RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 24 MAGGIO 2022

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RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 24 MAGGIO 2022

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

FULGORE

Amo l’oscurità, la notte, ma quella pulita, aperta, che non trama fantasmi, ma solo stelle lucenti. Amo il giorno, ma quello pulito, che non trama attacchi, ambiguità, parole mute, insufficienti. Amo le albe e i tramonti, confini tra il giorno e la notte, ma quelli puliti non rigidi d’ansia per il giorno che sta per cominciare o pieni di lacrime per quello che sta per finire. Amo l’ampiezza della pace e, se non c’è davanti ai miei occhi, li alzo e vedo un filo che scende dal cielo, dritto fino a me che mi accarezza e mi dà quella pulizia di cui ho bisogno per vivere.

FRANCESCA SIFOLA SCRITTRICE – www.francescasifola.it/flash/  

 

 

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SOMMARIO

LA LENTEZZA RUSSO-CINESE E LA FRETTA OSSESSIVA DEGLI USA
24 maggio, la Leggenda del Piave e una domanda: “Quanti italiani oggi sarebbero disposti a combattere per la Patria?”
Bassetti Vaiolo: valutare immunizzazione sugli operatori sanitari
Si riparte con l’ipocondria e annesso giro di giostra infernale.
Vaiolo scimmie. Oms, ipotesi emergenza sanitaria internazionale
Il Canada e i banderisti
Sull’utilità e il danno delle analogie in tempo di guerra 
Il senso della guerra nel XXI secolo
Il segretario del Consiglio di sicurezza russo Nikolai Patrushev sulla situazione in Ucraina e la geopolitica
Strategia USA
Presto l’Ucraina smembrata dagli Alleati
Diserzione, guerra e comando sul mondo
Masse postmoderne. Considerazioni su feticismo e dispotismo nel tempo dell’estetizzazione amministrata
Lavrov: “L’Occidente dovrà ammettere che gli interessi vitali della Russia non possono essere calpestati impunemente”
Una guerra nata dalle troppe bugie
Rapporti WEF: cecchini pesantemente armati sorvegliano le élite a Davos
Il CEO di Pfizer Albert Bourla racconta alla folla del WEF delle nuove pillole con microchip
Il ricatto europeo all’Italia sull’energia
Ridurre la spesa corrente per accedere al Pnrr: le condizioni di Bruxelles all’Italia
IL CASO TARICCO
Il salario minimo e il harakiri dei sindacati italiani – di Andrea Fumagalli
Le reazioni della Russia al piano di pace italiano
Israele, vietato ingresso a deputato Ue: annullata intera missione in Palestina
Taiwan, Biden minaccia la Cina. Pechino: “non ci sottovalutate”
Il Ruanda diventa il laboratorio del World Economic Forum in Africa
Il CEO di Hedge Fund e il candidato del GOP David McCormick […]Richiede che le schede elettorali non datate arrivate in ritardo vengano
contate in gara
Bill Gates, Mark Zuckerberg e Jeff Bezos hanno investito nel latte materno prodotto in laboratorio per prevenire gli effetti del “cambiamento climatico”
Diario della Grande Guerra
RASSEGNA STAMPA DEL 24 MAGGIO 1914 – L’ENTRATA IN GUERRA DELL’ITALIA

 

 

EDITORIALE

LA LENTEZZA RUSSO-CINESE E LA FRETTA OSSESSIVA DEGLI USA
Manlio Lo Presti 21 05 2022
Fonte immagine: https://iari.site/2022/02/14/non-dovremmo-tentare-nessuno-con-la-nostra-debolezza-come-putin-ha-trasformato-le-forze-armate/
Con quale assiomatica sicumera si afferma che la Russia è in difficoltà solo perché si muove lentamente? Se non si muove velocemente e con le bombarde della propaganda modello hollywoodiano, la Russia è spacciata? È una petizione di principio dettata da motivi ideologici e non da dati verificabili di prima mano!
Come è già stato affermato da altri, il conflitto ci viene raccontato dalle strutture giornalistiche occidentali e da istituzioni private in mano agli usa per oltre il 90% o da loro condizionati, ricattati e/o minacciati.
Al di fuori degli esercizi “geopolitici”, l’europa deve tenere presente che:
1) la Russia si trova ad portas in forte contiguità geografica con l’europa.
2) la Russia, se si inca@@a sul serio, può arrivare a Parigi in sei ore.
3) gli usa sono protetti dalla distanza dell’Atlantico e non hanno speso un loro soldato lottando fino all’ultimo europeo.
4) la Nato (e non gli usa) hanno provocato stermini e caos in Dombass per indurre la Russia ad intervenire, usando scudi umani i civili ucraini e sparando alla centrale nucleare per addossare la colpa alla Russia.
5) l’intervento russo per bonificare l’area dalla divisione azov, interamente armata da “consiglieri” usa si estende ai mercenari BLACKWATER, alle unità israeliane, ad elementi dell’isis creato in vitro dagli usa, ai consiglieri del pentagono, della Nsa, ecc.
6) la Russia è costretta rispondere e viene intrappolata provocando l’esecrazione mondiale pilotata trasformando il conflitto in psychoucraina – sul modello martellante psychovairuss.
7) la Nato usa il conflitto pilotato da armate mercenarie e da un esercito ucraino inesistente perché distrutto dagli usa nel 2014, per spaventare gli staterelli di confine a sottomettersi ed accettare il dominio nato.
8) il petrolio Usa costerà il quadruplo
9) il complesso militare industriale degli amerregani muove centinaia di miliardi di dollari stampati dal nulla da inviare agli ucraini, tenuto conto che le materie prime dell’Ucraina da depredare valgono dieci volte tanto “sempre nell’interesse del popolo ucraino, ovviamente!!!”
10) la Russia utilizza i ceceni e altre milizie mercenarie ma sono per questo trinariciuti, bastarti, assassini. Diverso se i mercenari sono usati dagli usa perché sono “missioni di pace” (potenza della semantica).
11) la Cina appoggia Putin perché ha compreso che, con un eventuale collasso russo, gli usa/nsa/Nato passerebbero allo sterminio della Cina stessa e poi all’India. Tale alleanza è estesa all’India.
12) la Nato non risponde più agli usa ormai in guerra civile da oltre 20 anni. La Nato sta agendo anche contro gli usa, seguendo gli ordini delle 15/20 strutture aziendali planetarie intenzionate ad utilizzare la Nato per demolire popoli, nazioni, lingue, filiere commerciali e tutto ciò che blocca o rallenta il loro ordine mondiale
Non devono distrarci bambini in braccio, donne piangenti ed altri paralipomeni da libro cuore trasmessi per 76 ore al giorno con la medesima tecnica dello psychovairuss !
TEMI TRATTATI
LENTEZZA RUSSO-CINESE, FRETTA OSSESSIVA DEGLI USA, Russia in difficoltà, Russia vicina Europa, Europa, Russia, NATO,  amerregani, ceceni, milizie mercenarie, Isis, psychovairuss, psychoucraina, divisione Azov, Consiglieri USA, NSA, Parigi, Dombass,
FONTE: https://www.facebook.com/manlio.presti/posts/10228072813635214

IN EVIDENZA

21 MAGGIO 2022

24 maggio, la Leggenda del Piave e una domanda: “Quanti italiani oggi sarebbero disposti a combattere per la Patria?”

24 maggio, la Leggenda del Piave e una domanda: “Quanti italiani oggi sarebbero disposti a combattere per la Patria?”

Un dato è certo, l’Italia ha vinto una Guerra e quattro mondiali di calcio. Una vittoria, quella nella Grande Guerra (1915-1918), che costò all’Italia il sacrificio di 650mila uomini e donne che persero la vita, ma con cui riconquistò i territori del nord-est di Trento e Trieste. Un esercito di giovani (mitica la cosiddetta “Classe di ferro”, i ragazzi del 1899) che spesso non parlavano nemmeno la stessa lingua, ma uniti da un forte senso della Patria, almeno a leggere le lettere che “i fanti” inviavano a casa e le parole delle canzoni che si intonavano al fronte.E cosa c’è di più patriottico della “Canzone del Piave” o della “Leggenda del Piave”? La canzone scritta da un compositore napoletano che si firmava E.A. Mario (pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta), composta dopo la battaglia del solstizio (come la definì Gabriele D’Annunzio) del giugno 1918, combattimento che porterà l’Italia alla vittoria finale.

Il Piave mormorava Calmo e placido, al passaggio dei primi fanti, il ventiquattro maggio.
Leggenda del Piave o Canzone del Piave di E.A. Mario “Il Piave mormorava Calmo e placido, al passaggio dei primi fanti, il ventiquattro maggio”

Parole immortali che hanno accompagnato più di una generazione dai teatri alle trincee, che portarono il comandante supremo dell’esercito, il generale Armando Diaz, a scrivere un telegramma di congratulazioni all’autore: “La vostra Leggenda del Piave al fronte è più di un generale”, vitale per il morale delle truppe. Canzone che entrò a far parte della retorica fascista, è vero, ma che fu anche l’inno dell’Italia dell’Armistizio dal 1943 al 1946. Persino i leghisti negli ultimi anni se ne sono impossessati, Umberto Bossi nel 2008 chiese di ripristinarlo (al posto del “Canto degli italiani” di Goffredo Mameli) e Luca Zaia ne ha fatto una bandiera autonomista e identitaria quando parla de “lo spirito del popolo del Piave”, rimpiazzando il tricolore con il Leone della Serenissima, dimenticando che a combattere c’erano calabresi, pugliesi, toscani, siciliani, abruzzesi, laziali, etc… Non solo veneti naturalmente.

“Voliamo la pace”, qualcuno scrisse in maniera sgrammaticata su qualche muro della linea del Piave; ma per arrivare a quella pace si è dovuto resistere e combattere. “Ma quanti italiani oggi combatterebbero per la Patria, per l’Italia?”. Tra tutti i sondaggi che circolano in questi giorni sarei curioso di leggere le risposte a questo quesito. Sappiamo che gli italiani per il 68% auspicano al più presto una tregua e solo un 25% si dice favorevole a un supporto militare all’Ucraina (Demopolis – Otto e Mezzo – 18 maggio 2022). In un altro sondaggio abbiamo appreso che “Draghi piace di più quando mette l’accento sulla pace” al 64% degli intervistati (Ipsos – 16 maggio 2022), ma quanti tra gli italiani imbraccerebbe un fucile per difendere i confini italiani? Dubito che in molti lo farebbero, visto che l’Italia da quasi 20 anni (23 agosto 2004) ha eliminato il servizio militare obbligatorio e ha un esercito che non arriva a 100 mila unità.

Non vedo nemmeno tanta voglia di combattere, persino lì a destra, tra i nostalgici, tra gli eredi di coloro che fondarono un regime sul mito di quella “Vittoria mutilata” della prima Guerra. Per Giorgia Meloni & friends il verso della canzone del Piave “Non passa lo straniero” è un migrante che scappa, non un esercito di soldati.

Per ora di invasori non c’è traccia, non c’è un esercito nemico nemmeno all’orizzonte, ma se anche i partigiani depongono le armi, altro che “pronti alla morte” (come canta il nostro inno attuale): dovremmo piuttosto intonare “siam pronti alla resa”.

FONTE: https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/05/21/24-maggio-la-leggenda-del-piave-e-una-domanda-quanti-italiani-oggi-sarebbero-disposti-a-combattere-per-la-patria/6599773/

Bassetti Vaiolo: valutare immunizzazione sugli operatori sanitari

“Non possiamo dire alla popolazione ‘da domani vi vacciniamo contro il vaiolo’, perché vorrebbe dire che siamo di fronte ad una emergenza. Si può valutare eventualmente una immunizzazione contro il vaiolo sugli operatori sanitari e su alcune categorie a rischio, se ce ne sono. Ma non è il momento di estendere vaccinazione. Aspettiamo come evolvono i casi e poi si deciderà”.

Così all’Adnkronos Salute Matteo Bassetti, direttore Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova, torna sulla possibilità di riprendere le vaccinazioni anti-vaiolo, visti i casi anche in Italia di vaiolo delle scimmie.

Mentre l’innalzamento del livello dell’emergenza deciso dall’Oms “è corretto per una sensibilizzazione di tutto il mondo sanitario e medico nel mondo afferma Bassetti – se hai un caso sospetto devi saperlo riconoscere. Questo ci consentità di individuare prima i contagi, isolarli e intervenire nel modo corretto”.

FONTE: https://raffaelepalermonews.com/bassetti-vaiolo-valutare-immunizzazione-sugli-operatori-sanitari/

 

 

 

Si riparte con l’ipocondria e annesso giro di giostra infernale.

Federica Francesconi – 23 05 2022

 

In Belgio il governo ha annunciato 21 giorni di quarantena per una ventina di casi di vaiolo delle scimmie, conosciuto da anni e curato benissimo. Speranza non starà certo a guardare: lui è l’ipocondriaco n. 1.

Il vaiolo delle scimmie è un altro asso nella manica che l’élite globalista userà in Occidente per costringere i recalcitranti alla quarta dose, in continuo aumento, a farsi in(o)culare. Ci trattano come babbuini da laboratorio sperimentale e tali siamo per i signori del controllo onnipervasivo del corpo e della mente. Vogliono estendere il Green Pass a tutti gli ambiti dell’esistenza. L’impennata di emergenze pandemiche serve proprio a familiarizzare la popopazione con l’idea di un controllo totalitario sulle loro vite. Chi si ribella e dissente da questa visione totalitaria è un nemico della collettività e va spazzato via.

Gli ingegneri della nuova umanità distopica sono disposti a tutto pur di realizzare i loro folli progetti.

Temo che stavolta l’attacco sarà ancora più pesante. Il vero obiettivo è quella fetta di popolazione che ha resistito a due anni di indottrinamento sul trattamento vaxxinale. Vogliono piegare la nostra volontà a tutti i costi.

FONTE: https://www.facebook.com/federica.francesconi.3/posts/10224068649081753

Vaiolo scimmie. Oms, ipotesi emergenza sanitaria internazionale

Vaiolo scimmie. Ipotesi emergenza sanitaria internazionale per la diffusione del vaiolo delle scimmie – È attesa una riunione dell’Organizzazione mondiale per la sanità per valutare come affrontare l’epidemia. Intanto emergono nuove segnalazioni di casi in varie parti del pianeta e non è escluso un innalzamento dei livelli d’allerta. Lo scrive www.quotidianosanita.it

L’Organizzazione Mondiale della Sanità starebbe per convocare una riunione di emergenza di esperti per discutere dell’epidemia di vaiolo delle scimmie. Lo scrive il quotidiano inglese Telegraph, citando fonti informate. Secondo il quotidiano britannico i temi principali dell’incontro saranno le modalità di trasmissione della malattia, la sua prevalenza tra gay e bisessuali, nonché la situazione dei vaccini.

E a quanto si apprende sul tavolo dell’Oms ci sarebbe anche l’ipotesi di dichiarare quella sul vaiolo delle scimmie un’emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale con il primo effetto che sarebbe quello di alzare i livelli di controllo.

Intanto nel mondo si susseguono le notizie di nuovi casi. L’Oms cita in Europa il Belgio, la Francia, la Germania, l’Italia, il Portogallo, la Spagna, la Svezia e il Regno Unito. Al di là dei Paesi dove il virus è endemico, casi recenti sono stati riportati anche in Australia, Canada e Stati Uniti. Ricordiamo inoltre che oggi si voterà per dar poteri speciali all’OMS. Per dettagli segui il video di seguito

VIDEO QUI: https://youtu.be/y8N2-6hMLNw

FONTE: https://raffaelepalermonews.com/vaiolo-scimmie-oms-ipotesi-emergenza-sanitaria-internazionale/

 

 

 

Il Canada e i banderisti

Nei precedenti articoli Thierry Meyssan ha mostrato in che modo i banderisti, collaboratori dei peggiori soprusi dei nazisti in Ucraina e Polonia, sono arrivati al potere a Kiev, nella giovane nazione indipendente. Ora Meyssan mostra come, in ottant’anni, immigrati banderisti si sono affermati nel Partito Liberale canadese, al punto che oggi occupano la seconda carica del governo di Justin Trudeau.

Il primo ministro canadese Justin Trudeau è andato in parlamento per presentare il discorso dell’omologo ucraino, Volodymyr Zelensky. Dei 39 milioni di cittadini canadesi, 1,4 milioni sarebbero di origine ucraina e rappresenterebbero il 3-4% degli elettori. Questa comunità è molto inquadrata dalle organizzazioni banderiste che vi inculcano la propria ideologia razzista.

Questo articolo è il seguito di:
1. «La Russia vuole costringere gli USA a rispettare la Carta delle Nazioni Unite», 4 gennaio 2022.
2. «In Kazakistan Washington porta avanti il piano della RAND, poi toccherà alla Transnistria», 11 gennaio 2022.
3. «Washington rifiuta di ascoltare Russia e Cina», 18 gennaio 2022.
4. «Washington e Londra colpite da sordità», 1° febbraio 2022.
5. “Washington e Londra tentano di preservare il dominio sull’Europa”, 8 febbraio 2022.
6. “Due interpretazioni della vicenda ucraina”, 15 febbraio 2022.
7. “Washington suona la tromba di guerra, ma gli alleati desistono”, 23 febbraio 2022.
8. “È agli Straussiani che la Russia ha dichiarato guerra”, 7 marzo 2022.
9. «Una banda di drogati e neonazisti», 7 marzo 2022.
10. “Israele sbalordito dai neonazisti ucraini”, 8 marzo 2022.
11. «Ucraina: la grande manipolazione», 22 marzo 2022.
12. «Con il pretesto della guerra si prepara il Nuovo Ordine Mondiale», 29 marzo 2022
13. «La propaganda di guerra cambia forma», 5 aprile 2022.
14. «L’alleanza di CIA, MI6 e banderisti», 12 aprile 2022.
15. «La fine del dominio occidentale», 19 aprile 2022.
16. «Ucraina: la seconda guerra mondiale non è finita», 26 aprile 2022.
17. «Con la guerra in Ucraina Washington spera di riaffermare la propria superpotenza», 3 maggio 2022.

I primi combattenti stranieri arrivati in Ucraina a febbraio 2022 erano canadesi. Il primo ufficiale straniero arrestato il 3 maggio dalle forze russe è un generale canadese. Evidentemente il Canada, nonostante disti oltre seimila chilometri dall’Ucraina, è segretamente implicato nel conflitto.

In questo articolo mostrerò come tutti i governi liberali canadesi abbiano sostenuto i banderisti sin dall’inizio della seconda guerra mondiale, quando, giocando su due tavoli, hanno combattuto i nazisti e sostenuto i banderisti. La situazione oggi è addirittura peggiorata: il governo canadese presieduto dal liberale Justin Trudeau è affiancato da una vice-primoministro banderista, Chrystia Freeland.

Le connessioni tra CIA e nazisti, proprie della guerra fredda, sono state rivelate solo nel 1975, con le Commissioni del Congresso Pike, Church e Rockefeller, e terminate solo con il presidente Jimmy Carter. Invece il sodalizio del Partito Liberale canadese con i banderisti continua tuttora. Il Canada è l’unico Paese al mondo, oltre l’Ucraina, ad avere una ministra banderista, che per di più è il numero due del governo.

Il primo ministro canadese William King al termine del colloquio a Berlino con il cancelliere Adolf Hitler il 29 giugno 1937.

Nel 1940, quando in guerra c’era il Regno Unito, ma non gli Stati Uniti, il governo liberale canadese di William King creò l’Ukrainian Canadian Congress (UCC) per sostenere gli immigrati antibolscevichi contro i filosovietici (Association of United Ukrainian Canadians – AUCC) e gli ebrei (Canadian Jewish Congress – CJC). Furono vietate biblioteche filosovietiche e sinagoghe.

Il Partito Liberale del regno canadese non è stato creato per promuovere l’individualismo contro le idee conservatrici, ma contro l’idea repubblicana [1].

Durante la seconda guerra mondiale il primo ministro canadese William King, in patria molto apprezzato, in Europa fu fischiato dai soldati canadesi che stava passando in rassegna. Il Partito Liberale ha sempre assunto posizioni antirusse, presentandole fino al 1991 come antisovietiche, e ha costantemente interpretato il cristianesimo in contrapposizione al giudaismo.

Alla fine della seconda guerra mondiale il Canada fu così il principale rifugio dei banderisti (35 mila immigrati) e dei nazisti baltici. Fra loro Volodymyr Kubijovyč e Michael Chomiak, il cui vero nome era Mykhailo Khomiak, editori del più importante giornale nazista dell’Europa centrale, Krakivs’ki Visti.

Michael Chomiak con dignitari nazisti.

Chomiak, che lavorava sotto il diretto controllo del ministro della Propaganda nazista, Joseph Goebbels, non rinnegò mai il proprio passato collaborazionista. Anzi, ha sempre militato per l’OUN(B). E con questo spirito ha educato la nipote, Chrystia Freeland, attuale vice-primoministro del Canada. Lungi dal condannare i crimini banderisti, Freeland ha iniziato la carriera di giornalista a 18 anni lavorando per l’Encyclopedia of Ukraine di Kubijovyč (oggi consultabile in Internet). Poi per The Ukrainian News, il giornale dei banderisti canadesi, infine per The Ukrainian Weekly, giornale dei banderisti statunitensi collegati all’ABN e alla CIA. Freeland era in Unione Sovietica nel periodo precedente il crollo. Le autorità sovietiche interpellarono il governo canadese sul suo sostegno ai banderisti e le vietarono di ritornare in URSS. Ciononostante, dopo la dissoluzione dell’URSS, Freeland assunse la direzione della sede del Financial Times di Mosca. In seguito fu vicecaporedattrice del Globe and Mail, nonché caporedattrice del Thomson Reuters Digital.

Nei suoi articoli e nei suoi libri, Vendita del secolo: la cavalcata selvaggia della Russia dal comunismo al capitalismo [2] e Plutocrati: l’ascesa dei nuovi super-ricchi mondiali e la caduta di tutti gli altri [3], Freeland sviluppa due tesi già care al nonno:
– Critica degli ultraricchi, scegliendo a esempi quasi esclusivamente ebrei.
– Denuncia a ogni piè sospinto prima dell’URSS, poi della Russia.

Non bisogna dimenticare che il fascismo fu la risposta alla crisi economica del ’29 attraverso un’alleanza nazionalista di classe per corporazioni. Nazisti e banderisti vi aggiunsero una feroce portata razzista. Prendendo di mira gli ultraricchi, Freeland affronta giustamente il principale problema contemporaneo. Oggi solo la finanza arricchisce, al contrario la produzione è in crisi. Tuttavia Freeland scivola pericolosamente verso un’interpretazione razzista, riscontrando che, fra i superricchi, gli ebrei rappresentano una percentuale superiore rispetto a quella rappresentata nella popolazione in generale, lasciando così intendere che si tratta di una correlazione significativa.

Nel 1991 il deputato liberale di origini polacco-ucraine Boris Wrzesnewskyj si adoperò affinché il Canada fosse il primo Paese al mondo a riconoscere l’indipendenza dell’Ucraina. Grazie al patrimonio di famiglia (le panetterie Future Bakery) creò un servizio per far arrivare a ogni membro del parlamento notizie sull’Ucraina. Finanziò l’archiviazione da parte di Volodymyr Kubijovyč e Michaek Chomiak di documenti della seconda guerra mondiale sui nazionalisti ucraini. Ne uscì l’Encyclopedia of Ukraine, un’opera non scientifica, bensì una riabilitazione dei banderisti e una falsificazione storica. Grazie agli agganci della famiglia, Wrzesnewskyj introdusse in Canada il futuro presidente ucraino Viktor Yushchenko.

Nel 1994 il primo ministro liberale Jean Chrétien negoziò il Trattato di amicizia e collaborazione con l’Ucraina, di cui chiese fin dal 1996 l’adesione alla Nato.

A gennaio 2004 il Canada, all’epoca guidato dal primo ministro liberale Paul Martin, partecipò alla preparazione da parte di Washington della Rivoluzione Arancione. L’ambasciatore canadese a Kiev, Andrew Robinson, organizzò incontri con i colleghi di 28 Paesi per portare al potere Viktor Yushchenko. Lo scopo era azzerare la politica del presidente Kuchma, che aveva optato per il gas russo invece di favorire le ricerche statunitensi di petrolio nel Mar Caspio [4].

Robinson finanziò il sondaggio del Centro ucraino di Studi Economici e Politici Oleksandr Razumkov, secondo cui le elezioni presidenziali erano state truccate; elargì inoltre 30 mila dollari all’associazione Pora! (È l’ora!) dello stratega della Nato, Gene Sharp [5].

Basandosi unicamente sul sondaggio Razumkov, Pora! organizzò manifestazioni popolari: il voto fu annullato e furono indette nuove elezioni. Il Canada spese tre milioni di dollari per inviare 500 osservatori. Il secondo voto portò al potere Yushchenko, che formò la propria squadra scegliendo Vladislav Kaskiv (dipendente di Soros e leader di Pora!) come consigliere speciale e Anatoli Gritsenko (militare formatosi negli Stati Uniti e presidente del Centro Razumkov) come ministro della Difesa.

Il deputato liberale canadese Wrzesnewskyj fu particolarmente attivo nella Rivoluzione Arancione; la sorella Ruslana era molto vicina alla moglie di Yushchenko, Katerina Chumachenko. Investì 250 mila dollari canadesi per sostenere il movimento e utilizzò il suo appartamento in centro a Kiev per coordinare le manifestazioni nell’intervallo tra i due scrutini. I manifestanti di Pora! scandivano «Ca-na-da!» e brandivano la bandiera con la foglia d’acero.

