7, 8). I difetti sono molti ma il più clamoroso sta nel fatto che la correlazione è esclusa se esistono “altre cause” che potrebbero aver determinato l’evento. Ad esempio, se si verifica la morte di un vaccinato che aveva anche malattie di cuore, o tumori, o malattie di fegato, o disturbi della coagulazione, la causa è attribuita a queste malattie preesistenti e non al vaccino. Questa procedura è seguita negli stessi rapporti dell’AIFA e spiegato in dettaglio nel rapporto n. 3. Purtroppo, il metodo di esclusione delle concause è viziato da un grave difetto tecnico, che sfugge a chi non conosce la patologia generale: le reazioni avverse più gravi di solito sono dovute proprio alla interazione tra il prodotto iniettato e una predisposizione o suscettibilità del soggetto. Si tratta, in altre parole, di due o più CON-CAUSE che interagendo determinano l’evento avverso. Questo equivoco sulle correlazioni, oltre alla scarsa efficacia della farmacovigilanza, sta sbilanciando la valutazione dei rischi e benefici dei vaccini rispetto alla malattia. Infatti, nel caso della morte in soggetti positivi, la causa di morte viene attribuita al virus anche se ci sono altre cause come quelle che abbiamo menzionato. Alcuni autori hanno cercato di valutare il nesso di causalità in una serie di decessi dopo i vaccini anti-covid-19 negli USA e hanno riscontrato che solo nel 14 % dei casi si poteva escludere la responsabilità del vaccino stesso.(9)

Esistono vari altri indicatori dell’aumento di mortalità dopo l’introduzione delle vaccinazioni anti-COVID-19 ma non è questa la sede per trattarli, essendoci limitati a trattare solo alcuni aspetti della questione. In conclusione, spero che questo scritto serva a confutare le facilonerie statistiche che generano errori gravi nella interpretazione dei dati su un tema serio come quello dei danni gravi da vaccino.

di Paolo Bellavite

 

Riferimenti bibliografici

1. Bellavite P, Donzelli A. Adverse events following measles-mumps-rubella-varicella vaccine: an independent perspective on Italian pharmacovigilance data. F1000Res. 2020 2020;9:1176. doi:10.12688/f1000research.26523.2 [doi].

2. Polack FP, et al. Safety and Efficacy of the BNT162b2 mRNA Covid-19 Vaccine. N Engl J Med. 2020 12/31/2020;383(27):2603-2615. doi:NJ202012103832702 [pii];10.1056/NEJMoa2034577 [doi].

3. Zhang S, et al. SARS-CoV-2 binds platelet ACE2 to enhance thrombosis in COVID-19. J Hematol Oncol. 2020 9/4/2020;13(1):120. doi:10.1186/s13045-020-00954-7 [pii];954 [pii];10.1186/s13045-020-00954-7 [doi].

4. Suzuki YJ, Gychka SG. SARS-CoV-2 Spike Protein Elicits Cell Signaling in Human Host Cells: Implications for Possible Consequences of COVID-19 Vaccines. Vaccines (Basel). 2021 1/11/2021;9(1). doi:vaccines9010036 [pii];vaccines-09-00036 [pii];10.3390/vaccines9010036 [doi].

5. Bellavite P. Renin-Angiotensin System, SARS-CoV-2 and Hypotheses about Adverse Effects Following Vaccination. EC Pharmacology and Toxicology. 2021 2021;9(4):1-10. doi:10.31080/ecpt.2021.09.00592.

6. Doshi P. Covid-19 vaccines: In the rush for regulatory approval, do we need more data? BMJ. 2021 May 18;373:n1244. Epub 2021/05/20. doi:10.1136/bmj.n1244. Cited in: Pubmed; PMID 34006591.

7. Bellavite P. Causality assessment of adverse events following immunization: the problem of multifactorial pathology. F1000Res. 2020 2020;9:170. doi:10.12688/f1000research.22600.1 [doi].

8. Puliyel J, Naik P. Revised World Health Organization (WHO)’s causality assessment of adverse events following immunization-a critique. F1000Res. 2018 2018;7:243. doi:10.12688/f1000research.13694.2 [doi].

9. McLachlan S. et al, Analysis of COVID-19 vaccine death reports from the Vaccine Adverse Events Reporting System (VAERS) Database Interim Results and Analysis. Research Gate. 2021;Doi:10.13140/RG.2.2.26987.26402.

 

Scelto da Jacopo Brogi  e pubblicato da Verdiana Siddi per ComeDonChisciotte.org

FONTE: https://comedonchisciotte.org/basta-propaganda-siamo-seri-almeno-coi-morti/

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La perovskite ha tutte le potenzialità per rendere il solare molto più efficiente, e rivoluzionare l’energia.

