RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 20 LUGLIO 2020

http://www.homolaicus.com/letteratura/petrarca.htm

RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 20 LUGLIO 2020

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

La gente non è più interessata ai propri diritti civili, è interessata al tenore di vita.

Il mondo moderno ha ormai abbandonato l’ideai di libertà.

Preferisce obbedire

Dal film ASSASSIN’S CREED, Punto 30,27, 2016 diretto da Justin Kurzel

 

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SOMMARIO

L’Occidente è il Secretum del Petrarca
Il Tranquillo Ritorno Del Feudalesimo
Rispunta Draghi, e brucia un’altra cattedrale in Francia
Schedatura Google per quelli che non la pensano come la rete Lgbt
Per gli idioti, la pandemia colpisce solo gli scettici sovranisti
Rutte libero
Il club delle baby-sitter: come t’indottrino i ragazzi
I drag kid: nuova tratta dei minori
LETTERA APERTA AI RISTORATORI.
Vladimir Putin “deposto con una rivolta di strada”.
Michail Borisovič Chodorkovskij
San Benedetto, un faro per l’Europa smarrita
Nucleare francese: c’è un segreto, dietro alla Torino-Lione?
L’ideologia Lgbt dietro lo scandalo degli affidi
Pubblicato il “Registro Italiano dei Razzisti e Omofobi”
ASPI, PERDITE FORTISSIME, LA CESSIONE E’ UN AFFARE PER ATLANTIA.
SANTO VERSACE: L’ITALIA E’ UN PAESE RICCHISSIMO, GESTITO IN MODO PESSIMO
I grandi aiuti dell’Europa? In realtà l’Italia finirà per rimetterci 14 miliardi
Greta, Orlando e l’alibi green
Sale lo spread e arriva Draghi: soluzione pronta per l’Italia
CESSIONE DEL CREDITO E DIVIETO DEL PATTO COMMISSORIO
Riformare il sistema Giustizia per rilanciare l’economia
Caro Mattarella,  motivi il suo silenzio
Maestro
50mila ristoratori in rivolta contro la Castelli: «Non ti scusiamo, la politica non è uno show»
Lotta di classe: come, quando e perché
UN’APPLICAZIONE DI GOOGLE CHROME CONTRO L’OMOFOBIA

 

 

EDITORIALE

L’Occidente è il Secretum del Petrarca

Manlio Lo Presti 20 luglio 2020

Oggi ricorre la nascita del poeta e pensatore Francesco Petrarca. Vasta la sua produzione letteraria ma in questa occasione interessa il vero significato della parola Secretum, opera il cui titolo intero è più ampiamente: De secreto conflictu curarum mearum scritta intorno al 1347-1353.

L’opera, scritta in latino,  contiene un serrato confronto fra l’Autore e Agostino di Ippona. Il testo è ripartito  in tre libri preceduti da un Proemio .

L’edizione di riferimento, anche per la traduzione in italiano è: Francesco Petrarca, De secreto conflictu curarum mearum, in Prose, a cura di G. Martellotti e P. G. Ricci, E. Carrara, P. G. Ricci, Riccardo Ricciardi editore, Milano-Napoli, 1955.

Esiste una bibliografia sterminata sul Secretum quanto sulla intera opera del Petrarca. Analisi testuali, storiche, semantiche, politiche.

Ma cosa era per il Poeta il Secretum? La situazione politica non era facile e dominava il potere inquisitorio della Chiesa intenta a combattere la incombente frantumazione della dottrina cristiana in numerosi rivoli spesso in contrasto fra loro e contro la Chiesa stessa. Il mantenimento dell’unità comprime l’evoluzione filosofica e del pensiero dell’epoca facendo dominare in PENSIERO UFFICIALE, come sta accadendo nei tempi correnti con il bispensiero imposto da una rissosa minoranza neomaccartista antifa dem buonista globalista: una sorta di neochiesa tecnotronica.

Scegliere un interlocutore dello spessore di  Agostino è una scelta prudenziale che tiene a bada i mastini del rigore dottrinale prevalente.

L’opera è volutamente scritta in latino perché la ,massima diffusione non sono l’obiettivo del sommo Autore. Il linguaggio e la sintassi sono raffinati e volutamente difficoltosi per aggirare la occhiuta censura suprema.

Di questa opera, considerata minore, è stata fatta una attentissima lettura stilistica, retorica, contenutistica.

Tuttavia, l’analisi semantica, storica, linguistica della parola secretum non rivela le intenzioni del poeta.

Qualche autore ha avanzato ipotesi diverse, in considerazione delle numerose idee che circolavano al tempo. Un fervore non solo culturale ma anche di ricerca di significati interiori e spirituali profondamente eterodossi rispetto alla vulgata dominante.

Le idee girano, si moltiplicano, si integrano. Il pensiero “altro” consolida le sue basi con il contributo di altri pensatori dell’epoca, ma tutto circola in forma involuta, retoricamente barocca e immaginifica…

Oggi sarà ancora più necessario riconsiderare quelle valutazioni fuori dal coro, quelle rappresentazioni letterarie articolate da un pensiero formale coltissimo ma di facciata e scavare, scavare in profondità.

Se la ricerca è metodica, lenta e incessante, sapremo capire cosa veramente voleva dire il Petrarca con la parola Secretum. 

Si tratta di una ricerca per pochi, perché scavare, indagare, dedurre, riflettere, disboscare, sintetizzare, non è impresa comune e richiede una non comune apertura mentale. 

Intelligenti pauca …

 

IN EVIDENZA

Il Tranquillo Ritorno Del Feudalesimo

theamericanconservative.com

Pochi organi politici hanno annunciato il riallineamento in corso della nostra politica rispetto al Reddito di Base Universale. Il fatto che i suoi fautori e detrattori non riescano a concordare su cosa l’UBI (Universal Basic Income) sia destinato ad essere, è semplicemente una misura di quell’annuncio.

Prendi la Spagna. Il governo di estrema sinistra del paese fu uno dei primi fan dell’UBI, e quando si occupò della disoccupazione causata dai blocchi per implementarne una sua versione, le misure furono derise con la definizione sarcastica di la paguita – spagnolo per paghetta. L’analogia fu rapidamente censurata come xenofoba – un potenziale segnale di attrazione per i migranti illegali ritenuti una falsa risorsa – o più creativamente ancora, come aporofobia un neologismo  made in Spain per indicare avversione verso i poveri.

Eppure erano i neolaureati, non gli stranieri clandestini né i poveri, quelli che preoccupavano, perché sarebbero diventati gli utenti della paguita UBI, come fosse un sussidio di disoccupazione. Gli scettici dell’UBI temono questo più di ogni potenziale scappatoia per i migranti o per i fannulloni: in particolare, che allontani ulteriormente i giovani molto qualificati dalle esigenze del mercato del lavoro, indirizzandoli invece verso “attività più creative” di dubbio interesse sociale, trasformando così le classi medio-basse autosufficienti nei loro sostenitori politici.

La dissonanza su chi esattamente UBI dovrebbe aiutare è estremamente rivelatrice. La politica dell’UBI fu inizialmente progettata nella Silicon Valley per rendere l’automazione indolore, ma i liberali su entrambe le sponde dell’Atlantico hanno salutato favorevolmente la sicurezza che fornisce contro le interruzioni del mercato del lavoro. La resa dei conti con la necessità di una rete di sicurezza più ampia è in realtà molto diffusa, ma il benessere non condizionato che UBI avrebbe potuto concedere ai millennials qualificati rimane un no-go che attraversa gran parte del diritto. Abbracciando l’UBI, la sinistra sembra aver fatto pace con la nostra deriva tecnologica, allontanandosi dall’autosufficienza e procedendo invece verso una dipendenza generalizzata. Ma la creazione di una classe dipendente dal presunto “migliore e più brillante” è ancora considerata un’idea profondamente perversa di destra.

Questo riallineamento intorno al lavoro e al benessere non è che un esempio di ciò che Joel Kotkin descrive nel suo ultimo libro Il ritorno del Neo-Feudalesimo, l’oscura sostituzione del capitalismo liberale – una miscela di opportunità economiche, pluralismo e potere politico diffuso – con un nuovo regime dominato dagli oligarchi tecnologici, abilitato dai loro sostenitori nella cosiddetta “intellighenzia progressista” e finora accettato dalla maggior parte dell’opinione pubblica. L’idea che una classe di signori della tecnologia si stia infiltrando nelle istituzioni liberali sembrerà inverosimile per la maggior parte dei lettori di Kotkin, ma questo è solo perché le nostre connotazioni di “feudalesimo” soffrono di pregiudizi recenti. Questa parolaccia spesso richiama alla mente la Francia pre-rivoluzionaria, dove una nobiltà monarchica e un clero conservatore si unirono per preservare i loro privilegi, fino alle spade del 1789.

Questa tarda forma di feudalesimo è mostrata nella scelta della copertina di Kotkin. Un’incisione che raffigura un nobile e un prete in groppa a un contadino, stampata due mesi prima dell’assalto alla Bastiglia. Ma ciò da cui il libro mette in guardia è il feudalesimo in una fase embrionale, in cui gli interessi della nobiltà e del clero non avrebbero potuto non coincidere e dove la sottomissione del terzo stato era ancora inconsapevole. Allo stesso modo, ci sono voluti secoli dopo la caduta di Roma perché il feudalesimo medievale prendesse completamente forma, con la Chiesa che praticava un controllo sul potere dei re,  prima di diventare il loro alleato geopolitico, e i servi che lavoravano duramente nelle tenute rurali della nobiltà post-romana, a malapena consapevoli della loro condizione di schiavi. Allora come ora, Kotkin sostiene che la nostra feudalizzazione è lenta ma costante, con sempre più potere concentrato in poche mani. Kotkin è meglio conosciuto come urbanista che come storico.

Gli amministratori delegati della Big Tech e l’”intellighenzia progressista” formano una coalizione improbabile, il potere aziendale è un classico cruccio progressista. E che dire dei signori della tecnologia odierni, che li rendono più appetibili dei banchieri e degli oligopolisti che hanno rimpiazzato? Il trend e il risveglio del capitalismo hanno sicuramente un ruolo, ma il loro appello primario rivolto alla società in generale è, secondo Kotkin, tecnico, fondato sul valore crescente che la nostra economia attribuisce all’abilità tecnologica.

Più che una tecnocrazia, si tratta di un cricchetto tecnocratico: i tecnici hanno le chiavi di un’economia che hanno introdotto e continuano a rendere più complessa. Gli opinion maker progressisti hanno largamente accettato la concentrazione del know-how produttivo in poche mani, sebbene i meno abbienti siano esclusi dai percorsi per acquisirlo.

Peggio ancora, i benefici sociali derivanti dall’innovazione tecnologica raccolti da tutti, continuano però a diminuire, laddove l’innovazione era un tempo interessata alla produttività, ai trasporti o all’edilizia abitativa, il suo legame con il miglioramento degli standard di vita è stato pressoché spezzato dalla propaganda sociale sui social media e dall’intelligenza artificiale.

In cima all’ordine neo-feudale si trovano questi due potenti blocchi, e la perturbazione economica che la loro alleanza preannuncia è di ampia portata, non si limita ad una singola serie di politiche vincenti per le aziende tecnologiche.

Anche se le loro pratiche di evasione fiscale o di avida raccolta di dati sono frenate da tasse digitali transnazionali e da ambiziose regole sulla privacy, per le grandi tecnologie queste ammonteranno a poco più di un pollice sul margine, semplici dossi sulla strada verso il neo-feudalesimo. Per definire i contorni del nuovo ordine economico, Kotkin propone invece di dimensionare i grandi principi del capitalismo liberale in fase di erosione. Ciò inizia con la proprietà, la scala attraverso la quale una maggioranza potrebbe una buona volta agevolare la prosperità della classe media, ma che viene stroncata quotidianamente davanti ai nostri occhi.

Questa crisi di proprietà è alla base del mantra che “i giovani di oggi sono la prima generazione ad affrontare prospettive più deboli dei loro genitori”, confermato in infiniti sondaggi. Una coppia sposata di laureati di prima generazione oggi fatica a comprare una casa anche all’età dei loro genitori non istruiti, ritardando efficacemente il tempo in cui entrambe le generazioni hanno lavorato così duramente per inseguire la mobilità sociale. Anche se rimane l’unico vero trampolino di lancio per l’accumulo di ricchezza, la proprietà della casa è sempre più monopolio di coloro che sono fortunati ad ereditarla, monopolio che inclina ulteriormente il campo di gioco sempre più accidentato, fino dalla nascita. E tutto ciò riguarda ciò che Kotkin chiama la moderna “yeomanry” di professionisti finanziariamente insicuri ma accreditati. Ancora più cupe sono le prospettive del servo neo-feudale, in quel mondo infernale di lavori scarsamente qualificati del precariato di servizio. Privi di competenze tecniche, questi neo-servi vivono di stipendio in  stipendio, in quello che l’ex Segretario del Lavoro Robert Reich una volta ha definito il “condividere l’economia degli scarti”- un gioco di parole sulla “sharing economy”- senza il soffio di alcuna reale opportunità economica.

Ma proprio come i servi medievali si sentivano legati al sistema feudale attraverso la speranza cristiana della redenzione, così il nostro ordine neo-feudale è tenuto insieme dalle relazioni economiche, dai valori culturali evangelizzati dalla intellighenzia, che guarda verso il basso. L’etica sociale di un tempo era quella del dinamismo, della distruzione creativa e opportunità diffuse per tutti, che, se sinceramente abbracciati da coloro che erano al vertice, davano all’intero sistema un sostegno di legittimità. Per la classe dirigente che deteneva le redini, vivere questi valori e guidare con l’esempio ha rafforzato la loro posizione in vetta al sistema: creare posti di lavoro significava sostenere i mezzi di sussistenza della classe media, rinunciare al benessere delle imprese e accettare i diktat di applicazione delle norme antitrust secondo le regole.

I valori alla base del neo-feudalesimo di oggi, piuttosto che consentire alle élite di rinnovarsi  attraverso la competizione e il merito, servono a trincerarsi dietro ai privilegi, che ci bloccano.
Il pluralismo nel discorso online è in declino e ogni discorso sulla limitazione del potere dei giganti della tecnologia viene diffamato come eresia antitrust, sancendo efficacemente il loro monopolio naturale sullo spazio digitale. Per quanto riguarda la filantropia, i signori della tecnologia oggi vedono davvero la loro sorte come la più generosa della società, ma le loro strategie di fondo non cercano più di allineare lo status al merito, ma di riformare completamente la nostra economia politica normalizzando la dipendenza. L’UBI sta alla filantropia come liberare il pesce sta all’educazione alla pesca.

Ogni volta che un’opportunità economica viene invocata dagli alleati della grande tecnologia nell’intellighenzia, è più spesso nel discorso di identità politica, che derivano le prescrizioni che non riescono a creare, ricorrendo invece a spingere le minoranze etniche tra i ranghi della tecnocrazia. Invece di ampliare l’accesso ad un’istruzione di alta qualità, alla formazione professionale o alla proprietà urbana, il canto della sirena dell’identitarismo richiede quote numeriche e azioni positive.

Semmai, le opportunità economiche potrebbero perdere ancora più terreno se gli shibboleth promossi dall’alto vengono perseguiti alla lettera, nella misura in cui comportano ulteriori sanzioni per i meno fortunati, ad esempio attraverso l’ambientalismo o il multiculturalismo. Ed è qui che rientrano in scena politiche come l’UBI: il loro obiettivo è rendere la mancanza di opportunità economiche meno dolorosa e politicamente costosa, non di invertire la nostra direzione di viaggio verso il neo-feudalesimo. Evangelizzati con lo zolfo della religione, questi valori stanno inaugurando un nuovo regime, rispetto a quello che Kotkin chiama “socialismo oligarchico”, con un lavoro produttivo sempre più conquista di pochi fortunati, mentre tutti sono lasciati a lottare per gli avanzi, ma anestetizzati dalla pietà progressista .

L’allarme che suona Kotkin è tanto più coraggioso e credibile, proveniente da un progressista della vecchia scuola come lui, e mostra che il riallineamento della sinistra attorno agli interessi degli oligarchi tecnologici e al vangelo del wokeismo non passerà senza respingimenti interni.

Kotkin ha persino guadagnato un pubblico a destra: il libro è pubblicato da Encounter. Se il suo avvertimento per la classe media globale deve essere ascoltato ampiamente, avrà bisogno di tutto il sostegno che può ottenere dai conservatori, che stanno subendo un riallineamento del tipo che Kotkin sostiene per la propria parte.

Il che richiama alla mente le inquietanti parole dell’abbé Sieyès nel 1789: “Che cos’è il Terzo Stato? Tutto. Cos’è stato nell’attuale ordine politico? Nulla. Cosa desidera essere? Qualcosa!”

 

Jorge González-Gallarza Hernández ( @JorgeGGallarza ) è ricercatore senior presso la Fundación Civismo .

15.07.2020

Linkhttps://www.theamericanconservative.com/articles/the-quiet-return-of-feudalism/

FONTE:https://comedonchisciotte.org/il-tranquillo-ritorno-del-feudalesimo/

 

Rispunta Draghi, e brucia un’altra cattedrale in Francia

Tanti anni fa, Guido Ceronetti scrisse che in fondo al cuore malato di ogni piromane c’è sempre un impulso irrefrenabile e sacrilego, forse neppure consapevole, nel fare strage dell’ancestrale sacralità del bosco, a lungo venerato come antica dimora delle divinità. Nel medioevo furono i maestri massoni, dall’alto delle loro conoscenze vitruviane e pitagoriche, a erigere spettacolari cattedrali dominate da imponenti colonnati, vere e proprie “foreste di pietra” che ricordano da vicino la maestà dei grandi alberi. Lo sottolinea Michele Giovagnoli, nel saggio “La messa è finita” (UnoEditori): dopo aver sterminato gli alberi secolari, il culto romano sostituì il bosco naturale con quello artificiale, urbano e marmoreo. Giovagnoli cita il Concilio di Nantes, che si svolse attorno all’anno 890, quando le campagne europee brulicavano ancora di ferventi pagani: all’epoca, scrive l’autore, l’albero millenario – meta di pellegrinaggio – era venerato come un’entità divina. Per questo, la Chiesa medievale dispose che le grandi querce venissero abbattute, eradicate, fatte a pezzi e infine bruciate: un rogo rituale, come quello destinato agli eretici. Fa notizia, oggi, l’incendio che il 18 luglio ha devastato proprio la cattedrale di Nantes, irrequieta città storicamente incline a essere associata alla Bretagna, più che alla Francia.