Chrystia Freeland iniziò la carriera politica nel 2013 nel Partito Liberale. Fu eletta deputata di Toronto. Nel 2014 sostenne la Rivoluzione della Dignità a Kiev (ossia il colpo di Stato banderista), di cui incontrò i principali protagonisti. Denunciò l’indipendenza della Crimea e incontrò Mustafa Dzhemilev, celebre spia degli Stati Uniti, nonché leader dei tatari. Alla fine il presidente Vladimir Putin le vietò l’ingresso in Russia.

Il primo ministro liberale Justin Trudeau nel 2015 nominò Freeland ministra per il Commercio Estero; nel 2017 la nominò ministra degli Esteri e nel 2017 ministra degli Affari Intergovernativi, nonché vice-primoministro. Dal 2020 Freeland è ministra delle Finanze.

John Baird porta al leader del partito neonazista Svoboda la solidarietà del Canada.

Nel 2014 il ministro conservatore degli Esteri canadese, John Baird, incontrò in piazza Maidan i principali leader della contestazione. La televisione canadese ritenne che il ministro avesse così offerto un’argomentazione a sostegno della tesi del presidente Putin, ossia che la rivoluzione fosse una manipolazione occidentale.

La portavoce dell’ambasciata canadese, Inna Tsarkova, era un responsabile del movimento AutoMaïdan. L’ambasciata, vicina a Piazza Maïdan, offrì rifugio ai protestatari, che vi rimasero accampati nella hall per una settimana. Il gruppo neonazista C14 [6] vi si rifugiò il 18 febbraio, durante il massacro.

Quando il 17 luglio 2014 il volo Malaysia Airlines 17 fu abbattuto sopra l’Ucraina, l’Organizzazione dell’Aviazione Civile Internazionale (OACI), con sede a Montreal, inviò sul luogo del disastro quattro ispettori. Ancor prima dell’avvio dell’inchiesta, Freeland diede inizio a una campagna internazionale di denuncia della Russia e approfittò della veste di ministro per buttare quanto più possibile benzina sul fuoco.

Dopo il rovesciamento di Viktor Yanukovich e l’irruzione al potere dei banderisti, il Canada architettò l’operazione UNIFIER (Canadian Armed Forces Joint Task Force-Ukraine) per istruire i militari ucraini e rafforzare la polizia militare ucraina. L’operazione, diretta da Londra e Washington, implicò l’invio in Ucraina di 200 istruttori e di materiale non-letale. È terminata il 13 febbraio 2022, appena prima dell’operazione russa, giusto in tempo per non mettere il Canada in stato di belligeranza.

In otto anni il Canada ha speso circa 900 milioni di dollari in aiuti all’Ucraina.

Da sinistra a destra: l’ambasciatore ucraino in Canada, Andriy Schevchenko; il primo ministro canadese Justin Trudeau; il deputato ucraino-canadese Boris Wrzesnewskyj. In primo piano la mitica spia della CIA durante la guerra fredda, nonché leader dei tatari anti-russi, Mustafa Dzhemilev (giugno 2016).

Nel 2016 il primo ministro liberale Justin Trudeau ricevette con tutti gli onori Mustafa Dzhemilev, incontrato in precedenza anche dalla vice-primoministro Freeland. Ad agosto 2015 Dzhemilev divenne emiro di una Brigata Mussulmana Internazionale, cofinanziata da Ucraina e Turchia per riprendersi la Crimea [7].

Chrystia Freeland e Stepan Kubiv firmano l’Accordo di Libero Scambio Canada-Ucraina, alla presenza del primo ministro Justin Trudeau e del presidente Petro Poroshenko.

Nello stesso periodo Freeland negozia l’accordo di Libero Scambio Canada-Ucraina.

Chrystia Freeland manifesta con i banderisti dell’OUN(B) contro l’aggressione russa all’Ucraina. Lo striscione rosso e nero, i colori dei banderisti, riporta il loro slogan «Gloria all’Ucraina!».

Quando nel 2017 il sito Russia Insider rivelò il passato criminale del nonno di Freeland e i legami della stessa con i banderisti, lei negò i fatti e denunciò la «propaganda» russa. Tuttavia il 27 febbraio scorso si è esibita insieme a un gruppo di banderisti dell’OUN(B) durante una manifestazione contro l’aggressione russa. La foto, da lei stessa postata, è stata rapidamente rimossa dal suo account Twitter.

Il primo ministro canadese Justin Trudeau, il presidente dei banderisti ucraini del Canada Paul Grod e Chrystia Freeland.

Reagendo in sintonia con i partner della Nato all’operazione militare russa, il Canada ha modificato il bilancio e stanziato 500 milioni di dollari di aiuti alle forze armate ucraine, banderisti compresi. Ha già inviato mitragliatrici, pistole, carabine, 1,5 milioni di pallottole, fucili per tiratori scelti ed equipaggiamenti connessi (14 febbraio), visori notturni, caschi e giubbotti antiproiettile (27 febbraio), 100 cannoni senza rinculo Carl Gustav M2, 2.000 munizioni da 84 mm (28 febbraio), 390.000 razioni individuali da campo e circa 1.600 giubbotti paraschegge (1° marzo), 4.500 lanciarazzi M72 e 7.500 granate a mano, nonché un abbonamento a immagini satellitari commerciali per un milione di dollari (3 marzo), videocamere per droni di sorveglianza (9 marzo), obici M777 e relative munizioni, come pure munizioni supplementari per l’arma anti-blindati Carl Gustav M2 (22 aprile), otto veicoli blindati di modello commerciale e un contratto di servizio per la manutenzione e la riparazione di videocamere specializzate trasportate via drone (26 aprile). Inoltre ha iniziato ad addestrare i soldati ucraini all’uso degli obici M777.

Il 2 marzo Justin Trudeau, che ha fede negli Stati Uniti, ha fatto firmare a una ventina di Paesi una dichiarazione per denunciare la disinformazione russa [8], ossia impedire la diffusione d’informazioni sui banderisti ucraini e canadesi.

Il 10 marzo il Canada è riuscito a far firmare a una trentina di Paesi una seconda dichiarazione, molto orwelliana, per compiacersi della censura occidentale, in nome della libertà di stampa, di Russia Today e dell’agenzia Sputnik, organi di stampa pubblici.

Da quando i banderisti hanno fatto irruzione al potere a Kiev, il Canada ha sanzionato oltre 900 personalità e società russe o dell’opposizione ucraina. Ha incluso nella lista persone vicine al presidente russo, nonché membri delle loro famiglie.

Nonostante le dichiarazioni di principio a favore dell’uguaglianza di ognuno davanti alla legge, il Canada sostiene senza riserve i banderisti, araldi della superiorità razziale degli ucraini sui russi.

Traduzione
Rachele Marmetti
NOTE

[1Canada’s Origins: Liberal, Tory, or Republican?, Janet Ajzenstat & Peter J. Smith, Mcgill Queens University Press (1995).

[2Sale of the Century: Russia’s Wild Ride from Communism to Capitalism, Crown Business (2000).

[3Plutocrats: The Rise of the New Global Super-Rich and the Fall of Everyone Else, Penguin Pres (2012).

[4«Agent orange: Our secret role in Ukraine», Mark Mackinnon, Globe and Mail, April 14, 2007.

[5L’Albert Einstein Institution: la versione CIA della nonviolenza”, di Thierry Meyssan, Rete Voltaire, 4 giugno 2007.

[6« La loi raciale ukrainienne », Réseau Voltaire, 9 mars 2022.

[7« L’Ukraine et la Turquie créent une Brigade internationale islamique contre la Russie », par Thierry Meyssan, Télévision nationale syrienne , Réseau Voltaire, 12 août 2015.

[8«Un appel à l’action sur la désinformation parrainée par l’État en Ukraine», Affaires mondiales Canada, 2 mars 2022.

 

FONTE: https://www.voltairenet.org/article216797.html

 

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

Sull’utilità e il danno delle analogie in tempo di guerra 

Deborah Ardilli – 28 04 2022

Da quando è cominciata l’invasione russa dell’Ucraina, sul versante occidentale la macchina dell’informazione ha sfornato le analogie più spericolate per orientare l’interpretazione degli eventi e sollecitare l’adesione a opzioni valoriali presentate come l’ultima riserva del Bene in lotta contro il Male. Va da sé che dire “macchina dell’informazione” significa poco se, contestualmente, non si individua una correlazione significativa fra gli apparati della produzione simbolica e il combustibile che li alimenta. Il coinvolgimento diretto nel settore della difesa di uno dei maggiori gruppi editoriali italiani (il gruppo GEDI, proprietario di 12 quotidiani, 8 periodici, 4 emittenti radiofoniche, 23 testate digitali) autorizza in effetti a pensare che la macchina dell’informazione si serva della guerra per remunerare gli interessi che la controllano. E per conquistare alla politica atlantista e alle scelte economiche del governo Draghi quel supplemento di legittimazione che, se i sondaggi colgono nel segno, pare non volerne sapere di mettere radici salde nella testa degli italiani e delle italiane. Moralizzare la guerra, dunque. Per giustificare i profitti di pochissimi e i sacrifici di tantissime/i.

E così fummo inondate. Dall’accostamento del liberal-populista Zelensky (appoggiato nella sua ascesa dall’oligarca Kolomoyskyi, sovvenzionatore di gruppi neonazisti) al leader socialista cileno Allende (deposto nel 1973 dal golpe militare di Pinochet, sostenuto dalla CIA e dall’amministrazione Nixon), fino all’equiparazione fra le operazioni dell’esercito ucraino (che integra nei propri ranghi unità militari neonaziste) e la resistenza italiana (convenientemente alleggerita, per l’occasione, dei suoi connotati di guerra civile e guerra di classe) o, ancora, fra l’afflusso di foreign fighters suprematisti in Ucraina (commentato con toni allarmati persino dal Washington Post) e le Brigate internazionali nella guerra civile spagnola (schierate contro le forze nazionaliste del generale Franco), da tempo non si vedeva difendere con tanto ardore la libertà di attribuire alle proiezioni più sgangherate la dignità di ragionamento storico-politico. In un batter d’occhio, come se nulla fosse, la deferenza verso gli esperti raccomandata su tutti i canali per due anni di pandemia ha ceduto il passo alla promozione degli esercizi più contorti di storiografia “selvaggia”.

Certo, per chi brucia dal desiderio di vedere decollare i bombardieri a protezione dello spazio areo ucraino, la ritrovata libertà di gridare ad alta voce la prima cosa che passa per la testa senza correre il rischio di essere sepolto dal ridicolo deve essere, in fin dei conti, una misera consolazione. Viceversa, è da credere che la libertà di sconciare la storia come meglio conviene fornisca una gradita compensazione a chi si è rassegnato a contenere la smania di vittoria nel campo della contesa ideologica. Ad ogni buon conto, sarà il tempo a stabilire se i prodotti di questo sfrenato avventurismo analogico riusciranno a sedimentarsi durevolmente all’interno del discorso politico o se, una volta esaurite le ragioni della polemica più immediata, retrocederanno al rango di materiale letterario per uno sciocchezzaio flaubertiano.

Per il momento, vale la pena interrogarsi sulle ragioni della vulnerabilità del nostro campo a scorribande teppistiche come quelle appena evocate, nel corso delle quali i simboli della sinistra vengono sventolati come trofei sottratti al nemico. È giusto domandarsi, per esempio, se decenni di retorica nazional-conciliatrice sulla Resistenza tricolore non abbiano enormemente agevolato il compito a quanti, oggi, si precipitano a convertire quella valuta in un argomento a favore del rifornimento militare dell’esercito ucraino e del prolungamento a oltranza dei combattimenti.

Come è giusto chiedersi se le eruzioni quotidiane di russofobia, l’invenzione di quinte colonne putiniane (utile anche a stornare l’attenzione da quelle vere, che siedono in Parlamento e partecipano al governo Draghi) e gli attacchi sguaiati alla dirigenza dell’ANPI rispondano alle motivazioni ufficialmente dichiarate. Anche volendolo, infatti, è impossibile non accorgersi di come il nome di Putin, in bocca allo schieramento interventista, si dilati fino ad assumere le proporzioni di uno sconfinato campo magnetico in cui vengono fatte gravitare le idee di chiunque si opponga all’escalation bellica.

Accomunate dall’accusa di capitolazione alla propaganda putiniana, si trovano così infilate in un unico sacco le posizioni più disparate: realiste, non-violente, anarchiche, cattoliche, pacifiste, antimperialiste, femministe. Al tempo stesso, riaffiora in superficie un forsennato anticomunismo: una forza a dire il vero mai sopita, alimentata da anni di terrorismo mediatico e pedagogico tutto teso a dimostrare che “comunismo” è il nome di un male metafisico, inalterabile al di là delle sue manifestazioni storiche, e che il carattere “utopistico” dei suoi obiettivi non può generare altro che esiti totalitari. Una volta accettate queste premesse, persino il bonapartismo putiniano può essere ricondotto alla metafisica del “comunismo”.

Sotto questa cappa asfissiante di conformismo, ci si può a malapena stupire di quanto poco importino alla propaganda interventista le credenziali antibolsceviche rivendicate da Putin nel discorso del 21 febbraio 2022 e, del resto, mai smentite dai fatti. Analogamente, poco importano gli elementi di continuità — profondi e preponderanti, secondo alcuni studiosi della società russa post-sovietica — fra il regime di Putin e quello di Eltsin, a suo tempo tenuto nelle grazie dell’Occidente. Poco importa che molte delle persone oggi sospettate di cripto-putinismo, vent’anni fa si trovassero per le strade di Genova a contestare il club dei G8, dove l’autocrate russo era ricevuto con tutti gli onori, accolte dalle manganellate del “mondo libero”. E poco importa, in ultima analisi, anche la marginalità di posizioni filo-putiniane e neo-campiste all’interno della sinistra di classe europea, dove finanche i partiti comunisti apertamente nostalgici dello stalinismo, come quello greco e quello portoghese, hanno condannato l’invasione russa dell’Ucraina sottolineando che il regime di Putin è alla ricerca di una «unificazione capitalistica dei paesi dell’ex Unione Sovietica».

Poco importa agli interventisti tenere in considerazione questo insieme di circostanze, perché la guerra imperialista prevede tutto, ma non l’apertura di percorsi possibili di democratizzazione dei rapporti sociali e politici. Potrebbe essere diversamente per la guerra combattuta sul fronte ideologico? Il consolidamento del mitologema liberale “i nostri valori” può rinunciare alla caccia al rosso? No. E in fondo lo sanno bene le istituzioni europee, da anni impegnate a fare da cassa da risonanza alle richieste dei settori più oltranzisti che, nell’Europa centro-orientale, esasperano le memorie nazionalistiche, perseguitano le minoranze, dimenticano le responsabilità locali per gli eventi della Seconda guerra mondiale, costruiscono per le proprie sofferenze paralleli con la Shoah, situano la Russia come potenza non-europea e, naturalmente, reclamano quell’equiparazione tra nazismo e comunismo che una risoluzione del Parlamento europeo sull’«Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa» ha formalizzato nel settembre del 2019.

Ma torniamo alla macchina dell’informazione. Bisogna osservare, al riguardo, che ciò che si tace è altrettanto rilevante di ciò che si ripete a più non posso. Eloquente, almeno per chi lo ha avvertito, è stato per esempio il silenzio dei media su uno degli episodi finora più significativi di opposizione all’escalation bellica in Europa: lo sciopero generale in Grecia del 6 aprile, convocato dalle confederazioni sindacali del settore pubblico e privato su una piattaforma rivendicativa che, alla richiesta di aumenti salariali e misure contro il carovita, affiancava lo slogan politico “nessun coinvolgimento della Grecia nella guerra”, anche in conseguenza del rifiuto dei ferrovieri della Trainose di trasportare le attrezzature militari della NATO al di fuori del paese.

Praticamente inosservata, a dispetto della vicinanza alla popolazione ucraina proclamata ogni giorno su tutti gli organi di informazione, è stata pure l’accelerazione del processo di riforma del mercato del lavoro che ha interessato quel paese. Caldeggiata da un fondo governativo legato al Foreign Office britannico, è stata approvata a marzo dalla Verkhova Rada una legge che, secondo Open Democracy, «aumenta in modo rilevante i diritti delle imprese private e delle aziende e istituzioni di Stato, mentre riduce quelli dei lavoratori». Autodeterminazione dell’Ucraina sì, ma entro intangibili limiti di classe: lì come altrove, in guerra e in pace.

Dev’essere sempre a causa di questa interpretazione ristretta del principio di autodeterminazione che, all’accoglienza benevola riservata alla richiesta di “armi armi armi”, non hanno fatto seguito, da parte dei governi dell’alleanza euroatlantica, proposte di remissione o di riduzione del debito di un paese come l’Ucraina, che deve somme equivalenti all’80% per cento del proprio PIL al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale, all’Unione Europea, al Canada e ad altri creditori internazionali.

In Ukraine and the Empire of Capital. From Market Transition to Armed Conflict (Pluto Press, 2018), la studiosa ucraina Yuliya Yurchenko imputa alla combinazione di riforme di mercato, cattiva gestione dei prestiti e malversazioni da parte del blocco dominante «cleptocratico» la creazione di una «dipendenza tossica» dell’Ucraina dal debito estero, la quale è a propria volta diventata «uno strumento di manipolazione nello scontro geopolitico fra Russia e Stati Uniti/Unione Europea». La geopolitica del debito è costata all’Ucraina, secondo Yurchenko, la sua residua sovranità ed è all’origine delle tensioni che rendono possibile il conflitto armato.  Ma anche qui: quale editoriale, quale talk show, quale autorevolissima petizione a favore di sacrifici che altri dovranno sostenere, può permettersi il lusso di riaccendere l’attenzione dell’opinione pubblica su un tema — evidentemente non solo ucraino, e finito praticamente nel dimenticatoio dopo il 2015 — come quello del debito? L’impresa di moralizzazione della guerra, in tutta evidenza, non è compatibile con l’esplicitazione delle sue radici materiali.

Per oscurare quelle radici, niente di meglio dell’altra grande analogia che, dall’inizio della guerra, corre di bocca in bocca: chiamando in causa, questa volta, la vulnerabilità del femminismo alle strumentalizzazioni belliciste. Alludo all’analogia che equipara l’aggressione militare russa ai danni dell’Ucraina a un caso di stupro o, a seconda delle varianti, di femminicidio. Colpo grosso, effetto indignazione garantito, in ragione inversamente proporzionale all’attenzione riservata agli stupri e ai femminicidi in tempo di pace, per tacere di forme meno sensazionalistiche di oppressione e sfruttamento delle donne.

Come spesso accade di fronte a fenomeni di discorsività diffusa, è difficile stabilire chi sia stato il primo, o la prima, a lanciare l’idea e ad armare, con questo artificio retorico, agguerrite falangi di ripetitrici e ripetitori. Colpisce, tuttavia, che a servirsi di questa analogia abusiva siano figure di riconosciuto spessore intellettuale. In un articolo apparso sul Foglio il 12 marzo con il titolo Putin vuole uccidere l’infedele Ucraina, Adriano Sofri afferma di dovere al giornalista e militante nazionalista ucraino Vladislav Maistrouk il «pensiero folgorante» secondo cui «l’ossessione di Putin per l’Ucraina somiglia a quella di certi uomini per la ex moglie che hanno amato, al punto di ucciderla. […] Un corto circuito fra guerra e femminicidio: mai casus belli è stato più nitido».

Ci sarebbe molto da obiettare alla riduzione del femminicidio a moventi di ordine psicologico, come pure alla pretesa di elevare al rango di analisi le motivazioni che maltrattanti e femminicidi spesso adducono («l’ho uccisa perché l’amavo troppo») per le proprie azioni. In questa sede, è sufficiente limitarsi a registrare la facilità con cui l’equazione — da sempre cara a tutti i nazionalismi — fra corpo delle donne e corpo della nazione è riuscita a insediarsi nel paesaggio mentale di un intellettuale progressista schierato a difesa dell’invio di armi in Ucraina.

Una volta accettata l’equazione, si capisce, si entra in quel regno dell’indistinzione in cui vale tutto. Vale la rimozione della natura inter-imperialistica del conflitto in corso. Vale il rifiuto di distinguere fra una donna (o l’intera classe delle donne) e uno Stato (o il suo popolo). Vale, di conseguenza, la messa fra parentesi degli interessi comuni fra le donne che tagliano trasversalmente il conflitto a livello internazionale. Vale l’impiego a mezzo servizio dell’analogia in questione, dato che difficilmente i suoi fautori accetterebbero di contribuire all’armamento delle oppresse contro i loro aguzzini o di appoggiare un programma di sanzioni economiche ai danni della classe di sesso che opprime. Vale l’attribuzione esclusiva del patriarcato all’universo sociale del nemico, mentre per quanto concerne il proprio è sufficiente richiamarsi alle inevitabili “imperfezioni” della democrazia liberale. Vale l’amalgama fra una metafora impropria (la guerra come stupro o come assalto mortale alla moglie infedele) e una tragica realtà (gli stupri di guerra). Vale, travestita da accorato lamento per una presunta insufficienza femminista nella denuncia degli stupri di guerra, la riaffermazione della divisione patriarcale del lavoro politico: agli uomini la deliberazione sulla guerra e sulla pace, alle donne l’obbligo di farsi carico delle conseguenze di decisioni che non hanno preso. E se non può essere la logica a dare solidità a simili pseudo-argomenti, in effetti non resta altro che la forza di imporli.

Ma anche volendo astrarre dalla sequenza di false equivalenze messa in moto dall’equazione corpo delle donne/corpo della nazione, resta sconcertante l’indifferenza di Sofri a un’evidenza: la «folgorante» intuizione maistroukiana, lungi dall’offrire un’inedita chiave di lettura del conflitto in corso, appartiene a un repertorio già ampiamente collaudato. Si dovrebbe conoscere il peso dell’argomento “stupro del Belgio” nella propaganda dell’Intesa, e in particolar modo della Gran Bretagna, durante la Prima guerra mondiale. Fu grazie alla riproposizione martellante di quel ritornello, associata a una formidabile pressione economica, che il governo inglese riuscì a piegare parti consistenti della classe operaia britannica, coinvolgendola nello sforzo bellico.

In quegli anni, Sylvia Pankhurst ebbe modo di constatare con amarezza l’efficacia della propaganda governativa su due dirigenti della East London Federation of the Suffragettes (ELFS), persuase della necessità di accettare i sacrifici per la libertà del Belgio: «le loro menti [erano] stordite e ammaliate dai torrenti di retorica della stampa, dall’atmosfera di eccitazione e dalle dicerie che crescevano senza sosta in ogni strada». Le ragioni dell’amarezza sono presto dette. Tre giorni prima della dichiarazione di guerra della Gran Bretagna alla Germania, sulle colonne di The Woman’s Dreadnought, la leader suffragista aveva chiarito in questi termini la natura della catastrofe che si stava avvicinando, facendo tesoro delle lezioni apprese nel corso delle guerre coloniali che avevano preceduto la deflagrazione del 1914: «Ogni sorta di ragione che suona gloriosa e patriottica viene invariabilmente avanzata a sostegno di una dichiarazione di guerra; ma è praticamente certo che ogni guerra dell’epoca moderna sia stata combattuta con l’obiettivo puramente materialistico di promuovere i progetti e proteggere gli interessi di finanzieri ricchi e potenti». Non era arrivata a conclusioni molto diverse Rosa Luxemburg, un anno prima, ne L’accumulazione del capitale. Altro che sublimazione della guerra nell’immagine di mariti ossessionati da mogli infedeli.

Com’è noto, l’impatto della Grande Guerra sul movimento suffragista inglese fu drammatico. La guerra rimescolò le carte: antiche divisioni, in particolare quella fra l’ala costituzionale e l’ala militante del movimento, si ricomposero all’insegna della lealtà nazionalista. Nel corso di una riunione pubblica, ancora nel 1915, Millicent Fawcett, presidente della National Union of Women’s Suffrage Societies (NUWSS), dichiarò che parlare di pace prima della sconfitta della Germania equivaleva a macchiarsi di «tradimento». Il 12 agosto 1914 Emmeline e Christabel Pankhurst, le dirigenti della Women’s Political and Social Union (WSPU), informarono le attiviste che la campagna militante per il suffragio sarebbe stata sospesa fino al termine del conflitto e che le posizioni pacifiste erano incompatibili con l’appartenenza all’organizzazione. Più tardi venne modificata l’intestazione del giornale della WSPU, The Suffragette, che a partire dall’ottobre del 1915 iniziò ad uscire con il nome di Britannia, per sottolineare l’adesione alla politica dell’Impero.

Altre divisioni invece si approfondirono. Una parte della direzione della NUSWW abbandonò l’organizzazione, dopo essere stata sconfessata dall’ala interventista per aver contribuito a organizzare il Congresso Internazionale delle Donne dell’Aia (1915), che chiedeva una pace negoziata. All’interno della WSPU l’opposizione alla guerra non provenne dai quadri dirigenti, ma da militanti di base che la storiografia ha definito «suffragette freelance». Già prima della guerra, d’altra parte, le suffragette con inclinazioni socialiste erano uscite dalla WSPU per costituire altre organizzazioni. Al momento dell’ingresso in guerra, tutti questi gruppi (la Women’s Freedom League, le United Suffragists, la East London Federation of Suffragettes) avrebbero adottato risoluzioni critiche contro lo sforzo bellico.

Se in questa storia c’è qualcosa che merita ancora la nostra attenzione, è chiaro che non si tratta dell’analogia mistica fra corpo delle donne e della nazione. È semmai il modo in cui un pugno di donne, escluse dalla rappresentanza formale, ha provato a qualificare politicamente la propria opposizione alla guerra. In mezzo a un mare di difficoltà Sylvia Pankhurst, fiera internazionalista, fece di tutto per evitare che la propria organizzazione si trasformasse in un organismo di assistenza sociale e per formulare rivendicazioni capaci di promuovere il protagonismo delle donne contrastando la retorica dell’interesse nazionale e dei sacrifici: «If we can make employers lose instead of making profits we would bring the war to an end» («Se riuscissimo a fare in modo che i padroni perdano anziché accumulare profitti, metteremmo fine alla guerra»). L’esito non è scritto, ma è quello che dovremmo fare anche noi. Nella notte, ci guidino le stelle.