 

STORIA

Il Vaticano e lo spionaggio

Robert A. GRAHAM

 

1. Premessa

Da qualche tempo gli addetti ai lavori preferiscono usare il termine intelligence invece di “spionaggio”. Non solo, i principali agenti di questo settore un tempo clandestino sono pronti a venire allo scoperto, fino al punto di apparire in pubblico senza nascondere la loro vera identità. Infatti l’estate scorsa, in Spagna, si è svolto un Simposio internazionale su “Il potere e i servizi segreti”, al quale ha partecipato un nutrito gruppo di ex responsabili dell’intelligence di diversi Paesi, con lo scopo di esporre, secondo il loro punto di vista, il significato e la giusta funzione di ciò che si definisce “la seconda più antica professione del mondo”, rifacendosi persino a radici bibliche. Si è trattato di una tavola rotonda di tre giorni, organizzata alla fine di agosto all’Escorial di Madrid dal “Cursos De Verano” dell’Università Complutense.
Il rango degli invitati provenienti dai servizi segreti rappresentava una garanzia di serietà ed attendibilità. Tra coloro che hanno preso la parola c’erano l’ex capo della DST (Direction de la Surveillance du Territoire) francese; l’ex vicepresidente della Bundesverfassungsschutz di Bonn; l’ex capo dei Servizi di Sicurezza di Stato del Belgio e l’ex capo del Mossad d’Israele. Avevano accettato l’invito anche un generale sovietico del KGB e un ex capo della CIA (Central Intelligence Agency) statunitense, ma ambedue vi hanno poi rinunciato (era l’epoca del colpo di Stato a Mosca). Era presente l’ex capo della Defense Intelligence Agency (esercito statunitense) che ha preso la parola. Non mancava infine anche l’ex capo dei servizi segreti italiani (SISMI), l’ammiraglio Fulvio Martini, intervenuto anche lui al dibattito. Al termine del Simposio, l’attuale direttore generale dell’intelligence militare spagnola (CESID), Emilio Alonso Mangiano, ha fornito la sua analisi sulla missione dell’intelligence.
La presenza di una rappresentanza così sorprendentemente numerosa significa di certo che, nell’ambiente dell’intelligence, ci si è trovati d’accordo sulla necessità di offrire al pubblico una presentazione autorevole relativa al lavoro dei servizi segreti. Ciò non vuol dire che i partecipanti abbiano fatto rivelazioni indiscrete. In genere, sono sembrati d’accordo nel sostenere che lo stile Mata Hari, eredità della prima guerra mondiale, è ormai superato, in quanto improduttivo, controproducente e pericoloso. Questo, nonostante all’Escorial fosse stata allestita una sessione speciale dedicata al ruolo delle donne nello spionaggio e benché il presidente dell’assemblea fosse una donna, ex agente dell’OSS (Office of Strategic Services) statunitense in Spagna durante la guerra. Nessuno ha fatto cenno a James Bond o a Smiley, forse perché al Simposio non ha partecipato nessun esperto di intelligence britannica, a meno che non si voglia considerare Christine Keeler (coinvolta nel caso Profumo), la quale nelle dichiarazioni alla stampa ha però detto di essere una prostituta e non una spia. Tutti i presenti si sono trovati d’accordo nel sostenere che la sfida lanciata dal terrorismo internazionale richiede una stretta collaborazione fra i Servizi segreti, compreso quello sovietico. Per una volta, organismi normalmente in competizione fra di loro hanno individuato un comune obiettivo in virtù del quale unire i propri sforzi.