E’ il secondo incendio, nel giro di un anno, che colpisce una cattedrale francese: il 15 aprile 2019 andò in fumo il tetto di Notre Dame de Paris, monumento-simbolo della capitale e grandiosa chiesa di origine templare consacrata alla Maddalena, patrona Nantes cattedraledella Francia, paese che ancora oggi coltiva la memoria leggendaria del presunto sbarco in Camargue, a Sainte-Marie-de-la-Mer, delle “Marie venute dal mare”, dopo i fatti di Gerusalemme, a diffondere il cristianesimo in Europa. Una missione che si vuole propiziata dal misterioso Giuseppe d’Arimatea, il potente armatore che secondo la tradizione evangelica riscattò da Pilato le spoglie del Nazzareno dopo la crocifissione. Un evento su cui in tanti hanno ricamato storie, fino al “Codice da Vinci” di Dan Brown, ipotizzando una discendenza terrena di Jeoshua-Gesù. Il templarismo, che sognava una sorta di unità europea ante litteram basata sul superamento delle frontiere, custodiva probabilmente il ricordo della primissima Chiesa cristiana, quella di Giacomo, lungo la rotta del “campo di stelle” (Compostela), un tratto di Via Lattea destinato a unire idealmente Gerusalemme a Roma. Sulle rive del Tevere, invece, in capo a tre secoli si sarebbe poi insediato il potere cattolico, per volere dell’imperatore Costantino: una solidissima burocrazia religiosa basata sull’alleanza – storicamente infondata – degli apostoli Pietro e Paolo, quelli a cui è dedicata la cattedrale di Nantes ora colpita dalla furia incendiaria.

Era l’8 aprile 2020 quando prese fuoco, a Città della Pieve, il tetto della dimora umbra di Mario Draghi: dell’ex presidente della Bce si parlava con insistenza, come possibile successore di Giuseppe Conte. A fine marzo, con una clamorosa lettera pubblicata dal “Financial Times”, Draghi aveva annunciato una svolta copernicana per uscire dalla crisi economica prodotta dall’austerity europea e aggravata dal lockdown imposto in occasione del coronavirus. La sua ricetta: emissione illimitata di moneta, per soccorrere Stati, aziende e famiglie con aiuti immediati e a fondo perduto. In passato artefice di primissimo piano dell’euro-sistema basato sul rigore finanziario, Draghi ha compiuto un dietrofront inaudito, richiamandosi al New Deal di Roosevelt e alla lezione di Keynes basata sull’intervento diretto dello Stato nell’economia. Afferma Gioele Magaldi, autore del saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014): già distintosi tra i massimi leader del fronte massonico reazionario, protagonista del neo-feudalesimo europeo basato sull’austerity, Draghi ha abbandonato i circuiti massonici “neoaristocratici” per essere accolto nei ranghi della massoneria sovranazionale “progressista”, che predica la fine dell’attuale governance Ue dominata da Mario Draghioligarchie finanziarie neoliberiste e post-democratiche. Si tratta di un network massonico sovranazionale che, secondo Magaldi, è lo sponsor occulto del nuovo superpotere globale cinese, vero protagonista dell’evento-Covid interpretato come laboratorio anche sociale, fondato sulla sospensione delle libertà occidentali.

Sui giornali, lo stesso Draghi è tornato il 10 luglio scorso, quando Papa Francesco lo ha nominato tra i membri eccellenti della prestigiosa Pontificia Accademia delle Scienze Sociali: un “endorsement” decisamente vistoso, che sembra preludere a un imminente ingresso di Draghi alla guida dell’Italia. Evento che pare confermato dai recenti, reclamizzati colloqui con politici italiani, tra cui lo stesso Di Maio, proprio mentre Giuseppe Conte (vicinissimo all’Oltretevere) annaspa ancora nella palude di Bruxelles, senza riuscire a portare a casa alcun risultato utile a risollevare l’economia nazionale, ormai in stato di drammatica emergenza. Segnali incrociati: luce verde a Draghi, che in ultima analisi punterebbe al Quirinale dopo Mattarella, e fuoco doloso – ancora – ad accompagnare, in qualche modo, il ritorno sulla scena pubblica dell’ex banchiere centrale europeo? E’ forse un oscuro messaggio indirizzato al Vaticano, il rogo della cattedrale consacrata a Pietro e Paolo in un paese come la Francia, oggi retto dall’oligarca Macron, già banchiere della scuderia Rothschild? Semplici coincidenze, curiose analogie o precise suggestioni cifrate? Solo due anni fa, Bergoglio accolse Macron in Vaticano con tutti gli onori, proprio mentre il Bergogliopresidente francese conduceva un durissimo attacco contro il governo italiano, allora “gialloverde”, col pretesto della politica contro i migranti (a cui però la Francia, per prima, aveva chiuso le frontiere).

Negli ultimi anni, sempre la Francia è stata al centro di eventi oscuri come l’opaco “neoterrorismo” targato Isis, dalla strage di Charlie Hebdo (gennaio 2015) alla carneficina di Nizza (14 luglio 2016), passando per la mattanza del Bataclan. Identico il copione: il terrorista spara sulla folla – mai sui simboli del potere – per poi essere ucciso dalle forze di sicurezza, prima di poter essere interrogato.

Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Revoluzione, 2016) il simbologo Gianfranco Carpeoro ha svelato la precisa simbologia – non islamica, ma massonica – dietro a quei sanguinosi attentati europei, imputati a una torbida “sovragestione” favorita da settori dell’intelligence, come quelli risultati coinvolti nel fornire le armi al commando di Charlie Hebdo (da cui la decisione del governo francese di “tombare” le indagini sul caso, apponendo il segreto di Stato).

Oggi, l’Europa vive un momento decisivo: l’Italia, allo stremo, chiede soccorso all’Ue degli oligarchi ma rimedia l’ennesimo rifiuto, con l’alibi dell’intransigenza olandese. Nel frattempo, Mario Draghi si scalda in panchina, anche col placet del Papa. E pochi giorni dopo va a fuoco la cattedrale di Nantes. Il rogo è doloso: gli inquirenti hanno rinvenuto tre inneschi.

Dal canto suo, Magaldi annuncia: sono in vista rivolgimenti epocali, nel mondo massonico fino a ieri dominato dall’ala reazionaria, fautrice del rigore. C’è dunque un nesso, con gli incendi? Nel paese più amato dai neo-terroristi, c’è chi fa sapere di non gradire l’ipotetica svolta che si preparerebbe?

Schedatura Google per quelli che non la pensano come la rete Lgbt

Da Pillon a Sgarbi, da Feltri alla Meloni

Schedatura Google per quelli che non la pensano come la rete Lgbt. Da Pillon a Sgarbi, da Feltri alla Meloni

domenica 19 luglio 17:31 – di Redazione

 

Basta essere contro l’utero in affitto, o dire di credere ancora nella famiglia tradizionale. Basta criticare le adozioni gay. O dire che i termini madre e padre non possono essere cancellati con un colpo di penna. E arriva il bollino rosso su internet. Come? Esiste una estensione di Google Chrome che si occupa di segnalare in rosso nomi e pagine di utenti ritenuti colpevoli di omofobia. In pratica una lista di proscrizione prima che entri in vigore la legge Zan. Si chiama Shinigami Eyes e così viene definito: “un componente aggiuntivo del browser che evidenzia pagine e utenti di social network transfobici e trans-friendly con colori diversi”. Il colore rosso indica omofobia, il verde indica siti e persone trans-friendly. Bollati col rosso politici come Matteo Salvini e Giorgia Meloni o come l’ex ministro della Famiglia Lorenzo Fontana. E testate non allineate come La Verità e Libero. E ancora Vittorio Sgarbi e Vittorio Feltri, Mario Giordano e Paolo Del Debbio.

Pillon: stigma sociale come con gli ebrei

“Ovviamente io sono in cima alla lista – commenta il leghista pro-family Simone Pillon – con un bel rosso carminio che spicca in ogni mia pagina o contenuto. Mi consola essere in buona compagnia, con tanti amici della Lega, tutti i ragazzi e le ragazze del family day e perfino qualche femminista ritenuta TERF (cioè contraria a riconoscere i trans come femmine). Questa storia mi ricorda, sia pur con un ben diverso livello di violenza, quella di un pazzo criminale che costrinse i figli d’Israele a cucirsi una stella gialla sul petto. Si comincia così, puntando il dito e marcando con un colore diverso per evidenziare lo stigma sociale. Sappiamo come finisce. Tutto questo accade oggi, mentre la legge zanscalfarotto-boldrini ancora non è in vigore. Immaginate domani…”.

Terragni: tutto ciò mi ricorda la lettera scarlatta

Anche la giornalista di sinistra Marina Terragni, incappata nel bollino rosso perché contraria alla legge Zan contro la omotransfobia, è scandalizzata dalla schedatura delle idee e titola il suo commento su Fb “La lettera scarlatta”, in riferimento al romanzo di Hawthorne: “C’è una estensione di google – scrive Terragni – già scaricata da più di 20000 persone, che fa comparire in rosso i nomi delle-gli utenti di Facebook bollati come Terf (Femministe Radicali Trans Escludenti, a loro dire): così viene definita-o chi pensa che l’utero in affitto sia una abominio, chi ritiene che la prostituzione non sia un lavoro come un altro, chi lotta contro la somministrazione di ormoni a bambine e bambini dal comportamento non conforme, chi si oppone al cosiddetto self-id: la libera determinazione del genere a cui appartenere senza alcun atto pubblico.  A che cosa serve segnalarci? Che uso si intende fare di questa segnalazione?”.
FONTE:https://www.secoloditalia.it/2020/07/schedatura-per-i-presunti-omofobi-su-google-idee-marchiate-a-fuoco/

 

Per gli idioti, la pandemia colpisce solo gli scettici sovranisti

Hanno trasformato la pandemia in pantomima. Una tragedia mutata in pagliacciata globale. Dunque, lo schema della fiaba con intenti moralistici e punitivi è il seguente. La pandemia nata in Cina, cresciuta in Asia, infuria nel mondo ma ci sono tre nazioni carogne guidate da tre canaglie che sono paladini, impresari e veicoli della pandemia. I tre porcellini in questione si chiamano Donald Trump, Boris Johnson e Jair Bolsonaro, e guarda caso sono tutti “sovranisti”, conservatori o nazional-populisti. Una mezza scomunica arriva pure all’India dove c’è un mezzo nazionalista, Narendra Modi. E una velenosa maledizione scende sulla Russia del Maledetto Zarista-sovranista Vladmir Putin. Il Covid ha una sua morale progressista, secondo i media, punisce chi dubita della sua virulenza ed è sovranista. Fa eccezione la Svezia dove un governo socialdemocratico ha usato la linea aperta sul Covid ma per questi non vale la punizione divina né l’allarme sui dati. Sugli altri paesi si dice poco e niente, le stragi del Covid in Africa, in Asia o nei Caraibi vengono dimenticate, i contagi tra i migranti passano in sordina, e comunque mai col tono usato per i Tre Porcellini, che è riassunto nell’espressione “ben ti sta”, “te lo sei cercato”.

Se Johnson o Bolsonaro risultano positivi al virus è un peana euforico degli umanitari, un inno progressista al Covid, un’ola di liberazione che fa il tifo per la Bestia, che in questo caso è il virus, anche se per loro la Vera bestia è la sua vittima sovranità. È Venezianiinutile dire che la traduzione dei Tre Porcellini in Italia è Prosciutto & Meloni, ove per Prosciutto s’intende Salvini-Suini e per Meloni s’intende Giorgia regina de’ Coatti. Avvertenza d’obbligo, anche se più volte espressa: nessuna simpatia per Trump e Bolsonaro (un po’ per Johnson), antipatia per i loro nemici e competitori. Ogni giorno, a partire da quella cloaca grillo-contina che è il Tg1, lo schema è sempre lo stesso: i Buoni sono la Cina e la Contea d’Italia da cui arrivano notizie radiose e profilassi efficaci, mentre i cattivi sono gli Usa, il Brasile, la Russia, ecc., da cui arrivano sempre notizie sinistre condite da errori colossali dei leader. L’impressione che lasciano ai cittadini italiani è che quei paesi stiano toccando vertici pazzeschi di contagio e di vittime e siano esposti al male per una scelta ideologica folle prima che sanitaria: sono stati liberisti con il virus, hanno lasciato proseguire l’economia, hanno lasciato a piede libero le popolazioni, dunque vanno puniti e intubati.

Allora vorrei fare una piccola riflessione che non è un pensiero profondo ma un calcolo elementare e banale di quelli che si fanno sui libri delle scuole elementari. Dunque, prendiamo la tabella delle vittime e paragoniamo. Il Brasile, che dai nostri media sembra il paese più devastato, ha attualmente 66mila morti. La popolazione brasiliana è composta di 209 milioni di persone, cioè tre volte e mezzo circa l’Italia. In Italia sono morte circa 36mila persone su 60 milioni: la percentuale di vittime da noi è decisamente più alta, almeno finora. Ma la nostra percentuale è più alta persino degli Stati Uniti, se si considera che gli Usa hanno una popolazione cinque volte superiore all’Italia e hanno 130mila morti. In percentuale, l’Italia ha lo 0,60, gli Modi con PutinUsa lo 0,43, il Brasile lo 0,33 di deceduti rispetto alle popolazioni. Ancora: la malefica, devastata Russia ha “solo” 11mila morti su una popolazione di 150 milioni. Nell’India sotto Covid i morti sono 15mila, su un miliardo e quattrocento milioni d’abitanti…

Facile e giusta l’obiezione: ci sono paesi in cui i morti non si contano, almeno non in relazione al Covid. Certo, vale per il Brasile come per la Russia e l’India, ma come per la Cina, che dichiara un numero di morti inattendibile rispetto alla realtà, e Cuba e tanti altri paesi del Terzo Mondo, per non dire dell’Africa. Dai dati ufficiali risulta che il nostro paese è stato tra i più colpiti al mondo, nonostante il lockdown e le vanterie governative. E ha, non mi stancherò di ripeterlo, una percentuale altissima di deceduti nel rapporto tra contagiati e morti. Nel mondo, tuttora, siamo con gli inglesi ai vertici della classifica. Dipenderà dai tamponi praticati, o come dicono alcuni ridicoli fintopatrioti, dipende dal fatto che noi abbiamo dichiarato i dati veri, perché noi siamo notoriamente onesti, universalmente noti come i più onesti al mondo, mentre tutti gli altri no… A parte che non è vero, anche da noi sia i contagiati che le vittime in Lombardia erano in realtà molte di più; non c’è dunque una spiegazione razionale, o almeno ragionevole, alla tesi che nelle classifiche mondiali di contagiati e deceduti noi soli avremmo dato i numeri veri e perciò risultiamo quelli dove ci sono più morti in relazione al numero dei contagiati.

Tutto questo non ci porta a capovolgere la pantomima dei media ma a ripristinare perlomeno la verità: non possiamo reputarci meno colpiti dei brasiliani, degli statunitensi, dei russi, degli indiani e di chi volete voi. Siamo nelle stesse condizioni, anche se in tempi diversi e nonostante le profilassi diverse. Sul piano delle responsabilità bisogna certo rimarcare i ritardi, le sottovalutazioni, gli errori, e poi i falsi ottimisti, perniciosi quanto i catastrofisti e i terroristi sanitari. Ma evitiamo per favore Trump Bolsonaro e Johnsondi dare una lettura politica, ideologica o addirittura elettorale (vedi Trump) alla pandemia. Altrimenti stabiliamo pure un nesso tra il Covid è le repressioni cinesi a Hong Kong (su cui tacciono tutti in Italia, e il ministro degli esteri Di Maio evidentemente crede che la Cina stia combattendo eroicamente contro King Kong).

Non dimentichiamo che i paesi in questione sono stati i destinatari incolpevoli del virus e il mittente colposo, almeno così possiamo chiamarlo, è la Repubblica Popolare Cinese; e se non vogliamo tirare ancora in ballo la questione dei laboratori e dei ritardi e omertà nel dare notizia del virus, dobbiamo almeno dire che le abitudini alimentari cinesi sono ancora pericolosamente incuranti dei rischi provenienti da alcune carni e alcuni animali. Perché se tutto si riduce alla fatua, manichea, puerile distinzione politica, allora dite pure che i sovranisti sono stati attaccati dal morbo, ma aggiungete che a veicolarlo nel mondo è stato la Cina comunista, che sta usando tutte le armi, dal virus al 5G, per conquistare l’egemonia planetaria. Agli idioti in malafede si parla nel loro lessico e si usano le loro stesse equazioni.

(Marcello Veneziani, “La pandemia colpisce gli scettici e i sovranisti”, da “La Verità” del 10 luglio 2020).

FONTE:https://www.libreidee.org/2020/07/per-gli-idioti-la-pandemia-colpisce-solo-gli-scettici-sovranisti/
Rutte libero
UFFICIO E PRANZI CON LA SORELLA: LA VITA PRIVATA DEL PRIMO MINISTRO OLANDESE È TALMENTE MISTERIOSA DA FAR PENSARE AI SUOI CONCITTADINI CHE… – IL SIGNOR NO CHE L’HA GIURATA ALL’ITALIA HA DATO ALL’OLANDA UN PESO SPECIFICO SUL PALCOSCENICO EUROPEO BEN SUPERIORE ALLE SUE EFFETTIVE DIMENSIONI. LA SUA FORZA POLITICA DERIVA DA…

Rutte libero. La vita privata del primo ministro olandese è talmente misteriosa da far pensare ai suoi concittadini che non esista. Il suo è apparentemente un mondo dai confini stretti, che si risolve tra l’ ufficio presidenziale nel cuore de L’ Aia e una sorella, con la quale a volte si concede un sobrio pranzo domenicale.

Pianista mancato, il signor No che vuole controllare le nostre spese in un decennio da primo ministro ha donato all’Olanda un peso specifico sul palcoscenico europeo ben superiore alle effettive dimensioni del suo Paese.

La forza politica di Rutte in Europa deriva dalla vittoria con brivido del 2017, quando è riuscito a battere Geert Wilders salvando l’ Olanda da un premier che avrebbe portato L’ Aia fuori dall’ Unione insieme a Londra.

La sua fu la vittoria che galvanizzò Emmanuel Macron…

FONTE:https://m.dagospia.com/rutte-libero-la-vita-privata-del-primo-ministro-olandese-e-talmente-misteriosa-da-far-pensare-che-242512

 

 

 

ARTE MUSICA TEATRO CINEMA

Il club delle baby-sitter: come t’indottrino i ragazzi

The Baby-Sitters club è una nuova serie Netflix per adolescenti che vede come protagoniste alcune ragazze organizzate in un club di lavoro per baby- sitter.

Ovviamente, per omaggiare il gender diktat attuale, dobbiamo per forza aspettarci qualche elemento LGBT dalla serie, ovvero l’inserimento di qualche personaggio gay o trans, o di una tematica affine.