 

Immagine in apertura: Tracey Emin, WHAT ARE YOU AFRAID OF, 2001 (da “Fear, War and The Scream”, 2004)

FONTE: http://effimera.org/sullutilita-e-il-danno-delle-analogie-in-tempo-di-guerra-di-deborah-ardilli/

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

Il senso della guerra nel XXI secolo

Thierry Meyssan interrompe la serie di articoli sulla guerra in Ucraina per consegnare al lettore alcune riflessioni sull’evoluzione della guerra sotto l’aspetto umano. La fine del capitalismo industriale e la globalizzazione degli scambi trasformano non soltanto le nostre società e il nostro modo di pensare, ma anche la valenza di ogni attività umana, guerre comprese.

I bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki non rispondevano a una strategia militare. Il Giappone aveva già intenzione di capitolare. Gli Stati Uniti volevano solo che i giapponesi si arrendessero a loro invece che ai sovietici, che già cominciavano a dilagare in Manciuria.

In Europa, eccetto che in Jugoslavia, la pace regna dalla fine della seconda guerra mondiale, ossia da 77 anni. Per gli europei la guerra era ricordo lontano, ed ecco che con orrore la riscoprono in Ucraina. Gli africani della regione dei Grandi Laghi, poi gli abitanti della ex Jugoslavia, poi i mussulmani, dall’Afghanistan alla Libia, passando per il Corno d’Africa, li osservano con disgusto: per lunghi decenni gli europei hanno ignorato le loro sofferenze e li hanno accusati di essere responsabili delle proprie disgrazie.

Secondo alcuni la guerra di Ucraina è iniziata con il nazismo; secondo altri, otto anni fa; nella coscienza degli Occidentali dura da appena due mesi. Prendono atto solo in parte delle sofferenze causate dalla guerra, tuttora incapaci di percepirne tutti gli aspetti. Soprattutto, erroneamente, interpretano la guerra attuale basandosi sull’esperienza dei bisnonni e non su quanto vivono personalmente.

LE GUERRE NON SONO ALTRO CHE SEQUELE DI CRIMINI

Non appena innescata, la guerra mette al bando le sfumature. Intima a tutti di schierarsi per uno dei due campi. Chi non ubbidisce viene immediatamente stritolato dalla duplice mandibola della bestia.
L’abolizione delle sfumature costringe a riscrivere gli avvenimenti. Ci sono solo i “buoni”, cioè noi, e i “cattivi”, cioè gli altri. La propaganda di guerra è talmente poderosa che nessuno è più in grado all’istante di distinguere i fatti dalla loro descrizione. Siamo immersi nell’oscurità e non sappiamo come fare luce.
La guerra infligge sofferenze e semina morte senza distinzioni. Non importa da quale parte si è schierati, non conta se si è colpevoli o innocenti. Si soffre e si muore non solo perché colpiti dall’avversario, ma anche per i danni collaterali causati dal campo amico. La guerra non significa soltanto sofferenza e morte, significa anche ingiustizia, che si fa più fatica a tollerare.
Nessuna regola delle nazioni civilizzate resiste. Molti soccombono alla follia e non agiscono più da esseri umani. Non esiste più un’autorità che metta ciascuno di fronte alle conseguenze del proprio agire. Non si può più contare sulla maggior parte delle persone. L’uomo è diventato lupo per l’uomo.

Accade allora qualche cosa di affascinante: se alcuni si trasformano in belve crudeli, altri s’illuminano e il loro sguardo ci rischiara.

Ho passato dieci anni sui campi di battaglia senza mai rientrare nel mio Paese. E oggi, che rifuggo sofferenza e morte, continuo a essere irresistibilmente attratto da questi sguardi illuminanti: detesto la guerra, ma al tempo stesso mi manca. Perché in questo groviglio di orrori brilla sempre una forma sublime di umanità.

LE GUERRE DEL XXI SECOLO

Ora vorrei esporvi alcune riflessioni che non v’impegnano in questo o quest’altro conflitto, tanto meno in questo o quest’altro schieramento in campo. Voglio solo sollevare il velo e invitarvi a guardare cosa nasconde. Ciò di cui sto per parlare forse vi turberà, ma la pace è possibile solo se si accetta la realtà.

Le guerre evolvono. Non sto parlando di armi e strategie militari, ma delle ragioni dei conflitti, della loro dimensione umana. La transizione dal capitalismo industriale alla globalizzazione finanziaria trasforma le società e polverizza i principi su cui si fondava la loro organizzazione, cambiando anche le guerre. Ne deriva che, se siamo incapaci di adattare le nostre società a questo cambiamento strutturale, a maggior ragione siamo incapaci di capire l’evoluzione della guerra.

La guerra interviene sempre per risolvere problemi che la politica non è riuscita a sormontare. Non arriva perché siamo pronti a scatenarla, ma perché abbiamo scartato ogni altra soluzione.

Ed è proprio quanto sta accadendo oggi. Gli Straussiani statunitensi hanno messo in difficoltà la Russia in Ucraina e non le hanno lasciato altra scelta che entrare in guerra. Se gli Alleati s’intestardiranno a mettere alle strette la Russia provocheranno una guerra mondiale.

I periodi di transizione che costringono a ripensare i rapporti umani propiziano questo genere di catastrofe. Alcuni continuano a ragionare secondo principi efficaci un tempo, ma non più adeguati alla realtà. Questo non impedisce loro di andare avanti comunque, rischiando di causare guerre senza volerlo.

Nella notte del 9 maggio 1945 l’aviazione statunitense bombardò Tokyo. In una sola notte vennero uccise oltre centomila persone e oltre un milione rimasero senza tetto. È il più grande massacro di civili della storia.

Se in tempo di pace si distinguono i civili dai militari, nelle guerre moderne questa separazione non ha senso. Le democrazie hanno spazzato via l’organizzazione delle società in caste o in ordini. Chiunque può diventare combattente. La chiamata massiccia alle armi e le guerre totali hanno rimescolato le carte. Ora i civili comandano i militari: i civili non sono più vittime innocenti, ma sono i primi responsabili della catastrofe generale, di cui i militari non sono che esecutori.

Nel Medio Evo occidentale la guerra era faccenda esclusiva di nobili. In nessun caso le popolazioni vi prendevano parte. La Chiesa cattolica aveva promulgato leggi per limitare l’impatto della guerra sui civili. Ma tutto questo non ha rispondenza con quanto stiamo vivendo, ove non trova alcun fondamento.

Anche l’uguaglianza uomo-donna ha rovesciato i paradigmi. Oggi le donne non solo sono soldati, possono essere anche comandanti civili: il fanatismo non è più appannaggio esclusivo del sesso cosiddetto forte. Alcune donne si dimostrano più pericolose e crudeli di certi uomini.

Non siamo consapevoli di questi mutamenti. E se lo siamo non ne traiamo le dovute conclusioni. Ne conseguono posizioni singolari, come il rifiuto degli Occidentali di rimpatriare le famiglie degli jihadisti, cui hanno consentito di andare sui campi di battaglia, nonché di giudicarli. Si sa che molte di queste donne sono più fanatiche dei propri compagni e che costituiscono un pericolo ben più grande. Ma nessuno lo dice. Si preferisce pagare mercenari curdi per tenerle il più lontano possibile, rinchiuse con i figli in campi di concentramento.

Solo i russi hanno rimpatriato questi figli, pure già contaminati dall’ideologia jihadista. Li hanno affidati ai nonni, nella speranza che costoro riescano ad amarli e a educarli.

Da due mesi stiamo accogliendo civili ucraini che fuggono dai combattimenti. Sono donne e bambini che soffrono, quindi non prendiamo precauzioni. Eppure un terzo di questi ragazzi sono stati educati nei campi di vacanza dei banderisti, dove hanno imparato a maneggiare armi e ad ammirare il criminale contro l’umanità Stepan Bandera.

Campo di vacanza in Ucraina secondo un quotidiano atlantista.
Fonte: Le Monde (2016).

Le Convenzioni di Ginevra non sono che vestigia di quando ragionavamo come esseri umani. Non si addicono ad alcuna realtà odierna. Chi le applica non lo fa perché obbligato, ma perché spera in questo modo di preservare la propria umanità e di non sprofondare in un abisso di crimini. La nozione di «crimine di guerra» non ha senso perché lo scopo della guerra è commettere una serie di crimini per ottenere quanto non si è riusciti a ottenere con mezzi civilizzati; per tacere che in democrazia ogni elettore è responsabile.

Un tempo la chiesa cattolica aveva bandito strategie che prendevano di mira i civili, per esempio l’assedio delle città, e previsto la scomunica per chi vi trasgrediva. Ma oggi non esiste un’autorità morale che faccia rispettare le regole e nessuno è scioccato dalle “sanzioni economiche” che colpiscono intere popolazioni, al punto da causare carestie mortali, come accadde in Corea del Nord.

Visto il tempo che impieghiamo a trarre le conclusioni dai nostri atti, insistiamo a considerare vietate alcune armi da noi stessi utilizzate. Per esempio, il presidente Barack Obama aveva spiegato che l’uso di armi chimiche o biologiche è una linea rossa da non oltrepassare, ma il suo vicepresidente Joe Biden ha creato in Ucraina una rete di laboratori di ricerca di armi di questo genere. La sola nazione che vieta a se stessa l’uso di qualsiasi arma di distruzione di massa è l’Iran; lo ha fatto dopo la condanna morale di questo tipo di armi da parte dell’imam Ruhollah Khomeini. Eppure accusiamo proprio gli iraniani di voler fabbricare la bomba atomica.

In passato si dichiaravano le guerre per conquistare territori. Alla fine si firmava un trattato di pace che modificava le mappe. Al tempo dei social network la posta in gioco è più ideologica che territoriale. La guerra non può che finire con il discredito che si abbatte su un modo di pensare. Benché sia accaduto che dei territori siano passati di mano, nessuna guerra recente è terminata con trattati di pace e riparazioni di guerra e solo alcune si sono concluse con armistizi.

È evidente che, nonostante il discorso che domina in Occidente, la guerra in Ucraina non è territoriale, bensì ideologica. D’altronde il presidente Volodymyr Zelensky è il primo capo di guerra della storia a esternarsi ripetutamente ogni giorno. Passa molto più tempo a parlare che a comandare le forze armate. Costruisce i suoi interventi attorno a riferimenti storici. Noi reagiamo ai ricordi evocati e non ci occupiamo di quanto non capiamo. Rivolgendosi agli inglesi, Zelensky parla come Churchill e viene applaudito; rivolgendosi ai francesi, Zelensky rievoca Charles De Gaulle e viene applaudito; e via dicendo… Conclude sempre il discorso con «Gloria all’Ucraina!». Gli occidentali non capiscono a cosa alluda il motto, ma lo trovano azzeccato.

Chi conosce la storia dell’Ucraina vi riconosce il grido di guerra dei banderisti. Quello che urlavano massacrando 1,6 milioni di concittadini, di cui almeno un milione ebrei. Ma come potrebbe un ucraino esortare a massacrare altri ucraini e un ebreo esortare a massacrare altri ebrei?

La nostra ingenuità ci rende ciechi.

Per la prima volta in un conflitto, una delle parti ha censurato i media nemici ancora prima che la guerra avesse inizio: in Unione Europea RT e Sputnik sono state chiuse preventivamente perché avrebbero potuto contestare quanto stava per accadere. Dopo i media russi, s’inizia a censurare anche media di opposizione. In Polonia, il sito Voltairenet.org è censurato da un mese per decisione del Consiglio di Sicurezza nazionale.

La guerra non si fa più solo sul campo di battaglia. È indispensabile conquistare gli spettatori. Durante la guerra di Afghanistan il presidente statunitense George W. Bush e il primo ministro britannico Tony Blair valutarono la possibilità di distruggere la televisione satellitare Al-Jazeera, non perché avesse influenza sui belligeranti, ma perché faceva riflettere gli spettatori del mondo arabo.

Dopo la guerra del 2003 in Iraq, ricercatori francesi ipotizzarono che la guerra tradizionale si sarebbe tramutata in guerra cognitiva. Sebbene la fanfaluca delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein abbia resistito pochi mesi, il modo in cui Stati Uniti e Regno Unito riuscirono a spacciarla per veritiera era perfetto. Ai cinque ambiti d’intervento (aria, terra, mare, spazio e cibernetica) la Nato ne ha aggiunto un sesto: il cervello umano. Se l’Alleanza cerca, per il momento, di non scontrarsi con la Russia nei primi quattro ambiti, è già in guerra negli altri due.

Man mano che le sfere d’intervento si allargano, la nozione di belligerante sbiadisce. Lo scontro non è più fra uomini, ma fra sistemi di pensiero. La guerra quindi si globalizza. Durante la guerra di Siria, oltre sessanta Stati, che non avevano alcun rapporto con il conflitto, inviarono armi; oggi una ventina di Stati inviano armi in Ucraina. Siccome non capiamo gli avvenimenti in diretta, ma li interpretiamo con i parametri del vecchio mondo, abbiamo creduto che le armi occidentali fossero usate dall’opposizione democratica siriana, sebbene fossero destinate agli jihadisti; così oggi siamo convinti che le armi vadano all’esercito ucraino invece che ai banderisti.

L’inferno è lastricato di buone intenzioni.

FONTE: https://www.voltairenet.org/article216906.html

Il segretario del Consiglio di sicurezza russo Nikolai Patrushev sulla situazione in Ucraina e la geopolitica:

▪️Tutti gli obiettivi fissati dal Presidente della Federazione Russa durante l’operazione militare speciale saranno raggiunti, non può essere altrimenti. La Russia non insegue le scadenze nel corso di un’operazione militare speciale in Ucraina.
Lo scenario ideale per la NATO guidata dagli USA è un conflitto senza fine in Ucraina.
▪️Il nazismo deve essere sradicato al 100%, o alzerà la testa tra qualche anno, e in una forma ancora più brutta.
▪️L’Ucraina, se fosse rimasta un Paese indipendente, e non controllato dall’esterno, “avrebbe espulso molto tempo fa tutti gli spiriti maligni nazisti dalla sua terra”.
▪️Mosca sarà obbligata a rispondere all’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO, che è una minaccia diretta alla sicurezza della Russia. Finlandia e Svezia saranno accettate nella NATO, nonostante le obiezioni di Turchia e Croazia, “perché Washington lo ha deciso”.
▪️L’Occidente oggi sta oscurando con tutte le sue forze il contributo della Russia alla conservazione di altri stati in diversi periodi storici.
@RVvoenkor

FONTE: https://t.me/c/1701704569/6484

Strategia USA

di Pierluigi Fagan

Continuiamo la nostra ricerca intorno al problema più volte qui segnalato ovvero l’apparente sproporzione tra l’ambizione che traspare nei piani americani e la forza effettiva dell’amministrazione Biden.

Quanto all’ambizione, non v’è dubbio che l’attuale amministrazione si sia data compito strategico di ampia portata ovvero fare i conti col destino apparentemente inevitabile di un ordine multipolare che annullerebbe ogni vantaggio sistemico per gli Stati Uniti. Fin qui nulla di particolarmente nuovo, il nuovo potrebbe essere nel modo di perseguire l’obiettivo o forse un nuovo molto antico. Nell’ambito del pensiero strategico americano, si è a lungo ritenuto la Cina il competitor a cui gli USA dovevano guardare. Alcuni realisti hanno anche prospettato come utile una “strategia Kissinger” che riproponesse il vecchio “divide et impera” applicato al tempo di Nixon, quando uno dei più conservatori presidenti americani venne portato a Beijing a stringere la mano addirittura a Mao Zedong, pur di separare comunisti cinesi da quelli russi che ai tempi erano il nemico principale.

Secondo questa linea di pensiero, si sarebbe dovuto quindi cercare di staccare gli interessi russi da quelli cinesi. Ricordiamo che la Russia è una potenza armata non economica, la Cina il contrario, a grana grossa. Ha destato quindi un certo stupore verificare la foga e l’impegno materiale e politico straordinario con il quale Biden (qui come nome di una strategia collettiva di gruppi di potere di Washington) ha affrontato la, a lungo coltivata e poi scoppiata, guerra in Ucraina. Perché la Russia quando l’avversario strategico è la Cina?

Le strategie rispondono a problemi molteplici, quindi hanno ragioni molteplici ed applicazioni molteplici. La domanda semplice, quindi, non può non avere che una risposta complessa. Ma qui non abbiamo spazio e tempo per indagare questo campo di analisi. Diremo solo che ci sembra importante quanto dichiarato dal Segretario alla Difesa Lloyd Austin il 25 aprile scorso ovvero che il fine dell’impegno USA nel conflitto ucraino ha come obiettivo “vedere la Russia indebolita” strutturalmente, cioè a lungo. “A lungo” va oltre il conflitto ucraino, si riferisce al conflitto multipolare che durerà anni, non mesi. Tre gli assi dell’agognato indebolimento: a) quello strettamente militare ovvero distruzione prolungata dei materiali bellici russi che richiedono anni per il rimpiazzo; 2) quello economico agito tramite sanzioni ed isolamento economico e finanziario, se non altro con il sistema occidentale, comunque, ancora ben al di sopra del 50% di ricchezza mondiale; 3) quello diplomatico che s’accompagna al secondo obiettivo. Come disegnato dal nuovo strategist della Casa Bianca, quel T. J. Wright ex direttore del Brookings Institute nel suo “All Measures Short of War” (2017), gli USA non possono recedere dalla prioritaria difesa dell’ordine “liberale” globale, senza arretrare di un millimetro nonostante la crescita dei problemi, dei concorrenti, del disordine del mondo sempre più complesso.

Solo che Wright proponeva una strategia complessa che non usasse più di tanto a leva bellica mentre ciò a cui assistiamo ed in conseguenza di ciò che ha detto Austin, va in senso contrario. Non si può fare i conti col desiderio strategico di voler vedere la Russia indebolita senza fare i conti con le questioni belliche poiché la forza della Russia è bellica, non economica. La loro stessa forza diplomatica che vediamo penetrare lentamente in Africa agisce tramite armi non investimenti come fanno i cinesi. Va qui precisato che la strategia generale di un sistema come gli USA, non è mai pensata e decisa da un solo attore, è vano cercare l’Autore originario in quanto non c’è, ci sarà un gruppo con molti attori neanche noti o visibili, di cui il presidente o il suo più stretto entourage politico, fa sintesi. Tra l’altro ciò permette il fatto che la strategia generale resti ignota nel suo disegno complessivo, poiché pochissimi ne condividono l’intera architettura. Quindi Wright va benissimo quando si tratta di sanzioni e diplomazia, ma non è affatto detto che si prenda sul serio la sua “Short of War”.

Torniamo allora al 14 aprile quando Biden convoca alla Casa Bianca i vertici degli otto maggiori produttori d’arma americani per un briefing generale. Ufficialmente, l’incontro è stato messo in relazione con i continui sforzi americani di armare gli ucraini. Pochi giorni prima, un think tank militare di Washington (CSIS) aveva sfornato un report in cui si diceva che già allora, gli americani avevano consumato un terzo delle proprie riserve di Javelin e Stinger e che ci sarebbero voluti tre-quattro anni per ripristinare le scorte per i Javelin, cinque per gli Stinger. Ma una fonte anonima della Casa Bianca ripresa dalla stampa americana, aggiungeva che non era solo per quello che s’era indetta la riunione. In effetti, se fosse stato solo per quello ce la si cavava con un paio di telefonate a Raytheon e Lockheed-Martin. La fonte faceva capire che: a) la prospettiva di fornitura e consumo d’armi sarebbe stata molto prolungata nel tempo; b) la questione non riguardava solo gli Stati Uniti e l’Ucraina, ma anche gli alleati.

Non passa giorno, incluso ieri, che Stoltenberg non ribadisca che il conflitto sarà molto, molto lungo. Ma non è questa la piega che sta prendendo il conflitto sul campo, gli ucraini non sono in grado per uomini e sostenibilità economica e psicologica di reggere un conflitto per “anni ed anni”. Né lo vogliono gli europei che poi son quelli che debbono mettere i soldi per la ricostruzione di cui tra l’altro Zelensky parla sempre più spesso come di cosa ormai anche più importante delle armi stesse. Altresì, la recente conversione armaiola di Germania, Europa e presto Giappone oltre ad Australia, Canada oltre a Gran Bretagna che sull’argomento fa da sé e si è già organizzata per tempo a riguardo (dichiarazioni Johnson già da molto prima del 24 febbraio ), chiama ad un impressionante incremento produttivo proprio americano poiché è l’unico competitivo sul mercato ad oggi e tale rimarrà almeno per i prossimi cinque-dieci anni o forse più visto il vantaggio tecnologico che ha su ogni altro tentativo di esplorare competitivamente questo particolare mercato.

Sono così andato a verificare cosa realmente producono non solo Raytheon e Lockheed-Martin, ma anche gli altri convocati alla famosa riunione, cioè: Boeing; Northrop Grumman; General Dynamics e L3Harris Technologies. Molti di questi non producono nulla che possa servire alla guerra in Ucraina, ad esempio forze aeree, spaziali, navali. Così, se a livello di radar, missili, droni e carri si poteva trattare la faccenda al telefono o a livello di singoli responsabili di approvvigionamento-produzione, per una grande stagione di riarmo generale, non solo americana ma occidentale in senso più ampio e tenuto conto se il riarmo occidentale trainerà il riarmo globale, la faccenda diventerà sistemica e quindi la riunione ci stava tutta.

Abbiamo qui già presentato la prossima puntata conflittuale dell’Artico che è poi quella che ha mosso la altrimenti inspiegabile entrata nella NATO dei due scandinavi (in pacifica convivenza coi russi da sempre, privi di contenziosi, di allettanti risorse, di russofoni maltrattati o di rilevanza strategica generale che la Scandinavia non ha mai avuto in nessun modo e quanto alla Svezia, addirittura di confini comuni coi russi). Riprendendo le analisi di un numero dedicato a suo tempo da Limes, Fabbri stesso l’altro giorno ricordava la base russa di Murmansk, l’unica libera dai ghiacci tutto l’anno, ad un tiro di schioppo dal confine finlandese, ma volendo anche svedese. Ma nell’incontro tra il turco Cavasoglu e Blinken, si è parlato anche di Caucaso (dove è in subbuglio l’Armenia, storico alleato di Mosca) e del centro-Asia i cui presidenti facenti parte della piccola NATO russa (CSTO) si sono di recente incontrati a Mosca, preoccupata dello scarso entusiasmo che gli alleati hanno sin qui mostrato per l’avventura russa in Ucraina. Pare in aumento anche il contingente americano in Siria, in Somalia, e si può sempre prevedere qualche ripresa delle dispute russo-giapponesi su Sakhalin (nientemeno che oro, argento, titanio, ferro, carbone e tra i più grossi giacimenti del mondo di gas e petrolio ancora non estratti) o la famosa disputa della Isole Curili in cui i russi hanno strategiche basi di navi e sottomarini.

Letti gli azionisti dei top-eight produttori d’arma ovvero il gotha finanziario dei grandi fondi di Wall Street che da mesi sta uscendo dalle posizioni sul hi-tech, si può riconsiderare il famoso sistema centrale del potere americano indicato da Eisenhower nel 1961 come oggi diventato: complesso militare-industriale-congressuale-finanziario. Il Congresso a cui Biden aveva chiesto da ultimo 30 mld per l’Ucraina, ha deciso invece di dargliene 40, sua sponte bipartisan poiché il sistema beneficia tutti e due i partiti. Il Congresso immette la liquidità, i militari chiedono all’industria di produrre per poi usare in proprio o vendere agli alleati ora avidi di armi che non sanno produrre in proprio. La finanza banchetta e così sono tutti felici. Industria e finanza, poi tornano parte del bottino in finanziamento dei partiti e dei singoli rappresentanti, anche col sistema delle porte girevoli, posti di lavoro per le corti di amici/amiche ed assistenti, think tank et varia. Le armi verranno regolarmente usate nella collana di perle di ferro dei mille conflitti che oscureranno la collana di perle di seta cinese. La Russia sarà sfiancata in attriti multipli, sotto sanzioni, punita diplomaticamente. Gli alleati non avranno scelta che seguire il capo branco anche perché non hanno forza, strategia ed intenzione alternative comparabili.

La forza del sistema denunciato più di settanta anni fa da un presidente che però era anche un generale ed anche repubblicano sebbene il suo famoso discorso d’addio vene scritto da un sociologo democratico (democratico ideologicamente, alla Dewey), può forse garantire la strategia anche dopo l’aspettata sconfitta alle prossime mid-term. Rimane una strategia ambiziosa, ma è calcolata. Bene o male lo vedremo. Chissà che alle prossime presidenziali americane non si sospenda il voto se gli USA, nel frattempo, saranno entrati in guerra in prima persona.

In questi giorni le frastornate opinioni pubbliche scoprono il problema alimentare globale noto già dai primi giorni di guerra ma inadatto ad esser allora posto vista l’urgenza della pressione comportamentista alla Watson-Skinner a base di “aggressore-aggredito”. Per questo, come per quello ecologico-climatico, come per quello geopolitico-economico-valutario-finanziario, gli USA hanno la soluzione, non è nuova ma funziona da cinquemila anni ed è obiettivamente forse l’ultimo loro esclusivo vantaggio comparato. Sempre che non sfugga di mano e non trascenda nell’atomico. Rischioso? Ce lo disse Ulrich Beck già nel 1986, la nostra è l’Età del rischio.