2. Lo spionaggio entro il Vaticano

L’attentato alla vita di Giovanni Paolo II, compiuto dal terrorismo internazionale, ha attirato sul Vaticano il più vivo interesse dei servizi segreti di tutto il mondo. Ma è un interesse che precede l’ascesa del terrorismo. Negli ultimi mesi, la vigilanza da tempo esercitata dai servizi segreti sul Vaticano è diventata un fatto di dominio pubblico. L’estate scorsa non abbiamo forse letto che Robin Robinson, fino a poco tempo fa uno dei capi dell’intelligence britannica, ha dichiarato di fronte a un vasto pubblico televisivo inglese che “molte volte” i servizi segreti inglesi hanno intercettato le comunicazioni della Santa Sede? Un fatto simile non ha probabilmente stupito nessuno in Vaticano. Il telefono, infatti, è notoriamente il tallone d’Achille della riservatezza. Grazie al progresso tecnologico, le intercettazioni telefoniche sono diventate sempre più facili e quindi le comunicazioni telefoniche sono maggiormente soggette a intromissioni, in particolar modo attraverso il raggio laser.
Due recenti pubblicazioni meritano di essere citate per cercare di comprendere la ragione effettiva dell’interesse nutrito dall’intelligence nei confronti del Vaticano. Negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale, l’OSS statunitense, a capo del quale era il generale William J. Donovan, inviò un suo agente in Vaticano con l’ordine di indagare sulla eventualità di un contributo da parte della Santa Sede al processo di pace che si cercava di realizzare nel Pacifico. L’agente fu quasi sul punto di portare a termine con successo la missione, grazie all’aiuto di un officiale della Segreteria di Stato pontificia. Le vicende di questo drammatico periodo sono narrate in un libro (1) scritto dall’agente stesso, intitolato Pace senza Hiroshima. Operazione segreta in Vaticano nella primavera del 1945. L’autore è Martin S. Quigley, attualmente editore a New York. Egli riuscì a convincere l’allora mons. Egidio Vagnozzi, futuro cardinale, a trasmettere alla rappresentanza diplomatica giapponese, presente in Vaticano, l’esistenza di una possibilità di negoziare la pace con gli Stati Uniti. Il contatto riuscì. Il delegato speciale giapponese, ambasciatore Ken Harada, dopo una comprensibile esitazione, comunicò le informazioni al suo Governo. Se i suoi superiori le avessero prese in considerazione, sia al Giappone sia agli Stati Uniti sarebbe stato risparmiato l’incubo di Hiroshima e Nagasaki.
La storia di tali contatti è stata rivelata per la prima volta alla nostra rivista (2) . Una piena conferma si è avuta successivamente, quando sono stati resi noti i documenti sia statunitensi sia giapponesi. Quigley rende un servizio alla storia mettendo insieme, dopo tanti anni, i pezzi di questo complicato puzzle riguardante gli sforzi compiuti per la pace. È raro che la storia di un tentativo segreto per raggiungere la pace sia documentata in maniera tanto convincente. L’autore del libro scrive che la sua esperienza dimostra come sia difficile rendere efficaci tali tentativi.
La seconda pubblicazione (3) è ugualmente interessante, anche se per ragioni diverse, ovvero per la conoscenza dell’ambiente dell’attività d’intelligence in Vaticano. Gli autori sono un americano, John Loftus, e un australiano, Mark Aarons. Ambedue hanno la passione d’indagare sulla fuga di veri o presunti criminali di guerra dall’Europa. La loro tesi appare però piuttosto sconcertante. Nella prima parte del libro sembra infatti che il Vaticano sia accusato di essere nelle mani dei nazisti. Nella seconda, invece, il Vaticano appare manovrato dai sovietici. Gli autori hanno compiuto ricerche eccezionalmente approfondite negli archivi segreti dei servizi segreti statunitensi nel tentativo di sostenere le loro opinioni. Ma potremo tornare su questa ipotesi suggestiva in un’altra sede. Per il nostro scopo ora, questo nuovo libro rappresenta solo un’u

3. Cosa c’è da spiare in Vaticano?

Gli organizzatori del Simposio su “Il potere e i servizi segreti” hanno invitato anche osservatori, storici, giornalisti e altri. Uno dei contributi (consegnato da chi scrive) s’intitolava: “L’intelligence straniera e il Vaticano. Come le nazioni hanno spiato il Vaticano e perché”. Per i fini che ci proponiamo è ora utile tracciare a grandi linee alcuni dei punti riportati nello scritto.
Cosa c’è in realtà da spiare in Vaticano? È possibile che questa domanda venga posta dall’osservatore profano. Un modo per rispondere e spiegare tale apparente anomalia è quello di ricordare che la maggior parte dei Governi ha una missione diplomatica accreditata presso la Santa Sede. Il loro compito ordinario consiste sostanzialmente in un lavoro d’intelligence in senso “normale”, ovvero nel fornire ai rispettivi Governi, con cognizione di causa, rapporti attendibili e sicuri, relativi alle questioni che interessano i rispettivi Paesi. A volte, specialmente in tempo di guerra, la situazione critica e il bisogno di informazioni vanno oltre le legittime possibilità dell’ambasciatore. A questo punto entrano in scena i servizi segreti con i loro metodi clandestini. Il famoso detto di Clausewitz sulla guerra potrebbe essere riadattato così: “L’intelligence è il proseguimento della diplomazia con altri mezzi”. Lo stesso ambasciatore, agli albori della diplomazia, era considerato niente più che una “spia”. Questa professione è poi diventata uno strumento rispettato e riconosciuto della società internazionale. È possibile che anche per l’intelligence si stia avviando lo stesso processo di legittimazione?
Nell’ambito dell’intelligence mondiale il Vaticano, e quindi la Santa Sede, occupa un posto molto piccolo. Questo non rappresenta comunque una consolazione per il Papa, che vede i suoi affari confidenziali esposti agli occhi di estranei e i suoi intimi disegni frustrati perché venuti a conoscenza dei suoi nemici. Nell’esperienza storica della Santa Sede è possibile individuare quattro aree e situazioni particolari di cui oggi si conoscono i dettagli. Esse riguardano: 1) l’Italia durante la questione romana (1870-1929) e sotto il fascismo; 2) la Germania nazionalsocialista; 3) l’Unione Sovietica; 4) gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.