Infatti, nella quarta puntata vediamo proprio una di queste ragazze, Mary Anne, alle prese con un bambino transgender, Bailey, che in apparenza sembra una femminuccia, ma in realtà è biologicamente un maschio.

Per cercare di avere un po’ di chiarezza, Mary Anne decide di confrontarsi con una sua amica, Dawn, il cui padre è gay.

L’illuminante colloquio colpisce nel segno.

«Sei destrimane o mancina?», chiede Dawn. «La prima», replica Mary Anne. «E se qualcuno provasse a farti fare tutto con la mano sinistra, ti sembrerebbe davvero strano, non è vero? Beh, è così che si sente Bailey. Così come tu sai di essere destrimane, lui sa di essere una ragazza. Tutti vogliamo che il nostro lato esterno corrisponda a quello interiore».

Verso la fine della puntata, Mary Anne porterà Bailey in ospedale e correggerà i medici che lo trattavano come un maschio, dicendo che in realtà Bailey è una femmina.

Per dare però un tocco maggiore di realismo, l’attore che interpreta il piccolo Bailey è Kai Shappley, un bambino di nove anni che realmente “sente” di essere una bambina, secondo quanto riportato anche dalla madre (“Avevo quattro figli maschi, finché uno di loro mi ha detto che in realtà era una femmina“).

Il tentativo di propaganda indirizzato ai minori in questa serie è qualcosa di assolutamente mostruoso: come si può trattare la questione paragonandola al mancinismo o all’essere destrimane?

La serie presenta il caso di un bambino che si veste da bambina e che quindi oggettivamente deve essere considerato una femmina, senza però parlare del fatto che più del 90 % dei ragazzi che presentano questi atteggiamenti di confusione del proprio sesso biologico, con il passare del tempo, risolvono tutto in maniera naturale, senza bisogno di interventi di “cambio di sesso” .

I bloccanti della pubertà, gli ormoni dati ai bambini per “dare loro tempo” di decidere, hanno effetti fisici e psicologici gravissimi. Questo però la serie si guarda bene dal dirlo.

FONTE:https://www.osservatoriogender.it/il-club-delle-baby-sitter-come-tindottrino-i-ragazzi/

 

 

 

I drag kid: nuova tratta dei minori

Gli anni più belli è tornato nelle sale e si classifica in prima posizione tra gli incassi della settimana.

– Ultimo aggiornamento: 20 Luglio 2020 10:23 – Tempo di lettura: < 1 minuto 

Box Office - Gli anni più belli - cinematographe.it

Gli anni più belli di Gabriele Muccino è il film italiano che ha incassato di più al Box Office nella settimana dal 13 al 19 luglio 2020, seguito da La Dea Fortuna di Ferzan Ozpetek

Il grande cinema italiano di qualche mese fa domina la classifica al Box Office questa settimana. In prima posizione troviamo il film diretto da Gabriele Muccino con Pierfrancesco Favino, Micaela Ramazzotti, Kim Rossi Stuart e Claudio Santamaria. Gli anni più belli, uscito al cinema con 01 Distribution il 13 febbraio e riproposto ultimamente dopo il lockdown nelle sale, ha incassato € 62.422 totalizzando 11.147 presenze: in tutto il film è a quota € 5.485.978 e 875.406.

Segue, in seconda posizione, La Dea Fortuna. Diretto da Ferzan Ozpetek, vede protagonisti Edoardo Leo e Stefano Accorsi insieme a Jasmine Trinca ed è uscito nelle sale lo scorso anno, il 19 dicembre 2019. Dopo la riapertura delle sale il film è riapparso in classifica al Box Office e continua a tenere duro questa settimana con € 9.266 e 1.624 presenze in sala. In totale la pellicola, distribuita da Warner Bros Italia S.p.a., conta oltre 8 milioni di euro di incassi, per l’esattezza € 8.208.994 con 1.206.167 di presenze.

FONTE:https://www.cinematographe.it/news/box-office/box-office-film-italiani-gli-anni-piu-belli-torna-primo/

 

 

 

ATTUALITÁ SOCIETÀ COSTUME

I drag kid: nuova tratta dei minori

Oggi c’è un nuovo traffico di minori, velato da una patina di apparenti “successi”, tour emozionanti dei bambini drag, balli nei locali, foto sui social, successo a pioggia ecc…

Mentre tutti giustamente s’indignerebbero vedendo un bambino in fabbrica, costretto a turni di lavoro massacranti, non tutti invece lo farebbero vedendo le performance di bambini di 8, 9, 10 anni travestiti e truccati da donna, che si esibiscono in locali per adulti, cantando canzoni sessualmente implicite ed impegnati in conversazioni ed atteggiamenti che non si addicono a nessuno, figuriamoci a dei bambini.

Nel caso di questi bambini, c’è un mondo intero che li osanna sui social, li segue, condivide i loro video e, cosa assai peggiore, approva quello che fanno o ancora meglio, quello che adulti privi di ogni scrupolo li spingono a fare.

Fortunatamente ci sono ancora legislatori con un po’ di sale in zucca: nell’Ohio è stata infatti presentata una proposta di legge per vietare le performance drag degli under 18.

Tim Shaffer, sostenuto da altri otto rappresentanti repubblicani, ha proposto queste pene: fino a dieci mesi di reclusione e 1000 $ di multa per i responsabili del minore e la revoca della licenza per gli alcoolici ai proprietari del locale in cui si svolge la performance.

Schaffer sostiene che questa proposta sia nata contro un’esibizione avvenuta nella contea di Fairfield qualche giorno prima. Ad esibirsi in quest’occasione c’era Jacob Measley, in arte Miss Mae Hem, drag kid di nove anni, che ha iniziato, come anche Desmond, a voler diventare drag queen dopo aver visto RuPaul’s Drag Race, lo show televisivo che vede gareggiare tra di loro drag queen professioniste.

La madre del bambino è stata denunciata per maltrattamenti ed abusi su minore per aver fatto esibire il figlio in spettacoli non appropriati alla sua età. Desmond, il primo drag kid “fondatore” di una casa di accoglienza per ragazzi come lui, ha ballato qualche mese fa in un locale di New York in cui degli uomini gli mettevano i soldi nei pantaloni.

A Queen Lactatia, un altro bambino drag kid dal Canada, hanno fatto una foto poi caricata sul suo canale instagram gestito dalla madre, in cui la Queen posa accanto ad un’altra drag queen adulta completamente nuda.

Ed in questo sito in cui è stata pubblicata la notizia, osano affermare che “non sono mancate le critiche dal mondo omofobo” per questa foto. Perché ovviamente per gli articolisti del sito è normale che un bambino di 10 anni si esibisca in locali a luci rosse, faccia sfilate, si faccia fare foto con persone nude.

Certamente, è tutto normale. La “colpa” è degli omofobi che non riescono ad accettare che “il mondo sta cambiando”.

Comprendiamo allora bene le parole del politico Schaffer che ha dichiarato:

“Data la nostra maggior attenzione verso la tratta di esseri umani ed il ruolo che il denaro gioca nel traffico di minori, sapevo che dovevo agire per essere sicuro che questa attività non si ripetesse. Possiamo e dobbiamo fare di più per proteggere i nostri bambini innocenti”.

La tratta moderna di bambini. Uno sfruttamento perverso con lo scopo di sessualizzare precocemente i bambini, sdoganare la pedofilia ed ergere questi drag kid a “modelli di vita” da seguire per gli altri bambini.

FONTE:https://www.osservatoriogender.it/i-drag-kid-nuova-tratta-dei-minori/

 

 

 

BELPAESE DA SALVARE

LETTERA APERTA AI RISTORATORI.

Per la Castelli passiamo dal COVID direttamente alla ristorazione 4.0

Qui di seguito riportiamo la lettera sottoscritta da circa 50.000 ristoratori italiani a seguito della dichiarazione del Vice ministro Castelli di ieri 19 luglio avvenuta al tg2

C.A. VICEMINISTRO ECONOMIA E FINANZE LAURA CASTELLI

“Se si sbagliano i tempi ed i modi si fa danno.
Per noi il commento del viceministro al servizio mandato in onda dal TG2 è BOCCIATO.
Non siamo più disposti a scusare, a capire o giustificare.
Siamo diventati intolleranti a questi scivoloni mediatici che mettono alla gogna mediatica un intero comparto. Ci hanno dato dei pigri, dei rivoluzionari multati e adesso anche degli incapaci. Tutti questi appellativi non appartengono alla nostra categoria che rappresenta un importante colonna economica italiana ( 12% del Pil)

I ristoratori non hanno mai chiesto clienti al governo, hanno chiesto sostenibilità per le riaperture. (Continua dopo la foto)

Molte attività, hanno riaperto con la consapevolezza di ricominciare in una situazione emergenziale, dove gli incassi non coprono i costi.
Con il coraggio e lo spirito di sacrificio che sempre contraddistingue la nostra categoria abbiano scelto di voler continuare a regalare una serranda alzata in città, di voler essere vicini ai nostri collaboratori, per sopperire ad uno stato che ha lascito nell’incertezza centinaia di migliaia di lavoratori del settore.
Nonostante tutto troviamo la positività e la dignità di non mollare e tentare di preservare occupazione e conservare la tradizione enogastronomica, elemento trainante del Made in Italy. (Continua dopo la foto)

Abbiamo chiesto aiuti concreti e sufficienti a salvaguardare le nostre attività, disposti a farci carico di ulteriori indebitamenti non voluti e non previsti che toglieranno altri anni nostra volontà di crescita, sviluppo ed innovazione. Ci siamo solo ritrovati con un pacchetto di promesse su promesse ancora non mantenute.
A tutto ciò cosa si aggiunge l’incapacità della comunicazione politica.
Mai ci saremmo aspettati una dichiarazione del vice ministro Castelli totalmente fuori focus.
Da quando è cominciata l’era dell’impresa 4.0 avete propinato alle aziende digitalizzazione, robotica, e-commerce, app tecnologiche, ecologia, monopattini,plastic- free, delivery e tanto altro, ma nulla di tutto questo rappresenta l’essenza dei principi fondamentali della ristorazione fatto di ospitalità, accoglienza e relazione.
Ci volete vedere mangiare tutti davanti al PC in smartworkig? (Continua dopo la foto)

Così siete liberi di ingabbiarci a casa e negli uffici e lasciare le città in balia del degrado e delle attività clandestine.
Senza lavoratori, senza studenti, senza turisti migliaia di alberghi, musei e pubblici esercizi a breve abbasseranno le proprie serrande per non rialzarle più.
La politica non è show ma ha la responsabilità di dire cose giuste, nel modo giusto e con le parole giuste.
Gli chef ed i ristoratori, dopo gli artisti sono la categoria più creativa che ci sia.
Caro ministro Castelli non abbiamo bisogno di aiuti per cambiare modo di fare le nostre attività.
Non si risolve il problema invitando aziende non convertibili a convertirsi in altro.
Non sforzatevi ad analizzare il mercato che cambia nella domanda ed offerta, lo sappiamo fare bene anche noi.
In questo momento non abbiamo bisogno di sentirci dire nulla di tutto questo, abbiamo bisogno che turismo e mobilità torni a vivere nelle nostre vie. Abbiamo bisogno che portiate a termine le vostre promesse poi parleremo se vorrete della RISTORAZIONE 4.0.

Cordiali Saluti,

Gianfranco Vissani con Treviso Imprese Unite, Ristoratori Milanesi, Liguria Riparte, Ristoratori Emilia Romagna, Ristoratori Toscana, Futuro Ho.re.ca Pisa, RistorItalia, Horeca Ciociaria, Associazione Commercianti per Salerno, Movimento Impresa Puglia, A.I.O.S., ARTHoB.

FONTE:https://www.ilparagone.it/senza-categoria/lettera-aperta-ai-ristoratori-per-la-castelli-passiamo-dal-covid-direttamente-alla-ristorazione-4-0/

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

Vladimir Putin “deposto con una rivolta di strada”.

Khodorkovskij, lo scenario che sconvolge la Russia e il mondo

 “La nuova Costituzione russa rimuove la possibilità di un avvicendamento legale del potere. Il che vuol dire che, quando mai ci sar un cambio di regime, avverrà con una rivoluzione”. Pensieri e parole di Mikhail Khodorkovskij, ex patron del colosso petrolifero russo Yukos, condannato a 10 anni di carcere duro in Siberia per evasione fiscale, appropriazione indebita e frode e fiero oppositore del presidente russo, Vladimir Putin. Dal 2013 vive a Londra. Khodorkovskij ha fondato Open Russia, organizzazione “non grata” in Russia ed stato uno dei sostenitori della campagna “Njet”, per bocciare il voto dell’1 luglio sulla riforma costituzionale che consentirà Putin di restare al potere almeno fino al 2036.

“Era chiaro che il Cremlino avrebbe aggiunto al conteggio finale qualsiasi numero di voti necessario. Putin si è trasformato in un presidente illegittimo e ha ufficialmente messo fine all’indipendenza della magistratura. Non sarà più obbligato a rispettare le decisioni dei tribunali internazionali. Il voto può durare più giorni e gli osservatori sono scelti tra persone selezionate dal Consiglio presidenziale“, racconta in una intervista a Repubblica.  In base a ciò, analizza Khodorkovskij, “non sara’ piu’ obbligato a rispettare le decisioni dei tribunali internazionali. Ci sono i cambiamenti introdotti dalla legge speciale sulle nuove procedure elettorali. Il primo luglio le autorità sono riuscite a ‘iniettare’ 22 milioni di voti falsi”, conclude Khodorkovskij.

FONTE:https://www.liberoquotidiano.it/news/esteri/23885108/vladimir-putin-deposto-rivolta-strada-russia-khodorkovskij.amp

 

 

Michail Borisovič Chodorkovskij

Luca Leonardo D’Agostini – 29 dicembre 2017                      RILETTURA NECESSARIA, PER PRECISARE

FONTE:http://www.madrerussia.com/michail-borisovic-chodorkovskij/

 

 

 

CULTURA

FRANCESCO PETRARCA (1304-1374)

Nasce ad Arezzo nel 1304, dove il padre, notaio fiorentino di parte bianca, si trovava in esilio. A otto anni si trasferisce con la famiglia ad Avignone (Provenza), dopo che il padre era stato chiamato a svolgere la sua professione presso la curia (nel 1305 era diventata sede papale). Per volontà paterna inizia gli studi giuridici (Montpellier e Bologna), ma al diritto preferisce letteratura e poesia.

Nel 1326, mortogli il padre, torna ad Avignone, libero di disporre della propria vita: il padre gli aveva lasciato un modesto patrimonio. Finito il quale egli deciderà di prendere gli ordini ecclesiastici minori, aspirando a varie cariche e benefici (rendita di proprietà della chiesa), al fine di assicurarsi quella indipendenza economica che gli consentisse di dedicarsi agli studi. Fino al 1343 resterà ad Avignone, prestando servizio presso la curia. Il suo interesse culturale principale sono i classici latini (Cicerone, Livio, Virgilio), i padri della chiesa (Agostino) e i poeti in volgare (rimatori provenzali, lirici stilnovisti).

Nel 1327 incontra Laura de Sade, che avrebbe voluto amare e che ricorderà e rimpiangerà per tutta la vita. Laura era già sposata e non corrispose mai all’amore del Petrarca.

A partire dal 1333, sospinto dall’ansia di nuove conoscenze umane e culturali, compie molti viaggi a Parigi, nelle Fiandre, in Germania, a Roma. A Liegi ritrova due orazioni di Cicerone, dando inizio alle scoperte umanistiche dei testi classici e dei codici antichi.

Dal 1337 al 1353 si ritira in solitudine a Valchiusa (presso Avignone), dedicandosi alla meditazione e all’attività letteraria. Nel 1340 riceve dal Senato di Roma l’incoronazione poetica per la sua elevata cultura e per le sue eleganti opere latine. Ritornato ad Avignone, resta profondamente colpito nel vedere il fratello entrare nei Certosini: anch’egli avvertiva il bisogno di vivere una esperienza spirituale più intensa, ma si sentiva incapace di compiere un passo così impegnativo.

Nel 1347 decide di recarsi a Roma per manifestare la propria ammirazione a Cola di Rienzo, proclamato tribuno del popolo, in procinto di realizzare un regime di libertà democratica. Petrarca sognava la restaurazione di una repubblica romana di grandezza pari all’antica. Egli tuttavia, saputo che la rivoluzione si stava mettendo male, preferì fermarsi a Parma. Qui ricevette la notizia che Laura era morta di peste (il 1348 fu l’anno della terribile peste in tutta Europa).

Nel 1350 stringe amicizia (coltivandola in seguito) col Boccaccio a Firenze. Nel 1353 abbandonava definitivamente la Provenza per l’Italia (otto anni a Milano presso i ghibellini Visconti, poi Padova, Venezia…fino ad Arquà, dove muore nel 1374).

IDEOLOGIA E POETICA

Petrarca non fu legato a una corte o città particolare (superamento della mentalità municipale, della partigianeria politica). Nato in esilio, vissuto all’estero (Avignone), ospitato presso signori e città diverse (per la sua chiara fama), senza mettere radici da nessuna parte, libero da preoccupazioni economiche. Fa politica senza lasciarsi coinvolgere personalmente negli avvenimenti (anche se lo è emotivamente): compone canzoni con cui ammonisce città e signori, fa da paciere in una guerra tra Genova e Venezia, scrive lettere di esortazione e consiglio a papi, imperatori, a Cola di Rienzo, ai dogi veneziani…

Per i suoi contemporanei era conosciuto come il grande erudito, capace di coordinare una vasta rete di letterati e scrittori italiani e stranieri. Le sue lettere (veri e propri saggi critici) venivano copiate e studiate. Prima di essere incoronato in Campidoglio (soprattutto per il poema Africa), chiese d’essere esaminato con pubblica solennità dal re di Napoli, Roberto d’Angiò.

Tuttavia il Petrarca non ebbe mai alcuna intenzione di rivolgersi al pubblico non intellettuale. Lo dimostra il fatto che le uniche due opere in volgare che scrisse furono il Canzoniere e i Trionfi. Tutte le altre (poema Africa, lettere, compilazioni dottrinali, trattati polemici, operette religiose e psicologiche) furono scritte in latino, e solo per queste opere egli era diventato famoso. A differenza degli scrittori del ‘200, legati all’esperienza comunale, e quindi alle esigenze dei nuovi ceti borghesi di conoscere e di educarsi usando il volgare, il Petrarca vuole parlare a una casta internazionale di intellettuali, politici, funzionari, cioè alla forza dirigente dell’Impero, della Curia avignonese, delle Signorie nascenti.