FONTE: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/23090-pierluigi-fagan-strategia-usa.html

 

 

Presto l’Ucraina smembrata dagli Alleati

Washington intente approfittare della vittoria russa in Ucraina per annettere Leopoli alla Polonia, come già accadde dopo la prima guerra mondiale. All’epoca, in seguito a una breve guerra fra ucraini e polacchi per il controllo della Galizia nel contesto del disfacimento dell’impero austroungarico, la Conferenza di Pace di Versailles e la Società delle Nazioni decisero di annettere amministrativamente per 25 anni la Galizia alla Polonia e d’indire in seguito un referendum di autodeterminazione.

Lo scopo era rafforzare la Polonia per irrobustire lo sbarramento all’ideologia sovietica.

Ritenendo persa la guerra di Ucraina, Washington considera la possibilità di riconoscere l’annessione di Donbass, Mariupol e Crimea alla Russia, in cambio dell’annessione della Galizia orientale alla Polonia (la Galizia occidentale è già polacca). Le questioni di Odessa e Transnistria rimangono irrisolte. L’Ucraina sarebbe in questo modo riportata a dimensioni congrue.

Il viaggio a Kiev del presidente polacco Andrzej Duda, nonché il suo intervento alla Verkhovna Rada, vanno interpretati in questa prospettiva. Duda ha dichiarato che l’Ucraina dovrà essere ricostruita a spese dell’«aggressore» e che non si darà pace fino a quando l’Ucraina non entrerà nell’Unione Europea. Al di là di queste belle parole, Duda si è recato a Kiev per accertarsi del destino dell’Ucraina, una volta sancita la sua sconfitta.

FONTE: https://www.voltairenet.org/article217032.html

Diserzione, guerra e comando sul mondo

Massimo De Angelis – 26 04 2022

 

In questo approfondito contributo, Massimo De Angelis riflette sulle ragioni della guerra in corso in Europa, a seguito dell’invasione dell’esercito russo in Ucraina. Una guerra che accentua una situazione socio-economica e politica, già provata da due anni di pandemia e di malessere sociale crescente. Di fronte alla nocività della guerra, pur tenendo ben conto delle colpe dirette e delle immediate responsabilità, l’unica possibile risposta che ci si sente di dare è: diserzione. L’autore la rilancia, ricordando i contributi di Franco Berardi e Sandro Mezzadra sul tema. Tale parola può suonare indigesta alle letture che forzosamente contrappongono i (presunti) “valori occidentali” all’aggressione dei “barbari”. La storia ci insegna che quando scoppia una guerra di questa entità, finalizzata (come spiega l’autore), a ridisegnare l’attuale (dis)ordine geo-politico e geo-economico, non esistono poteri buoni.

L’Ucraina è vittima delle tentazioni egemoniche del disegno panrusso di Putin, da un lato, e nella necessità Usa (che comanda la Nato) di mantenere una supremazia militare ed economica fortemente compromessa, dall’altro. Questo sono i pilastri centrali dell’attuale crisi. E tutto ciò con la Cina sullo sfondo. In questo quadro, l’Europa non è in grado, o meglio non vuole, ritagliarsi un ruolo autonomo, andando così incontro al proprio suicidio. Gli eccidi e le morti civili in Ucraina sono il prezzo cinico che deve essere pagato, mentre le potenze imperiali rinfocolano lo scontro, affondando qualsiasi tentativo diplomatico, e i mercanti di guerra festeggiano.

Per questo, disertare non è vigliaccheria, ma l’unico vero atto di coraggio possibile. Perché “disertare la guerra è disertare il comando sul mondo”.

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Oltre la claustrofobia della guerra, la diserzione

Questa guerra ci è piombata addosso dopo due anni di pandemia e corrispondente crisi sanitaria, ci ha distratti da una catastrofe ambientale senza precedenti, e i suoi effetti si adagiano in occidente su un malessere sociale accumulato da 50 anni di politiche neoliberali. Come spesso accade in queste situazioni, attorno a noi gli orizzonti del possibile sembrano chiudersi, e mentre si accentua il senso di claustrofobia e il gusto amaro di una necessità aliena al desiderio, solo una via sembra esserci lasciata aperta, quella della guerra, del riarmo, di un solco netto tracciato tra buoni e cattivi, tra eroi e codardi, tra un noi e un loro che rimescola le carte, che accomuna ricchi e poveri di una parte contro i ricchi e i poveri dell’altra, e così per sfruttati e sfruttatori, violentati e violentatori, inquinati e inquinatori, come se queste distinzioni non avessero più importanza di fronte alla distinzione tra invasi e invasori e i loro alleati. Quest’ultima distinzione è dunque posta sopra tutte le altre, le mette all’ombra obliterando le diverse posizionalità all’interno dei due campi, occultando le trasversalità che le differenti forme della cooperazione sociale ha instaurato nel tempo. La costruzione del reale si fonda sempre su una gerarchia tra le possibili distinzioni, e la distinzione prodotta dalla guerra sta in alto non per negare tutte le altre distinzioni, ma, attraverso sangue, distruzione e dolore, per creare la condizione per la loro riconfigurazione e il loro perpetuarsi.

Quando ogni via di trasformazione positiva del reale sembra esserci sbarrata, sorge quindi forte e disperata ancora la domanda: “che fare”? In un articolo di qualche settimana fa, Sandro Mezzadra ci suggerisce la risposta già nel titolo, bisogna “disertare la guerra”. E certo che bisogna disertarla, con tutte le nostre forze, con tutto il nostro immaginario collettivo, anche se il cosa, il come, il chi, il dove di questa diserzione pongono domande aperte la cui risposta richiede  uno sforzo e un impegno comune. Ma disertare bisogna. Anche in questa guerra ci sono i disertori, sia dal versante russo che da quello ucraino. Ciò che li accumuna come fratelli è la voglia di non uccidere e di non farsi uccidere, oltre ad una pulsione vitale senza se e senza ma che li porta a reclamare il diritto al futuro. La parola “diserzione” invita ad immagini di giovani militari spaventati che scappano dal proprio reggimento, che affrontano i rischi insiti alla fuga da un’autorità che, se li acciuffa, li punirà crudelmente, che si rifugiano in casolari e fienili per passare la notte nella speranza che nessuno li veda, che timidamente cercano la solidarietà di chi li incontra — un pezzo di pane, un bicchiere d’acqua — per poter continuare il viaggio. Disertare non è cosa facile, perché implica una rottura con ciò che ti dicono da tutte le parti che sia giusto o quantomeno doveroso fare, la guerra.  Disertare è anche una scelta pericolosa,  per le conseguenze che possono ricadere su di te (le immagini i tanti ragazzi impauriti e fucilati nella prima e nella seconda guerra mondiale per esempio. Ancora oggi in Ucraina, la legge permette a un comandante di sparare se sorprende un milite in procinto di disertare, soprattutto se questo è di guardia al confine, mentre per i russi ci sono 8 anni di prigione).  Occorre espandere questa immagine che abbiamo di diserzione, dobbiamo allargarla in centri concentrici, ad altri ambiti collegati alla logica della guerra, poiché risulta essere sempre più chiaro che il rinnovamento del nostro mondo si fonda anche su una rinnovata pratica della diserzione in senso lato. Disertare la guerra è dunque anche disertare le sue ragioni, disertare è necessariamente allo stesso tempo cercare e costruire altro, un fuori dalla guerra e un fuori da quel mondo che la genera per la costruzione di un altro mondo. E come ancora ci ricorda Sandro Mezzadra “disertare la guerra è oggi un imperativo, ma le pratiche di diserzione non possono essere efficaci se non sono articolate in una cornice globale. Se non sono sostenute dall’invenzione, che certo non può essere fatta a tavolino, di un nuovo internazionalismo, che potrà anche chiamarsi in un altro modo ma a quello spirito dovrà collegarsi.” Disertare la guerra, è quindi anche disertare una logica di comando sul mondo della quale la guerra — con tutte le sue orribili conseguenze — è la levatrice.

Lenti

Per ampliare questa nozione di diserzione, bisogna munirsi di lenti ottiche che ci permettano di osservare il mondo a diverse scale, come uno zoom che passa dal teleobiettivo al grandangolo. Il mondo che si vede con tali lenti diverse è lo stesso, eppure esso appare in maniera diversa, perché ad ogni scala scopriamo caratteristiche specifiche di quella  scala. Allo stesso tempo, i fenomeni distinti che intravediamo alle diverse scale, fanno parte in realtà di un unico fenomeno. Una foto panoramica, se ingrandita, rivelerà particolari inaspettati. Eppure quei particolari erano li fin dall’inizio, e costituiscono, insieme ad una moltitudine di altri particolari, il panorama stesso.

Allora, osserviamo la guerra armati di tali lenti. Una delle cose che trovo molto frustrante nelle discussioni sulla guerra, è la netta divisione binaria che emerge nella rappresentazione del “popolo” Ucraino da una parte e gli invasori Russi dall’altra, i primi visti SOLO come vittime indifese o eroici difensori, i secondi SOLO come puri aggressori o brutali esecutori di atrocità. Ovviamente, a un certo livello di osservazione, questo tipo di rappresentazione binaria è comprensibile: l’esercito russo è stato l’aggressore, e quindi il popolo ucraino la vittima dell’aggressione che cerca di difendersi. Non nego la validità (seppur parziale) di questa rappresentazione della realtà. Ma chi vede solo questo, è come se usasse solo una lente, chiamiamola Lente 1. Non è mio compito in questo scritto usare questa lente e ripetere la condanna a Putin, gli orrori dei massacri di civili, le motivazioni interne ed esterne che lo hanno portato a questo, il Nazi-stalinismo, come lo ha definito Bifo, del suo governo sulla Russia e la guerra promossa dal suo regime ad altri popoli in quel che considera il suo giardino di casa. E’ tuttavia utile ricordare che il vecchio Tony Blair quando era primo ministro aumentò le licenze di esportazione alla Russia del 550%, e ciò includeva equipaggiamento necessario alla guerra in  Cecenia, poiché, come disse, è “importante appoggiare la Russia nella sua lotta contro il terrorismo.” D’altra parte la Russia ha agito come potenza regionale, cioè come nodo del comando sul mondo, in diverse guerre prima dell’intervento in Ucraina del 24 febbraio scorso: in Cecenia (2000-03); in Georgia (2008); nell’ est Ucraina (dal 2014 a oggi); in Siria (dal 2015 a oggi). Ha anche svolto brevi interventi militari in Bielorussia (2020) e in Kazakhstan (2022). Come ci ricorda Simon Pirani), a parte il caso dell’intervento in Cecenia nel quale l’obiettivo russo era di rinforzare i confini nazionali ed eliminare il nazionalismo ceceno, tutti gli altri casi di intervento militare sono stati contraddistinti da tre obiettivi comuni: 1. quello di appoggiare regimi o forze militari pro-russe; 2. quello di contrastare movimenti sociali che minacciavano regimi pro-russi (a parte il caso della Georgia), un po’ come nell’intervento dell’unione sovietica in Ungheria (1956) e Cecoslovacchia (1968); 3. in tutti questi casi, e a dispetto della retorica di Zelensky che vede la Russia come minaccia all’integrità territoriale Europea o addirittura mondiale, la Russia ha mostrato poco interesse verso l’acquisizione di nuovi territori, a parte enclavi dove vivono una maggioranza di lingua russa. Simon Pirani quindi conclude che “la Russia, nonostante la sua sottostante debolezza economica, ha cercato in questo modo di rivaleggiare con l’alleanza USA-Regno Unito, che in questo periodo ha fatto guerra in Iraq, Afghanistan e Libia, e ha sostenuto la guerra saudita in Yemen, la guerra israeliana in Palestina e altri guerre per procura.”

Per capire la complessità della situazione e quindi pensare a come uscirne, si dovrebbero però usare ANCHE altre lenti. In primo luogo, lenti che ci permettono di osservare la guerra in Ucraina nel suo contesto geopolitico, che ci permettono appunto di capire questa invasione, alla luce di una storia di cui ANCHE l’occidente ha avuto e ha tutt’oggi un ruolo determinante. Dunque dobbiamo usare una lente che apre la prospettiva sul contesto della guerra, chiamiamola Lente 2. In secondo luogo, lenti che ci permettono di “ingrandire” l’immagine della situazione rivelandoci che ciò che appariva semplicemente binario, risulta assai più complesso e sfaccettato, chiamiamola Lente 3. Per esempio, tra i militari russi c’è chi diserta, e tra la popolazione russa c’è chi protesta. Allo stesso tempo, il popolo ucraino non è un monolito, ma come tutti i popoli, è differenziato e plurale. E allora c’è chi combatte con entusiasmo gli invasori russi, e c’è chi avrebbe a gran lunga preferito non essere obbligato alla leva obbligatoria; c’è anche chi sta dalla parte dei russi, c’è poi chi diserta il militare e la guerra, chi non gliene importa nulla se comandano i russi o gli americani, e chi gli basterebbe vivere in pace. Ci sono i rifugiati che lasciano l’Ucraina per l’Europa, e chi invece trova rifugio nelle vaste campagne dell’Ucraina occidentale, dimenticati dal governo ucraino, con farmacie e negozi vuoti e senza che un soldo degli aiuti internazionali arrivi da quelle parti. E poi ci sono anche quegli ucraini vicini al potere del governo ucraino che ammazzano, torturano, e zittiscono altri ucraini perché in qualche modo non si identificano nella linea governativa, o magari perché è dal 2014 che sono stati bombardati da milizie ed esercito ucraino nel Dombas. Questa complessità che è parte fondamentale del reale non è visibile a chi usa solo  la Lente 1, o solo la Lente 2. Per vederla, bisognerebbe anche usare altre lenti e lasciare che ciò che esse ci mostrano inquini le nostre certezze ottenute guardando solo con una lente, e attraverso  processo di meticciamento del pensiero, lasciare che esso raggiunga una nuova immagine quanto più congruente del tutto — e quindi una nuova idea sul da farsi. Un processo questo che nessun individuo può da solo affrontare, ma che può solo approssimarsi attraverso una prassi comunicativa di un intelligenza collettiva.

Ora c’è una ragione per la quale chi usa solo la lente 1 — ed è la maggioranza dei commentatori mainstream, dei governi occidentali e dei media — sembra solo usare questa lente, almeno pubblicamente.  La ragione è che la guerra ha bisogno di nemici, non solo il nemico esterno, ma anche quello interno. Come ci ricorda Franco Bifo Berardi, “Il nemico interno è la sensibilità di essere umani: la coscienza, se vogliamo. Ne parla Freud in un testo sulle nevrosi di guerra scritto durante la Prima guerra mondiale: il nemico interno si manifesta come dubbio, esitazione, paura, diserzione. Il nemico interno è la volontà di pensare.” Così come si demonizza il nemico esterno (e la guerra si fonda su tale demonizzazione), allo stesso tempo si demonizza e si silenzia come amico del nemico chiunque usi anche altre lenti. Una vecchia tattica che cerca di chiudere il pensiero ad ogni tipo di ragionamento, demonizzando chi cerca di aprirlo. Una tattica di coloro che credono che per fermare una guerra di questo tipo occorre alimentare la guerra fino alla vittoria. Un pensiero che di fronte alla necessità di uscire dalla guerra è un pensiero perdente, perché se anche la mitica vittoria dovesse arrivare, arriverà dopo anni di combattimenti, torture, sangue e sofferenze, e quindi di tante, molteplici sconfitte. No, quelli che come me sono contro la guerra, non sono amici di Putin, ma non sono neanche amici di Boris Johnson, Joe Biden o la NATO. Se ci interessa la pace, dobbiamo disertare la guerra, e il primo passo della diserzione è capire la situazione dal quale vogliamo fuggire. Una comprensione che ovviamente si deve avvalere anche di altre lenti, per esempio una Lente 4, che indaga il metabolismo tra cooperazione sociale e natura non umana e una Lente 5 che indaga nelle pieghe anche psichiche della soggettività.

In quanto segue, lungi da poter mettere in rapporto le osservazioni scaturite da tutte queste lenti, mi soffermerò su ciò che si intravede usando la Lente 2, anche se vorrei poter scrivere più dettagliatamente su cosa si osserva attraverso la Lente 3. E’  quest’ultima in effetti quella che alla fine ci da un orientamento su come agire nel mondo, quali le trasversalità da istituire tra soggetti attraverso i confini, come creare ponti tra sfruttate/i, violentate/i, e oppresse/i in tutte le nazioni, in modo tale da spingere le distinzioni tra i confini nazionali in fondo alla gerarchia delle cose ed elevare altre distinzioni e metterle al centro della nostra preoccupazione politica. Ma per agire nel mondo che si osserva con la lente 3, occorre anche delimitare i contorni delle forze che agiscono su di esso, cioè usare la lente 2, quella che fa intravedere il comando sul mondo. In quanto segue, voglio provare a mettere a fuoco la guerra in Ucraina attraverso la lente 2.

Il comando sul mondo

Tante domande si aggirano tra i commentatori più attenti della guerra in Ucraina, quelli meno schiacciati su posizioni entusiaste e desiderose di prendere parte in qualche modo alla guerra. Per esempio, perché Biden non ha cercato di far qualcosa diplomaticamente quando la CIA ha mostrato le immagini dell’ammasso di truppe lungo i confini tra Russia e Ucraina? Perché la strategia degli Stati Uniti, come disse in un intervista alla CNN Hilary Clinton, sembra essere la stessa di quella adottata durante l’invasione russa in Afghanistan, cioè mandare armi per contrastare l’esercito occupante e aspettare che i russi si sfiancano, mentre si accumulano i morti tra civili e militari (morti che in Afghanistan durante la guerriglia contro le truppe sovietiche furono stimati tra i 562,000 and 2,000,000, senza parlare del caos successivo)? Perché Biden non dice a Zelensky di andare calmi, di rallentare, di negoziare perché i costi umani della resistenza fino alla vittoria — che include per molti commentatori Ucraini sulle tv occidentali perfino la cacciata dei Russi dalla Crimea— sono incalcolabili? La risposta credo abbastanza ovvia è che l’amministrazione americana spinge per un allungamento della guerra. E quindi la domanda centrale è perché? Che interesse hanno gli Stati Uniti ad allungare questa guerra, e come questo interesse è legato al comando sul mondo in questa fase storica?

Quando parliamo di mondo, parliamo di una complessità in continua riproduzione, una complessità prodotta e in produzione, parliamo di cooperazione sociale che si articola in forme diverse spesso intrecciate e spesso antagoniste. Parliamo di relazioni sociali che si incarnano in quelle ecologiche e viceversa, parliamo di metabolismo sociale, parliamo di soggetti individuali che operano in una moltitudine di reti di cooperazione sociale le cui relazioni danno forma a queste reti, le quali a loro volta danno forma alle razionalità dei soggetti. Per capire questa guerra e soprattutto cosa c’è in gioco bisogna in primo luogo anche munirsi della Lente 2, quella che guarda al comando sul mondo in questo senso, comando sulla cooperazione sociale nella sua totalità, un comando che ha la finalità di dargli una finalità e una direzione. Parlare di comando sul mondo sembra un’operazione puramente ideologica per chi crede che la democrazia occidentale sia la “fine della storia” e insieme la più alta forma di governo sul mondo, una forma che crede di distribuire il potere equamente su ogni individuo del popolo attraverso un voto a scadenze regolari ogni qualche anno. Purtroppo, sappiamo, questa forma di democrazia lascia molto spazio all’esercizio oligarchico del potere da parte del capitale, e addirittura anche monarchico, da parte della sezione egemonica del capitale internazionale. La guerra che si è scatenata in Europa ha delle ragioni che si radicano nell’”ordine” mondiale, un “ordine” che mettiamo tra virgolette, proprio perché sappiamo che è un ordine che si da al capitalismo, ai suoi flussi estrattivi e di sfruttamento, di continua (ri)generazione di gerarchie di potere e comando, che produce l’intelligenza artificiale ma anche la fame, e di un metabolismo tra la cooperazione sociale e la natura non-umana dalle conseguenze catastrofiche. Ma ciò che chiamiamo capitalismo, anch’esso non è un monolito. Il capitalismo oggi è la quasi totalità della cooperazione sociale che si dipana e intreccia a diverse scale, e che include diverse forme del fare e del relazionarsi, quelle che seguono la logica del capitale,  dello stato, e del comune, un intreccio comunque egemonizzato dal capitale, ed è per questo che lo chiamiamo capitalismo. Il comando sul capitalismo globale è il comando sull’intreccio delle reti e dei sistemi della cooperazione sociale. E il capitalismo ha bisogno di direzione e di comando proprio in virtù delle crisi che esso genera, e delle lotte che domandano risposte a queste crisi.

In forme diverse, possiamo derivare dal pensiero post-operaista italiano, dagli scritti di Alquati negli anni 80 a quelli di Hardt e Negri degli anni 2000, un’immagine del comando sul mondo come un sistema di stati gerarchizzati a secondo delle  relative potenze; una serie di reti di miliardari, corporations e organizzazioni economiche e finanziarie, e una selezione di organizzazioni della “società civile”. Questo livello di comando dunque, non è rappresentabile con un faraone in cima alla piramide sociale tenuta in piedi da un bello strato di schiavi. No, questo comando globale è in primo luogo anch’esso un sistema di comando, e ognuna delle parti interagenti, nelle sue molteplici posizionalità, intenzionalità, capacità e poteri,  partecipa al gioco. L’”ordine” mondiale è il risultato di questa interazione tra parti che hanno potere differenziale. In questo gioco, la Russia e le Cina vi hanno partecipato come stati, nelle loro funzioni dentro all’organizzazione delle Nazioni Unite, e come potenze politico/economiche/militari quantomeno regionali e con aspirazione di maggiore compartecipazione in questo comando sul mondo. Il peso che la Russia e la Cina hanno nel definire questo ordine oggi, non è proporzionale alla loro potenza, militare della prima ed economica della seconda. L’egemonia all’interno di questo ordine, almeno da dopo la seconda guerra mondiale, ce l’hanno gli Stati Uniti, un’egemonia tuttavia che da anni è in declino, a fronte della crescita di altre potenze economiche, in particolare quella Cinese.

L’egemonia statunitense nel comando sull’ordine del mondo si regge su due gambe, la potenza militare e il dollaro. Sebbene gli USA siano di gran lunga la potenza militare più forte al mondo, è una potenza che a fronte della crescita economica Cinese e di altre potenze, nonché delle sconfitte militari in Afghanistan e Iraq che hanno seguito gli attacchi dell’11 settembre del 2001, sembra essere una potenza in declino, almeno per quanto riguarda la sua capacità di raggiungere i suoi obiettivi. Ma è soprattutto la seconda gamba su cui si regge l’egemonia statunitense a porre seri problemi: il dollaro e il suo ruolo nella regolazione sia degli scambi internazionali all’interno della globalizzazione, ma anche delle politiche sul debito pubblico americano e le corrispondenti voci di spesa. In questo senso il dollaro fa da cerniera tra conflitti esterni ed interni agli Stati Uniti.

Sono anni che gli Stati Uniti tentano di arrestare questo declino egemonico su quest’”ordine” mondiale, un declino che è accelerato dall’11 settembre, che è passato da due grandi sconfitte militari in Afghanistan e in Iraq, e che ha visto infrangere le certezze della governance neoliberale a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008, e che vede la Cina pianificare la sua filiera globale (Road and Belt Initiative) mentre allo stesso tempo domanda rispetto e multipolarismo nella gestione del comando globale sul capitalismo. Il dollaro è importante per gli Stati Uniti  perché permette agli USA di far fronte alle crisi esterne ed interne semplicemente stampando dollari o, attraverso il rialzo del tasso di interesse, rimpatriando dollari che il resto del mondo detiene nelle sue riserve. In ultima analisi, questa egemonia del dollaro permette agli Stati Uniti di regolare il flusso e la composizione degli investimenti nel mondo. Come scrive disincantato il generale cinese Quiao Liang nel suo libro L’arco dell’impero (2018, p. 68), in questo modo gli Stati Uniti, “hanno incorporato risorse e prodotti globali, oltre al commercio di tutto il mondo, nel sistema di regolamento del dollaro; non hanno saccheggiato apertamente le risorse e le ricchezze degli altri Paesi, però le hanno scambiate con un pezzetto di carta verde che a loro costa quasi niente, il che in pratica è un saccheggio invisibile.”

Dopo lo svincolamento del dollaro all’oro proclamato da Nixon il 15 Agosto 1971, l’origine di questa egemonia si è avuta attraverso l’instaurazione di un’altro legame che permetteva ai “pezzi verdi” di circolare in maniera egemonica nonostante le difficoltà economiche nel mezzo della crisi degli anni 70. Così Nixon e la Federal Reserve pensarono di legarlo alla merce più importante del mondo il petrolio, cosa che si ottenne grazie alle rassicurazione saudite agli americani dopo la guerra dello Yom Kippur nel 1973. Oggi il  petrolio rappresenta da solo quasi il 4% del commercio totale e i suoi derivati entrano nella produzione della stragrande maggioranza dei prodotti.

Il legame tra dollaro e petrolio è quindi il legame tra una merce fittizia (il dollaro) e una assai centrale, il petrolio. Dollaro e petrolio diventano quindi due merci fondamentali della globalizzazione, un legame che è avvenuto prima dell’era della cosiddetta globalizzazione economica e anzi, ne ha definito la precondizione. Chi non ha dollari non compra petrolio, e chi non compra petrolio non fa marciare l’economia. Gli Stati Uniti hanno quindi creato un sistema di sopravvivenza economica attraverso questo legame. E hanno difeso questo sistema con la guerra. Non è un caso che la guerra in Iraq nel 2003 che ha deposto Saddam Hussein, e quella in Libia del 2011 che ha deposto Gheddafi, siano state entrambe combattute all’indomani della minaccia di questi regimi di abbandonare il dollaro nel mercato del petrolio.