4. La Santa Sede e l’Italia prima della seconda guerra mondiale

Con una clausola segreta all’interno dell’articolo 15 del Trattato di Londra, stipulato nell’aprile del 1915, la monarchia italiana era riuscita a ottenere dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dalla Russia zarista la promessa che la Santa Sede non sarebbe stata ammessa a partecipare a una eventuale conferenza di pace. Una simile eccessiva preoccupazione tradiva il nervosismo esistente nelle alte sfere della politica italiana. Non c’è da meravigliarsi che il Governo nutrisse forti sospetti nei confronti delle manovre di Benedetto XV e dei suoi rapporti con le potenze centrali. Il Governo in qualche modo era entrato in possesso del cifrario del Vaticano e leggeva regolarmente i messaggi del Papa.
Si tratta di un’abitudine mantenuta dal successivo regime fascista. “Noi leggiamo tutto”, disse con franchezza il ministro degli Esteri Ciano al Nunzio nel 1940. Il Governo ebbe un gran daffare con le presunte attività spionistiche di un officiale della Segreteria di Stato pontificia, mons. Rudolf von Gerlach, un bavarese che aveva continui contatti con la Germania e con l’Austria. Non fu difficile imputare alcune sconfitte militari e navali a presunte informazioni che sarebbero state passate da Gerlach. In effetti il prelato fuggì in Svizzera e non fece mai più ritorno in Vaticano.
La posizione geografica del Vaticano, situato nel cuore di Roma, rappresentava al tempo stesso un vantaggio e uno svantaggio per i servizi segreti. La Città del Vaticano era un’autentica vasca per pesci. Dopo l’ultima guerra è stata pubblicata la lista degli agenti della polizia, che ha permesso di verificare quanti uomini dell’OVRA (l’organizzazione di spionaggio del regime fascista) fossero all’opera in Vaticano. Uno di esse altri non era che il capo degli stessi servizi vaticani di sicurezza. Con il suo aiuto sarebbe stato un gioco da ragazzi per il SIM (Servizio Informazioni Militare) mandare, per esempio, propri uomini nella stanza dei cifrari della Segreteria di Stato pontificia durante la notte. Un fatto è certo: il Governo italiano era in possesso del cifrario della Santa Sede.
Gli ambasciatori dei Paesi in guerra con l’Italia (negli anni tra il 1940 e il 1944) correvano anche loro dei rischi. Infatti il SIM reclutava senza difficoltà personale tra i domestici dei diplomatici nemici. Essi erano in grado di riferire quali ospiti venivano ricevuti a colazione e anche i brani di conversazione che riuscivano a cogliere. Nel 1943, il SIM fece in modo che l’ambasciatore inglese, sir d’Arcy Osborne, prendesse al suo servizio uno dei suoi uomini in qualità di maggiordomo. Secondo le istruzioni ricevute, questi – un italiano – rubò dal suo nascondiglio tutto il materiale attinente al cifrario in possesso del diplomatico, mentre il suo padrone era uscito per portare a passeggio il cane. Poi lo consegnò a un agente del SIM che ne fotografò i contenuti. Informato (come?) che i suoi messaggi indirizzati a Londra non erano “sicuri”, Osborne rese la pariglia agli avversari, inserendo nei suoi dispacci al Ministero degli Affari Esteri affermazioni false e fuorvianti, sapendo che sarebbero state lette dagli italiani. Questi telegrammi volutamente menzogneri sono ancora conservati nel Public Record Office e rappresentano una trappola per gli storici alle prime armi, i quali troppo facilmente sono pronti ad accettare i documenti ufficiali per ciò che sembrano, senza essere consapevoli del loro background o dei trucchi usati dai servizi segreti.