Petrarca visse in un periodo in cui al declino delle vecchie istituzioni (Chiesa e Impero) si andava aggiungendo la crisi della prima società borghese: il Comune, che stava per essere sostituita dalle Signorie, in cui il potere era detenuto da singole famiglie (o da oligarchie). Il Petrarca accetta la fine dell’istituzione comunale e lo sviluppo delle Signorie, ma in questo senso: egli vorrebbe che le Signorie, liberatesi dall’ingerenza dell’Impero e della Chiesa, si alleassero tra loro per restaurare la Repubblica della Roma antica, vista non come “culla” dell’Impero e della Chiesa, ma in sé e per sé, cioè come civiltà ricca di virtù, di eroismo, di forza morale (una civiltà alternativa a quella medievale). Il Petrarca, ammirando il mondo classico per quello che era, anticipava un atteggiamento tipico dell’Umanesimo.

Altri aspetti del suo pensiero politico: considerava l’istituzione dell’Impero adatta al mondo germanico, ritenuto primitivo e barbarico, ma non all’Italia. Nella canzone Italia mia esorta i principi e signori italiani a cacciare dal loro suolo le milizie mercenarie germaniche. Auspicava inoltre il ritorno della chiesa alla primitiva purezza evangelica (di qui la condanna del potere temporale dei papi e della corruzione avignonese. Egli era anche favorevole al ritorno della sede pontificia a Roma).

Forte è nel Petrarca l’insoddisfazione artistica, ovvero la tendenza alla perfezione. Avendo un animo sensibile e inquieto, rivede di continuo le sue opere, a volte per tutta la vita. Molte di esse non sono neppure compiute.

Questa insoddisfazione la si ritrova, a livello psicologico, nella sua opera autobiografica più significativa: Secretum. Nel 1336, salendo sul Monte Ventoso in Provenza, ebbe una specie di crisi mistica: comprese che l’amore per le cose terrene (Laura) e l’ambizione artistica (desiderio di gloria) lo allontanavano dalle cose essenziali, profonde, religiose. Nel libro Secretum egli s’immagina di parlare con s. Agostino, ammettendo la propria colpa: l’accidia (cioè lo scarso entusiasmo nella ricerca del bene), ma riconosce anche di non avere la forza per cambiare vita (come appunto s. Agostino o il fratello Gherardo, fattosi monaco).

Laura quindi viene considerata come un oggetto di tentazione, che attrae (a partire dal 1327) e che respinge (a partire dal 1336). Tuttavia, dopo il Secretum, Petrarca fa voto di castità e passa a trattare argomenti di carattere religioso, benché fino alla morte l’ascetismo non riuscirà mai a prevalere sull’ambizione.

OPERE LETTERARIE

Il Canzoniere. Consiste di 366 liriche (sonetti, canzoni…) che vanno dal 1330 circa fino alla morte del poeta. Sono poste in un ordine sia tematica che cronologico, non del tutto chiaro. Sono scritte in volgare. Lo stile è chiaro, essenziale, apparentemente semplice (il lessico è volutamente ricercato ma preciso, con esclusione dei termini troppo realistici). La forma è colta, aristocratica, melodiosa, musicale, rigorosamente uniforme: per secoli sarà il modello della lirica italiana. Petrarca si servì, fondendoli in maniera assolutamente originale, dei poeti provenzali in lingua d’OC, degli stilnovisti, dei poeti latini. Il poema è diviso in due sezioni: rime in vita e il morte di Laura. L’amore per Laura è infatti il tema dominante della raccolta, anche se l’unico vero personaggio è lo stesso Petrarca, col suo lungo soliloquio intorno a una passione esclusiva.

Motivi poetici: l’amore per Laura è idealizzato ma umano, caratterizzato da tormenti passionali, dolore per la morte di lei, malinconia del ricordo, contrasto tra amore e coscienza religiosa… Laura è una figura totalmente trasfigurata dalla sua fantasia artistica: simulacri, feticci, simbologie e nostalgie sostituiscono l’oggetto del desiderio. Laura viene considerata dal poeta come occasione per riflettere su di sé, soprattutto sul contrasto tra intelletto (che vede quel che si dovrebbe fare) e volontà (che non può o non vuol fare quello che l’intelletto vede). Petrarca infatti è combattuto fra il desiderio di una vita mistico-spirituale (qui sta la sua coscienza religiosa) e l’attaccamento alle cose terrene: l’amore per Laura, e la gloria artistica (qui sta la sua coscienza laica). Il suo dramma interiore consiste appunto nel fatto che non riesce a decidersi in maniera coerente né per un aspetto né per l’altro. Alla fine di questo “diario malinconico”, il poeta -già avanti negli anni- pensa che se Laura fosse vissuta ancora, l’amore non corrisposto si sarebbe trasformato (vinta la passione dei sensi) in una tenera amicizia reciproca.

Poesie d’ispirazione religiosa: dedicate soprattutto alla Vergine (vedi soprattutto la conclusione).

Poesie di contenuto politico: due canzoni in particolare: Spirto gentil…, con cui auspica la restaurazione dell’antica grandezza di Roma: e Italia mia…, con cui esorta i principi italiani a bandire dal loro suolo le milizie mercenarie germaniche.

Poesie anticlericali: contro la corruzione della curia di Avignone.

Poesie ispirate al sentimento dell’amicizia: vedi ad es. i sonetti dedicati al card. Giovanni Colonna.

I Trionfi. Pometto didattico-allegorico, anch’esso scritto in volgare, col metro della terzina, costituito da una serie di visioni, in analogia (a livello strutturale) alla Divina Commedia. Iniziato forse nel 1352, mai veramente finito. Diviso in 6 Trionfi che descrivono la storia simbolica delle vita umana:

nel Trionfo d’Amore il poeta sogna la figura del dio Amore su un carro di fuoco, seguito da una numerosa schiera di illustri vittime dell’amore passionale (Cesare, Enea, Achille, Dante, Virgilio…). Ad un certo punto appare al poeta Laura, che suscita nel suo animo un vivo sentimento d’amore, per cui anch’egli si unisce alla schiera che col carro giunge all’isola di Cipro, dove Amore celebra il suo Trionfo e l’uomo è sconfitto;

nel Trionfo della Pudicizia il poeta rappresenta le virtù di Laura che si oppongono vittoriosamente alla forza di Amore. Laura, insieme a Lucrezia, Penelope, Didone…, libera i prigionieri portandoli nel tempio della Pudicizia a Roma;

nel Trionfo della Morte il poeta rievoca la morte di Laura e il fatto ch’essa gli apparve in sogno, subito dopo la morte, per dirgli che l’aveva sempre amato ma che non aveva potuto manifestarlo per difendere la propria onestà e la salvezza di entrambi;

nel Trionfo della Fama il poeta elenca una lunga serie di personaggi famosi per le loro azioni valorose o per le loro opere di pensiero e poesia;

nel Trionfo del Tempo il poeta medita sulla fugacità del tempo e sulla vanità delle cose umane;

nel Trionfo dell’Eternità il poeta canta la sua fede in Dio e la sua aspirazione al valore eterno delle cose.

L’opera è artisticamente disorganica, priva di una forte ispirazione poetica. Le liriche migliori sono quelle dedicate a Laura.

Alcune opere in latino. In queste opere per la prima volta il Petrarca delinea un modo nuovo di concepire i rapporti tra civiltà greco-latina e cristiana. La prima non viene più vista in antitesi alla seconda o come semplice preparazione. La salvezza per il Petrarca viene sempre dalla fede, ma i filosofi e scrittori antichi, pur non avendo la fede, hanno dimostrato -secondo lui- un’altissima sapienza che va valorizzata in quanto tale, non in diretto rapporto alla sapienza cristiana. Anzi la sapienza del mondo antico può aiutare anche il cristiano ad approfondire la sua fede. In questo il Petrarca anticipa l’Umanesimo e il Rinascimento. Scrive in un latino più vicino a quello classico che a quello medievale.

La maggiore delle opere latine è Africa, anche se la più significativa per comprendere la personalità del poeta è Secretum. Africa è un poema epico, mai portato a definitivo compimento. Narra la fine della seconda guerra punica, cioè le eroiche imprese di Scipione l’Africano contro Annibale. È priva di vera ispirazione poetica, anche perché il poeta, essendo soprattutto un lirico, difettava di sentimento epico.

Nell’opera Sull’ignoranza sua e di molti, egli difende l’atteggiamento di chi ripone la cultura non nell’analisi psicologica di sé, ma nella conoscenza della natura (di qui le sue simpatie per le Confessioni di Agostino).

Da notare che il Petrarca fu considerato il modello inimitabile della poesia d’amore fino a Leopardi (ma alcuni critici ritengono sino al Montale).

IL PETRARCA E LE RAGIONI DI VITA

Il Petrarca è la testimonianza lampante di due cose:

  • che in una società borghese la vita individualistica, slegata dalle vicende delle masse popolari, anche se non ricerca il profitto economico, non riesce a liberarsi dall’ambizione di primeggiare in qualcosa (nel suo caso si trattava della gloria letteraria, artistica),
  • che la religione è impotente a risolvere il contrasto psicologico determinato dalla consapevolezza di vivere una vita non conforme alle esigenze di giustizia e di libertà del tempo.

Il Petrarca cioè ha cercato, vanamente, nella religione (seppur non in maniera totalizzante) la risposta sia all’insoddisfazione che crea una vita individualistica da intellettuale borghese (benestante), sia all’esigenza di perfezione morale, di giustizia e di pace ch’egli avvertiva con una certa intensità e sensibilità (forse un po’ astratta ma sicuramente sincera, onesta). Quando il fratello entrò nei Certosini, ne rimase profondamente colpito, avvertendo anch’egli il desiderio di vivere un’esperienza spirituale più intensa, ma non se la sentì di compiere un passo così impegnativo.

Tuttavia, se il Petrarca non ha avuto la decisione di un Agostino d’Ippona o di un Francesco d’Assisi nell’affrontare il suo problema esistenziale, ciò non gli va attribuito come un limite o un demerito, ma semmai come un pregio, una qualità umana, poiché in tal modo egli ha evitato o di cadere in una qualche forma di alienazione (Francesco) o di farsi responsabile dell’intolleranza nei confronti di altre religioni e ideologie (Agostino).

Tuttavia, la storia della sua vita impone una riflessione che è ancora di attualità, relativa alla “grandezza” o all’importanza di un intellettuale per la società del suo tempo. Che cosa rende “grande” un intellettuale? Il talento artistico o il contatto col pubblico? La ricerca filosofica della verità o l’impegno politico per la giustizia? L’interesse scientifico o l’amore per la cultura? Ovviamente l’ideale sta nel cercare un equilibrio fra tutte queste cose. Però un primato esiste, ed è quello di avere sempre a cuore le necessità degli “ultimi”, quello cioè di non scordarsi mai che le sofferenze degli oppressi, dei marginali, sono sempre un motivo sufficiente per ripensare la credibilità e il valore di tutti i nostri ideali. Solo in virtù di questa attenzione, il talento acquista concretezza, la giustizia e la verità non sono un vuoto parlare, la politica è davvero rivoluzionaria e la cultura diventa accessibile a tutti.

Lezioni sul Petrarca

Opere del Petrarca

 

La critica

FONTE:http://www.homolaicus.com/letteratura/petrarca.htm

San Benedetto, un faro per l’Europa smarrita

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Nel giorno in cui la Chiesa ricorda San Benedetto da Norcia, riportiamo il discorso che Benedetto XVI tenne in occasione dell’udienza generale del 9 aprile 2008 ove riportò alcuni tratti essenziali del Santo e della sua Regola che oggi più che mai vale la pena rimembrare. 

Cari fratelli e sorelle,
vorrei oggi parlare di san Benedetto, Fondatore del monachesimo occidentale, e anche Patrono del mio pontificato.

Comincio con una parola di san Gregorio Magno, che scrive di san Benedetto: “L’uomo di Dio che brillò su questa terra con tanti miracoli non rifulse meno per l’eloquenza con cui seppe esporre la sua dottrina” (Dial. II, 36). Queste parole il grande Papa scrisse nell’anno 592; il santo monaco era morto appena 50 anni prima ed era ancora vivo nella memoria della gente e soprattutto nel fiorente Ordine religioso da lui fondato. San Benedetto da Norcia con la sua vita e la sua opera ha esercitato un influsso fondamentale sullo sviluppo della civiltà e della cultura europea. La fonte più importante sulla vita di lui è il secondo libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno. Non è una biografia nel senso classico. Secondo le idee del suo tempo, egli vuole illustrare mediante l’esempio di un uomo concreto – appunto di san Benedetto – l’ascesa alle vette della contemplazione, che può essere realizzata da chi si abbandona a Dio. Quindi ci dà un modello della vita umana come ascesa verso il vertice della perfezione. San Gregorio Magno racconta anche, in questo libro dei Dialoghi, di molti miracoli compiuti dal Santo, ed anche qui non vuole semplicemente raccontare qualche cosa di strano, ma dimostrare come Dio, ammonendo, aiutando e anche punendo, intervenga nelle concrete situazioni della vita dell’uomo. Vuole mostrare che Dio non è un’ipotesi lontana posta all’origine del mondo, ma è presente nella vita dell’uomo, di ogni uomo.

Questa prospettiva del “biografo” si spiega anche alla luce del contesto generale del suo tempo: a cavallo tra il V e il VI secolo il mondo era sconvolto da una tremenda crisi di valori e di istituzioni, causata dal crollo dell’Impero Romano, dall’invasione dei nuovi popoli e dalla decadenza dei costumi. Con la presentazione di san Benedetto come “astro luminoso”, Gregorio voleva indicare in questa situazione tremenda, proprio qui in questa città di Roma, la via d’uscita dalla “notte oscura della storia” (cfr Giovanni Paolo II, Insegnamenti, II/1, 1979, p. 1158). Di fatto, l’opera del Santo e, in modo particolare, la sua Regola si rivelarono apportatrici di un autentico fermento spirituale, che mutò nel corso dei secoli, ben al di là dei confini della sua Patria e del suo tempo, il volto dell’Europa, suscitando dopo la caduta dell’unità politica creata dall’impero romano una nuova unità spirituale e culturale, quella della fede cristiana condivisa dai popoli del continente. E’ nata proprio così la realtà che noi chiamiamo “Europa”.

La nascita di san Benedetto viene datata intorno all’anno 480. Proveniva, così dice san Gregorio, “ex provincia Nursiae” – dalla regione della Nursia. I suoi genitori benestanti lo mandarono per la sua formazione negli studi a Roma. Egli però non si fermò a lungo nella Città eterna. Come spiegazione pienamente credibile, Gregorio accenna al fatto che il giovane Benedetto era disgustato dallo stile di vita di molti suoi compagni di studi, che vivevano in modo dissoluto, e non voleva cadere negli stessi loro sbagli. Voleva piacere a Dio solo; “soli Deo placere desiderans” (II Dial., Prol 1). Così, ancora prima della conclusione dei suoi studi, Benedetto lasciò Roma e si ritirò nella solitudine dei monti ad est di Roma. Dopo un primo soggiorno nel villaggio di Effide (oggi: Affile), dove per un certo periodo si associò ad una “comunità religiosa” di monaci, si fece eremita nella non lontana Subiaco. Lì visse per tre anni completamente solo in una grotta che, a partire dall’Alto Medioevo, costituisce il “cuore” di un monastero benedettino chiamato “Sacro Speco”. Il periodo in Subiaco, un periodo di solitudine con Dio, fu per Benedetto un tempo di maturazione. Qui doveva sopportare e superare le tre tentazioni fondamentali di ogni essere umano: la tentazione dell’autoaffermazione e del desiderio di porre se stesso al centro, la tentazione della sensualità e, infine, la tentazione dell’ira e della vendetta. Era infatti convinzione di Benedetto che, solo dopo aver vinto queste tentazioni, egli avrebbe potuto dire agli altri una parola utile per le loro situazioni di bisogno. E così, riappacificata la sua anima, era in grado di controllare pienamente le pulsioni dell’io, per essere così un creatore di pace intorno a sé. Solo allora decise di fondare i primi suoi monasteri nella valle dell’Anio, vicino a Subiaco.

Nell’anno 529 Benedetto lasciò Subiaco per stabilirsi a Montecassino. Alcuni hanno spiegato questo trasferimento come una fuga davanti agli intrighi di un invidioso ecclesiastico locale. Ma questo tentativo di spiegazione si è rivelato poco convincente, giacché la morte improvvisa di lui non indusse Benedetto a ritornare (II Dial. 8). In realtà, questa decisione gli si impose perché era entrato in una nuova fase della sua maturazione interiore e della sua esperienza monastica. Secondo Gregorio Magno, l’esodo dalla remota valle dell’Anio verso il Monte Cassio – un’altura che, dominando la vasta pianura circostante, è visibile da lontano – riveste un carattere simbolico: la vita monastica nel nascondimento ha una sua ragion d’essere, ma un monastero ha anche una sua finalità pubblica nella vita della Chiesa e della società, deve dare visibilità alla fede come forza di vita. Di fatto, quando, il 21 marzo 547, Benedetto concluse la sua vita terrena, lasciò con la sua Regola e con la famiglia benedettina da lui fondata un patrimonio che ha portato nei secoli trascorsi e porta tuttora frutto in tutto il mondo.
Nell’intero secondo libro dei Dialoghi Gregorio ci illustra come la vita di san Benedetto fosse immersa in un’atmosfera di preghiera, fondamento portante della sua esistenza. Senza preghiera non c’è esperienza di Dio. Ma la spiritualità di Benedetto non era un’interiorità fuori dalla realtà.

Nell’inquietudine e nella confusione del suo tempo, egli viveva sotto lo sguardo di Dio e proprio così non perse mai di vista i doveri della vita quotidiana e l’uomo con i suoi bisogni concreti. Vedendo Dio capì la realtà dell’uomo e la sua missione. Nella sua Regola egli qualifica la vita monastica “una scuola del servizio del Signore” (Prol. 45) e chiede ai suoi monaci che “all’Opera di Dio [cioè all’Ufficio Divino o alla Liturgia delle Ore] non si anteponga nulla” (43,3). Sottolinea, però, che la preghiera è in primo luogo un atto di ascolto (Prol. 9-11), che deve poi tradursi nell’azione concreta. “Il Signore attende che noi rispondiamo ogni giorno coi fatti ai suoi santi insegnamenti”, egli afferma (Prol. 35). Così la vita del monaco diventa una simbiosi feconda tra azione e contemplazione “affinché in tutto venga glorificato Dio” (57,9). In contrasto con una autorealizzazione facile ed egocentrica, oggi spesso esaltata, l’impegno primo ed irrinunciabile del discepolo di san Benedetto è la sincera ricerca di Dio (58,7) sulla via tracciata dal Cristo umile ed obbediente (5,13), all’amore del quale egli non deve anteporre alcunché (4,21; 72,11) e proprio così, nel servizio dell’altro, diventa uomo del servizio e della pace. Nell’esercizio dell’obbedienza posta in atto con una fede animata dall’amore (5,2), il monaco conquista l’umiltà (5,1), alla quale la Regola dedica un intero capitolo (7). In questo modo l’uomo diventa sempre più conforme a Cristo e raggiunge la vera autorealizzazione come creatura ad immagine e somiglianza di Dio.