Così gli Stati Uniti hanno diviso il mondo in due parti. Da una parte gli USA, il cui vantaggio competitivo rispetto agli altri paesi era quello di produrre dollari. E dall’altra il resto del mondo, il cui vantaggio competitivo variava a seconda dei casi. Nel caso della Cina e di altri paesi asiatici dagli inizi degli anni ’80, il vantaggio stava nel bassissimo costo del lavoro, scarse regolazioni ambientali, e forti leggi repressive contro sindacati. Questo permise di rilocalizzare molte industrie americane ed europee in queste e in simili aree del mondo, anche per sfuggire alle lotte salariali e attorno alla riproduzione sociale che in questi paesi si erano accumulate nell’onda degli anni 60 e 70.

Dallo svincolamento del dollaro all’oro il 15 agosto 1971, gli Usa hanno stampato una grande quantità di dollari, che ha contribuito, insieme ad altri fattori, al declino secolare del dollaro rispetto ad altre divise. Tuttavia questo è un declino che ha oscillato tra fasi rivalutazione e fasi di svalutazione. Questi dollari sono stati immessi in circolazione mondiale, oltre che per l’acquisto di petrolio, anche per acquistare prodotti ora manufatti in Cina ed altre aree, materie prime, per la produzione di armi,  e per finanziare col debito regimi in tutto il mondo. Questi ultimi si trovano poi ciclicamente esposti al controllo americano attraverso il Fondo Monetario Internazionale che, nel caso di crisi del debito,  devono subire le famose politiche di aggiustamento strutturale, politiche volte al taglio di spese sociali, dei sussidi alle popolazioni più povere, all’apertura dell’agricoltura alle grandi multinazionali e alla promozione di esportazione e di surplus della bilancia commerciale. Basta qui ricordare brevemente la grande crisi del debito, in concomitanza con una recessione globale, che si è scatenata sui proletari dei paesi più poveri negli anni ’80 dopo il rialzo massiccio del tasso di sconto americano da parte di Paul Volker nel periodo 1979-1981.

L’andamento dei tassi di interesse americani ha anche la funzione di regolare i flussi di investimento globali in modo da favorire la gestione sia dei problemi interni americani, che gli orizzonti strategici degli USA sul capitalismo mondiale. Come avviene per la regolazione della temperatura ambientale per mezzo di una caldaia e un termostato, anche il sistema del dollaro si basa su un sistema di feedback negativi, sebbene sia un automatismo non così preciso come quello che si ha attraverso un termostato. In quest’ultimo caso, il termostato misura la deviazione della temperatura ambientale da un dato valore desiderato di riferimento.  Tale differenza di valori poi segnala alla caldaia come regolarsi: la spegnerà se la temperatura dell’ambiente è superiore al valore desiderato, o l’accenderà se la temperatura ambientale è inferiore al valore desiderato. Invece della regolazione della temperatura ambientale per mezzo di un termostato collegato a una caldaia, qui si tratta della regolazione dei flussi di investimento globali per mezzo di un “termostato geopolitico” che misura la deviazione tra un contesto operativo globale — così come è valutato da parte delle elites americane — e la loro visione degli obiettivi strategici economici, politici e militari. Strumenti tecnici tra i quali il tasso di sconto della Fed possono poi operare nel tentativo appunto di attrarre dollari negli USA o disperderli in giro per il mondo a seconda della necessità. La regolazione cosiddetta a “fisarmonica” comprende dunque due grandi fasi: la semina e il raccolto. In primo luogo, la semina di dollari in giro per il mondo attraverso i meccanismi discussi, provocando in molti luoghi dei boom economici che come ogni boom finisce. Dunque, in secondo luogo, quando il boom si sgonfia, il raccolto di dollari dal mondo, permettendo agli investitori di uscire dalle aree di crisi attratti da condizioni di redditività e sicurezza relativamente migliori da parte degli USA, e offrire agli USA più liquidità per gli usi che rende necessario il conflitto di interessi interno. L’egemonia del dollaro dunque permette agli USA di esercitare il comando di un sistema monetario internazionale, seminando e mietendo dollari al ritmo di crisi alternanti disperse nel mondo. Crisi che si possono anche creare attraverso la guerra, in tutte le sue forme. Il già citato Quiao Liang fa diversi esempi di queste crisi, come quella in America Latina degli anni ’80 del secolo scorso, e del Sud Est Asiatico degli anni ’90.  Inoltre, in questo ciclo della regolazione della liquidità mondiale,  i paesi che ricevono dollari attraverso le esportazioni per esempio, come la Cina  che ha accumulato enormi surplus commerciali e quindi una gran quantità di riserve monetarie, sono chiamati a comprare buoni del tesoro americano, denaro che servirà a finanziare il debito pubblico, a finanziare l’industria bellica, e la spesa pubblica in generale.

La guerra in Ucraina e il comando sul mondo

Cosa centra la guerra in Ucraina in tutto questo? Come accennato in precedenza, la domanda cruciale è perché gli Stati Uniti sembrano voler allungare la guerra, a dispetto degli interessi economici degli alleati Europei? La lunga storia dell’allargamento della Nato lamentata da Putin, nonché il sostegno militare dell’amministrazione americana e della Nato almeno dal 2014, ma con documentate interferenze USA già dal 2004, hanno portato a un lento gioco geopolitico, la cui invasione russa dell’Ucraina a partire dal 24 febbraio di quest’anno, è solo l’ultima fase. Una tragica fase ma, dal punto di vista geopolitico americano, sicuramente una grande opportunità. L’ipotesi è quindi che il “termostato geopolitico” delle elites americane registri l’allungamento di questa guerra come necessario per affrontare tre sfide collegate alla salvaguardia della sua egemonia nel comando sul mondo, in un contesto in cui l’egemonia del dollaro è in declino, e proprio quando l’avanzamento della crisi sociale, economica e ambientale globale ha bisogno di scelte radicali assai rischiose. Perché dunque gli USA vogliono un allungamento della guerra? Perché la guerra è un principio regolatore della composizione del flusso globale degli investimenti quando gli USA ne hanno più bisogno.

In primo luogo, molto semplicemente, la crisi pandemica, e la strategia della cosiddetta “green transition” e le spese militari (un aumento del 5% dall 2021) ha gravato sul debito pubblico americano, il che richiede appunto un afflusso di fondi sui treasury bonds. L’aumento dei tessi d’interesse in corso negli USA servirà anche ad affrontare questa questione. Ma l’aumento dei tassi di interesse avrà molto probabilmente ripercussioni su paesi oggi messi in difficoltà anche dalla guerra in Ucraina. Il debito  di molti paesi era già aumentato durante la pandemia. Ora l’aumento dei prezzi dell’import energetico e alimentare prodotto dalla speculazione, dalla guerra e, per quanto riguarda il cibo, dall’intensificarsi degli effetti del cambio climatico, aggrava la situazione debitoria la quale, a seguito agli aumenti previsti dei tassi di interesse, potrà precipitare una catena di bancarotte statali e private. Si profila quindi, nel mezzo di tanta sofferenza, una condizione ideale per ristrutturare le catene del valore dell’economia globale, ri-configurare la produzione e le filiere, ri-modellare le gerarchie globali di reddito e ricchezza. Il capitalismo vive su questo. Gli esempi odierni di questa crisi sono la punta dell’iceberg: Sri Lanka, Egitto e Tunisia. C’è però una differenza tra la crisi del debito che si profila oggi e quella di qualche anno fa: nella gestione della crisi di oggi e del prossimo futuro, la Cina avrà un ruolo assai più determinante di ieri, poiché oggi comanda una percentuale assai più elevata del credito a fronte di una diminuzione da parte di istituzioni quali Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale. Come ci ricorda il Wall Street Journal: “Secondo l’FMI, la quota di debiti esteri della Cina nei confronti delle 73 nazioni povere altamente indebitate è balzata al 18% nel 2020 dal 2% nel 2006, mentre i prestiti del settore privato sono saliti all’11% dal 3%. Nel frattempo, la quota combinata dei prestatori tradizionali — istituzioni multilaterali come il FMI e la Banca Mondiale e i prestatori del ‘Club di Parigi’ di governi occidentali per lo più ricchi — è scesa dall’83% al 58%.”

In secondo luogo, l’allungamento della guerra in Ucraina offre agli Stati Uniti un vantaggio nella competizione EU-China-US sullo sviluppo delle tecnologie verdi e corrispondenti mercati. Al momento, a dispetto sia del forte bisogno di cooperazione per affrontare la crisi ambientale, sia delle promesse sul tavolo di lasciare i mercati aperti e condividere le tecnologie verdi per abbattere i costi, a detta di alcuni commentatori  diventa plausibile che “le considerazioni geoeconomiche stiano diventando fattori politici sempre più importanti”, poiché “l’UE, gli Stati Uniti e la Cina sembrano più determinati che mai a promuovere politiche industriali verdi nazionali e sostenitori delle energie rinnovabili.” Questo vorrebbe dire due cose.

Primo, l’Europa si trova in casa una crisi geopolitica di straordinaria potenza, che ha già incominciato ad affrontare devolvendo una parte consistente delle proprie risorse riservate dal green deal all’aumento delle spese militari, riducendo quindi la sua capacità competitiva nel campo dello sviluppo delle tecnologie verdi. Secondo, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna stanno spingendo l’Europa a tagliare nettamente il suo legame con la Russia, e ciò significa non solo permettere agli USA di guadagnarci con la vendita del gas liquido all’Europa in sostituzione di quello russo — con effetti aggravanti sull’ambiente aggiuntivi — ma anche di impedirgli di avere un’accesso relativamente più economico alle fonti energetiche che sono assolutamente necessarie anche per la transizione ecologica. Se si pensa che queste siano delle tesi audaci, mettetevi per un momento in testa il cappello ideologico che ci hanno propinato in tutti questi anni, quello del managerialismo neoliberale, il cappello delle “opportunità”. Leggiamo per un momento il mondo con quel cappello: una situazione così, per gli americani è un’opportunità  irriproducibile. Ma quando si ripresenta l’opportunità di mettere l’Europa nella condizione di reindirizzare le proprie risorse alla difesa e alla gestione della crisi geopolitica di fronte a tutte le altre crisi sociali, ambientali, economiche ecc., e la necessità strategica di investire nella transizione ecologica? Quale migliore opportunità di questa avrebbe potuto dare Putin a Biden per avvantaggiarsi nella corsa competitiva con l’Europa per la leadership tecnologica della green transition? Questo scenario può voler dire solo una cosa per l’Europa: “there may be trouble ahead”, per riprendere il tema della famosa canzone.

In terzo luogo, il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, l’impegno dell’Europa sul versante ucraino/russo, e l’aumento delle spese militari in Europa libera risorse per gli Stati Uniti, risorse che possono usare per  impegnarsi su un’altro fronte, quello asiatico, e in particolare  l’Asia orientale, dove la strategia americana è quella dell’accerchiamento e di contenimento della Cina.  Questo strategia di contenimento ha anche a che fare con il tentativo Americano di contrastare lo sviluppo della Belt and Road Initiative, un progetto di sviluppo di una infrastruttura globale adottata dalla Cina nel 2013, e che porta investimenti in quasi 146 paesi. Un’iniziativa che si basa sulla costruzione di strade, ponti, ferrovie, oleodotti, gasdotti, porti e via dicendo, e creerebbe potenzialmente una grande infrastruttura geoeconomica nell’area euroasiatica, una struttura il cui controllo è in mano cinese, e permetterebbe alla Cina di supplementare il trasporto marittimo (necessario oggi per l’importazione di gran parte dell’import di gas e del petrolio e tutta l’esportazione di merci) con quello di terra. Ora, si vede che un’allungamento della guerra in Ucraina è anche funzionale alla compressione di questa strategia cinese, poiché nodi importanti della Belt and Road initiative dovrebbero appunto passare per l’Ucraina e, in secondo luogo, una Europa drasticamente sganciata dalla Russia dal punto di vista delle materie prime mutilerebbe il progetto euroasiatico della parte europea.

Per mantenere la propria egemonia, gli Stati Uniti sembrano quindi spingere per una de-globalizzazione dell’economia nel senso di una creazione di due grandi poli. Uno atlantico, con fulcro tra Stati Uniti e un’Europa ad essi subordinata, e uno asiatico, con Cina e Russia che si complementano dal punto di vista delle materie prime, della tecnologia e della produzione industriale. Nell’ipotesi di una de-globalizzazione  basata sull’emergenza di almeno due grandi poli geopolitici e geoeconomici, puntare al contenimento ha un senso strategico per gli USA. Così come avrebbe un senso strategico per gli Stati Uniti, contenere la Cina nel suo sviluppo e commercializzazione delle tecnologie di punta, inclusa quelle per la green transition, anche nell’ipotesi di una più debole riglobalizzazione. La dirigenza cinese infatti, dopo la crisi del 2008, nonché dopo il lungo ciclo di lotte per aumenti salariali, migliori condizioni di lavoro, ma anche lotte ambientali, sembra convinta di dover pianificare una politica industriale per risalire la catena del valore. E ovvio che questo progetto contrasti con gli  interessi occidentali e soprattutto americani. Costruendo sulla linea di Trump sulla Cina, l’amministrazione di Biden ha quindi promosso il “decoupling tecnologico selettivo” nei confronti della Cina, nel senso di restringere selettivamente nelle aree di interesse strategico, le esportazioni, le importazioni, gli investimenti diretti e gli investimenti finanziari, cosa che sta riconfigurando in maniera fondamentale il rapporto tra USA e Cina.

Queste strategie si possono chiaramente attuare in maniera molto approssimata e anche per vie sporche come la guerra, o la promozione del suo allungamento nel tempo, e l’instaurazione di un’economia di guerra (si veda per esempio l’articolo di Andrea Fumagalli). La formazione di due poli, se questo è quello che avverrà, può essere solo graduale, poiché sganciarsi dalla Cina significa rimpiazzare altri centri di produzione globale mentre si cerca di mantenere nel contempo l’egemonia del dollaro, un’egemonia che passa anche per la destinazione del surplus commerciale della Cina con gli USA all’acquisto di Buoni del Tesoro americani. Ma c’è un altro fattore da tenere in conto, la minaccia di uno sgonfiamento della bolla speculativa e di debito che si è gonfiata negli anni successivi al 2008. E molto probabilmente che, tra guerre, inflazione e stagflazione si avrà una nuova grande recessione mondiale, che dal punto di vista del capitale, se non si sollevano le moltitudini in maniera costituente per ridisegnare la loro cooperazione sociale in forme assai più eque, inclusive e rispettose della natura non umana, significa un’opportunità ulteriore per dirigere gli investimenti e riprendere una nuova fase di accumulazione. L’arrivo di una grande recessione (e magari dar la colpa a Putin anche di questo come ha già fatto Biden) può servire appunto a svincolare almeno parte dell’economia USA all’import cinese, e con la sua  fisarmonica darle spazio e tempo per dirigere investimenti e capitali in quelle aree del mondo che possono sostituire la produzione cinese.

La guerra in Ucraina e la subordinazione strategica dell’Europa gli Stati Uniti, spinge dunque verso la visione strategica degli USA, cioè del distaccamento economico dell’Europa dalla Russia, cosa che contemporaneamente avvicina quest’ultima alla Cina per la costruzione di un polo geo-economico e geo-politico. Ma questa strategia può ritorcersi contro agli stessi Stati Uniti, come sembra indicare l’impatto delle sanzioni, soprattutto quelle che lo escludono dal sistema di pagamento SWIFT. La reazione della Russia è stata quella di instaurare la parità del rublo con l’oro che ha permesso, insieme alla richiesta di pagamento del gas in rubli, a contrastare la caduta del rublo dopo le sanzioni, a ricuperare quasi tutto il valore, e a definire un pavimento oltre il quale il tasso di cambio tra rublo e dollaro non può andare. E’ giusto quindi chiedersi se gli smottamenti nell’egemonia del dollaro possano aprire appunto all’emergenza di un sistema monetario separato centrato su un paniere di valute legato alle commodities (materie prime strategiche) delle quali la Russia, ma anche la Cina, sono grandi produttori. Questa sembra essere la lettura che ne deriva il Credit Swiss . La mossa della parità del  rublo con l’oro forse presagisce appunto la costruzione futura di un pacchetto di monete legate alle commodities che può valere come alternativa al dollaro, specialmente se la Cina deciderà un giorno di aggregarsi. Specialmente in questa fase, dove le commodities, per via della guerra ma anche del green deal tendono a rafforzarsi. Si vedrà. Da aggiungere infine, che queste dinamiche monetarie si stanno sommando ad altre tendenze che diminuiscono l’importanza ancora egemonica del dollaro, come per esempio le consultazioni tra Arabia Saudita e Cina attorno al pagamento in Yuan del petrolio.

Disertare la guerra è disertare il comando sul mondo

 Non so come, ma a me sembra che questi giochi strategici attorno al comando sul mondo siano come il riarrangiare la disposizione delle sedie sul ponte del Titanic, mentre questo sta per affondare. Per tornare alle nostre preoccupazioni iniziali, cosa significa quindi disertare la guerra alla luce del comando sul mondo, delle dinamiche interne a questo comando, alla lotta per l’egemonia su di esso? In questo ambito, disertare la guerra significa disertare questo comando, e poiché questo è l’ambito del comando verticale sulla cooperazione sociale dal quale in fondo dipendiamo, disertare questo comando vuol dire specularmente creare cooperazione sociale  che non dipenda da e non sia sottomesso a questo comando, cioè creare comune, progettare comune che ci offra quanto più possibile riparo dal comando e dai suoi effetti devastanti. In piccolo, è l’immagine del soldato disertore che scappa dal suo reggimento, la cui vita dipende dal comune che instaura con chi gli da del cibo e un tetto. Un’immagine che può evocare anche quella dell’“abbandono di ogni campo di battaglia, sopravvivenza ai margini di una società che si sta disfacendo, autosufficienza nell’esilio dal mondo” come scrive Franco (Bifo) Berardi. Ma anche una sopravvivenza ai margini di questo mondo e quindi del suo comando non può evitare di costruire un altro mondo, anche se marginale. Allo stesso modo, abbandonare completamente ogni campo di battaglia in questo mondo, non può evitare che il comando di questo mondo sposti il  campo di battaglia ai confini dell’altro mondo, soprattutto se si tiene in mente la logica espansiva del capitale. Cosa rimane dunque del disertare la guerra? Rimane, spero, un’ambivalenza produttiva. Il fatto che la diserzione sia un momento, una fase necessaria, nella costruzione di un’altro mondo, mentre sopravvive forte anche la consapevolezza che molto di questo mondo ci appartiene e può, e deve essere, riappropriato nella costruzione dell’altro mondo.

FONTE: http://effimera.org/diserzione-guerra-e-comando-sul-mondo-di-massimo-de-angelis/

 

 

 

CULTURA

Masse postmoderne. Considerazioni su feticismo e dispotismo nel tempo dell’estetizzazione amministrata

di Marco Gatto*

Marco Gatto 768x5581. Agglomerati transitori e identificazioni attimali

Di fronte alle recenti immagini dell’assalto alla sede romana della Cgil dello scorso 9 ottobre, ci siamo chiesti in quale misura l’evidente partecipazione di organizzazioni neofasciste avesse incontrato la protesta di corpi sociali meno smaccatamente politicizzati e più direttamente legati, in quel frangente, alla contestazione per le politiche di emergenza sanitaria adottate dal governo (green pass in testa). Abbiamo riflettuto, di fronte a quelle stesse immagini, sul peso specifico di alcune figure tribunizie, colte dai media nell’atto di incitare i presenti o, come si direbbe con lessico giornalistico, di aizzare la folla. Ed è stata dai più condivisa, probabilmente, la sensazione di trovarsi di fronte a retori casuali, finanche folcloristici, a pose tanto prevedibili quanto consumate, a un gioco di ruoli persino meccanico e tuttavia capace di scatenare una furia distruttiva simbolicamente orientata. Così come a non pochi dev’essere sfuggito il profilo fin troppo vario di quella folla, la cui costituzione sembrava caratterizzata da un’aperta provvisorietà degli attori partecipanti. Quasi che a vestire i panni dell’aggressore potesse essere, in fondo, chiunque e che la violenza risultasse come il naturale compimento di un modo d’esserci, come un tentativo di partecipare all’atto, di manifestare in quel momento – e solo in quel momento – la propria presenza. Che ad essere colpita sia stata la sede del maggior sindacato italiano dei lavoratori, è un dato di fatto incontrovertibile e nello stesso tempo carico di significati, che deve essere compreso insistendo su un’altra constatazione, relativa al carattere estremamente spurio e ibrido di quel chiunque.

La cui reale sostanza rischia di essere offuscata da rappresentazioni semplificative o da troppo spedite ricostruzioni giornalistiche. Nel bisogno di determinarlo materialisticamente (l’unico modo per aggirare il riduzionismo appena evocato) e di rispondere al quesito della sua identificazione politica, è necessario constatare che in quel chiunque viene a identificarsi certamente il sottobosco “nero” dell’estremismo neofascista (in non pochi casi tollerato dalle forze conservatrici dell’arco costituzionale), ma anche una complessa e stratificata presenza sociale, assai mutevole perché transitoria, di individui pronti a rappresentarsi come esclusi dalla democrazia e alla ricerca di una qualche ragione identitaria a portata di mano.

Questo sintetico accenno a un fatto di cronaca assai recente sconta tutti i rischi di una generalizzazione che consente di passare senza tappe intermedie dal particolare all’universale. Per quanto la cronaca degli ultimi anni, in Italia e in Occidente, ci abbia abituati a una multiforme presenza (e frequenza) di episodi di questo tipo, solitamente riconducibili a una matrice razzista, xenofoba, sessuale o dichiaratamente politica, e per quanto la consistenza numerica degli stessi si presenti come una realtà di per sé significativa, va detto che l’eterogenea diffusione della violenza gruppale chiede d’essere compresa sia nella sua specificità sia alla luce del suo legame più generale (ma non generico, perché materialisticamente connotato) con l’atomizzazione imposta dal tardo capitalismo e con le nuove forme di identificazione feticistico-carismatica condizionate dal vigente modo economico di produzione. La lezione di Freud, insieme agli inevitabili limiti delle sue intenzioni (rilevabili a partire dall’esigenza di tradurre, forse troppo meccanicamente, la psicoanalisi su un piano storico-politico), può essere ancora utile se non altro per ripensare quel nesso problematico tra individuo e insieme collettivo che la postmodernità ha contribuito ampiamente a riscrivere.

È necessario partire da alcune precisazioni. A proposito delle relazioni dispotiche che vediamo oggi instaurarsi nella geografia occidentale – relazioni cioè caratterizzate da sopraffazione e violenza, nel cui set si fronteggiano insiemi di gruppo e vittime provvisoriamente designate, secondo una trama simbolica che può richiamare nostalgicamente il passato o riferirsi a un qualsiasi contenuto politico-culturale del presente –, sembrerebbe più opportuno parlare di “agglomerati” transitori e occasionali1. L’agglomerato è un raggruppamento che si aggrega e si disgrega molto velocemente. La sua logica è dettata dall’occasionalità e da un disorientamento funzionale: una logica della attimalità e dell’atto, che si configura come pulsione ad aggregarsi pronta a esplodere e dissolversi. Nel contesto delle forme di vita occidentali, l’aggregato transitorio, governato dalla ricerca di punti provvisori di orientamento, sostituisce le masse della modernità, così rispecchiando non solo la perdurante frammentazione sociale, ma anche l’erosione del soggetto individuale, ora capace di accedere a forme del tutto provvisorie di identificazione.

Gli sciami transitori sono animati da partecipanti che non obbediscono a una qualche regolativa entità valoriale – ossia a ciò che chiamiamo, con un lessico che a qualcuno apparirà vetusto, “ideologia” – ma che sono trascinati nel vortice dell’identificazione collettiva da provvisori orientamenti di senso. Questi rappresentano, del resto, il volto nuovo dell’ideologia: per alcuni, la sua degradazione nullificante; per altri, un suo aggiornamento postmoderno2. Cercherò di chiarire più tardi che si tratta di manifestazioni ideologiche superficiali e di articolazioni epidermiche di un processo più generale. Ma è opportuno da subito specificare che per aggregati transitori intendo anzitutto casi di superficie, la cui manifestazione diretta, rappresentata solitamente da uno scatenamento di violenza, sembra caratterizzata da una certa immediatezza che va tuttavia compresa, come si diceva, nelle sue molteplici mediazioni costitutive.

Gli attori (forse il termine più adatto a descrivere gli individui coinvolti nel gioco provvisorio di queste pseudo-masse) dello sciame si definiscono per mezzo di un bersaglio mobile che è allo stesso modo cangiante. C’è dunque un fattore di estrema mobilità che suggerisce l’assoluta intercambiabilità ideologica di questi fenomeni aggregativi. Nulla di più facile che uno stesso attore possa partecipare a gruppi diversi o trovare, di volta in volta, forme differenti (persino simultanee) di identificazione gruppale. L’intercambiabilità ideologica è un elemento ancora troppo sottovalutato. Ciò suggerisce che il bersaglio mobile possa essere, ancora una volta, chicchessia o qualsiasi oggetto – chiunque può essere sottoposto a un attacco dello sciame, purché caricato, in quel momento, di un valore che lo elegge a ideale destinatario della violenza – e che rispetto alla dialettica capo/popolo, capo/massa, che presupponeva una sorta di tecnologia ben definita e organizzata dell’attacco3, ad assumere un ruolo primario non sia ora il comando, l’ingiunzione dall’alto, ma l’oggetto, il bersaglio verso cui si rivolge l’azione contestativa. Certo, questo oggetto può essere indicato da una figura carismatica (per quanto evanescente). E nell’atto di indicare sussiste l’istituzionalizzazione di una violenza; d’altra parte, stiamo parlando di meccanismi aggregativi che funzionano attraverso una logica smaccatamente brutale. Ma il punto è che l’aggregato si costituisce oggi più attraverso l’identificazione di un bersaglio – il quale, nella logica attimale che stiamo descrivendo, può essere talmente occasionale da essere scelto sul momento – che mediante l’identificazione con un capo, dal momento che quest’ultima richiede un tempo di sedimentazione più lungo (o, per così dire, un pur larvale “convincimento” ideologico). La rapidità violenta dello sciame è un elemento importante da considerare. Il capo, se c’è, funziona alla stregua di un mediatore evanescente (che media tra lo sciame e il bersaglio, sparendo4); potrebbe anche non esserci; per certi aspetti, non c’è.