5. La Santa Sede e la Germania nazista

La storia dello spionaggio nazista in Vaticano, sia prima sia durante la guerra, è insolitamente ben documentata, almeno a confronto di ciò che sappiamo dei servizi segreti di altri Paesi. I nazionalsocialisti consideravano la Chiesa cattolica, sia in Germania sia nel suo centro mondiale a Roma, un nemico (Staatsfeind) da combattere e da estirpare. Il Papa era per loro il vertice (Spitze) di quello stesso “cattolicesimo politico” che attaccavano in patria. Per i capi nazisti era indispensabile essere a conoscenza di ciò che avveniva nella Chiesa, per poterne meglio neutralizzare le mosse. Tale compito era affidato a Reinhard Heydrich, capo dell’efficientissima e temuta Reichssicherheitshauptamt (RSHA). Questo genio del male impartiva ai suoi agenti istruzioni molto particolareggiate. Una delle prede più ambite era la corrispondenza fra i vescovi e il Vaticano. Le linee di comunicazione fra Roma e il Reich dovevano essere tenute sotto controllo e, se possibile, infiltrate. Dovevano inoltre essere annotate e segnalate tutte le divergenze e le tensioni tra i vescovi, o tra i vescovi e il nunzio pontificio a Berlino, nonché tutte le personali debolezze degli uomini di Chiesa. Le relazioni quinquennali inviate dai vescovi a Roma, se potevano essere intercettate, erano particolarmente gradite. Heydrich non esitava neppure a introdurre nei Seminari giovani nazisti da lui ritenuti idonei al compito di infiltrati. Se qualche candidato veniva notato dagli uomini della Gestapo locale, questi avevano l’ordine d’informare Heydrich.
Si potrebbe dubitare che questi ordini venissero eseguiti scrupolosamente dai vari agenti di Heydrich? All’Archivio Federale sono reperibili i protocolli di numerose riunioni della Conferenza Episcopale a Fulda. È quindi evidente che il pensiero dei vescovi tedeschi veniva rivelato alla polizia segreta, che così poteva individuare i punti forti e deboli della loro tattica difensiva. Come potevano queste disastrose informazioni cadere nelle mani di Reinhard Heydrich? Certamente non per circostanze fortuite.
La situazione a Roma, dal punto di vista dell’intelligence, non era favorevole al Reich. Le persecuzioni volute da Hitler in Germania contro la Chiesa gli avevano alienato la maggior parte del clero tedesco. Gli studenti erano stati richiamati sotto le armi, ma rimanevano tuttavia inevitabilmente persone più anziane, dai sentimenti nazionalistici particolarmente forti. Per alcuni di loro Hitler era solo un fenomeno passeggero, che sarebbe stato soppiantato presto da un altro regime, magari proprio dal ritorno degli Hohenzollern, dei Wittelsbach o degli Asburgo. Tra questi “nostalgici”, come è risaputo, c’era il vescovo austriaco Alois Hudal, soprannominato “il vescovo bruno”, che non faceva mistero del suo desiderio di essere il fautore della riconciliazione fra la Chiesa cattolica e il nazionalsocialismo. Dopo la guerra, il vescovo Hudal (che non aveva altra posizione ufficiale in Vaticano se non quella di consultatore di una delle Congregazioni) venne interrogato dal controspionaggio britannico, senza che però venisse preso alcun provvedimento nei suoi confronti. Qualcuno ha sostenuto che il vescovo Hudal fosse “vicino” a Pio XII: in realtà, Hudal rappresentava il rischio numero 1 per la sicurezza vaticana. Una lettera di presentazione scritta da lui in favore di un visitatore tedesco era sufficiente per far scattare segnali di allarme. E ancora, nel 1942 la sua richiesta di un’udienza privata dal Papa venne respinta. Egli non incontrò mai il Papa né durante la guerra né dopo.
Berlino, forse proprio a causa della mancanza di informatori validi vicini alla Curia vaticana, fece ricorso alla tattica di inviare infiltrati da fuori Italia. Negli schedari della RSHA, reperiti nell’ex Ministero degli Esteri, sono stati ritrovati i rapporti di numerose incursioni da parte dell’intelligence. Negli anni della guerra l’intelligence nazista a Roma era principalmente nelle mani del tenente colonnello delle SS, Herbert Kappler, l’attaché di polizia di Himmler nell’ambasciata del Reich in Italia. Anche se il suo incarico ufficiale consisteva nella sorveglianza dei circoli degli emigrati, in realtà la sua missione era di ben più vasta portata. Kappler creò una rete di informatori per gli affari del Vaticano. Essa includeva anche alcuni ecclesiastici, che speriamo non fossero consapevoli di far parte di un sinistro apparato di spionaggio, il quale aveva come fine la distruzione del Vaticano.
È sottinteso che il controllo esercitato dai nazisti si estendeva anche alle missioni diplomatiche pontificie (nunziature) specialmente a quella che si trovava a Berlino. A parte le intercettazioni telefoniche messe in atto dal famoso “servizio” di Goering (Forschngsamt des Luftfahrtsministeriums), un poliziotto era appostato regolarmente di fronte alla nunziatura berlinese, sempre a una certa distanza, in modo da non fornire l’occasione per una protesta diplomatica. In tal modo era possibile controllare chi entrava e chi usciva dall’edificio sulla Rauchstrasse. Se lo riteneva opportuno, il poliziotto poteva anche operare un fermo per l’identificazione. Poiché i vescovi della Polonia occupata comunicavano con la Santa Sede tramite la nunziatura di Berlino, il pericolo che questi traffici (proibiti) con Roma potessero essere scoperti era indubbiamente reale.
Per una valutazione dell’effettiva situazione alla nunziatura berlinese, ricordiamo l’esempio di un uomo delle SS, Hurt Gerstein, testimone dello sterminio degli ebrei a Belzec. Il portiere della nunziatura di Berlino gli impedì l’ingresso, in quanto avrebbe potuto esser un agente provocatore. Più tardi, Gerstein riferì questo particolare: dopo aver lasciato la nunziatura, era stato seguito da un poliziotto in bicicletta. Gli fu permesso di continuare, ma la giovane SS dichiarò di essere stato pronto a prendere la sua pistola e a spararsi. Perché un uomo delle SS non avrebbe dovuto essere al corrente o avere dei sospetti sul fatto che la nunziatura pontificia era sotto la “protezione” della Gestapo?