All’obbedienza del discepolo deve corrispondere la saggezza dell’Abate, che nel monastero tiene “le veci di Cristo” (2,2; 63,13). La sua figura, delineata soprattutto nel secondo capitolo della Regola, con un profilo di spirituale bellezza e di esigente impegno, può essere considerata come un autoritratto di Benedetto, poiché – come scrive Gregorio Magno – “il Santo non poté in alcun modo insegnare diversamente da come visse” (Dial. II, 36). L’Abate deve essere insieme un tenero padre e anche un severo maestro (2,24), un vero educatore. Inflessibile contro i vizi, è però chiamato soprattutto ad imitare la tenerezza del Buon Pastore (27,8), ad “aiutare piuttosto che a dominare” (64,8), ad “accentuare più con i fatti che con le parole tutto ciò che è buono e santo” e ad “illustrare i divini comandamenti col suo esempio” (2,12). Per essere in grado di decidere responsabilmente, anche l’Abate deve essere uno che ascolta “il consiglio dei fratelli” (3,2), perché “spesso Dio rivela al più giovane la soluzione migliore” (3,3). Questa disposizione rende sorprendentemente moderna una Regola scritta quasi quindici secoli fa! Un uomo di responsabilità pubblica, e anche in piccoli ambiti, deve sempre essere anche un uomo che sa ascoltare e sa imparare da quanto ascolta.

Benedetto qualifica la Regola come “minima, tracciata solo per l’inizio” (73,8); in realtà però essa offre indicazioni utili non solo ai monaci, ma anche a tutti coloro che cercano una guida nel loro cammino verso Dio. Per la sua misura, la sua umanità e il suo sobrio discernimento tra l’essenziale e il secondario nella vita spirituale, essa ha potuto mantenere la sua forza illuminante fino ad oggi. Paolo VI, proclamando nel 24 ottobre 1964 san Benedetto Patrono d’Europa, intese riconoscere l’opera meravigliosa svolta dal Santo mediante la Regola per la formazione della civiltà e della cultura europea. Oggi l’Europa – uscita appena da un secolo profondamente ferito da due guerre mondiali e dopo il crollo delle grandi ideologie rivelatesi come tragiche utopie – è alla ricerca della propria identità. Per creare un’unità nuova e duratura, sono certo importanti gli strumenti politici, economici e giuridici, ma occorre anche suscitare un rinnovamento etico e spirituale che attinga alle radici cristiane del Continente, altrimenti non si può ricostruire l’Europa. Senza questa linfa vitale, l’uomo resta esposto al pericolo di soccombere all’antica tentazione di volersi redimere da sé – utopia che, in modi diversi, nell’Europa del Novecento ha causato, come ha rilevato il Papa Giovanni Paolo II, “un regresso senza precedenti nella tormentata storia dell’umanità” (Insegnamenti, XIII/1, 1990, p. 58). Cercando il vero progresso, ascoltiamo anche oggi la Regola di san Benedetto come una luce per il nostro cammino. Il grande monaco rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di vivere l’umanesimo vero.

FONTE:https://loccidentale.it/san-benedetto-un-faro-per-leuropa-smarrita/

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

Nucleare francese: c’è un segreto, dietro alla Torino-Lione?

Vuoi vedere che c’è il nucleare francese, dietro alla linea Tav Torino-Lione? Lo ipotizza Mitt Dolcino, interrogandosi sul “mistero” della grande opera più inutile d’Europa: perché insistere nel volerla realizzare a tutti i costi, visto che i maggiori trasportisti (da Marco Ponti in giù) sostengono che sia sostanzialmente superflua? Opera comunque da completare perché ormai iniziata? Non è esatto: sono state realizzate solo le gallerie accessorie, non il tunnel da 57 chilometri che collegherebbe Italia e Francia (doppione perfetto del Traforo del Frejus, sempre in valle di Susa, appena riammodernato – costo, 400 milioni di euro – per tenderlo idoneo al passaggio di treni con a bordo Tir e container “navali” della massima pezzatura). Perché allora incaponirsi tanto nel voler gettare decine di miliardi – in un momento come questo, poi – per una infrastruttura da più parti considerata obsoleta e destinata a restare un binario morto? L’interno del Massiccio dell’Ambin, la montagna che verrebbe traforata, «è saturo di uranio, torio e quindi di radon, con problemi per la salute sia nello scavo che per lo smaltimento della roccia scavata», scrive Dolcino, richiamandosi ai dati ufficiali, geologici, diffusi dal Politecnico di Torino.

«Nel caso di completamento dell’opera nascerebbe il problema di dover smaltire le migliaia se non milioni di tonnellate di roccia uranifera estratta dal centro della montagna». A dire la verità, aggiunge il blogger, lo studio del Politecnico è ridonante: Laboratoriogià negli anni ’70 e ’80 del Novecento la stessa Agip aveva condotto scavi in quell’area, con possibilità di ottenere concessioni per l’estrazione di uranio e torio. «Poi non se ne fece nulla, anche a causa dell’abbandono del nucleare da parte dell’Italia dopo Chernobyl». Proprio la presenza di provate grandi vene di uranio e torio – aggiunge Mitt Dolcino – fanno pensare che sia proprio la Francia a essere interessata all’estrazione del minerale radioattivo, da utilizzare nelle sue centrali, grazie alla roccia estratta dalla galleria. «Ricordate che oggi l’uranio la Francia lo ottiene in larga parte dal Niger, paese sempre più ambito da altri paesi, oltre ad essere stato messo sotto la lente di ingrandimento da parte del governo gialloverde per il cripto-colonialismo francese». Proprio in Niger, aggiunge Dolcino, i francesi sono presenti con la Legione Straniera sin da prima della deposizione di Gheddafi. Fece notizia l’Operazione Barkhane, che si sospetta sia servita a «far giungere immigrati dall’Africa profonda verso le coste libiche, per mandarli finalmente in Italia ma tenendo le frontiere francesi chiuse».

Evidente il possibile obiettivo del neo-colonialismo francese: «Destabilizzare l’Italia, facendo leva sui cooptati italiani a libro paga di Parigi, per poi conquistare la Penisola come ai tempi di Napoleone». Negli ambienti scientifici, continua Mitt Dolcino, circola da tempo la voce che la Francia «abbia già iniziato la costruzione del laboratorio nucleare sotto il Fréjus, già pianificato da tempo: infatti il tunnel di servizio servirebbe proprio a questo». Le gallerie accessorie per la Torino-Lione sarebbero in realtà infrastrutture pensate per il nucleare francese? «A quando – si domandava Mitt Dolcino, già un anno fa – una richiesta di chiarimenti, nell’aula del Parlamento, sulla presenza di un laboratorio nucleare francese sotto il Fréjus, con scavo pagato dagli italiani? Perché tutto tace? Perché nessuno fa domande ufficiali in riguardo?». Ancora: «Se la Francia pretende che l’Italia paghi per permettere a Parigi di fare un laboratorio nucleare sotto una grande montagna italiana, evidentemente non è stato chiarito che, nel caso, dovranno contribuire in modo molto più sostanzioso di quanto previsto». In attesa di risposte – mai pervenute – resta un mistero l’insistenza sui cantieri della Torino-Lione, senza che nessuno abbia finora spiegato, in modo convincente, l’utilità di una maxi-opera così costosa e contestata.

FONTE:https://www.libreidee.org/2020/07/nucleare-francese-ce-un-segreto-dietro-alla-torino-lione/

 

 

 

DIRITTI UMANI

L’ideologia Lgbt dietro lo scandalo degli affidi

Ricevo e pubblico la lettera di Elena Montanari, consigliera dell’Unione dei Comuni della Val d’Enza in merito all’inchiesta “Angeli e Demoni” di Reggio Emilia. Un’inchiesta secondo la quale bambini allontanati dalle famiglie con l’intervento dei servizi sociali sarebbero stati indotti dagli psicoterapeuti ad accusare genitori, parenti e amici di famiglia ad abusare di loro. Violenze che non sarebbero mai avvenute. Ventisette persone indagate con reati che vanno dai maltrattamenti su minori alle lesioni gravissime passando dalla frode processuale all’abuso d’ufficio, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione. 

Mi chiamo Elena Montanari e sono consigliere di minoranza all’Unione dei Comuni della val d’Enza, ente da cui dipendono coloro che presuntivamente hanno commesso quelle atrocità, perché tali sono, sui bambini di cui lei ha parlato ieri sera. Ho letto l’ordinanza del GIP e quello che emerge, al di là delle violenze, è un quadro che conferma quello che in Emilia Romagna (a Reggio Emilia in particolare) respiriamo tutti i giorni: il voler affermare, a tutti i costi, l’identità della “famiglia” omosessuale. Se non sei a favore dell’unione omosessuale, a fortiori, sei omofobo! E questo è quello che emerge nei consigli comunali: dalle nostre parti è normale il patrocinio concesso a convegni omosex, a manifestazioni lgbt; è “normale” concedergli, attraverso varie forme, anche sovvenzioni…i Sindaci fanno a gara a partecipare alle loro manifestazioni o ai loro eventi e a farsi fotografare insieme agli attivisti del mondo lgbt! E questo perché? Perché sono un bacino di voti indispensabili, per continuare a governare un territorio, come la Rossa Emilia.

Pertanto, non ci si può poi meravigliare che l’Anghinolfi e compagnia abbiano “utilizzato” i bambini per affermare la loro identità omossessuale e il loro diritto ad avere una famiglia…hanno agito, con metodi sbagliati, in continuità con la politica che gli amministratori del PD portano avanti tutti i giorni nei nostri territori, sentendosi, in qualche modo, anche protetti dalla politica.

La Procura di Reggio Emilia ha indagato per abuso d’ufficio altri 2 sindaci della val d’Enza, Paolo Colli e Paolo Burani (sempre per la stessa inchiesta), e sta sentendo tutti gli altri.

grazie e buon lavoro

FONTE:https://www.nicolaporro.it/lideologia-lgbt-dietro-lo-scandalo-degli-affidi/

 

 

 

Pubblicato il “Registro Italiano dei Razzisti e Omofobi”

Una lista di proscrizione online degli oppositori al diktat etico dominante

In attesa delle approvazione della legge sull’omofobia, che tapperà la bocca a tutti coloro che oseranno dissentire dalla vulgata gender dominante, i “tolleranti” paladini dei diritti LGBT si sono organizzati, pensando bene di pubblicare il “Registro Italiano dei Razzisti e Omofobi” (RIRO), uno strumento di denuncia online dove chiunque può segnalare persone “colpevoli” dello pseudo reato di omofobia.

Gli anonimi promotori del sito web presentano così l’iniziativa:

RIRO è un modo di difendersi dalle persone pericolose che ogni giorno cercano volontariamente o involontariamente di fare del male al prossimo.Ogni sistema di controllo coercitivo del prossimo è stato caratterizzato da alcune terribili circostanze, come il marchio. Marchiare il prossimo ad esempio, era un modo per i Nazisti di ridurre ad oggetto lo schiavo ebreo, omosessuale, di un’altra qualsiasi minoranza etnica. per rendere schiavo un essere umano, farlo diventare un numero”.

“RIRO” si propone dunque di schedare tutte le persone che si macchiano della imperdonabile colpa di non condividere il diktat etico in tema di famiglia e sessualità in maniera che possano essere emarginate e isolate dalla società. Leggiamo infatti:

Lo scopo di RIRO è ritorcere quest’arma contro le persone che sono figlie di quel tipo di comportamenti, come razzisti, omofobi e altra gente simile, RIRO e le persone che inseriscono i nominativi non cercano vendetta, ma come fratelli uniti, avvisiamo altri fratelli della pericolosità di determinate persone, così che si possa starne alla larga, evitarle, emarginarle”.

Gli estensori del “RIRO” ci tengano a che il loro registro sia assolutamente attendibile, ossia i nominativi inseriti al suo interno devono essere tutti scrupolosamente verificati di modo che i presenti siano degli omofobi doc, in altre parolecertificati. Per questo il meccanismo di schedatura è stato studiato nei minimi particolari. Sul sito viene infatti spiegato in maniera dettagliata il processo di segnalazione dell’omofobo di turno, chiarendo come sia necessario fornire quante più prove della sua colpevolezza, allegando immagini, audio, video o quant’altro contribuisca a inchiodare alle sue colpe il reo. Infatti, una volta inserito un nominativo non è poi possibile cancellarlo.

L’unico modo per essere eliminati dal registro consiste nel superare un apposito “Test antirazzismo”, al quale l’utente proprietario del nominativo, verrà sottoposto, una volta che avrà fatto richiesta di essere cancellato. Il tutto sarà poi, rigorosamente, reso pubblico al fine di far conoscere a tutti l’avvenuto mea culpa dell’accusato.

Tra gli ultimi omofobi schedati spicca la foto del giudice Carlo Deodato, finito al centro di un vergognoso linciaggio mediatico, per aver osato applicare la legge, votando a favore dell’annullamento del registro del comune di Roma per la trascrizione delle nozze gay celebrate all’estero. Deodato viene presentato come “giurista italiano ed una sentinella in piedi. Fiero sostenitore dell’omofobia” e a riprova della sua colpevolezza vengono allegate le immagini dei tweet da lui pubblicati in difesa della famiglia naturale.

La gogna pubblica del “Registro Italiano dei Razzisti e Omofobi” svela il reale volto degli ideologi del gender e dell’omosessualismo militante.

Il  “RIRO”, vera e propria lista di proscrizione tesa ad eliminare, attraverso l’esclusione e l’isolamento sociale, i propri nemici politici, rispecchia, emblematicamente, il clima culturale odierno dove si è liberi unicamente di allinearsi al pensiero unico dominante. Tale nuovo paradigma etico, fondato sul più assoluto relativismo morale, che non ammette alcun giudizio di valore, si erge a supremo giudice del bene e del maleassolutizzando, paradossalmente, la sua ideologica visione.

Gli abusati e malintesi concetti di tolleranza e non-discriminazione valgono infatti solamente fino a che non contraddicono tale diktatQualsiasi tipo di scelta, per definizione, tuttavia, discrimina, in quanto effettua una scelta tra due differenti opzioni possibili. Non ci può essere neutralità. Se scelgo bianco non scelgo nero, il punto dirimente è optare per il bene e il vero e scartare il male e il falso. Mettere sullo stesso piano e promuovere ogni tipo di famiglia equivale a rifiutare e distruggere l’unico vero modello di famiglia, quella naturale fondata su un uomo e una donna. Difendere e rivendicare i diritti per ogni tipo di unione non è dunque un atto tollerante e non discriminatorio in quanto il suo riconoscimento colpisce e discrimina la specificità della famiglia naturale, falsamente equiparata ad artefatti modelli famigliari.

La pubblicazione del “RIRO” dimostra, in maniera lampante, chi sono i veri razzisti nel decisivo scontro culturale in atto, rivelando il carattere totalitario e intollerante del paradigma etico dominante.

FONTE:https://www.osservatoriogender.it/pubblicato-il-registro-italiano-dei-razzisti-e-omofobi-una-lista-di-proscrizione-online-degli-oppositori-al-diktat-etico-dominante/

 

 

 

ECONOMIA

ASPI, PERDITE FORTISSIME, LA CESSIONE E’ UN AFFARE PER ATLANTIA.

Prosegue la tradizione italiana di privatizzare gli utili e pubblicizzare le perdite

Luglio 20, 2020 posted by Guido da Landriano

Prima i dati. Italia Oggi giustamente mette in evidenza come ASPI, ex Società Autostrade, nel  2019  si era mangiata un terzo del capitale con una perdita per 291, 3 milioni di euro. Ne restano ancora 566 milioni, ma non basteranno a coprire la perdita immaginata per il 2020, che potrebbe essere superiore al miliardo di euro anche per l’effetto del COVI-19 e la caduta del traffico autostradale per due mesi. Del resto se l’economia non funziona  non possono funzionare neppure le società di servizi, neanche in monopolio. Un sistema economico è strettamente interlacciato ed una rete autostradale che si è ripagata da sola, con tariffe contenute, quando l’Italia della lira cresceva, ora nella “Ricca” italia dell’Euro va in perdita , anche per i mancati investimenti della parte pubblica.

A questo punto si conferma una tradizione dei cosiddetti grandi imprenditori italiani: privatizzano gli utili e pubblicizzano le perdite. In questo caso la famiglia Benetton si è goduta 20 anni di utili incontrollati su un sistema autostradale in buono stato, facendo manutenzioni minime ed insufficienti. Quindi ora, quando le evidenti mancanze iniziano a generare delle perdite, lascia tutto in mano allo stato, perfino pagati dallo stato stesso. Il tutto grazie alla geniale soluzione per la quale una società dal futuro nero, se non quasi bancarottiero, viene comprata dallo stato in parte ed in parte garantita da CDP, portata in borsa dove gli autori del fallimento potranno liberarsi di quanto rimasto. Di questo perfetto tempismo possiamo ringraziare chi, al governo, ha assicurato questa dorata via di fuga ai Benetton. altro che dura contrattazione! PD e Cinquestelle han legato i cani con le salcicce.

Comunque il colpo finale per ASPI è arrivato  lo scorso gennaio dal contemporaneo downgrade del rating da parte delle tre principali agenzie: Moody’s, Fitch e Standard & Poor’s, con il declassamento sotto il livello investimento  e quindi il rischio, quanto mai realistico, che la BEI e la CDP richiedessero o garanzie ulteriori oppure il rientro dalle esposizioni, con la possibilità di una crisi finanziaria.  Ora la situazione viene risolta dallo stato che, paradossalmente, alla fine ha salvato i Benetton. Altro che responsabilità per la caduta del Ponte Morandi.

FONTE:https://scenarieconomici.it/aspi-perdite-fortissime-la-cessione-e-un-affare-per-atlantia-prosegue-la-tradizione-italiana-di-privatizzare-gli-utili-e-pubblicizzare-le-perdite/

SANTO VERSACE: L’ITALIA E’ UN PAESE RICCHISSIMO, GESTITO IN MODO PESSIMO

 

Luglio 20, 2020 posted by admin

Santo Versace, l’imprenditore fratello del compianto Gianni, interviene a RadioRadio mettendo in luce un fenomeno evidente ed incredibile: l’Italia è un paese  ricchissimo, e non solo di storia, ma anche di capacità e di risorse umane, ma è gestito malissimo, e questo ne uccide le possibilità di sviluppo.