 

2. Ordini valoriali e consenso regolato

Veniamo a un primo quesito. Possiamo oggi parlare di masse senza capo o di masse a-ideologiche? Possiamo chiederci, con il Freud di Psicologia delle masse e analisi dell’Io, se il capo possa essere un’idea o un’astrazione? Freud è stato acuto nel considerare questa possibilità5. Una corretta obiezione al discorso finora imbastito potrebbe essere la seguente: esistono oggi aggregati di chiara marca neo-fascista o gruppi che si identificano attorno a una certa simbologia ben definita. La cronaca recente, se non vogliamo nuovamente tornare all’episodio menzionato in apertura, indica non pochi elementi di riflessione. La violenza che si appella a un campo ideologico definito può trovare sbocco anche nella manifestazione individuale (o nei tanti individui massificati in uno solo, per usare un’immagine di Gramsci). Il passaggio all’atto va però letto come esito di una precondizione: quella dell’appartenenza a un immaginario, a una consorteria fittizia, spesso riassunta da un nome-feticcio o da un oggetto simbolico. Per restare in Italia, pensiamo all’attacco di Luca Traini ai danni di sei migranti (Macerata, 3 febbraio 2018), accompagnato, secondo le cronache, da saluti romani ed esternazioni nazionalistiche. Viene da chiedersi: il richiamo al tricolore o a figure della destra populista, in quel caso, è teso alla richiesta di convalida della propria azione a un leader immaginario? Oppure è legato tentativo di trovare un qualche senso ideologico regolativo, che, del resto, in una certa misura e da qualcuno (quel leader?) dev’essere stato costruito o almeno fatto brillare di luce incantatoria? In altre parole: lo sbandieramento nazionalistico o virilistico presuppone un ordine valoriale capace di consenso? O è il segno di un incremento del carattere di feticcio attribuibile a questo stesso ordine valoriale, a quello spettro di valori che può essere, a seconda dei casi, scelto e consumato?

Alla luce di quanto detto in apertura, questa seconda opzione mi sembra più pertinente. È infatti plausibile che l’orizzonte della mercificazione ideologica (nel quale siamo tutti immersi in quanto individui postmoderni) includa, sorpassi e anzi sussuma i vecchi codici ideologici, che semmai riaffiorano appunto nella forma arcana (iuxta Marx) dell’oggetto-feticcio, della merce, che ora incorpora le idee e gli ordini valoriali di riferimento (degradati ovviamente a simulacro o a remake degli originali). I quali, d’altra parte, non possono essere considerati semplicemente alla stregua di lacerti ideologici disinnescati, ma come elementi di un represso storico che, se riattivato, è pronto a riemergere. Voglio dire che la forza di ciò che noi siamo abituati a chiamare “ideologia”, anche in riferimento ai comportamenti delle masse studiate da Freud, non si misura più sulla coerenza delle sue fondamenta valoriali (per quanto impresentabili), ma sulla disponibilità estrema, propria della nostra epoca, a feticizzare quelle fondamenta e a predisporsi alla loro intercambiabilità, alla loro transitorietà, al loro “uso” feticistico.

Ora, questa disponibilità alla manipolazione feticistica delle idee disegna una traiettoria ideologica ulteriore. Potremmo indicarla come la manutenzione postmoderna e ideologica della cosiddetta “fine delle ideologie” o della loro proclamata debolezza. Si lega, nello specifico, al processo più generale di consumo delle idee che definisce il nostro tempo. Vale a dire che il feticismo ideologico è, nelle modalità deboli e transitorie appena descritte, reso possibile dalla presenza di una soggettività socialmente prodotta e perennemente disponibile a riempirsi di elementi valoriali i più diversi, proprio perché vieppiù svuotata, disorientata e disattenta; una soggettività disponibile dunque a consumare le tante, molteplici possibilità di edificazione della propria identità (per mezzo della “cultura”, aggiungerei: ossia di quell’universo simbolico ed estensivo che imbriglia il soggetto in una rete disorientante di parole, immagini e rappresentazioni e che è diventato la nostra seconda natura6). Ecco, pertanto, dove si situa il nesso tra feticismo e ideologia oggi: nello svuotamento della soggettività, dovuto a un processo più generale di erosione e alleggerimento del soggetto medesimo e di nientificazione e indebolimento della vita sociale, ora fondata su questa particolare forma di atomismo costantemente decostruito. Un feticismo ideologico edificato sul vuoto e sul riempimento occasionale del vuoto che può dar vita, di volta in volta, a trame identitarie falsificanti e quindi a episodi di violenza radicale. Che, certo, noi chiamiamo “fascista”, a patto che questo aggettivo non serva da salvacondotto morale per chi lo verbalizza ed enuncia, proprio perché il processo generale di feticizzazione dell’ideologia (che regola, ad esempio, il carattere servile, e non più emancipativo, della cultura) riguarda tutti7.

Restiamo ancora sulla condizione di svuotamento e riempimento, perché offre un contributo ulteriore al discorso sullo sciame. L’aggregato transitorio garantisce al soggetto un riempimento temporaneo, una fusione occasionale con gli altri soggetti coinvolti. Sarei anzi tentato di vedere in questa sorta di “concatenamento” un meccanismo regolativo tipico della vita sociale tardocapitalistica, ma non mi spingo oltre. Questa fusione occasionale garantisce peraltro un blocco temporaneo del narcisismo e dell’avversione verso l’altro (che nel padre della psicoanalisi è, in qualche modo, basica; laddove in Wilhelm Reich non lo sia, in quanto esito della repressione in prima istanza familiare8). Freud scrive che “l’amore per se stessi trova un limite solo nell’amore esterno, nell’amore verso gli oggetti”9, ossia nell’amore per l’avere. E, in effetti, la tesi freudiana per la quale il nesso tra soggetto e massa, tra soggetto e aggregato, è di tipo libidico trova ancora oggi cittadinanza, con l’ulteriore evidenza che tale rapporto è segnato dal consumo feticistico di questa stessa relazione.

Il soggetto esperisce per mezzo dell’aggregazione un temporaneo godimento causato dalla sua altrettanto temporanea identità, realizzata appunto dalla relazione. Che libido è, questa? Con Freud potremmo dire che l’identificazione con un oggetto, per quanto transitoria e per quanto dettata dalla presenza di un bersaglio mobile, è sempre anche un’interiorizzazione di quel legame con l’oggetto, fino a ribadire che negli aggregati d’oggi quell’Io disorientato coincide con l’oggetto dell’identificazione, ossia coincide col legame feticistico, interiorizza quest’ultimo e si lascia guidare da esso. Insomma – nell’assoluta centralità dell’oggetto, in una relazione che mi pare sempre più segnata da un processo in cui gli attori coinvolti sono, marxianamente, maschere – l’Io transitorio consuma l’atto di subordinazione che certifica quel legame, di cui ha assolutamente bisogno, e consuma quell’atto come un oggetto10.

 

3. L’autoritarismo delle superfici

L’identificazione feticistica che rende possibile la violenza implica un permanente esteriorizzarsi del soggetto verso qualcosa che ne promette il riempimento. È significativo notare come Klaus Theweleit – le cui teorie, esposte negli studi di Männerphantasien11, sono state efficacemente utilizzate da Jonathan Littell nella sua analisi dell’opera del fascista belga Léon Degrelle, Il secco e l’umido – descriva l’Io del fascista come un Io esteriorizzato e fragile che rifugge il contatto con la propria interiorità, fatta di pulsioni incontrollate e di proiezioni desideranti illimitate12; per sopravvivere, interpreta Littell, questo Io “esteriorizza ciò che lo minaccia dall’interno, e allora tutti i pericoli assumono per lui due forme, intimamente connesse: quella del femminile e quella della liquidità”13, elementi da cui del resto ha faticato a separarsi. Ora, io credo che tale esteriorizzarsi del soggetto sia non solo una fraudolenta protezione dall’interiorità, un meccanismo di difesa per cui si dà vita, come nota Littell, a un “Io-corazza”14, ma incontri oggi una più generale dinamica di superficializzazione dei nessi sociali, una “norma egemonica”15 che prescrive il primato del “fuori” sul “dentro”. Esteriorizzarsi significa trascinarsi altrove, proiettarsi lungo un asse in cui l’op posizione tra interiorità ed esteriorità viene dissolta in una superficie senza contrasti.

Tale processo è stato ben registrato e spiegato da Roberto Finelli nelle sue ricerche16 e coincide col carattere basico del tempo capitalistico attuale, caratterizzato da un principio di produzione della realtà fondato sulla paradossale scomparsa della realtà stessa: un principio che, identificato per primo da Marx nel processo astrattivo del capitale e nel dissolvimento del concreto nell’astratto, può riassumersi in due azioni. La prima: un’erosione permanente del profondo e del concreto, a beneficio di una superficializzazione ectoplasmica, che produce un’egemonia della superficie e una difficoltà di relazione con ciò che sta sotto o dietro questo illusorio piano di immanenza; la seconda: una dissimulazione del capitale entro i nessi e i meccanismi che regolano tale superficializzazione, da concepirsi quale incorporazione del capitale nel soggetto, interamente colonizzato nelle sue pratiche di vita, nel suo intimo sentire e nel suo agire culturale dalle ragioni capitalistiche. Tale processo spiega una specifica produzione di so- ggettività o, se si vuole, l’emersione di una precisa forma di vita. Caratterizzata, quest’ultima, da quel disorientamento che abbiamo indicato come presupposto di possibili aggregati transitori e precondizione del desiderio di autorità e di sottomissione.

La relazione feticistica con un oggetto dispotico va dunque pensata nell’alveo di una produzione capitalistica di soggettività. Ciò permette – per inciso – di ostacolare diagnosi che insistono sull’eccentricità di certi fenomeni e di cogliere invece l’aspetto sistemico del feticismo. E altresì consente di contrassegnare materialisticamente e storicamente una nuova situazione, nella quale, come abbiamo detto, il “peso” dell’astrazione trova una sua conferma non solo nell’estrema mobilità e relatività degli aggregati ma anche nell’evanescenza del capo e dunque del suo feticcio aggregante (che ho chiamato poco prima oggetto dispotico). Per dirla meglio: l’interiorizzazione dell’autorità e del dispotismo va dunque pensata accanto all’edificazione costante, dovuta all’astrazione capitalistica, di una soggettività leggera e indebolita, disposta all’acquisizione transitoria di valori identitari – terreno colonizzabile da parte di feticci autoritari pronti per l’uso (a loro volta degradazione feticistica di quello che un tempo era il capo)17.

 

4. La copertura dei nessi sociali nello spazio estetizzato

Lo spazio estetico indifferenziato che l’astrazione capitalistica contribuisce ad allestire rappresenta il terreno su cui si gioca la possibilità, da parte di un soggetto disorientato, di accedere a forme dispotiche di aggregazione. E questa relazione non può essere letta, a mio parere, solo come dominio culturale di un qualche significante fallico, ma va integrata attraverso un’ottica totalizzante che veda, ad esempio nel patriarcato, un’articolazione dell’egemonia capitalistica. La merce non è dispotica perché intrinsecamente fallica, ma perché manifestazione, per quanto arcana, di un più ampio processo di sfruttamento, che può servirsene anche nelle sue forme fallico-spettacolari, ma non solo. Insomma, il nome-del-padre, per riprendere la terminologia di Lacan, è secondario rispetto a un dominio regolativo più ampio. Ecco perché il richiamo al paterno è, particolarmente nelle sue forme più spettacolarizzate dalla cultura psicoanalitica postmoderna, un richiamo servile al capitale18 – a quel capitale come produzione di realtà simbolica che obbedisce solo alla legge dell’accumulazione e che è capace di produrre, sul piano delle apparenze superficiali, distorsioni simboliche e discorsi culturali illusoriamente emancipativi, appunto perché profondamente servili. Ritengo che una quota non indifferente di responsabilità nell’affermazione autoritaria e totalizzante del capitalismo risieda proprio nella capacità del capitale d’essere produttore di cultura, di ordini simbolici, che, spesso, pur manifestandosi come oppositivi, finiscono per riflettere una loro congenita parzialità, e quindi il loro carattere confermativo19. Non vorrei essere provocatorio, ma a me pare che da non poco tempo la sinistra culturale resti intrappolata in questo paradosso, che è quello felicemente riassunto dall’espressione “cultura-mondo” coniata da Lipovetsky e Serroy (2008).

È interessante notare – per chiudere – che l’estetizzazione promossa dal capitale e il feticismo generalizzato che ne consegue, accanto a un campo simbolico indifferenziato che produce disorientamento, agisca dialetticamente in modo sottile: sia esibendo, sia coprendo. L’aggregazione sotto l’egida di un oggetto-feticcio si rivela sempre essere una copertura, la sostituzione di qualcosa. Copertura, falsificazione, estetizzazione: si tratta di aspetti che si embricano necessariamente nel discorso sul feticismo. Come quest’ultimo permette, in fondo trasferendolo altrove, il bisogno di autorità (la sottomissione al fallo), allo stesso modo l’estetizzazione capitalistica permette, senza che ve ne sia apparente traccia, perché dissimulata nella libertà del soggetto, che la logica della sopraffazione si dispieghi senza dover mostrare in tutta l’evidenza la sua signoria.

È chiaro che questo modulo argomentativo sia in debito – e lo è in Adorno, ad esempio – con le pagine marxiane del I Libro del Capitale. L’estetizzazione – che, lo ripeto, è la precondizione del rapporto dispotico tra aggregato e feticcio – rende immediato ciò che è mediato. L’immediatezza, spacciata per immanenza, ne è costitutiva. Ugualmente, la merce, nella sua esposizione fenomenica di valore, per essere merce ha bisogno di occultare il suo valore reale, cioè il carattere mediato del suo essere prodotto di un lavoro. Pertanto, il carattere di feticcio della merce coincide con l’artificio della sua immediatezza. La quale, in una società estetizzata, è estesa a tutti i livelli. Ora, l’artificio dell’immediatezza – anzi, diremmo: la produzione di immediatezza come oggetto di godimento – implica una falsificazione che può essere vista anche come ‘sostituzione’: il feticcio sostituisce qualcosa, si appropria del posto di qualcos’altro e falsifica la sua posizione (ossia ‘sta per’: il feticcio è sempre allegorico, esteticamente assai fruttuoso)

Qui ‘falsificazione’ e ‘sostituzione’, due artifici fra loro connessi, possono essere letti, sulla scorta di Adorno, che li drammatizza, come una forma di ‘incantamento’: il soggetto è trattenuto persuasivamente su un piano superficiale di immediatezza che si eternizza, si naturalizza. Il feticcio è una copertura del nesso sociale che lo rende possibile. Si comprende allora cosa intendesse l’autore di Dialettica negativa in una lettera a Walter Benjamin del 5 giugno 1935: “ho sostenuto in opposizione a Fromm e soprattutto a Reich l’opinione che la vera ‘mediazione’ di società e psicologia si trovi non nella famiglia ma nel carattere di merce e di feticcio, e che il feticismo sia il vero e proprio correlato della reificazione”20, con un evidente riferimento non solo al Capitale ma anche a Storia e coscienza di classe di Lukács.

 

5. Obbedire, ovvero consumare

Adorno può venirci ancora in soccorso per ragionare attorno all’attuale consumo di fanatismo, di cui il populismo rappresenta una manifestazione evidente. Mi riferisco, seppur troppo velocemente, al saggio che apre Dissonanze e che è intitolato Il carattere di feticcio in musica e il regresso dell’ascolto21. È un testo del 1938, di poco successivo alla lettera appena menzionata. Adorno si chiede perché l’oggetto del consumo feticistico sia un oggetto degradato, privo di valore riconosciuto (ovviamente tale per la coscienza estetica e borghese di Adorno medesimo). Noi possiamo invece chiederci per quale motivo il feticcio dispotico che si consuma nell’aggregazione transitoria possa essere rappresentato potenzialmente da chiunque o da qualunque cosa; possiamo chiederci in che termini il feticcio non abbia bisogno di una giustificazione valoriale. Adorno suggerisce una risposta che a mio parere può essere valorizzata e persino esasperata: l’utilità del feticcio non è legata al suo valore; la sua efficacia risiede nella possibilità offerta a chi lo consuma di riconoscersi come parte attiva di un culto o di una ritualità collettiva, capace, per un attimo, di riempire a livello identitario l’orizzonte misero della sua interiorità, preparato e prodotto, come si diceva, dalla signoria dell’astrazione superficializzante. Il culto del feticcio ha sempre a che vedere con la ‘gestione’ autoritaria di una qualche miseria culturale prodotta e regolata. I followers-adepti trovano un’ipotetica ragione qualitativa non nell’influencer – non lo si preferisce a un altro sulla base di una scelta – ma nell’atto di consumare quel modello e di sentirsi parte di una relazione immaginaria. Pertanto l’efficacia dispotica della merce, che è l’efficacia della reificazione in termini lukácsiani, sta nel nascondimento di questa disposizione al consumo e, soprattutto, nell’illusione che la scelta di sottomettersi sia libera.

Ecco perché, ancora con Adorno, l’immediatezza di cui l’oggetto-feticcio si fa interprete scatena l’obbedienza. In quest’ultima sta l’arcano del successo della merce. Si può utilizzare il termine marxiano – “arcano” – perché il gioco di prestigio dovuto all’immediatezza nasconde appunto un mistero. Quest’ultimo si regge sulla convertibilità del valore d’uso nel valore di scambio: assumendo l’immediatezza del valore d’uso, il valore di scambio occulta il suo carattere mediato, ovvero le relazioni che ne costituiscono il risultato. La mediazione scompare e trascina la merce su un territorio onninclusivo: Adorno avrebbe detto totalitario, noi possiamo dire “superficiale”, nel senso di una sua pervasività epidermica. E questo territorio, che è fatto di immediatezza immateriale e luccicante, è appunto l’esito dell’egemonia acquisita da un’astrazione, quella capitalistica, capace di conquistare ed erodere tutti i livelli di concretezza dell’esperienza individuale e sociale.

Per concludere fin troppo rapidamente, l’immediatezza delle superfici reca in sé un fattore di autoritarismo, una ragione di obbedienza a ciò che si mostra, si espone. L’identificazione con ciò che è esposto, con ciò che esiste proprio perché esposto (com’è del resto il feticcio nella sua fenomenologia spettacolare), la sottomissione a questo stesso feticcio, la devozione verso esso, si attua su un piano appunto esteriorizzato, il medesimo che permette la libera fluttuazione dei valori attraverso cui esperire temporanee aggregazioni che possono essere le più varie e che possono poi avere esiti facilmente manipolabili o francamente reazionari.


Università della Calabria (marco.gatto@unical.it)

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Masse postmoderne
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Note
1 Byung-Chul Han (2015) ha proposto il termine “sciami”, in riferimento ai raggruppamenti che si costituiscono nella rete. Mi sembra che possa tuttavia estendersi anche alla realtà non virtuale.
2 Per una rilettura attualizzante della nozione di “ideologia”, mi permetto di rinviare a Gatto (2021).
Cfr. Marcuse (2001, 41-81).
Cfr. Jameson (2008, 309-341).
5 Egli suggerisce che “dovremmo occuparci della differenza tra masse che hanno un capo e masse prive di capo, e chiederci se le prime non siano più originarie e più complete, se nelle altre il capo non possa venire sostituito da un’idea, da un’astrazione (condizione alla quale, con il loro capo invisibile, già si avvicinano le masse religiose), e se una tendenza comune, un desiderio condiviso da molti possa farne in tutto le veci. Tale entità astratta potrebbe a sua volta, più o meno perfettamente, incarnarsi in un capo per così dire secondario, e dalla relazione tra idea e capo potrebbero derivare interessanti e svariati esiti. Il capo o l’idea guida potrebbero anche essere per così dire negativi; l’odio per una data persona o istituzione potrebbe agire in senso altrettanto unificante quanto l’attaccamento positivo, e dar luogo a legami emotivi analoghi. Occorrerebbe allora chiedersi se il capo sia effettivamente indispensabile all’essenza della massa e altre cose ancora” (Freud, 1977, 289).
Su questo punto, vedi almeno Jameson (2007) e Lipovetsky-Serroy (2008).
7 Da questo punto di vista, l’idea, francamente inaccettabile, di un “fascismo eterno” fa il paio con la generalizzazione dell’aggettivo “fascista”, che ne depotenzia la specificità, secondo una moda filosofica assai in voga negli ultimi tempi (e di cui l’assimilazione del green pass alle pagine più tragiche della storia novecentesca è una desolante epitome); né possiamo permetterci, io credo, di usare la parola “fascista” in senso metaforico, dunque potenzialmente astorico.
Vedi ad esempio Reich (2002, 59-67).
Freud (1977, 291).
10 Se il problema è nella relazione con l’oggetto, nell’interiorizzazione del legame, è plausibile sostenere che la tentazione autoritaria abiti potenzialmente qualsivoglia forma di vita in Occidente. Quando si etichetta il partecipante alla violenza dello sciame come “squilibrato” si commette più di un errore di prospettiva: quello squilibrio è interno all’orizzonte feticistico pervasivo, nel quale tutti siamo inseriti, fondato su un disorientamento che Adorno chiamerebbe “amministrato” – aggiungerei: cultural- mente amministrato (vedi Adorno 1976, 85-114 e 115-139).
11 Theweleit (2019). I due tomi che originariamente componevano l’opera risalgono al biennio 1977/1978. In italiano è stato tradotto solo il primo volume (Theweleit, 1997).
12 Cfr. Theweleit (1997, 223-230).
13 Littell (2009, 20). Mi sembra utile rilevare un’assonanza con uno fra i tanti passaggi di Reich dedicati al legame strangolatorio tra il bambino nazionalista in erba e la madre: “Il modo di sentire nazionalistico è dunque la diretta continuazione del legame familiare e affonda in ultima analisi le sue radici […] nel legame fissato alla madre” (2002, 62-63).
14 Littell (2009, 20).
15 Jameson (2007, 23). È interessante notare che il processo di esteriorizzazione dell’Io mostrato da Theweleit si ispiri, tuttavia discutendole, alle teorie antifreudiane di Deleuze e Guattari, che, nella loro furia antagonistica, paiono più descrivere un carattere normativo dell’esperienza capitalistica che offrire una serie di arnesi teorici utili alla critica dell’esistente.
16 Si veda almeno Finelli (2005).
17 Se invece non volessimo accordare al feticismo un valore ideologico così negativo e volessimo bensì astrarlo da un discorso anticapitalistico, per vedervi, ad esempio, un meccanismo estetico di valorizzazione simbolica delle cose – il feticismo come momento artistico –, allo stesso modo dovremmo però constatare che la sua precondizione risiede nella tensione estetizzante a una proiezione verso il “fuori”, ovvero a un’assolutizzazione di quella superficie che permette una relazione col mero piano di apparenza simbolica delle cose, e che di fatto neutralizza questo presunto valore estetico del feticcio, dal momento che sul piano di apparenza tutto è potenzialmente estetico, tutto è potenzialmente feticcio. Il dilemma è legato alla posta in gioco espressa dall’arte nel tardo capitalismo, in bilico tra ideologia e utopia, tra aderenza e contestazione. Per una ricca e suggestiva disamina del punto e per un più avveduto ragionamento sulla valorizzazione estetica degli oggetti, si veda Fusillo (2012).
18 Cfr. Tricomi (2021).
19 Mi si permetta di rinviare a Gatto (2018).
20 Cit. in Mistura (2001, 182 n. 17)
21 Adorno (1959, 7-51).

FONTE: https://www.sinistrainrete.info/teoria/23085-marco-gatto-masse-postmoderne-considerazioni-su-feticismo-e-dispotismo-nel-tempo-dell-estetizzazione-amministrata.html

 

 

 

Lavrov: “L’Occidente dovrà ammettere che gli interessi vitali della Russia non possono essere calpestati impunemente”

Un uomo, un dirigente politico con una grande esperienza alle spalle, che quando parla non dice mai cose banali.

Intervenendo nell’ambito del progetto studentesco “100 domande al leader”, il ministro degli Esteri russo ha indicato che ancora una volta la Russia “sta attraversando un periodo della sua storia” dove viene detto che “deve essere sconfitta” e “perdere sul campo di battaglia”.

“Sono sicuro che conoscete la storia meglio dei politici occidentali che pronunciano tali ‘incantesimi’. Non avranno studiato bene a scuola, poiché giungono conclusioni sbagliate dalla loro comprensione del passato e di cosa sia la Russia”, ha detto Lavrov agli studenti.

I Paesi occidentali, ha spiegato il ministro, si sono mostrati incapaci di agire in conformità con la Carta delle Nazioni Unite, dato che gran parte della popolazione ucraina “è legalmente privata della possibilità di continuare ad usare la propria lingua madre e di insegnare ai loro figli la cultura russa e la lingua russa”.

“Per questo motivo, dopo molti anni di avvertimenti e non avendo altra via d’uscita, abbiamo iniziato a proteggere gli interessi di sicurezza della popolazione russa nel Donbass”, ha affermato.

“Guardate la reazione dei nostri colleghi occidentali. Hanno dimostrato che non possono e non sanno vivere come stabilito dalla Carta delle Nazioni Unite, cioè l’organizzazione basata sull’uguaglianza sovrana degli Stati. Per loro conta solo la propria sovranità”, ha aggiunto Lavrov.