6. La Santa Sede e l’Unione Sovietica

La parola “talpa” appare spesso negli scritti contemporanei sull’intelligence. L’immagine designa un infiltrato particolarmente pericoloso, non una spia occasionale, che riesce a “farsi una tana” in qualche posto di grande importanza strategica. È possibile che Mosca avesse una talpa in Vaticano prima, durante o dopo la seconda guerra mondiale? Il caso di Alessandro Kurtna può essere di aiuto per rispondere a questa domanda.
Dopo il 1945 alcuni giornali e persino alcune opere di fiction riportano notizie, molto romanzate e non confermate, relative ad alcuni giovani sovietici, membri del KGB, i quali, travestiti da uomini di Dio, sarebbero entrati in Seminario, proseguendo fino a diventare alti prelati della Chiesa cattolica, persino in Vaticano. Sulla falsariga di una storia così avvincente, alcuni romanzieri ricamarono una serie di dettagli sensazionali. Ma esisteva davvero un nucleo di verità alla base di questi voli di fantasia? Perché no? Una spia è una spia e una talpa è una talpa. Un fatto del genere avrebbe potuto verificarsi nell’ambiente tranquillo del Vaticano come in qualunque altro luogo. I sovietici erano maestri nel creare false identità.
Sulla scena romana vi fu almeno una persona che può aver fornito lo spunto alla nascita di questa leggenda. Si trattava appunto di Kurtna, un estone di madre russa, che giunse nella città eterna alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Ma il suo piano si arenò a metà strada. Kurtna, conosciuto anche come Kurson, negli anni Trenta si convertì al cattolicesimo e fece in modo di venire ammesso nel Collegio russo (Russicum) di Roma con la speranza di entrare nella Compagnia di Gesù. Ma dopo un paio di anni gli venne comunicato che non risultava avere la vocazione al sacerdozio e abbandonò Roma e continuò a lavorare sulla storia dei rapporti tra Santa Sede e Paesi baltici. Quando, nel 1940, il suo Paese venne invaso dai sovietici, egli si recò a Mosca, dove ottenne una borsa di studio per continuare i suoi studi. Più tardi, quando il suo Paese venne nuovamente invaso – questa volta dalle armate del Reich – Kurtna, con meraviglia di tutti, ottenne il permesso per ritornare in Estonia e per spostarsi liberamente in quella zona, all’epoca sotto l’occupazione tedesca, recandosi in visita da amici ecclesiastici. Nel frattempo la polizia italiana lo aveva schedato come spia dei sovietici ed egli venne arrestato al suo rientro in Italia.
Dopo aver languito per molti mesi nel carcere di Regina Coeli, Kurtna venne rilasciato dopo l’8 settembre 1943 e gli fu chiesto di firmare una garanzia per lavorare con Kappler. Da quel momento, i rapporti di Kappler a Berlino furono letteralmente infarciti di informazioni sugli affari del Vaticano. Una coincidenza senza dubbio significativa. Grazie alla sua buona conoscenza del russo e di altre lingue dell’Europa orientale Kurtna, attraverso le sue amicizie fra gli ecclesiastici, trovò un lavoro saltuario presso la Congregazione vaticana per le Chiese orientali, presso l’Ufficio informazioni del Vaticano e presso la Radio Vaticana. In tal modo egli si trovava in una posizione che gli permetteva di venire direttamente a conoscenza delle notizie che giungevano a Roma dall’Europa Orientale.
Certo è che Alessandro Kurtna non venne mai ordinato sacerdote né indosso l’abito talare dopo il suo allontanamento dal Russicum. Al massimo Kurtna fu “una talpa mancata”. Alla fine del 1944 egli venne di nuovo arrestato da quegli stessi carabinieri che lo avevano preso nel 1942 e che ora collaboravano con gli americani. Fu quindi interrogato dai membri della S-Force, l’unità congiunta di controspionaggio angloamericana, nota come CSDIC (Combined Services Direct Interrogation Centre), dai cui rapporti sono tratti molti dei dettagli qui riportati.
Ma i documenti del CSDIC non fanno cenno all’ultima parte della storia di Kurtna. Egli venne rilasciato dagli Alleati e un giorno, mentre camminava per via Cola di Rienzo, dove abitava, venne fermato da un forestiero con un giornale in mano. L’uomo gli chiese se conosceva il russo e se poteva aiutarlo a tradurre qualcosa dal giornale che aveva con sé. Kurtna si chinò cortesemente per leggere e, proprio in quel momento, venne colpito violentemente alla nuca, caricato su un’automobile e condotto a Napoli. Qui venne imbarcato su una nave sovietica e andò a finire a Norilsk, in Siberia, nel circolo polare artico. Come è noto, in quei giorni Stalin premiava anche i suoi agenti occidentali più efficienti e fedeli con l’arresto e l’esilio in Siberia. Per ironia della sorte, l’esilio di Kurtna è la prova più certa che egli in realtà era veramente una talpa (mancata?).