Un paese che basa la sua capacità e la sua grandezza sulla cultura dovrebbe investire sulla scuola e sulla formazione, invece la scuola è distrutta , non ne resta quasi niente. Ci sono sondi gettati in cose inutili come la proposta di riduzione minima dell’IVA, quando queste poche risorse dovrebbe essere poste nella formazione continua delle per le persone. Naturalmente Santo afferma anche alcuni eccessi ed alcuni luoghi comuni, ma anche molte verità, come l’eccessiva burocratizzazione delle Regioni e dei Sistemi Sanitari. Per non parlare il problema del fisco e delle banche date , sempre presenti e mai interconnesse.

Un imprenditore ottimista, ma deluso da come è messo il nostro paese e dalla sua pessima gestione

Buon ascolto

VIDEO QUI: https://youtu.be/FOS-wLupWOo

FONTE:https://scenarieconomici.it/santo-versace-litalia-e-un-paese-ricchissimo-gestito-in-modo-pessimo/

 

 

 

I grandi aiuti dell’Europa? In realtà l’Italia finirà per rimetterci 14 miliardi

18 Luglio 2020

Mentre gli italiani osservano con comprensibile preoccupazione un Consiglio Europeo che ha messo in mostra ancora una volta il lato peggiore dell’Ue, animata da contrasti, egoismi e barriere invalicabili, ci sono alcune considerazioni che è già possibile fare sul Recovery Fund e sulla sua possibile attuazione. In attesa di capire se e come Conte riuscirà a strappare un accordo che pare molto lontano, basta infatti tirare fuori la calcolatrice e un po’ di buonsenso per capire che il piano di aiuti in discussione a Bruxelles non è nemmeno questa gran cosa. A partire dalle tempistiche: tutti danno ormai per scontato che la prima tranche, 10-15 miliardi di euro, sarà in dirittura d’arrivo soltanto nel 2021. Un po’ tardi, francamente, per dare un mano ad aziende e famiglie finite in ginocchio a causa della crisi.

Dall’inizio della pandemia l’Ue non è mai stata celere, come sottolineato anche dalla stampa straniera. Il Guardian ha ricordato proprio in questi giorni come l’Italia sia stata sostanzialmente abbandonata a sé stessa per settimane. Sarebbe stato lecito aspettarsi un cambio di passo anche per farsi perdonare quel silenzio vergognoso. E invece niente. Ma a far storcere il naso sono anche l’ammontare di denaro che dovremmo ricevere e le modalità: si parla di 153 miliardi destinati all’Italia in totale, frutto della somma tra gli 81,8 miliardi a fondo perduto e i 71,2 di prestito. Dalle pagine de La Verità, Paolo Del Debbio sottolinea però come negli stessi anni (2021-2027) in cui l’Italia si troverà a ricevere 81,8 miliardi a fondo perduto ne verserà 96,3 a Bruxelles.

Sottraendo dunque ai soldi ricevuti dall’Europa quelli che partiranno verso la stessa Europa sotto forma di contributi vari, il saldo si rivela addirittura negativo: -14, 5 miliardi. Non proprio un grande affare, insomma. E per farlo, oltretutto, rischiamo di dover chinare il capo e acconsentire alle riforme che ci verranno imposte nei prossimi anni. A ribadirlo, non fosse ancora chiaro, è stata la presidente della Bce Christine Lagarde: i fondi concessi saranno vincolati saldamente a delle solide politiche strutturali.

Viene da chiedersi: possibile non rendersi conto che in questo momento serve liquidità immediata per aiutare chi rischia di chiudere definitivamente i battenti e non riforme da mettere in cantiere in una delle fasi più drammatiche della storia dell’intero Vecchio Continente? Si era detto che l’Ue avrebbe controllato soltanto che i soldi a fondo perduto fossero spesi per affrontare realmente l’emergenza sanitaria. E invece, ancora una volta, ci si trova a fare i conti con la miopia di un’Unione che è tale ormai soltanto nel nome. E che vedendoci a pezzi ci offre soltanto prestiti da restituire tra l’altro con estremo ritardo.

FONTEhttps://www.ilparagone.it/attualita/i-grandi-aiuti-delleuropa-in-realta-litalia-finira-per-rimetterci-14-miliardi/

Greta, Orlando e l’alibi green

18 LUGLIO 2020

“Un evento imprevedibile” dice Leoluca Orlando Cascio, il trasformista, del nubifragio che ha colpito Palermo. La stessa cosa che ebbe a dire Marta Vincenzi, sindaco di Genova. Se sono imprevedibili, come mai si arrogano il diritto di prevedere che clima farà di qui a 50 anni? E tutti, subito: ah, avete visto, sono i cambiamenti climatici, è il riscaldamento globale. Ma il riscaldamento globale nessuno l’ha visto, a marzo si sprecavano le paginate, “arriva l’estate più torrida dall’estinzione dei dinosauri”, come ogni anno e invece è un’estate che non c’è, una non estate, piovosa umida fresca per non dire fredda: scrivo dal centro d’Italia e ogni sera la temperatura scende sotto i 20 gradi e sono in riva al mare, non a tremila metri. Sarà che aveva ragione Franco Battaglia nel ripetere che si andava, viceversa, incontro ad un raffreddamento globale, che si era al termine di uno di quei cicli misteriosi determinati dal sole e qualche estate un po’ più rovente non fa testo. Sarà anche che più andiamo a inginocchiarci “contro il riscaldamento globale”, che poi sarebbe a dire contro il capitalismo, da superare come dice quella collezionista di incarichi della Mariana Mazzucato, e più non rinunciamo ai conforti della modernità capitalista come l’aria condizionata che ci rende insofferenti ad ogni variazione termica.

Ci sono attualmente due leggende metropolitane a tenere banco: una è il coronavirus o meglio la inevitabile insorgenza della seconda ondata “che farà più vittime della Spagnola”, come dice la Oms cinese e il nostro uomo alla Oms, Ricciardi; l’altra è appunto la storiella della terra che ribolle, che essicca come una gigantesca mummia: “Vi sono rimasti dieci anni” disse Greta, la adolescente problematica in tour italiano un anno fa: da quel giorno, piovve per 40 giorni filati, una pena biblica. Ma Greta non demorde. Sterilizzata dall’emergenza virus, ha provato a restare nella luce della ribalta, “Anche io forse ho avuto il virus”. E tutti: si è salvata, miracolo! Ma non specificava, bisognava crederle sulla parola come per tutto. Non ha funzionato e allora è tornata con le sue tristissime profezie di sventura. Il mondo aveva altro da fare e lei ha ringhiato: “Come osate dimenticarvi di me”.

C’è da capirla, Greta Thumberg è un’azienda e, come per tutte le aziende, se gli affari non crescono, si va a rotoli. Le hanno pure fatto la inevitabile fondazione, tanto per risparmiare un po’ di tasse, una faccenda alla Bill Gates, quello che vent’anni fa diceva: “I poveri? Ci deve pensare la medicina” e oggi dice: “Il vaccino va reso obbligatorio per tutti e 8 i miliardi sul pianeta e se ne ammazza settecentomila è un costo accettabile”. Gente così, benefattori così. Questa Greta, questa costruzione della propaganda globalista, sorosiana, è a suo modo un mistero. Sempre in fama di povera bimba disagiata anche se ormai va per la maggiore età, con il che potrebbe dedicarsi ad occupazioni più appaganti e fisiologiche. Lei invece insiste: cura o le curano l’immagine da quella megainfluencer che è, con qualche sfondone: tuona contro aerei e automobili ma si ritrae su un supertreno che non va ad Avemarie, circondata da involucri di plastica; fa sapere all’universo mondo della sua traversata fino in America Latina a bordo di un catamarano ecologico, ma è tutta una montatura pubblicitaria: appartiene al principino monegascho Casiraghi, magnate dell’automobile e hanno dovuto togliere dallo scafo gli sponsor petroliferi; poi c’erano barche a motore a sorvegliare la novella Cristofora Colomba, che è tornata in Europa per vie ambigue e non chiarite.

Si dice di Greta: non criticatela, è solo una bambina. Ma la bambina che sussurra ai potenti, se li sceglie con accurata malizia: mai un attacco diretto, giusto il populismo di sinistra contro “gli adulti”, “i politici”, “quelli che mi hanno rubato il futuro”. A lei, non ai coetanei e meno che spaccano pietre o le raccolgono nelle miniere o si prostituiscono nei bordelli asiatici. Per quelli nessuna parola, niente neppure per la Cina che da sola inquina dieci volte come il resto del mondo: tutti gli strali per l’America, vale a dire Trump, anche se l’America è il paese che da solo ha abbattuto l’inquinamento più di tutti grazie ai massicci investimenti nelle tecnologie.

Greta è intoccabile, ha la sindrome di Asperger, però va ascoltata come l’oracolo santo, ha la scienza infusa, non va a scuola e se ne vanta, ha problemi di socialità e di apprendimento e ci specula lei per prima e tutti devono interpellarla: col tempo la piccina “che può vedere la C02 passare” è passata da esperta in clima, in ambiente, in inquinamento, poi in tecnologie, quindi in razzismo americano, anche se è bianca svedese, da lì in sociologia e perfino in virologia (e questo in effetti ci può stare, dato il livello medio dei virologi in particolare italiani). Fa niente che la sua insopportabile faccetta contorta dai capricci sia diventata il testimonial per il più massiccio programma di sprechi ambientalisti, con annessa tassazione globale, di tutti i tempi. Fa niente se la sacerdotessa tuttologa, una che quanto a nientologia se la batte con Scanzi, comandasse di abbeverarsi solo da certe borracce ecologiche, talmente ecologiche che, si è scoperto, poi, sono cancerogene, tossiche e inquinano come un allevamento intensivo di maiali.

FONTE: https://www.nicolaporro.it/greta-orlando-e-lalibi-green/

 

 

 

FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI

Sale lo spread e arriva Draghi: soluzione pronta per l’Italia

«Se Mario Draghi ha accettato di incontrare Luigi Di Maio e l’ha autorizzato a rendere noto l’incontro non è perché gliel’ha chiesto Di Maio. Deve averglielo chiesto qualcuno di molto, ma molto più autorevole. E dunque qualcuno cui non si poteva dire di no. Per sentirsi chiedere dal capo grillino di sostituire presto Conte al vertice di un esecutivo di larghe intese, gestire per due anni l’emergenza della ripresa e poi essere nominato al Quirinale al posto dell’uscente Mattarella. Sarebbe un bel percorso». Questa la lettura che, sul “Sussidiario“, offre dell’ultimo round italo-europeo un giornalista di lunga esperienza come Sergio Luciano, già responsabile delle pagine politico-economiche della “Stampa”, del “Sole 24 Ore” e di “Repubblica”. Punto di partenza, l’ennesimo pugno di mosche rimediato da Conte a Bruxelles. In primis, Luciano chiarisce un equivoco legato all’espressione Recovery Fund: «Letteralmente “recovery” significa recupero», e quindi «soldi che ci vengono dati per poi recuperarne la gran parte». Più prestito che dono, insomma. E dato che «i partner dell’Unione politica più sgangherata del mondo non hanno alcuna fiducia l’uno dell’altro, ecco che alcuni Stati, definiti frugali ma che tali non sono affatto, si sono di buon grado accollati il ruolo dei guastafeste».

Paesi come l’Olanda di Mark Rutte, che assorbono immense risorse italiane grazie al dumping fiscale, «contrastano senza mezzi termini la pretesa italiana (e non solo) di poter prendere questi soldi senza dare alcuna garanzia sulle modalità Conte con Mark Rutteattraverso le quali ciascuno Stato debitore può ragionevolmente impegnarsi a restituirli». Proprio l’Olanda, aggiunge Luciano, «è un vergognoso caso di paradiso fiscale infra-europeo, uno di quelli che se i Trattati fossero stati scritti con la testa e non con i piedi, avrebbe dovuto essere messo al bando o ricondotto a disciplina fiscale ordinaria». Ma tant’è: gli olandesi ci sono, restano, pesano e passano pure per frugali. In sostanza, Rutte dice che l’Italia deve impegnarsi con un piano di riforme serissimo, «tanto più severo quanto meno credibile è la buona volontà italiana di por mano agli handicap pluridecennali che stanno soffocando la nostra economia». E quindi un piano particolareggiato, da monitorare nel suo andamento. «Il governo italiano pretende di poter incassare l’abbondante fetta di Recovery Fund che ci spetterebbe, 172 miliardi su 750, senza prendere in cambio alcun impegno gestionale sull’economia». Gli olandesi, invece, ripetono che prima dobbiamo presentare riforme credibili, poi dimostrare di essere capaci di attuarle (e solo dopo saremo finanziati).

Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, sta mediando. E ora, scrive sempre Luciano, ha proposto una cosa che sembra un assist al governo italiano. Cioè: ogni paese fa i piani che vuole e li presenta senza dover temere il “niet” degli altri. Strada facendo, i partner potranno controllare l’attuazione delle riforme nello Stato sotto indagine e, se necessario, bloccare l’erogazione dei fondi. «Insomma: luce verde per avere i soldi, luce rossa – se serve – qualora li spendessimo male». In realtà, aggiunge Luciano, il diavolo è nei dettagli: «A Bruxelles sanno perfettamente che l’Italia, accalappiata com’è in un nodo gordiano di ingestibile burocrazia, non sarà mai in grado di presentare un piano sostenibile. Quindi, per carità di patria, anzi Lagarde e Draghidi Unione, possono addivenire all’idea che sui piani non si va per il sottile e si sganciano i primi soldi, riservandosi però il diritto di chiudere i rubinetti quando sarà palese che le promesse della prima ora sono state vane».

Nel frattempo, si fa notare la presidente della Bce, Christine Lagarde: «Ai giornalisti che le chiedevano se i modesti importi (relativamente modesti) che settimanalmente la banca centrale tramite le sue affiliate spende per rilevare Bond statali sono sufficienti, ha detto di sì. E se considera sufficienti importi che non riescono a ridurre sotto la soglia dei 170 punti base lo spread italiano – scrive ancora Luciano – vuol dire che si prepara a utilizzare la leva dello spread, lo spauracchio numero uno, per costringere l’Italia a rientrare ne ranghi. Ma con quale governo? Con questa compagine di sprovveduti? Improbabile». Per Luciano, «rimane una speranza e anche un’incognita», cioè il governo Draghi. Innescato dalla crisi dello spread come quello (nafasto) di Monti nel 2011, ma stavolta dal segno opposto: sempre dallo spread si partirebbe – questa è l’ipotesi – ma per invertire la rotta: sarebbe dunque Draghi il garante ideale, l’uomo giusto per convincere l’Ue a cambiare le regole. A fine marzo, l’ex capo della Bce mise le carte in tavola in un editoriale sul “Financial Times”: di fronte al Covid (cioè al lockdown) c’è solo una possibilità, e cioè finanziare gli Stati con miliardi da non restituire più. Sarà dunque lo spread manovrato dalla Lagarde a spingere Mattarella a licenziare Conte e invitare Draghi a Palazzo Chigi?

FONTE:https://www.libreidee.org/2020/07/sale-lo-spread-e-arriva-draghi-soluzione-pronta-per-litalia/

 

 

 

GIUSTIZIA E NORME

CESSIONE DEL CREDITO E DIVIETO DEL PATTO COMMISSORIO

IL NEGOZIO DI CESSIONE COME STRUMENTO DI ELUSIONE DELLA REGOLA DI CUI ALL’ART. 2744 C.C.

20 LUGLIO 2020 by

Sommario1. Introduzione – 2. L’Istituto della cessione del credito ai sensi dell’art.1260 c.c.: tratti essenziali – 3. La regola imperativa contemplata dall’art.2744 c.c. secondo la moderna teoria della causa in concreto – 4. La cessione del credito può costituire uno strumento di raggiro del precetto imperativo ex art.2744 c.c.? – 5. La soluzione negativa avallata dalla presenza di fattispecie eccezionali in cui ricondurre la cessio in securitatem – 6. Conclusione

 

1. Introduzione

Il rapporto tra cessione del credito e divieto di patto commissorio richiede un’indagine volta a individuare la configurabilità di un rischio per il cedente derivante dall’operazione economica, la quale assume i connotati di una vera e propria “cessione a scopo di garanzia”.

Non di rado un negozio di cessione intercorrente tra una parte debole, normalmente il cedente, e una forte, il cessionario, lascia sottendere la violazione del divieto di patto commissorio, sancito dalla regola imperativa di cui l’art.2744 c.c.

Se così fosse, si arrecherebbe un grave pregiudizio in capo a colui che, essendo parte vulnerabile del rapporto, cede un credito attuale al solo fine rafforzare la garanzia dovuta al cessionario per l’adempimento di un credito pregresso.

L’analisi sul tema è quindi volta a verificare se il divieto posto dall’art.2744 c.c. possa trovare terreno oltre la fattispecie tipizzata del trasferimento ad effetti reali, ossia anche per i negozi ad effetti obbligatori, quale il modello di cui all’art.1260 c.c.

È opportuno premettere che la risposta a tale quesito discende dalla forza applicativa dell’art.2744 c.c., di cui è discusso se il contenuto possa essere inteso in maniera ristretta, o piuttosto in maniera eclettica, ossia comprensivo di fattispecie ulteriori rispetto a quella testuale dei trasferimenti sospensivamente condizionati.

Si tratta, in primo luogo, di stabilire l’essenza dell’art.2744 c.c. quale “norma di risultato” che, in virtù della più moderna concezione di causa come funzione economico-individuale, può essere estesa a tutte quelle operazioni economiche, compresa la cessione del credito che, lungi dal recare una violazione diretta della regola, la aggirano al fine di ottenere un risultato vietato dalla legge.

In secondo luogo sarà possibile verificare se anche la cessione del credito, come altre ipotesi di dubbia collocazione, possa rappresentare uno strumento di illiceità che configura una cessio in securitatem.

2. L’Istituto della cessione del credito ai sensi dell’art.1260 c.c.: tratti essenziali

La cessione del credito costituisce una forma di sostituzione soggettiva del rapporto obbligatorio nel lato attivo e trova disciplina agli artt.1260 ss. c.c.

L’istituto, invero, contempla quel negozio con cui un soggetto, il cedente, cede a titolo oneroso o gratuito un proprio credito ad un altro soggetto, il cessionario, senza che sia necessaria l’autorizzazione o l’adesione del debitore ceduto.

Di norma, quest’ultimo soggetto resta estraneo al rapporto di cessione, tanto che nei suoi confronti la comunicazione dell’avvenuta cessione ha il solo scopo di evitare che egli esegua la prestazione nei confronti dell’ormai creditore apparente, il cedente, ex art.1189 c.c.