Il rappresentante della diplomazia russa ha descritto come “vergognosi” i tentativi di molti governi occidentali di “promuovere sentimenti russofobici” a livello di cittadini comuni.

“Sono convinto che tutto questo finirà. L’Occidente riconoscerà di nuovo la realtà che si sta creando sul terreno. Sarà costretto ad ammettere che gli interessi vitali dei russi, ovunque essi vivano, non possono essere costantemente calpestati impunemente”.

D’ora in poi, la Russia conterà solo su se stessa stessa e “in quei Paesi che si sono dimostrati affidabili e che non ballano sulla melodia che viene suonata per loro”, ha affermato il ministro.

“Se i paesi occidentali tornano in sé e offrono alcune forme di cooperazione, li prenderemo in considerazione”, ha affermato.

Per quanto riguarda il ripristino delle relazioni, Mosca ci rifletterà seriamente quando necessario.

“Quando avranno superato la loro ferocia e si renderanno conto che la Russia esiste ancora, che non è andata da nessuna parte e, ne sono convinto, si rafforzerà ogni anno. Se vorranno proporre qualcosa sulla ripresa delle relazioni, valuteremo seriamente se ne abbiamo bisogno o no”, ha affermato Lavrov facendo intendere chiaramente a che punto di deterioramento l’occidente abbia portato i rapporti con Mosca.

In questo contesto, il ministro ritiene che la Russia dovrebbe dirigere la sua economia verso la regione eurasiatica e la Cina. “Ora che l’Occidente ha assunto la posizione di un dittatore, i nostri rapporti economici con la Cina si svilupperanno ancora più velocemente”, ha detto, specificando che, oltre alle entrate dirette al bilancio dello Stato, si aprono nuove prospettive per lo sviluppo dell’Estremo Oriente e della Siberia, così come per lo sviluppo del potenziale della Russia nelle alte tecnologie e nell’energia atomica.

“Ora il centro dello sviluppo mondiale si è spostato in Eurasia. Abbiamo la più vasta rete di associazioni nella regione eurasiatica. Dobbiamo fare affidamento su queste per lo sviluppo del nostro Paese, le sue possibilità di trasporto, transito e logistica”, ha concluso Lavrov confermando che anche per Mosca nel nuovo ordine multipolare che sta emergendo la regione eurasiatica avrà un peso maggiore e sarà determinante. L’epoca del dominio occidentale, anche per la Russia, è ormai ai titoli di coda.

FONTE: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-lavrov_loccidente_dovr_ammettere_che_gli_interessi_vitali_della_russia_non_possono_essere_calpestati_impunemente/45289_46376/

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

Una guerra nata dalle troppe bugie

di Barbara Spinelli 26 02 2022

Paragonando l’invasione russa dell’Ucraina all’assalto dell’11 settembre a New York, Enrico Letta ha confermato ieri in Parlamento che le parole gridate con rabbia non denotano per forza giudizio equilibrato sulle motivazioni e la genealogia dei conflitti nel mondo.

Perfino l’11 settembre aveva una sua genealogia, sia pure confusa, ma lo stesso non si può certo dire dell’aggressione russa e dell’assedio di Kiev. Qui le motivazioni dell’aggressore, anche se smisurate, sono non solo ben ricostruibili ma da tempo potevano esser previste e anche sventate. Le ha comunque previste Pechino, che ieri sembra aver caldeggiato una trattativa Putin-Zelensky, ben sapendo che l’esito sarà la neutralità ucraina chiesta per decenni da Mosca. Il disastro poteva forse essere evitato, se Stati Uniti e Unione europea non avessero dato costantemente prova di cecità, sordità, e di una immensa incapacità di autocritica e di memoria.

È dall’11 febbraio 2007 che oltre i confini sempre più agguerriti dell’Est Europa l’incendio era annunciato. Quel giorno Putin intervenne alla conferenza sulla sicurezza di Monaco e invitò gli occidentali a costruire un ordine mondiale più equo, sostituendo quello vigente ai tempi dell’Urss, del Patto di Varsavia e della Guerra fredda.

L’allargamento a Est della Nato era divenuto il punto dolente per il Cremlino e lo era tanto più dopo la guerra in Jugoslavia: “Penso sia chiaro – così Putin – che l’espansione della Nato non ha alcuna relazione con la modernizzazione dell’Alleanza o con la garanzia di sicurezza in Europa. Al contrario, rappresenta una seria provocazione che riduce il livello della reciproca fiducia. E noi abbiamo diritto di chiedere: contro chi è intesa quest’espansione? E cos’è successo alle assicurazioni dei nostri partner occidentali fatte dopo la dissoluzione del Patto di Varsavia? Dove sono oggi quelle dichiarazioni? Nessuno nemmeno le ricorda. Ma io voglio permettermi di ricordare a questo pubblico quello che fu detto. Gradirei citare il discorso del Segretario generale Nato, signor Wörner, a Bruxelles il 17 maggio 1990. Allora lui diceva: ‘Il fatto che noi siamo pronti a non schierare un esercito della Nato fuori dal territorio tedesco offre all’Urss una stabile garanzia di sicurezza’. Dove sono queste garanzie?”.

Per capire meglio la sciagura ucraina, proviamo dunque a elencare alcuni punti difficilmente oppugnabili.

Primo: né Washington né la Nato né l’Europa sono minimamente intenzionate a rispondere alla guerra di Mosca con una guerra simmetrica.

Biden lo ha detto sin da dicembre, poche settimane dopo lo schieramento di truppe russe ai confini ucraini. Ora minaccia solo sanzioni, che già sono state impiegate e sono state un falso deterrente (“Quasi mai le sanzioni sono sufficienti”, secondo Prodi). D’altronde su di esse ci sono dissensi nella Nato.

Alcuni Paesi dipendenti dal gas russo (fra il 40 e il 45%), come Germania e Italia, celano a malapena dubbi e paure. Non c’è accordo sul blocco delle transazioni finanziarie tramite Swift. Chi auspica sanzioni “più dure” non sa bene quel che dice. Chi ripete un po’ disperatamente che l’invasione è “inaccettabile” di fatto l’ha già accettata.

Secondo punto: l’Occidente aveva i mezzi per capire in tempo che le promesse fatte dopo la riunificazione tedesca – nessun allargamento Nato a Est – erano vitali per Mosca. Nel ’91 Bush sr. era addirittura contrario all’indipendenza ucraina. L’impegno occidentale non fu scritto, ma i documenti desecretati nel 2017 (sito del National Security Archive) confermano che i leader occidentali– da Bush padre a Kohl, da Mitterrand alla Thatcher a Manfred Wörner Segretario generale Nato – furono espliciti con Gorbaciov, nel 1990: l’Alleanza non si sarebbe estesa a Est “nemmeno di un pollice” (assicurò il Segretario di Stato Baker). Nel ’93 Clinton promise a Eltsin una “Partnership per la Pace” al posto dell’espansione Nato: altra parola data e non mantenuta.

Terzo punto: la promessa finì in un cassetto, e senza batter ciglio Clinton e Obama avviarono gli allargamenti. In pochi anni, tra il 2004 e il 2020, la Nato passò da 16 a 30 Paesi membri, schierando armamenti offensivi in Polonia, Romania e nei Paesi Baltici ai confini con la Russia (a quel tempo la Russia era in ginocchio economicamente e militarmente, ma possedeva pur sempre l’atomica). Nel vertice Nato del 2008 a Bucarest, gli Alleati dichiararono che Georgia e Ucraina sarebbero in futuro entrate nella Nato. Non stupiamoci troppo se Putin, mescolando aggressività, risentimento e calcolo dei rischi, parla di “impero della menzogna”. Se ricorda che le amministrazioni Usa non hanno mai accettato missili di Paesi potenzialmente avversi nel proprio vicinato (Cuba).

Quarto punto: sia gli Usa che gli europei sono stati del tutto incapaci di costruire un ordine internazionale diverso dal precedente, specie da quando alle superpotenze s’è aggiunta la Cina e si è acutizzata la questione Taiwan. Preconizzavano politiche multilaterali, ma disdegnavano l’essenziale, cioè un nuovo ordine multipolare. Il dopo Guerra fredda fu vissuto come una vittoria Usa e non come una comune vittoria dell’Ovest e dell’Est. La Storia era finita, il mondo era diventato capitalista, l’ordine era unipolare e gli Usa l’egemone unico. La hybris occidentale, la sua smoderatezza, è qui.

Il quinto punto concerne l’obbligo di rispetto dei confini internazionali, fondamentale nel secondo dopoguerra. Ma Putin non è stato il primo a violarlo.

L’intervento Nato in favore degli albanesi del Kosovo lo violò per primo nel ’99 (chi scrive approvò con poca lungimiranza l’intervento).

Il ritiro dall’Afghanistan ha messo fine alla hybris e la nemesi era presagibile. Eravamo noi a dover neutralizzare l’Ucraina, e ancora potremmo farlo. Noi a dover mettere in guardia contro la presenza di neonazisti nella rivoluzione arancione del 2014 (l’Ucraina è l’unico Paese europeo a includere una formazione neonazista nel proprio esercito regolare). Noi a dover vietare alla Lettonia – Paese membro dell’Ue – il maltrattamento delle minoranze russe.

Non abbiamo difeso e non difendiamo i diritti, come pretendiamo. Nel 2014, facilitando un putsch anti-russo e pro-Usa a Kiev, abbiamo fantasticato una rivoluzione solo per metà democratica. Riarmando il fronte Est dell’Ue foraggiamo le industrie degli armamenti ed evitiamo alla Nato la morte cerebrale che alcuni hanno giustamente diagnosticato. Ammettere i nostri errori sarebbe un contributo non irrilevante alla pace che diciamo di volere.

FONTE: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/22398-barbara-spinelli-una-guerra-nata-dalle-troppe-bugie.html

 

 

 

Rapporti WEF: cecchini pesantemente armati sorvegliano le élite a Davos

Un video pubblicato lunedì pomeriggio su Twitter dal giornalista di Rebel News Jeremy Loffredo mostra un cecchino armato, in abito verde oliva, appollaiato in cima a un edificio nella città svizzera dove si svolgono le riunioni annuali del World Economic Forum (WEF

Sheila Gunn Reid – 23 maggio 2022

Rapporti WEF: cecchini pesantemente armati sorvegliano le élite a Davos

La guardia sembrava inosservata dai passanti nelle strade sottostanti.

 

 

Il WEF è una cabala globale di élite che si incontrano per determinare una tabella di marcia per l’umanità. Le discussioni di quest’anno includono la valuta digitale, la prossima pandemia, la sicurezza informatica, la guerra in Ucraina e, come sempre, il cambiamento climatico. Rebel News ha prodotto un’indagine completa sul WEF e sul suo piano per ripristinare l’economia mondiale. Per saperne di più, visitare www.ExposeTheReset.com.

Altre guardie armate sono state viste mentre il sindaco di Kiev, l’ex pugile professionista Vitali Klitschko, è uscito dal padiglione dell’Ucraina a Davos.

 

 

Mentre i veri cecchini proteggono le élite globali, anche i media mainstream stanno nascondendo loro.

La CNBC , il canale secondario della NBC quasi inguardabile che si dice sia incentrato sulle notizie finanziarie, riferisce che Davos è diventata un focolaio per i teorici della cospirazione. Loffredo rileva un evidente conflitto di interessi La CNBC ha dimenticato di dire alle poche persone che ancora consumano qualunque cosa pubblicano in questi giorni: la rete ha sponsorizzato un evento a Davos.

 

 

Loffredo è uno dei sei giornalisti di Rebel News sul campo a Davos per portarti la verità sul WEF che i media mainstream in conflitto non vogliono o non possono. Per supportare il loro giornalismo indipendente e all’avanguardia e per vedere tutta la loro copertura, visitare  www.WEFreports.com.

FONTE: https://www.rebelnews.com/wef_reports_heavily_armed_snipers_guard_elites_in_davos

 

 

 

DIRITTI UMANI

Il CEO di Pfizer Albert Bourla racconta alla folla del WEF delle nuove pillole con microchip: “Immagina la conformità”

Le élite del World Economic Forum continuano a dire cose che farebbero bandire chiunque altro dai social media per aver diffuso “teorie del complotto” o “disinformazione”.

Da Notizie ribelli – 21 05 2022

Rebel News  sta inviando un team all-star di giornalisti da tutto il mondo a Davos, in Svizzera, per seguire il World Economic Forum (WEF) Annual Meeting 2022.

Questa conferenza è il luogo in cui un  conglomerato di élite globali si riunisce per discutere gli ordini del mondo e condividere le loro visioni per il futuro della società.

Nell’episodio della scorsa notte di The Ezra Levant Show , abbiamo esaminato alcuni casi in cui queste élite hanno detto cose che avrebbero bandito chiunque altro dai social media per aver diffuso “teorie del complotto” o “disinformazione”.

Commentando una recente dichiarazione rilasciata  all’incontro annuale del WEF dal CEO di Pfizer, Ezra ha dichiarato:

Ecco il presidente della Pfizer che parla di qualcosa che fino a questo momento, se dovessi dirlo, la gente direbbe che sei un pazzo, sei un complottista, sei paranoico. Vale a dire, che ci sarà un chip impiantato nel tuo vaccino. Se dovessi dirlo, in realtà è letteralmente una delle cose descritte nell’elenco di cose che non puoi dire di YouTube. Dicono specificamente che se realizzi un video in cui afferma che c’è un microchip nel vaccino, il tuo canale verrà chiuso. Bene, ecco il presidente della Pfizer che dice che lo farà.

Questo è solo un estratto dall’intero Ezra Levant Show .

FONTE:  https://www.rebelnews.com/pfizer_ceo_albert_bourla_tells_wef_crowd_about_new_microchipped_pills_imagine_the_compliance

 

 

 

ECONOMIA

Il ricatto europeo all’Italia sull’energia

Con l’emergenza pandemica ormai alle spalle e la guerra in Ucraina che va incontro a una fase di stabilizzazione (e speriamo presto di pace), l’Unione europea torna a far sentire la propria voce e dettar legge nei confronti dell’Italia non solo sul tema delle liberalizzazioni, del fisco e catasto ma anche in materia ambientale. I richiami all’Italia sul debito e la bassa crescita, si accompagnano a una serie di raccomandazioni al nostro paese per il 2022 e il 2023 su ambiente ed energia.

In particolare la Commissione europea raccomanda all’Italia di “ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e diversificare le importazioni di energia. Superare le strozzature per aumentare la capacità di trasporto interno del gas, sviluppare le interconnessioni elettriche, accelerare la diffusione di ulteriori capacità di energia rinnovabile e adottare misure per aumentare l’efficienza energetica e promuovere la mobilità sostenibile”.

L’invito a “ridurre la dipendenza dai combustibili fossili” in questo momento è fuori luoghi per una serie di motivi. Dismettere ulteriormente i fossili vorrebbe dire aumentare ancor di più il costo dell’energia per le famiglie e le imprese italiane non essendoci nel breve periodo valide alternative. C’è poi un grande paradosso: oggi ci troviamo in questa situazione di crisi energetica senza dubbio per un evento inaspettato come la guerra in Ucraina ma anche a causa di politiche energetiche errate realizzate negli ultimi anni proprio a causa delle imposizioni dell’Unione europea nell’ambito della transizione ecologica. Aver diminuito la produzione di energia dai combustibili fossili senza sostituirla adeguatamente, ci ha portato a trovarci in un deficit energetico determinando così un generalizzato aumento dei prezzi. La stessa Unione europea che ci ha imposto scelte in ambito energetico errate sotto numerosi punti di vista, ora ci dice come dobbiamo comportarci. Alla luce di tutto ciò perché l’Ue indirizza queste raccomandazioni all’Italia?

Sebbene negli ultimi anni siano state numerose le occasioni in cui le istituzioni europee hanno avanzato diktat nei confronti del nostro paese, oggi ci troviamo in una situazione molto più complessa a causa dei fondi del Pnrr. Nell’opinione pubblica è passato il messaggio che l’Unione europea ci ha donato a fondo perduto miliardi di euro ma in realtà le cose non stanno proprio così e iniziano ad emergere le prime avvisaglie. Anzitutto la parte più consistente dei fondi sono un prestito, in secondo luogo vengono erogati previa realizzazione di riforme e il rischio è quello di farsi dettare l’agenda nazionale dalla politica europea.

L’energia e l’ambiente rappresentano solo la punta dell’iceberg di un modus operandi che interesserà con tutta probabilità ogni settore in cui l’Ue dirà la propria con una evidente limitazione della sovranità italiana. Una situazione che può diventare un ricatto nel momento in cui le richieste europee divergono dall’interesse nazionale italiano come nel caso dell’energia.

FONTE: https://it.insideover.com/economia/il-ricatto-europeo-allitalia-sullenergia.html

Ridurre la spesa corrente per accedere al Pnrr: le condizioni di Bruxelles all’Italia

 

 

GIUSTIZIA E NORME

IL CASO TARICCO

Dott. Marco De Chiara | in Penale – 24 05 2022

Il principio. In relazione al contrasto tra diritto interno e ordinamento comunitario, vi è da rilevare che con la sentenza n. 115/2018, caso Taricco, la nostrana Corte Costituzionale, ha specificato che sebbene vi sia la supremazia dell’ordinamento europeo, che obbliga il giudice interno ad applicare la norma comunitaria piuttosto che quella interna, in caso di contrasto, tale obbligo incontra alcuni limiti.

Difatti, nell’ipotesi in cui la norma dell’ordinamento comunitario sia opposta ad un principio cardine della nostra Costituzione, essa non potrà essere preferita e quindi resta l’obbligo di rispettare il principio interno.

Pertanto, nell’ipotesi in cui ad esempio, il giudice nazionale debba decidere se applicare la norma comunitaria violando però il principio di legalità o qualcuno dei suoi corollari, allora la sentenza di cui sopra fissa un limite e difende i nostri postulati, su cui si basa l’intero Stato di diritto nostrano.

2. La vicenda. Nello specifico, la vicenda aveva ad oggetto il contrasto tra le due diverse legislazioni per quanto concerne la disciplina della prescrizione del reato contenuta negli artt. 160 co. 3 e 161 co. 2 c.p.: il contrasto è stato ravvisato in particolare nella previsione di un limite massimo di durata del termine di prescrizione, in presenza di atti interruttivi, tale da comportare un rischio di prescrizione del reato anche quando l’autorità giudiziaria non sia inerte, ma stia procedendo all’accertamento di fatti e responsabilità.

Secondo la Corte di Giustizia, la normativa citata “sarebbe idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’art. 325 TFUE”, impedendo “di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione Europea”. In forza del principio della prevalenza del diritto dell’UE sul diritto nazionale, la Corte ha pertanto affermato che il giudice nazionale è tenuto a disapplicare all’occorrenza le disposizioni nazionali che abbiano per effetto di impedire allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostogli dall’art. 325 TFUE .

Pertanto, risulta controverso se l’obbligo di applicare la norma comunitaria debba essere rispettato anche quando quest’ultima sia in contrasto con un principio di fondamentale importanza per l’ordinamento nazionale come ad esempio il principio di legalità.

Ed è proprio il caso Taricco, che pone le linee guida nel risolvere tale controversia. Difatti, per la prima volta la Corte Costituzionale nostrana, è stata chiamata a decidere se azionare il principio di legalità come limite al rispetto dell’obbligo di disapplicare la disciplina della prescrizione del reato contenuta negli artt. 160 co. 3 e 161 co.2 c.p. , nella misura in cui, quella disciplina è stata ritenuta dalla Corte di Giustizia UE confliggente con l’art.325 TFUE. In un primo tempo la Corte si è però espressa solo con una pronuncia interlocutoria, investendo in via pregiudiziale della questione la Corte di Giustizia UE.

In particolare, preannunciando il proposito di azionare il principio di legalità quale contro-limite in caso di risposta affermativa, la Corte costituzionale ha chiesto alla Corte di Giustizia UE se l’art.325 TFUE  debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione del reato che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale ordine sia in contrasto con i principi supremi della Costituzione dello Stato.

La Corte di Giustizia ha risposto in senso negativo: il giudice nazionale è tenuto a disapplicare le disposizioni interne sulla prescrizione che ostino all’inflizione di sanzioni penali effettive in casi di frodi gravi che ledono gli interessi finanziari dell’UE o che prevedano, per tali casi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi di frodi gravi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro, a meno che una disapplicazione comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’indeterminatezza della legge, o di un regime di punibilità  più severo di quello vigente al momento della commissione del reato.

Tanto premesso si deduce che la Corte di Giustizia Europea, ha dunque riconosciuto, in linea di principio, che il primato del diritto dell’UE incontra un limite nei principi di legalità e irretroattività in materia penale che appartengono alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri: verificare caso per caso la compatibilità tra gli obblighi derivanti dal diritto dell’UE e quei principi costituzionali è compito d’altra parte che deve essere assolto dal giudice nazionale.

La vicenda Taricco si è conclusa con la sentenza della Corte costituzionale n. 115 del 31.5.2018, la quale stabilisce che gli artt. 160 co.3 e 161 co.2 c.p. rimangono applicabili ai casi di frode grave che ledono gli interessi dell’UE nel campo finanziario .

3. Conclusione. In conclusione, in considerazione di quanto sopraesposto è possibile affermare che: l’obbligo di disapplicazione della disciplina penale contrastante con il diritto dell’UE viene meno quando la disapplicazione comporterebbe una violazione dei principi cardine dell’ordinamento interno.

Dunque, anche in ragione di quanto sopraesposto, non sussiste alcun dubbio sulla supremazia del diritto eurounitario, ragion per cui il caso Taricco ha rappresentato una particolare eccezione di fondamentale importanza, perché ha lo scopo di tutelare l’intero ordinamento nazionale nostrano, che in specifici casi di particolare rilevanza, ove vi è in gioco la forza e l’efficacia del nostro ordinamento interno, tutelato appunto dal principio di legalità e dagli altri principi annessi, il principio che prevale è quello interno.

FONTE: http://www.salvisjuribus.it/il-caso-taricco/?utm_source=onesignal&utm_medium=push&utm_campaign=salvispush&utm_term=PushSalvisJuribus&utm_content=Articoli

Obbligo vaccinale illegittimo.

Stipendi arretrati per 34 docenti trevigiani e richiesta del danno morale. TESTO INTEGRALE SENTENZA TRIBUNALE DI TREVISO

Obbligo vaccinale illegittimo: ll personale scolastico che ha scelto di non ricevere il vaccino contro il Covid-19 ha diritto alle retribuzioni non percepite dalla data di sospensione.

Obbligo vaccinale illegittimo. È quanto ha stabilito il Giudice del Lavoro di Treviso, dott. Massimo Galli, ironia della sorte omonimo del virologo milanese, tra i più presenti nelle reti nazionali in questi ultimi due anni. La rivoluzionaria sentenza, immediatamente esecutiva, è stata emessa il 10 maggio e ha accolto le tesi di illegittimità della sanzione applicata dal governo, ovvero sospensione dal lavoro e niente stipendio, presentate dall’avvocato Mauro Sandri del Foro di Milano in difesa di 34 docenti trevigiani scrive EventiAvversi.

Il risultato dell’introduzione del decreto legge del 24 marzo 2022, con disposizioni urgenti per il superamento delle misure di contrasto alla diffusione dell’epidemia da COVID-19, “consiste nell’abrogazione della sanzione della sospensione con effetto retroattivo dal 15 dicembre 2021”, si legge nella sentenza. All’interno degli istituti, infatti, vigeva l’obbligo vaccinale per docenti, segretari e tutto il personale scolastico, pena sospensione dello stipendio.

E’, di fatto, l’ammissione della illegittimità dell’obbligo vaccinale, anche sulla base delle numerosissime pronunce a favore dei sospesi (tra le tante, ricordiamo quelle del Tar Lazio link qui qui qui, Tar Lombardia link qui quiTar Veneto , Tar Toscana , Tar Abruzzo , Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia , Tribunale di Catania , Tribunale di Ivrea , Tribunale di Benevento , Tribunale di Padova , Tribunale di Brescia ). Inoltre invitiamo a consultare la sezione “SENTENZE” del nostro sito.

FONTE: https://raffaelepalermonews.com/obbligo-vaccinale-illegittimo-stipendi-arretrati-per-34-docenti-trevigiani-e-richiesta-del-danno-morale-testo-integrale-sentenza-tribunale-di-treviso/

 

 

 

LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI

Il salario minimo e il harakiri dei sindacati italiani – di Andrea Fumagalli

17 05 2022

Quando si è in tempi di emergenza, prima quella sanitaria ora quella bellica, i/le lavorator* non se la passano bene. Lo sanno i bene i/le lavorator* ucraini. Ma lo sanno bene anche i/le lavorator*, precari e non, in Italia.

Negli ultimi mesi, il tasso di inflazione ha raggiunto un valore medio su base annua in Europa del 7,5%. Secondo i dati Eurostat, l’incremento medio dei salari è stato del 3%. Ciò significa che il potere d’acquisto si è ridotto di 4,5 punti.

Tali valori, tuttavia, variano da paese a paese. Vediamo come.

L’anno scorso (2021) in Francia il salario minimo è aumentato tre volte (complessivamente del 5,9%), e i sindacati si sono posti l’obiettivo di arrivare a 2 mila euro al mese. In Spagna il salario minimo ha raggiunto i mille euro e le mensilità sono 14. In Portogallo, il sindacato ha chiesto un aumento da 705 euro al mese a 800. In Germania per gli 85 mila lavoratori delle acciaierie, il sindacato IG Metall sta cercando di ottenere un aumento dell’8,2%, e intanto i chimici-farmaceutici hanno ottenuto una ‘una tantum’ da 1400 euro. In Danimarca il sindacato Fnv sta cercando di fare aumentare il salario minimo da 10 a 14 euro all’ora. In Lussemburgo e a Cipro, i salari sono agganciati all’inflazione.