7. I rapporti fra Santa Sede e Gran Bretagna e USA

Che interesse aveva il Vaticano per i servizi segreti britannici e americani, soprattutto durante la seconda guerra mondiale? La prima risposta che si può dare a questa domanda è ricordare che nella Città del Vaticano vivevano, protetti dalla neutralità del luogo, gli ambasciatori e gli incaricati di affari di Stati nemici. Primo fra tutti, l’ambasciatore del Reich tedesco, Ernst von Weizsäcker, risiedeva in Vaticano insieme ai suoi collaboratori e impiegati, in contatto diretto con Berlino. Tra i residenti c’era inoltre il delegato speciale giapponese, Ken Harada, che aveva lo stesso contatto diretto con Tokyo. Cosa riferivano ai rispettivi Governi e quali istruzioni ricevevano? Una situazione del genere era un aperto invito alle intercettazioni da parte degli Alleati. Sin dai primi giorni dell’occupazione alleata di Roma, nel giugno 1944, le forze britanniche installarono un posto di ascolto proprio di fronte all’abitazione dell’ambasciatore Weizsäcker in Vaticano. La loro posizione, a pochi metri di distanza sulla via Aurelia, rendeva il compito dell’intercettazione molto semplice. Il controspionaggio britannico era già in possesso dei segnali di chiamata dell’ambasciata, frutto di precedenti intercettazioni del trasmettitore del Ministero degli Esteri di Berlino. Nelle settimane seguenti giunse da Berlino un certo numero di segnali e un giorno, nel febbraio 1945, venne captato un lungo messaggio relativo al piano di pace del ministro degli Esteri, von Ribbentrop. Weizsäcker lo sottopose all’attenzione del Segretario di Stato pontificio. Fu questa l’ultima offerta di pace da parte del Reich, che però non approdò a nulla.
Il controllo esercitato sulle attività del diplomatico giapponese fu di diverso genere. Come è noto, gli americani decifrarono ben presto il codice giapponese. I dispacci diplomatici, compresi quelli da e per Ken Harada, furono intercettati in gran numero. Questi cablogrammi sono oggi conservati nella sezione Magic dell’Archivio Nazionale di Washington e comprendono i messaggi che Ken Harada inviava a Tokyo facendo riferimento ai sondaggi sulla pace del sopracitato Martin Quigley.
La vera storia dell’intelligence – sia in Vaticano sia altrove – non sarebbe completa senza la storia dei suoi fallimenti e delle sue umiliazioni. Dopotutto, di chi ci si può fidare in questo gioco delle parti? Più la fonte delle informazioni è segreta, più è difficile verificarne autenticità e attendibilità. Gli agenti che fanno il doppio gioco e i semplici informatori sono lo spauracchio degli operatori dell’intelligence. Prendiamo ad esempio la mortificazione che subì James Jesus Angleton, capo dell’OSS a Roma dal 1944. A un certo punto del suo compito di vigilanza del Vaticano, Angleton individuò un italiano che passava ai giornalisti americani presunti dispacci arrivati in Vaticano, che sarebbero stati inviati dal Giappone.