Il negozio ha ad oggetto un credito che non è strettamente personale e che può essere corredato dagli accessori, quali i privilegi, le garanzie reali e quelle personali, secondo il disposto dell’art.1263 c.c.

Trattandosi di un negozio ad efficacia obbligatoria che si costituisce per sol fatto del consenso, ai sensi dell’art.1376 c.c., il debitore resta estraneo al rapporto contrattuale e dunque non potrà opporre al cessionario le eccezioni concernenti il rapporto negoziale tra questi e il creditore cedente, a meno che non si tratti di un’ipotesi di nullità del contratto di cessione, poiché in quel caso egli si troverebbe ad eseguire una prestazione indebita nei confronti di un soggetto non legittimato.

Il debitore non potrà nemmeno far valere in via d’eccezione i vizi che danno luogo all’annullabilità del negozio di cessione, stante il loro carattere strettamente relativo, o a legittimazione ristretta, così come le ipotesi di rescissione previste dalla legge.

Il debitore potrà tuttavia opporre la nullità o l’inesistenza del suo rapporto di valuta verso il cedente, ma non anche le eccezioni strettamente personali quali ad esempio la compensazione.

Così brevemente tratteggiate le caratteristiche essenziali della cessione del credito ciò che rileva in questa sede è un’indagine circa l’idoneità dell’istituto a violare la regola di cui all’art.2744 c.c., configurandosi quella situazione di “raggiro” della regola imperativa, nell’ipotesi in cui la cessione di un credito sia sospensivamente o risolutivamente condizionata all’inadempimento del cedente di altra obbligazione avverso il terzo cessionario.

3. La regola imperativa contemplata dall’art.2744 c.c. secondo la moderna teoria della causa in concreto

Orbene, il principio espresso dall’art.2744 c.c. è una regola la cui violazione diretta determina la nullità del patto commissorio ai sensi dell’art.1418 comma 1 c.c.; il patto è considerato affetto da una vera e propria illiceità, la cui estrema contrarietà ai valori fondanti dell’ordinamento lo rende irrimediabilmente insanabile.

Questo è facilmente comprensibile dalla lettura della norma, ove si stabilisce che sono nulli i patti con cui il trasferimento della proprietà di un bene oggetto di pegno o ipoteca è subordinata all’inadempimento dell’obbligazione da parte del debitore, proprietario del bene stesso.

La ratio della norma racchiude in sé, contemporaneamente, la tutela del contrente vulnerabile che soccombe alla pressione psicologica del creditore e la custodia dei valori costituzionali di solidarietà, libertà negoziale, integrità economica e circolazione dei beni, contemplati dagli artt.2-41-42 Cost.

Come già accennato, dal dato letterale emerge un’applicazione limitata del disposto: da un lato, il carattere meramente accessorio del patto illecito che si affianca alla costituzione delle garanzie reali, quasi a volerne rafforzare il contenuto, dall’altro lato, il riferimento è ai soli trasferimenti ad effetti traslativi sospensivamente condizionati.

In quest’ultimo caso si è in presenza, ad esempio, di una vendita di bene immobile in favore del creditore con effetto reale differito, subordinato all’adempimento dell’obbligazione principale da parte del debitore; in caso di inadempimento, la proprietà si stabilizzerà in favore del creditore.

Ad ogni modo, ai fini di un’estensione applicativa del principio, è opportuno soffermarsi sulla ratio ad esso sottesa.

Il carattere della norma quale “precetto di risultato” rappresenta il normale approdo di una differente concezione di causa, non più intesa come funzione economico-sociale del negozio, strettamente coincidente con il tipo legale, bensì come “ragion pratica del regolamento” o interesse concreto perseguito dai contraenti.

Aderendo alla moderna idea di causa, appare evidente che la norma assuma una portata eclettica, atta a ricomprendere tutti quei negozi che, apparentemente leciti, celino una causa concreta illecita a “scopo di garanzia”, in quanto indirettamente preordinati ad aggirare il patto commissorio.

Non a caso la figura del “contratto in frode alla legge” di cui all’art.1344 c.c. in passato rappresentava l’ipotesi residuale con cui un negozio, dalla causa “tipicamente lecita”, veniva utilizzato come strumento per aggirare le norme imperative, tra cui il divieto di patto commissorio.

La ragione di ciò risiedeva nel pensiero tradizionale secondo cui una causa normalmente coincidente con il tipo non poteva mai considerarsi direttamente illecita, ex art.1343 c.c.; cosicché, il rimedio avverso un contratto dalla causa tipica e lecita, ma indirettamente lesivo di norme imperative, avrebbe trovato spazio residuale nell’istituto del contratto in frode alla legge, di cui all’art.1344 c.c.

Da ciò se ne deduce che il divieto di patto commissorio ex art.2744 c.c. avrebbe potuto dar luogo ad una nullità ex art.1418 comma 1 c.c. solo se violato in maniera diretta, secondo le ipotesi formalmente contemplate dalla norma stessa.

Tuttavia la moderna idea di causa come funzione economico-individuale, o interesse concretamente perseguito dalle parti, ha fatto sì che il negozio in frode alla legge abbia perso parte della sua centralità, tanto da ammettere una violazione anche indiretta dell’art.2744 c.c., stante la rilevanza dell’interesse nel suo insieme, del risultato finale cui il meccanismo economico è preordinato.

Il risultato commissorio, pertanto, si intende raggiunto non solo quando si è in presenza di un patto accessorio alle garanzie reali, realizzato mediante un negozio sospensivamente condizionato all’inadempimento, bensì anche mediante altre operazioni economiche apparentemente lecite che dissimulano un risultato lesivo.

La ragione è evidente nell’interesse trascendente di impedire un risultato iniquo e sproporzionato, quale quello di attribuire al creditore un bene dal valore ampiamente maggiore rispetto al quello dell’obbligazione originaria.

Tra le operazioni potenzialmente censurabili con la sanzione della nullità commissoria, la giurisprudenza, servendosi di indici sintomatici che palesano il meccanismo fraudolento, ha individuato il contratto preliminare, la vendita risolutivamente condizionata, il contratto socialmente tipico di sale and lease back che mimetizza una causa illecita e altre ancora.

Un dubbio sorge, tuttavia, per la cessione del credito, stante il fatto che, come accennato, la norma si riferisce al solo trasferimento di diritti reali.

4. La cessione del credito può costituire uno strumento di raggiro del precetto imperativo ex art.2744 c.c.?

Volendo prospettare l’ammissibilità di una cessio in securitatem avallata dalla logica della causa concreta, la fattispecie illecita ricorrerebbe quando il debitore cede al creditore un suo credito, mediante un negozio ex art.1260 c.c. ove l’effetto traslativo è sospensivamente o risolutivamente condizionato all’inadempimento dell’obbligazione principale.

Nel caso di specie l’operazione economica, apparentemente legittima secondo la struttura della cessione, può nascondere una causa illecita ex art.1343 c.c., con la quale non si realizza una diretta violazione del precetto imperativo, ma si pone in essere uno strumento di simulazione preordinato a garantire l’obbligazione principale.

Il risultato finale non sarà dunque un negozio avente ad oggetto uno scambio a titolo oneroso o gratuito, ma soltanto un meccanismo di assoggettamento del cedente-debitore, il cui credito potrebbe avere un valore ampiamente maggiorerispetto alla prestazione a suo carico.

Se si accogliesse tale soluzione, si sarebbe in presenza di un negozio di cessione invalido in quanto affetto da nullità ai sensi dell’art.1343 c.c. e 1418 comma 2 c.c.

Così, ad esempio, applicando le coordinate sopra enunciate con riguardo alla disciplina dell’istituto della cessione, siffatta ipotesi consentirebbe anche al debitore ceduto, terzo rispetto al rapporto negoziale, di poter eccepire la nullità del negozio di cessione per violazione degli artt.1418 comma 2 e 2744 c.c., onde evitare che egli si trovi ad adempiere ad un soggetto non legittimato.

Questa soluzione non appare tuttavia confermata né dal contenuto letterale della norma, né della sistematica del codice.

In primo luogo, dal punto di vista letterale, non v’è motivo per cui il legislatore non abbia voluto specificare che il patto commissorio può essere integrato anche mediante i trasferimenti ad effetti obbligatori, tanto più se, in un primo momento, la norma doveva essere intesa come un precetto formale e non di risultato.

Osservando l’art.1376 c.c. si nota che il legislatore, facendo proprio il principio del consenso traslativo, ha volutamente scelto di non sovrapporre il trasferimento a effetti reali e quello a effetti obbligatori, specificando che il trasferimento della proprietà, dei diritti reali o “di altro diritto” avviene per il sol fatto del consenso.

Si può ancora rilevare come il rischio sotteso al patto commissorio, concernente la sproporzione di valore tra l’obbligazione garantita e il bene dato in garanzia, investa maggiormente il diritto di proprietà, o gli altri diritti reali, piuttosto che un diritto di credito.

La ragione può essere rinvenuta nel fatto che, di norma, un credito ceduto è sempre certo, liquido e esigibile o quanto meno, suscettibile di facile e pronta liquidazione, mentre il bene oggetto di trasferimento costituisce un valore “incerto”, che deve essere oggetto di stima da parte di un terzo legittimato.

In questo secondo caso, l’assenza di una stima esatta consente al creditore di approfittare della minorata condizione del debitore, appropriandosi di un bene di valore ampiamente maggiore a seguito dell’inadempimento.

5. La soluzione negativa avallata dalla presenza di fattispecie eccezionali in cui ricondurre la cessio in securitatem

Anche dal punto di vista sistematico, si può osservare come all’interno del codice siano presenti delle norme speciali, come ad esempio il pegno del credito di cui all’art.2804 c.c.il mandato all’incasso o il pegno irregolare, che danno ragione alla soluzione negativa.

L’art.2804 c.c., invero, stabilisce che il creditore possa chiedere che sia assegnato in pagamento il credito dato in pegno, per poi soddisfarsi fino a concorrenza del suo credito e restituendo il residuo, secondo i criteri dell’equità tipici del patto marciano.

Si viene dunque a configurare un’ipotesi speciale di ammissibilità della c.d. cessio securitatem attenuata dal meccanismo di restituzione dell’eccedenza.

All’uopo, la norma rinvia agli artt.2797-2798 c.c. che contemplano proprio la logica del c.d. “patto marciano”, consentendo al creditore di ottenere l’assegnazione in pagamento del bene oggetto di pegno, mediante una stima da effettuare secondo i prezzi di mercato, fino alla concorrenza del debito.

Questa previsione si propone l’intento di realizzare un contenimento delle conseguenze derivanti dalla vendita del bene oggetto di garanzia reale, a seguito di un rapporto obbligatorio rimasto insoddisfatto, estensibile analogicamente all’art.1260 c.c.

In tal senso si vuole presupporre che i rapporti obbligatori, tra cui la cessione del credito, trovano già una tutela specifica in seno all’art.2804 c.c.

Si guardi altresì alla fattispecie eccezionale concernente il mandato irrevocabile all’incasso, per mezzo della quale si può determinare una condizione analoga alla cessione del credito.

In questo caso il mandatario-creditore riceve incarico dal mandante-debitore a riscuotere il proprio credito, con la possibilità per il primo di incassarlo direttamente e soddisfarsi della propria obbligazione.

La garanzia commissoria ex art. 2744 c.c. deve, tuttavia, ritenersi esclusa poiché il mandatario che agisce al recupero del credito non fa valere un diritto proprio ma un diritto del debitore e, in secondo luogo e in conseguenza al primo aspetto, non si produce un effetto traslativo, come nella fattispecie commissoria, ma un effetto meramente obbligatorio.

Questa considerazione dimostra come la cessione del credito a scopo di garanzia, al pari delle fattispecie analoghe di carattere speciale, non trovi spazio nell’art.2744 c.c.

Un ragionamento affine può essere condotto con riguardo al “pegno irregolare”, il quale si caratterizza per l’assenza di un elemento strutturale dell’istituto, ovvero lo spossessamento del bene da parte del debitore.

L’art.1 del D.L. 3 maggio 2016, n.59 convertito in L. 30 giugno 2016 n.119 ha definitivamente ammesso l’istituto del pegno non possessorio, avente ad oggetto anche i crediti, in virtù del quale l’imprenditore-debitore può costituire in pegno beni del ciclo produttivo mantenendoli presso di sé, trasformandoli o alienandoli nel rispetto della loro destinazione.

In questo modo la garanzia reale si trasferisce sul bene mobile, o sul credito ceduto in pegno, trasformato o alienato al corrispettivo della cessione del bene gravato.

L’aspetto di maggior interesse è, ancora una volta, il ricorso alla tutela marciana dell’equità, laddove la norma stabilisce al comma 7 che, al verificarsi dell’escussione del pegno, quindi dell’inadempimento, il creditore che abbia ricevuto il credito in garanzia deve procedere alla riscossione, trattenendo il corrispettivo a soddisfacimento del proprio credito fino a concorrenza della somma garantita, con “l’obbligo” di informare tempestivamente il debitore dell’ esatto importo ricavato e “contestualmente restituire l’eccedenza”.

Opinando in maniera analoga a quanto visto con l’art.2804 c.c. si può affermare che, anche in questo caso, il legislatore ha scelto di sottoporre la cessione del credito “a scopo di garanzia” alla regola specifica ed espressa dell’equità a tutela del debitore pignoratizio.

Da ciò si deduce che l’istituto della cessione non abbisogna di essere ricondotto nell’alveo dell’art.2744 c.c., non solo dal punto di vista letterale, quanto dal punto di vista del sistema, non potendosi non rilevare che, in tutte le fattispecie analoghe sin qui richiamate, il legislatore ha optato per un regime specifico, improntato essenzialmente alla tutela equitativa di ispirazione marciana.

La conseguenza pratica fa sì che l’eventuale contrarietà del negozio alla regola sancita nella legge speciale dà luogo a una violazione di norma imperativa, censurabile ex art.1418 comma 1 c.c.

In maniera ancor più esplicativa l’art.6 del d.lgs.170/2004 in materia di contratti di garanzia finanziaria, stabilisce una deroga all’art.2744 c.c. del tutto eccezionale, ammettendo la stipulazione di negozi di cessione a scopo di garanzia per i quali non trova applicazione il divieto di patto commissorio.

Quest’ultima positivizzazione sembra aver definitivamente escluso una connessione tra gli istituti della cessione e del patto commissorio.

6. Conclusione

Il principio consacrato nell’art.2744 c.c. dovrà dunque ritenersi applicabile a tutti quei meccanismi negoziali che lo violano anche indirettamente, secondo un’accezione ispirata alla particolare funzione solidaristica e pro parte debitoris, che trova il suo coronamento nella teoria della causa concreta.

Allo stesso tempo, tuttavia, il precetto non potrà estendersi a fattispecie, quali la tutela del credito ceduto a scopo di garanzia o pro solvendo, che esulano dal trasferimento a effet

FONTE:http://www.salvisjuribus.it/cessione-del-credito-e-divieto-del-patto-commissorio-il-negozio-di-cessione-come-strumento-di-elusione-della-regola-di-cui-allart-2744-c-c/

 

 

 

Riformare il sistema Giustizia per rilanciare l’economia

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Mafie, corruzione ed evasione fiscale sono i principali problemi che l’Italia dovrebbe risolvere e non attraverso il continuo inutile inasprimento delle conseguenze penali ma mediante processi celeri con sanzioni effettive ed efficaci. A differenza degli altri Paesi europei, in Italia le condanne non arrivano mai o cadono in prescrizione, questa discrasia fa il gioco dei delinquenti ma scoraggia anche gli investitori che vorrebbero investire nel nostro Paese. Se si continua su questa strada, purtroppo, ci attende il baratro. L’Italia di oggi, in piena emergenza economica, non può più tergiversare su questa riforma, le sarebbe fatale.

Migliorare la giustizia, semplificare la burocrazia, ridare attualità alla scuola e al sociale sono oggi le riforme più importanti per rilanciare l’economia italiana. Sulla riforma della giustizia penale, salvo non si voglia tornare al rito inquisitorio, sono per la discrezionalità dell’azione penale, per la separazione delle carriere, per l’inibizione totale di passaggio dalla magistratura alla politica. Ritengo sarebbe opportuno ridurre drasticamente anche il numero dei magistrati fuori ruolo. Affiderei la gestione delle cancellerie agli amministrativi eliminando la doppia dirigenza poiché un tribunale è un’organizzazione complessa che produce un servizio all’utenza connesso strettamente al lavoro del personale amministrativo.

Chi vive le cancellerie e conosce i servizi sa come sviluppare le migliori capacità di gestione e organizzazione all’interno degli uffici giudiziari, il che richiede non solo specifica conoscenza ma anche il riconoscimento di una larga autonomia al dirigente amministrativo. Il sistema della giustizia penale va riformato anche mettendo subito mano alla eccessiva “criminalizzazione” di molte condotte che potrebbero essere risolte senza l’utilizzo di sanzioni di natura penale.

Altro aspetto da affrontare è la convenienza a sostenere sempre i giudizi di appello che portino solo benefici al condannato. Iniziando a porre rimedio, a costo zero, a questi due fattori si inizierebbe ad affrontare l’eccessiva durata dei processi penali in Italia. In merito alla lungaggine dei processi civili, invece, sarebbe auspicabile scoraggiare i comportamenti volutamente dilatori che purtroppo nons ono pochi. Sono favorevole all’introduzione del giudizio di ammissibilità in sede civile, al maggior uso dell’arbitrato e al potenziamento della mediazione e della negoziazione assistita con funzioni definitorie. Ritengo, tuttavia, che solo un governo molto forte e sorretto da un consenso ampio possa mettere mano alla riforma della giustizia.

Mi verrebbe anche da dire, non in tono polemico, che in Parlamento non abbiamo più giuristi raffinatissimi come Aldo Moro, Giovanni Leone, Giuliano Vassalli, Giuseppe Bettiol, Alfredo De Marsico, solo per citarne alcuni che mi sovvengono in questo momento. Questi erano personaggi di caratura internazionale. La cultura giuridica, che affondava le proprie radici in quella che è stata definita la grande “scuola di diritto italiana”, sedeva in Parlamento, occupava cariche istituzionali, fino al vertice della Repubblica Italiana. Questo è un fattore che ha un suo rilievo e che oggi purtroppo non si riscontra. Abbiamo però un valore aggiunto. La nostra stella polare è la Costituzione. Partendo da essa possiamo approntare una seria riforma dell’organizzazione giudiziaria, del processo penale e di quello civile che parta dalla reale parità tra accusa e difesa e da un giudice assolutamente terzo e indipendente.