Secondo Luca Visentini, segretario generale della Confederazione Europea dei Sindacati (CES), “gli aumenti salariali maggiori sono in Germania, Austria e Francia”. “Ma”, aggiunge, “sono in corso grandi campagne anche in Belgio, Spagna e Portogallo”.

In Italia, invece, non si batte chiodo. I salari non solo non aumentano ma rimangono fermi a livello nominale. Ciò si traduce in un forte calo del potere d’acquisto. Poche settimane fa, il ministro del lavoro Orlando – bisogna riconoscerlo – ha preso atto che il calo dei salari reali non è un fattore positivo per una congiuntura economica già stressata dalle varie forme di emergenza in vigore. E aveva proposto di legare gli incentivi e gli aiuti monetari alle imprese nei settori più in difficoltà (i cd. ristori) ad una corrispondente ripresa salariale. Di fatto, parte dei ristori doveva essere devoluti ai lavoratori. Un gioco a somma positiva per le imprese, che potevano beneficiare di parte dei sussidi e di un possibile aumento di ricavi se il potere di spesa del lavoro – e quindi la domanda –aumentava. Eppure, netto è stato il diniego di Confindustria, talmente netto che oggi tale proposta è finita nel dimenticatoio, come si è visto a proposito dell’ultimo decreto del governo Draghi a sostegno dell’economia.

Come abbiamo visto, in altri paesi europei la situazione è differente e il sindacato, seppur in modo flebile, è in grado di far sentire la propria voce.

La ragione ce la spiega la stessa Ces, per bocca del suo segretario: “In tutti i Paesi dove c’è un salario minimo legale si sta agendo su due fronti, proteggendo le categorie più povere con aumenti decisi per legge e nello stesso tempo facendo crescere la scala salariale al momento del rinnovo dei contratti”.

Detto in altre parole: è grazie all’esistenza di un salario minimo, che fissa un plafond verso il basso sotto il quale non si può andare, che la contrattazione collettiva è in grado di ottenere aumenti stipendiali.

In Italia non c’è un salario minimo. Cisl e Uil sono ferocemente contrarie e la posizione della Cgil, pur aprendo delle porte, non è univoca. A parte i 5S e Sinistra Italiana, i partiti della maggioranza fanno finta di non vedere. Ma la capacità contrattuale dei 5S e di SI (che è all’opposizione) è risibile di fronte all’autoritarismo di Draghi.

La contrarietà all’introduzione di un salario minimo legale è argomentata con la paura che tale misura potrebbe mettere a repentaglio la contrattazione collettiva. Ma l’Istat ci ricorda che più della metà dei/lle lavorator* in Italia (54,5%, pari a 6,8 milioni di persone) è in attesa del rinnovo contrattuale, soprattutto nel settore terziario.

Questa settimana è stato rinnovato il contratto per il trasporto pubblico locale, che era scaduto 4 anni e mezzo fa (54 mesi!). 90 euro lordi di aumento medio mensile e 500 euro una tantum per la vacanza contrattuale.  Se l’aumento di 90 euro fosse stato applicato alla scadenza del contratto, l’incremento del monte salari medio tabellare sarebbe stato per ogni singolo lavoratore pari a 4860 euro, quasi dieci volte di più dell’una tantum di compensazione per la “vacanza contrattuale”: una vergogna.

Si tratta di una situazione paradigmatica. L’Italia è l’unico paese europeo in cui si sciopera (non sempre con successo) non sul merito del rinnovo ma per chiedere che cominci la trattativa. È una prassi talmente consolidata che è diventata l’asse portante della strategia padronale. Le associazioni datoriali (Confindustria in testa) procrastinano nel tempo l’avvio delle trattive per un rinnovo contrattuale, sapendo che ciò consente loro un cospicuo risparmio e una riduzione del costo del lavoro, poiché la compensazione per la vacanza contrattuale sarà sempre inferiore a ciò che avrebbero dovuto pagare se il nuovo contratto fosse diventato operativo il giorno dopo la sua scadenza, come il rinnovo del trasporto pubblico locale ben evidenzia.

Si spiega così la crisi salariale italiana, la più profonda del continente europeo. La causa sta certo nella protervia padronale ma anche nell’incapacità sindacale di capire che solo l’introduzione di un salario minimo potrà invertire questa drammatica tendenza.

* * * * *

Immagine tratta da:  UP! Campagna per il salario minimo e reddito di cittadinanza

FONTE: http://effimera.org/il-salario-minimo-e-il-harakiri-dei-sindacati-italiani-di-andrea-fumagalli/

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

Le reazioni della Russia al piano di pace italiano

Federico Giuliani
24 MAGGIO 2022

Il piano di pace italiano per l’Ucraina è completamente “slegato dalla realtà” e i suoi autori sembrano essersi basati su “giornali provinciali” e “menzogne ucraine”. A smontare il piccolo spiraglio diplomatico “made in Italy” emerso nei giorni scorsi è Dmitrij Medvedev, attuale vicepresidente del Consiglio di sicurezza nonché ex capo di Stato russo. Il commento di Medvedev, sprezzante e pungente, sembra quasi teso a voler spegnere sul nascere la flebile fiammella di speranza accessa dalla diplomazia italiana.

Il punto più critico sembrerebbe coincidere con il nodo territoriale, in particolare con la completa autonomia della Crimea all’interno dell’Ucraina, considerata dall’alto funzionario del Cremlino un’assoluta scortesia nei confronti di Mosca. Non solo una scortesia, ma anche una minaccia alla sua integrità territoriale e un “pretesto per iniziare una guerra a tutti gli effetti”.

“Non c’è e non ci sarà mai una forza politica in Russia che accetterebbe anche soltanto di discutere il destino della Crimea. Sarebbe un tradimento nazionale”, ha tuonato Medvedev alzando un muro altissimo tra la Federazione Russa e il piano elaborato dalla Farnesina.

Il piano di pace italiano per l’Ucraina
L’iniziale apertura di Mosca
Lo stallo che costringe la Russia a cambiare i piani
Il nodo territoriale
Il messaggio di Medvedev è stato tanto chiaro quanto emblematico: anche soltanto immaginare una completa autonomia della Crimea sotto la bandiera dell’Ucraina può essere sufficiente a causare una guerra a pieno titolo.

Ricordiamo che il piano di pace dell’Italia era formato da quattro step: un cessate il fuoco generale sul territorio ucraino, l’approdo ad una forma di neutralità dell’Ucraina, la sovranità su Crimea e Donbass, e, infine, un nuovo patto sulla sicurezza internazionale. Niente da fare, secondo quanto dichiarato dal delfino di Vladimir Putin.

A detta di Medvedev, infatti, “la situazione reale si riflette solo nelle bozze di accordo proposte dalla Russia”. E ancora: “L’Occidente ha abbracciato il desiderio di creare piani di pace che dovrebbero portare a una soluzione della crisi in Ucraina. E andrebbe bene se si trattasse di preparare opzioni che almeno in qualche modo tengano conto della realtà. Invece no, questo è solo un puro flusso di coscienza dei grafomani europei”.

A proposito delle notizie di stampa sul piano italiano, l’ex presidente russo ha affermato che “si ha la sensazione che sia stato preparato non da diplomatici, ma da scienziati politici locali che hanno letto molti giornali provinciali e operano solo con falsi ucraini”.

La risposta di Mosca

Le parole di Medvedev, considerando la caratura del personaggio – non proprio l’ultimo dei funzionari di corte – dovrebbero teoricamente rispecchiare l’opinione dei piani alti del Cremlino. Eppure c’è spazio per un giallo, visto che il portavoce della presidenza russa, Dmitry Peskov, ha detto che il Cremlino non ha ancora avuto modo di vedere il piano di pace per l’Ucraina proposto dall’Italia. “No, non lo abbiamo ancora visto, speriamo che attraverso i canali diplomatici venga portato alla nostra attenzione e saremo in grado di esaminarlo”, ha spiegato Peskov, citato dalla Tass.

In ogni caso, è molto difficile capire cosa vogliano ottenere – e cosa sono disposte a cedere – le due parti in campo (Ucraina e Russia) per arrivare alla tanto agognata pace. Mosca ha iniziato a mettere le sue richieste sul tavolo. Per quanto riguarda i territori contesi, pare di capire che Putin non abbia alcuna intenzione di trattare. Il Donbass “ha finalmente deciso il suo destino” e “non tornerà mai all’Ucraina”, ha ribadito lo stesso Medvedev. “Le Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk non torneranno in Ucraina”, ha aggiunto, definendo “le proposte per l’autonomia del Donbass nel quadro dello Stato ucraino ovvie sciocchezze e proiezioni a buon mercato”. “Le decisioni sul loro destino – ha concluso l’ex presidente russo – sono state prese dalle repubbliche del Donbass alla fine e non torneranno indietro. Questo è inaccettabile per tutti coloro che ricordano il destino degli accordi di Minsk e l’uccisione di civili della Lpr e della Dpr”.

Ma per quale motivo Mosca ha bocciato il piano italiano? Difficile dare una risposta esatta. Anche perché il Cremlino aveva dichiarato di “star valutando” la road map per la pace proposta dalla Farnesina. La sensazione è che la Russia non voglia includere i territori contesi nella trattativa perché, da qui ai prossimi giorni, le forze russe potrebbero presto conquistare nuovi territori nel quadrante meridionale dell’Ucraina. Dopo settimane di stallo, se non aperta difficoltà, l’esercito russo sembrerebbe aver riacceso i motori, con l’intenzione di prendere il controllo dell’intero Donbass. E per Mosca non avrebbe alcun senso fare concessioni su queste ipotetiche conquiste.

FONTE: https://it.insideover.com/guerra/le-reazioni-della-russia-al-piano-di-pace-italiano.html

 

 

 

 

Israele, vietato ingresso a deputato Ue: annullata intera missione in Palestina

Il viaggio di sei deputati del Parlamento europeo in Palestina è stato annullato quando Manu Pineda, capo della delegazione e noto sostenitore della Palestina, ha ricevuto una notifica dal ministero degli Affari esteri israeliano che poneva il divieto per lui di raggiungere il Paese. L’intera delegazione, che avrebbe dovuto incontrare i ministri palestinesi nei territori occupati, ha così deciso di annullare la missione. Tel Aviv non ha fornito alcuna spiegazione ufficiale. La presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola, in visita in questi giorni in Israele, ha comunicato che chiederà spiegazioni “direttamente alle autorità interessate” e che “Il rispetto degli eurodeputati e del Parlamento europeo è essenziale per avere buone relazioni”.

FONTE: https://www.lindipendente.online/2022/05/24/israele-vietato-ingresso-a-deputato-ue-annullata-intera-missione-in-palestina/

 

 

Taiwan, Biden minaccia la Cina. Pechino: “non ci sottovalutate”

Biden minaccia la Cina

Biden minaccia Cina. Taiwan sarà la prossima Ucraina? Nel dubbio, il presidente americano Joe Biden ha detto che gli Stati Uniti saranno pronti a difendere Taiwan a livello militare se la Cina tentasse di prendere l’isola (di fatto indipendente, ma che Pechino considera una “provincia ribelle” da “riunificare”) con la forza. “Siete disposti a essere coinvolti militarmente per difendere Taiwan se si dovesse arrivare a questo?”, è stato chiesto al presidente Usa a Tokyo durante una conferenza stampa congiunta con il primo ministro del Giappone, Fumio Kishida. “Sì”, ha ribattuto Biden, “è l’impegno che abbiamo preso”. La Cina “gioca con il fuoco con tutte le manovre che sta mettendo in atto“, ha aggiunto.

E ancora, ha detto Biden: “Siamo d’accordo con la politica di ‘una sola Cina’ ma l’idea che si debba prendere con la forza, solo con la forza non è giusta. La mia aspettativa è che questo non succederà. Siamo contro qualsiasi cambio di situazione con la forza. Pace e stabilità devono essere mantenute”. E ha sottolineato che “la risposta globale unita all’invasione russa dell’Ucraina può servire da deterrente”.

Poco dopo la conferenza stampa, riporta la Casa Bianca ha puntualizzato che la posizione degli Stati Uniti su Taiwan non è cambiata. In base alla politica di “una sola Cina”, gli Usa non riconoscono Taiwan come stato indipendente dalla Cina, ma in base al Taiwan Relations Act del 1979 gli Stati Uniti sono impegnati a fornire all’isola armi, intelligence e addestramento a per la difesa.

FONTE: https://raffaelepalermonews.com/taiwan-biden-minaccia-la-cina-pechino-non-ci-sottovalutate/

 

 

 

Il Ruanda diventa il laboratorio del World Economic Forum in Africa

 

 

 

POLITICA

Il CEO di Hedge Fund e il candidato del GOP David McCormick intenta una causa in PA GOP Senate Primary Race – Richiede che le schede elettorali non datate arrivate in ritardo vengano contate in gara

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Chi è l’ex CEO di hedge fund David McCormick?

Un recente sponsor della raccolta fondi a New York per David McCormick è stato il fondatore di una società di consulenza che rappresenta il controverso Dominion Voting Systems. McCormick ha anche fatto un sacco di soldi facendo pressioni per la Cina comunista. McCormick è tornato in Pennsylvania per correre nella gara del Senato GOP dopo che Sean Parnell è uscito dalla gara.

Il presidente Trump ha detto questo su McCormick in una recente manifestazione in Pennsylvania.

Lo scorso martedì sera, quando le schede elettorali per corrispondenza hanno iniziato ad arrivare, David McCormick ha costruito un vantaggio considerevole contro il dottor Oz e Kathy Barnette nelle elezioni primarie del Senato del GOP.

TENDENZA: L’ arcivescovo di sinistra della DC Gregory sostiene Pelosi e il suo aborto rispetto alle politiche di nascita – Non ordinerà ai sacerdoti di rifiutare la sua comunione

Ci sono ancora voti da contare quasi una settimana dopo.

Il dottor Oz è in testa con meno di 1.000 voti dopo 6 giorni di conteggio. Lo stato ANCORA non sta contando le schede!

Oggi David McCormick ha fatto causa per chiedere ai funzionari elettorali di contare le schede senza data che sono arrivate dopo le elezioni di martedì.

Sembra un democratico.

Politica ha riferito:

La guerra per ogni ultimo voto nelle primarie del GOP del Senato della Pennsylvania, troppo vicino alla convocazione, è ora ufficialmente diretta ai tribunali.

La campagna di David McCormick ha intentato una causa lunedì pomeriggio sostenendo che i funzionari elettorali devono contare le schede per posta e per assente che non hanno una data sulla busta, citando un’ordinanza del tribunale federale rilasciata venerdì.

 

ONTE: https://www.thegatewaypundit.com/2022/05/hedge-fund-ceo-gop-candidate-david-mccormick-files-lawsuit-pa-gop-senate-primary-race-demands-undated-ballots-arrived-late-counted-race/

 

 

 

SCIENZE TECNOLOGIE

Bill Gates, Mark Zuckerberg e Jeff Bezos hanno investito nel latte materno prodotto in laboratorio per prevenire gli effetti del “cambiamento climatico”

Un articolo pubblicato da Daily Mail il 19 giugno 2020, ha rivelato che Bill Gates, Mark Zuckerberg, Jeff Bezos e altri miliardari hanno investito in una nuova società di avvio per produrre latte materno artificiale da epiteliali mammari umani coltivati.

Secondo l’articolo, l’azienda statunitense BIOMILQ ha ricevuto 3,5 milioni di dollari da un fondo di investimento co-fondato da Bill Gates, Jeff Bezos, Richard Branson e Mark Zuckerberg per “prevenire il cambiamento climatico dovuto ai gas creati nella produzione di formule”.

Daily Mail ha riportato:

Una start-up di latte materno artificiale che offre un’alternativa ecologica al latte artificiale ha ricevuto 3,5 milioni di dollari (2,8 milioni di sterline) da un fondo di investimento co-fondato da Bill Gates.

TENDENZA: L’ arcivescovo di sinistra della DC Gregory sostiene Pelosi e il suo aborto rispetto alle politiche di nascita – Non ordinerà ai sacerdoti di rifiutare la sua comunione

È stato stimato che circa il 10% dell’industria lattiero-casearia globale, uno dei principali produttori di gas serra, viene utilizzata per la produzione di latte artificiale.

Il fondo da 1 miliardo di dollari (800 milioni di sterline), Breakthrough Energy Ventures, è stato istituito per aiutare a prevenire gli effetti peggiori dei  cambiamenti climatici  derivanti dalle emissioni di carbonio.

Oltre a Gates, gli altri membri del gruppo includono il CEO di Amazon Jeff Bezos, il fondatore del gruppo Virgin Sir Richard Branson e il capo di Facebook Mark Zuckerberg.

Secondo il sito web dell’azienda, nel 2021 hanno prodotto con successo il primo latte umano a coltura cellulare  al di fuori del seno.

Il nostro team è entusiasta di annunciare che abbiamo prodotto il primo latte umano in coltura cellulare al di fuori del seno. Ci troviamo alla frontiera della scienza dell’allattamento, contribuendo a far avanzare l’intero campo mettendo in primo piano madri e bambini.

Secondo la ricercatrice sul latte umano della UC Davis e consulente tecnico BIOMILQ, la dott.ssa Jennifer Smilowitz, “il latte umano è estremamente complesso sia nella composizione che nella struttura, il che ha reso impossibile la replicazione al di fuori del genitore che allatta”. Fino ad ora.

In soli 11 mesi, abbiamo spostato il campo della scienza dell’allattamento dalla prova di concetto alla prova di complessità, producendo composizioni di latte che assomigliano più a una sinfonia che a un concerto. Siamo un ENORME passo avanti verso la responsabilizzazione dei genitori con un’altra opzione di alimentazione infantile, che fornisce gran parte della nutrizione del latte materno con la praticità della formula.

Ora possiamo confermare che il prodotto BIOMILQ ha profili di macronutrienti che corrispondono strettamente ai tipi e alle proporzioni previste di proteine, carboidrati complessi, acidi grassi e altri lipidi bioattivi noti per essere abbondantemente presenti nel latte materno.

I netizen trovano questa notizia tempestiva, considerando le recenti notizie sulla carenza di formule per bambini.

Candace Owens ha twittato: “Bill Gates non ha solo fortuna? Proprio come con il vaccino contro il COVID: fa un investimento e poi all’improvviso c’è una pandemia o una carenza e tutti devono fare la fila per il suo prodotto. Ovviamente ha investito nel latte materno prodotto in laboratorio!”

 

Secondo Politifact di estrema sinistra , “non ci sono prove che gli investimenti che coinvolgono Bill Gates e Mark Zuckerberg nel latte materno artificiale abbiano qualcosa a che fare con la carenza di formule”.

“Né BIOMILQ né l’investimento del fondo nella società hanno nulla a che fare con l’attuale carenza. Leila Strickland, co-fondatrice e chief science officer di BIOMILQ, ha dichiarato alla CNN il 3 maggio  che alla società mancano ancora tre o cinque anni per immettere un prodotto sul mercato. La carenza è dovuta in parte a un  richiamo della formula del febbraio 2022 da parte di Abbott, un importante produttore statunitense di alimenti per l’infanzia, che ha interrotto la produzione nel suo stabilimento di Sturgis, nel Michigan. È anche dovuto ai problemi della catena di approvvigionamento associati alla pandemia di COVID-19 che stavano già avendo un impatto sull’industria degli alimenti per l’infanzia. Sembra che anche l’elevata inflazione abbia aggravato il problema”, ha affermato Politifact nel loro fact check.

Le famiglie americane soffrono per la carenza di latte artificiale. Come riportato in precedenza da Gateway Pundit, il più grande produttore di latte artificiale è stato chiuso da Biden/Obama per 3 mesi. Biden è da biasimare perché la sua  FDA ha chiuso un enorme stabilimento  che produce latte artificiale nel Michigan.

L’  NRCC condivide  questo:

Commento dell’NRCC:  “Prima che Joe Biden e i Democratici prendessero il controllo del nostro governo, sarebbe stato impensabile che i genitori non sarebbero stati in grado di trovare latte artificiale per nutrire i propri figli. L’incredibile incompetenza e la cattiva gestione dell’economia da parte dei Democratici non hanno limiti”.  – Il portavoce dell’NRCC Mike Berg

FONTE: https://www.thegatewaypundit.com/2022/05/bill-gates-mark-zuckerberg-jeff-bezos-invested-lab-produced-breast-milk-prevent-effects-climate-change/

 

 

 

STORIA

Diario della Grande Guerra

a cura di Daniele Furlan

24 Maggio 1915 L’Italia entra nel conflitto mondiale dichiarando guerra all’Austria

ven 27 feb 15

Dopo aver firmato in tutta segretezza il Patto di Londra, rimaneva il problema di convincere il parlamento di maggioranza giolittiana ad entrare in guerra. Molte furono le manifestazioni a favore, ed alla fine il Re Vittorio Emanuele III e il Presidente del Consiglio Antonio Salandra riuscirono nell’impresa attraverso uno stratagemma. Salandra finse di dare le dimissioni e al suo posto fu convocato Giolitti, che saputo parzialmente del patto di Londra, si rese conto che le sue tesi non erano più sufficienti e rifiutò l’incarico. Allora il Re non accettò le dimissioni di Salandra e il governo da lui presieduto ebbe poteri speciali.
Il 24 maggio 1915 l’Italia dichiarò guerra all’Austria ed entrò così nella Prima Guerra Mondiale, dando vita a quello che sarebbe stato chiamato anche Fronte italiano oppure Guerra di Montagna,poiché buona parte delle relative operazioni si svolsero nell’Italia nord-orientale lungo le frontiere alpine. Una dichiarazione di guerra che nei quattro anni seguenti avrebbe visti impegnati 5 milioni di soldati italiani, fra i quali ci sarebbero stati circa 620.000 morti, 600.000 fra prigionieri e dispersi e quasi 1 milione di feriti.
Ma a questo punto occorre fare un riepilogo della situazione ed un calendario delle dichiarazioni di guerra, per vedere quali Stati, in virtù di accordi pregressi, alleanze formali ed informali, veti incrociati, vincoli di sudditanza, colonialismo, protettorato e patti segreti, erano entrati, o sarebbero entrati, a far parte del primo conflitto mondiale, che alla fine vide impegnate ben ventotto nazioni.

LE DATE DELLE DICHIARAZIONI DI GUERRA
1914
28 luglio – L’Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia;
1° agosto – La Germania dichiara guerra alla Russia;
3 agosto – La Germania dichiara guerra alla Francia;
4 agosto – Il Regno Unito dichiara guerra alla Germania;
5 agosto – Il Montenegro dichiara guerra all’Austria;
6 agosto – L’Austria dichiara guerra alla Russia;
6 agosto – La Serbia dichiara guerra alla Germania;
8 agosto – Il Montenegro dichiara guerra alla Germania;
12 agosto – La Francia dichiara guerra all’Austria;
12 agosto – L’Inghilterra dichiara guerra all’Austria;
23 agosto – Il Giappone dichiara guerra alla Germania;
25 agosto – Il Giappone dichiara guerra all’Austria;
28 agosto – L’Austria dichiara guerra al Belgio;
4 novembre – La Russia e la Serbia dichiarano guerra all’Impero Ottomano;
5 novembre – La Francia e il Regno Unito dichiarano guerra all’Impero Ottomano.
1915
23 maggio – l’Italia dichiara guerra all’Austria;
21 agosto – l’Italia dichiara guerra all’Impero Ottomano;
14 ottobre – la Bulgaria dichiara guerra alla Serbia;
15 ottobre – il Regno Unito dichiara guerra a Montenegro e Bulgaria;
16 ottobre – l’Italia e la Francia dichiarano guerra alla Bulgaria.
1916
9 marzo – la Germania dichiara guerra al Portogallo;
15 marzo – l’Austria-Ungheria dichiara guerra al Portogallo;
27 agosto – La Romania dichiara guerra all’Austria-Ungheria;
28 agosto – L’Italia dichiara guerra alla Germania e la Germania dichiara guerra alla Romania;
30 agosto – l’Impero Ottomano dichiara guerra alla Romania;
1 settembre – la Bulgaria dichiara guerra alla Romania.
1917
2 aprile – gli Stati Uniti d’America dichiarano guerra alla Germania;
7 aprile – Panama e Cuba dichiarano guerra alla Germania;
27 giugno – la Grecia e dichiara guerra a Austria-Ungheria, Bulgaria, Germania e Impero Ottomano;
22 luglio – il Siam dichiara guerra ad Austria-Ungheria e Germania;
4 agosto – la Liberia dichiara guerra alla Germania;
14 agosto – la Cina dichiara guerra ad Austria-Ungheria e Germania;
26 agosto – il Brasile dichiara guerra alla Germania;
7 dicembre – gli Stati Uniti dichiarano guerra all’Austria-Ungheria;
10 dicembre – Panama dichiara guerra all’Austria-Ungheria;
16 dicembre – Cuba dichiara guerra all’Austria-Ungheria.
1918
23 aprile – il Guatemala dichiara guerra alla Germania;
8 maggio – il Nicaragua dichiara guerra alla Germania e all’Austria-Ungheria;
23 maggio – il Costarica dichiara guerra alla Germania;
12 luglio – Haiti dichiara guerra alla Germania;
19 luglio – Honduras dichiara guerra alla Germania

 

dichiarazione

FONTE: https://www.pontedipiave.com/index.php?area=4&menu=277&page=1350&lingua=4&idnotizia=4774

 

 

RASSEGNA STAMPA DEL 24 MAGGIO 1914 – L’ENTRATA IN GUERRA DELL’ITALIA

Testo visionabile qui:

FONTE: https://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg17/file/repository/relazioni/biblioteca/emeroteca/Il_Giornale_dei_giornali/0009GdG.pdf

 

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