Esisteva dunque la possibilità che i messaggi del Papa potessero essere acquistati? Angleton agì rapidamente in modo da assicurarsi l’esclusiva di questa grande scoperta. Erano gli anni in cui le informazioni provenienti dal Giappone erano particolarmente ambite. La fonte misteriosa fu ben felice di ottemperare alle richieste del suo cliente. Il risultato fu un voluminosissimo incartamento di “dispacci” indirizzati al Vaticano, riguardanti avvenimenti di ogni genere, comprese informazioni militari. A Washington, Angleton venne considerato un maestro. I suoi “documenti” vennero inviati al presidente Roosevelt, caldamente raccomandati dal generale Donovan. La bomba esplose dopo alcuni mesi. Tutti quei “preziosi” documenti erano frutto della sbrigativa fantasia di un giornalista italiano di nome Virgilio Scattolini. A poco a poco, ma con un incredibile ritardo, i destinatari di quegli incartamenti si resero conto di aver ricevuto del materiale chiaramente falso e inattendibile. I documenti di Scattolini,
scoperti negli archivi dell’OSS e ora resi pubblici, riempiono una capiente valigia. Scattolini veniva ben remunerato per i suoi sforzi e non poteva abbandonare un attimo la macchina da scrivere. In seguito egli ingannò in modo similare la stampa italiana, i politici e gi uomini di affari, così ansiosi di avere informazioni “segrete” sul Vaticano da non preoccuparsi affatto di verificare la loro attendibilità.
Angleton poi, anche dopo la scoperta dell’inganno perpetrato ai suoi danni, continuò il suo servizio con il pretesto di occuparsi del controspionaggio. È possibile che anche i russi avessero avuto le stesse informazioni? Il capo dell’OSS di Roma fece in seguito una brillante carriera nella CIA come direttore del controspionaggio. Indubbiamente l’esperienza romana gli aveva insegnato molte cose.

8. Conclusione

Abbiamo suggerito prima che esiste un’analogia fra intelligence e la diplomazia tradizionale. La storia dello spionaggio in Vaticano tende a confermare questa tesi. Esiste solo una differenza di mezzi e di metodi. Ma l’intelligence non si limita a raccogliere passivamente informazioni più o meno attendibili, essa ha anche il ruolo di facilitare i negoziati difficili. Nel 1939 e negli anni seguenti, il servizio segreto tedesco, l’Abwehr, diretto dall’ammiraglio Canaris, cercò di negoziare la pace attraverso contatti con Pio XII, senza informare Hitler. Nel 1945, la seconda guerra mondiale si concluse grazie all’opera dell’OSS di Allen Dulles in Svizzera. Non deve quindi sorprendere che i servizi segreti estendessero automaticamente i loro “tentacoli” anche sulla Santa Sede, soprattutto in tempo di guerra. I Paesi neutrali erano il crocevia di questo traffico. Dovremmo quindi rimanere perplessi o sorpresi di fronte al fatto che la sede di una religione mondiale, con profonde radici e tradizioni in ogni angolo del mondo conosciuto, attragga anche l’attenzione delle organizzazioni d’intelligence?

Note

(*) Pubblicato su “La Civiltà Cattolica” 1991, IV, 350-361
(1) M.S. QUIGLEY, Pace without Hiroshima. Secret Action at the Vatican in the Spring of 1945, Madison Books, London 1991.
(2) Cfr. R. A. GRAHAM, “Contatti di pace fra americani e giapponesi in Vaticano nel 1945”, in Civ. Catt. 1971 II 31-42.
(3) J. LOFTUS – M. AARONS, Ratlines. How the Vatican’s Networks betrayed Western Intelligence to the Soviets, Heineman, London 1991.

FONTE: http://gnosis.aisi.gov.it/sito/Rivista4.nsf/ServNavig/3

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