*Giurista e docente di diritto penale, è Presidente dell’Osservatorio Antimafia del Molise e associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA), oltre ad essere ricercatore dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra

FONTE:https://loccidentale.it/riformare-il-sistema-giustizia-per-rilanciare-leconomia/

 

 

 

Caro Mattarella,  motivi il suo silenzio

17 luglio 2020

VIDEO STRAORDINARIO QUI: https://www.facebook.com/101336138259347/posts/170915217968105/?sfnsn=scwspwa&extid=bAlDNdUUHeR1n4kj&d=w&vh=e

 

 

 

LA LINGUA SALVATA

Maestro
Le parole della musica
ma-è-stro

SIGNIFICATO Persona abile e competente; insegnante. In musica: con il medesimo significato, riferito a campi e discipline diverse; direttore. Vento che spira da nord-ovest (maestrale)

ETIMOLOGIA dal latino magister, derivato da magis, ‘più’, col significato di ‘superiore’, contrapposto a minister, ‘servitore’.

Con questo termine si può intendere il ‘maestro di scuola’ (chi ricorda il maestro Manzi?), il ‘vento di Maestro’, il ‘mastro’ artigiano, l’artista, e tanto altro. Secondo alcuni studi, perfino Servio Tullio, il sesto re di Roma, sarebbe stato un magister populi, identificabile con un personaggio denominato in etrusco macstrna, nome che esprime il latino magister, come la carica etrusca macstrev.

In tutti i casi, il significato comune si riferisce a colui che comanda, a chi sa o a chi sa fare più degli altri.

In musica la parola maestro si applica a molti contesti. Di solito è un titolo che si assegna al musicista professionista: compositore, esecutore, insegnante, responsabile artistico di un ensemble, come il primo violino, o anche al costruttore di strumenti. Ci sono poi ruoli antichi, dal ‘maestro di canto fermo’ ormai scomparso, ai superstiti ‘maestro dei pueri cantores’ o al ‘maestro al cembalo’, ancora in auge nelle interpretazioni musicali filologiche. ‘Il maestro di cappella’ esiste soprattutto come carica onorifica, tranne rari casi; è tra l’altro il titolo di uno spassoso intermezzo comico, con un solo personaggio, composto da Domenico Cimarosa (1749-1801) — si può ascoltare qui.

Infatti, nel periodo seguente al Concilio di Trento (concluso nel 1563), si delineò la figura ecclesiastica del maestro di cappella, solitamente un compositore, esperto di contrappunto, di pratiche esecutive, di canto piano, ossia gregoriano, e di canto polifonico. Un vero concentrato di cultura musicale! La sua perizia era frutto anche della personale esperienza sul campo; tutti i maestri cominciavano l’apprendistato in tenera età, come ‘cantorini’, di solito intorno agli otto-nove anni. A vent’anni erano già validi professionisti, avendo studiato la ‘mano’ (il solfeggio), il canto, uno o più strumenti musicali, e il contrappunto. Così, a volte, uomini di eccezionale talento riuscivano a passare da un livello sociale normale, o addirittura basso, a un altro superiore. I più abili e fortunati potevano raggiungere uno status elevatissimo, anche in termini economici: un salto di classe che non è mai stato facile compiere nella storia dell’umanità.

Comunque, la locuzione ‘maestro di cappella’ indicò ben presto anche il responsabile musicale della cappella di corte, che accompagnava le occasioni cerimoniali di prìncipi e di sovrani. Anche qui la capacità creativa del compositore era fondamentale, dovendo prontamente soddisfare esigenze disparate.

Di maestro in maestro, con lo sviluppo dell’opera nel XVIII secolo, il maestro al cembalo realizzava invece sullo strumento, quasi sempre estemporaneamente, la parte del basso continuo. Naturalmente doveva avere una conoscenza perfetta dell’armonia e delle tecniche compositive. Inoltre, curava gli aspetti esecutivi generali, in particolare dei cantanti. Il primo violino guidava l’orchestra, ma sempre sotto la supervisione del maestro al cembalo. Questi ruoli convissero fino all’Ottocento; non esisteva, infatti, un direttore d’orchestra così come lo conosciamo oggi. Anche quest’ultimo è, ovviamente, un maestro: scandisce il tempo con la bacchetta o con le mani, decidendo l’agogica (per capirci: più lento o più allegro?) e la dinamica (piano, forte, crescendo, ecc.). Tuttavia, la direzione è una pratica in gran parte limitata alla tradizione musicale dell’Occidente e al periodo che va dalla fine del XIX secolo sino ai giorni nostri, sebbene sia stata adottata anche in altri contesti, come nella big-band del jazz.

Con la parola ‘maestro’ un pensiero affettuoso, quasi inevitabile, va a Ennio Morricone, compositore e direttore d’orchestra di tanta musica di successo, recentemente scomparso.

Parola pubblicata il 19 Luglio 2020

FONTE:https://unaparolaalgiorno.it/significato/maestro

 

 

 

POLITICA

50mila ristoratori in rivolta contro la Castelli: «Non ti scusiamo, la politica non è uno show»

lunedì 20 luglio 8:15 – di Paolo Sturaro
Lettera aperta di 50.000 ristoratori italiani al viceministro all’Economia, Laura Castelli. «Se si sbagliano i tempi e i modi si fa danno. Per noi il commento del viceministro al servizio mandato in onda dal Tg2 è “bocciato”. Non siamo più disposti a scusare, a capire o giustificare. Siamo diventati intolleranti a questi scivoloni televisivi che mettono alla gogna mediatica un intero comparto».
I ristoratori: «Saremmo noi i pigri e gli incapaci?»

«Ci hanno dato dei pigri, dei rivoluzionari, multati e adesso anche degli incapaci. Tutti questi appellativi non appartengono alla nostra categoria che rappresenta un importante colonna economica italiana (13% del Pil). I ristoratori non hanno mai chiesto clienti al governo, hanno chiesto sostenibilità per le riaperture. Molte attività, hanno riaperto con la consapevolezza di ricominciare in una situazione emergenziale, dove gli incassi non coprono i costi».

«Lo Stato ha lasciato tutti nell’incertezza»

«Abbiamo scelto di voler continuare a regalare una serranda alzata in città», continuano i ristoratori. «E di voler essere vicini ai nostri collaboratori, per sopperire a uno Stato che ha lasciato nell’incertezza centinaia di migliaia di lavoratori del settore. Nonostante tutto troviamo la positività e la dignità di non mollare».

Le promesse non mantenute

«Ci siamo solo ritrovati con un pacchetto di promesse su promesse ancora non mantenute. A tutto ciò si aggiunge l’incapacità della comunicazione politica. Mai ci saremmo aspettati una dichiarazione del viceministro Castelli totalmente fuori focus».

L’ultimo affondo dei ristoratori contro la Castelli

«Ci volete vedere mangiare tutti davanti al Pc in smartworkig? Così siete liberi di ingabbiarci a casa e negli uffici. E lasciare le città in balia del degrado e delle attività clandestine», incalzano i 50mila ristoratori. «Senza lavoratori, senza studenti, senza turisti migliaia di alberghi, musei e pubblici esercizi a breve abbasseranno le proprie serrande per non rialzarle più. La politica non è show ma ha la  responsabilità di dire cose giuste, nel modo giusto e con le parole giuste»

FONTE:https://www.secoloditalia.it/2020/07/50mila-ristoratori-in-rivolta-contro-la-castelli-non-ti-scusiamo-la-politica-non-e-uno-show/

 

 

 

Lotta di classe: come, quando e perché

comedonchisciotte.org

In un articolo del New York Times del 2006 compariva la citazione di una frase che ha fatto epoca:

C’è una lotta di classe, d’accordo, ma è la mia classe, quella dei ricchi, che sta facendo la guerra e sta vincendo.

A far scalpore il fatto che a pronunciare questa frase fosse Warren Buffet, all’epoca classificato come terzo uomo più ricco del pianeta.

Poiché il profeta della lotta di classe è universalmente riconosciuto in Karl Marx, le parole di Buffet possono sembrare un gioco al paradosso, un revival rovesciato che ha inaugurato una nuova stagione.

La lotta di classe che tutti ricordano è quella dei proletari che si devono unire, è quella dei poveri che combattono per avere un posto al sole.

Ma in realtà chi l’ha cominciata? A quale periodo storico possiamo farla risalire? Come viene combattuta e, soprattutto, perché?

Esiste davvero una ragione per cui debba esistere una lotta di classe?

Quando.

I contrasti corporativi si perdono nella notte dei tempi.

Molto probabilmente rivolte di schiavi si sono verificate in quasi tutte le più antiche civiltà.

Per ricordare la sola Roma nostrana, abbiamo la crisi della plebe risolta, secondo leggenda, dalla persuasione di Menenio Agrippa, e la celebre guerra del 73 a.C. in cui ogni ribelle combatté e morì al grido di “io sono Spartaco”.

Tuttavia non voglio parlare dei tempi antichi, nei quali esisteva una reale scarsità di risorse e la bassa produttività del lavoro permetteva solo a una piccola minoranza di non impegnarsi in attività finalizzate alla sopravvivenza.

Intendo riferirmi all’epoca moderna, da quando non solo il sostentamento di tutto il popolo  divenne facilmente conseguibile, ma anche il tenore di vita si sarebbe potuto innalzare decorosamente per tutti.

Ebbene, proprio alle soglie di quest’epoca, vengono formulate delle teorie che contengono i germi della lotta di classe e che postulano la necessità teorica di un ceto povero, in assenza di una ragione pratica della sua esistenza.

La svolta antropologica avviene con la filosofia di John Locke (1632 – 1704), secondo cui la comunità è costituita da un patto sociale in base a cui le persone si assoggettano allo Stato e in cambio lo Stato deve garantire loro tutti i diritti, pena la rivoluzione.

Ma il primo e inalienabile diritto, da cui discendono tutti gli altri, sarebbe quello di proprietà!

Questa trovata balzana fa tabula rasa della natura socievole dell’uomo di aristotelica memoria, della dignità della persona umana (fondata sull’essere a immagine e somiglianza di Dio) portata dal cristianesimo, dei monumentali studi sul bene comune di san Tommaso d’Acquino.

In base a questo principio lo Stato non esiste più, come nel Medioevo, per proteggere i deboli, ma per garantire i possessi dei ricchi. O, per essere precisi fino alla pignoleria, lo Stato esiste per garantire i possessi di tutti, quindi garantire niente per i nullatenenti e tutto per i ricchi.

Questa visione sociale, grossolana e insostenibile, ma tutt’oggi predicata e insegnata nelle scuole di economia, sarà la base imperitura dell’economia liberista.

Particolare da non dimenticare mai, l’autore di queste idee appartenne al ceto superiore e fece fortuna con le azioni di una società per la tratta degli schiavi.

Quindi un esponente della classe ricca dichiarò che la base della convivenza civile è il diritto dei ricchi a vedere tutelata la propria ricchezza: le premesse per la lotta erano state poste e chi si preparava ad attaccare erano i ricchi.

Ma la dichiarazione di guerra tra le classi doveva aspettare ancora un secolo, perché giunse con Thomas Robert Malthus (1766 – 1834), di famiglia benestante (ca va sans dire), pastore anglicano e professore universitario.

Celebre è la sua tesi demografica secondo cui, crescendo la popolazione più in fretta dei mezzi di sussistenza (l’una in progressione geometrica, gli altri in progressione aritmetica) o si limita la popolazione o avverranno catastrofi e carestie.

Il rimedio da lui proposto è quello di impedire ai poveri di procreare e la trovata geniale con cui attuare questo proposito è quella del salario al minimo di sussistenza.

Se i salariati facessero troppi figli aumenterebbe la popolazione e con essa l’offerta di lavoro; ma aumentando l’offerta, il prezzo del lavoro (cioè il salario) calerebbe, scendendo al di sotto del minimo di sussistenza, il che impedirebbe ai lavoratori di sposarsi e avere figli (e magari anche di mangiare tutti i giorni).

Quindi il salario al minimo di sussistenza sarebbe la soluzione autoequilibrante tramite cui cautelarsi in vista del rischio demografico.

Si potrebbero trovare numerosi errori nel ragionamento di Malthus, ma non è il mio scopo denunciarli; invece, stando nel tema di questo articolo, è opportuno sottolineare i significati impliciti che esso porta con sé.

Per prima cosa noto che il bene che Malthus lascia intendere di voler tutelare è quello della autoconservazione della specie: se la popolazione cresce troppo l’umanità ne soffrirà.

Ma allora perché a limitarsi dovrebbero essere i poveri?

Nell’ottica di preservare la specie, dovrebbe essere concesso di fare figli agli individui più sani, più belli, con il miglior patrimonio genetico… e invece sono i ricchi a poterlo fare, coloro che oltretutto consumano una maggior quantità di quelle preziose risorse che scarseggiano.

Da questa preferenza emerge il sottinteso che la ricchezza viene considerata alla stregua di una qualità intrinseca, che rende l’individuo più adatto alla sopravvivenza e al progresso della specie.

Un secondo appunto che evidenzio è che se ai lavoratori fosse conferito un salario abbondante, essi non sarebbero più poveri; ma allora cosa sta predicando Malthus, che è necessario che i poveri non facciano figli perché poi non possono mantenerli, o che è necessario che ci siano i poveri, in modo che la popolazione non cresca?

Per quanto la realtà abbia dimostrato la fallacia del ragionamento malthusiano (sono i Paesi più miseri quelli col maggior incremento demografico) il punto fermo è che in nome dell’umanitarismo,  dell’economia e dell’equilibrio (equilibrio “sostenibile, sostenibile!” aggettivo tantrico presente negli ultimi vent’anni di retorica politicamente corretta) si afferma che deve esistere un congruo numero di persone povere, una classe.

Una terza osservazione fondamentale riguarda la tempistica con cui questa dottrina apparve.

Perché fu in concomitanza con la rivoluzione industriale, cioè nel momento in cui si moltiplicavano le capacità produttive e si prospettava un’abbondanza diffusa, che fu suscitato l’allarme per la scarsità delle risorse.

E il fatto non è isolato, anzi rappresenta uno schema che da quel momento divenne ricorrente.

Il boom del dopoguerra, improntato a politiche postkeynesiane, fu arrestato dallo shock petrolifero e dall’introduzione dell’austerità in vista dell’esaurimento delle risorse energetiche, e questo poco dopo l’entrata a regime delle centrali nucleari e l’abbandono del gold standard, eventi che prospettavano grandi possibilità espansive.

La morale è sempre la stessa: c’è una catastrofe in vista, per scongiurare la quale la maggioranza delle persone deve tirare la cinghia, mentre la minoranza più ricca può fare quello che vuole.

Di volta in volta la catastrofe può essere indicata come l’inflazione, il degrado ambientale o climatico; la prossima catastrofe-spauracchio è quella sanitaria, per cui “se in questo mondo siamo troppi non si può mantenere il distanziamento sociale” e ci si contagia con i virusss letali.

Non mi stupirei se nel giro di qualche decennio uscissero teorie che predicano una maggior quiete terrestre per non irritare gli alieni che ci bombarderebbero con gli asteroidi o per non risvegliare i mostri di fuoco che vivono nel centro della terra e potrebbero venire in superficie a divorare le nostre città.

Qualunque siano i progressi scientifici e qualunque sia la conseguente crescita di potenzialità per l’umanità, di volta in volta verrà trovato un pretesto per dire che non bisogna essere in troppi e non bisogna consumare molto; e a dirlo, nei termini di “armiamoci e partite” sarà sempre un esponente della minoranza ricca, quella che non si limita né nella prole e tanto meno nei consumi.

Malthus si fece conoscere anche come difensore della rendita, ovvero di quel meccanismo che accresce le proprietà senza lavorare.

In un certo senso questo è il completamento della distinzione delle classi: se i veri poveri vengono qualificati dal reddito al minimo di sussistenza, i veri ricchi vengono qualificati dalla disponibilità di una rendita, quasi che lo status di ricco fosse, oltre a una qualità intrinseca, una specie di diritto divino che rende l’eletto superiore alla plebe.

In ogni caso non solo la lotta di classe è stata teorizzata, preparata e avviata dai ricchi, ma soprattutto l’esistenza stessa delle classi è sempre stata pretesa e imposta dall’alto, dalla classe superiore.

Il perché di questa pretesa lo vedremo nel paragrafo dedicato.

Come.

Non voglio fare una rassegna dettagliata dei metodi di divaricazione dei redditi, perché sono quasi tutti ben conosciuti.

Ne ricordo alcuni come i prestiti a interesse, la disoccupazione forzata (con tanto di armamentario teorico a base di “tasso di disoccupazione naturale” e di NAIRU), la corruzione e l’asservimento del sindacato agli interessi del grande capitale, l’uso massiccio di tasse indirette e addirittura la tassazione regressiva, cioè quella per cui chi guadagna di più paga aliquote più basse.

Vorrei invece soffermarmi su un metodo molto praticato nell’ultimo secolo, che ha conosciuto un forte incremento a partire dal nuovo millennio, e che al tempo stesso è il metodo che è passato più inosservato, sia tra gli economisti sia nell’opinione pubblica.

Mi riferisco a quella che chiamo “distribuzione asimmetrica dell’inflazione” e che devo spiegare con un po’ di agio.

L’inflazione è un aumento generalizzato dei prezzi, dovuto al fatto che la domanda supera l’offerta.

Bisogna notare in proposito che non tutte le merci rispondono allo stesso modo all’incremento della domanda.

Ad esempio un aumento della domanda delle caramelle provoca come prima reazione un aumento della produzione di caramelle, cosa non tanto difficile dato che una linea automatica ne sforna 80.000 all’ora, e ben difficilmente arriverà a farne aumentare il prezzo.

All’estremo opposto abbiamo il pezzo unico, ad esempio la fontana di Trevi, per cui qualunque aumento della domanda viene trascritto integralmente nel prezzo di vendita.

Anche i tempi di produzione influiscono sulla risposta dei prezzi alle variazioni della domanda: ad esempio di fronte a un aumento della richiesta è molto più facile che cresca il prezzo delle case piuttosto che quello delle caramelle, dato che di caramelle se ne fanno due e mezza in un secondo e di case una in un anno.

In base a questi orientamenti di massima si capirà che il regno dell’inflazione quasi perfetta è la Borsa, il mercato dei titoli finanziari.

Infatti la percentuale dei titoli nuovi (i collocamenti) sul totale delle transazioni è ridicolmente bassa, sia perché i collocamenti non sono molto numerosi, sia perché il totale delle compravendite è enorme, soprattutto da quando esiste il trading online.

Altri fattori che potrebbero incidere sul prezzo (conservazione, trasporti, tempi di distribuzione) non ce ne sono, e quindi la reazione domanda-prezzi è molto simile a quella di un’asta di opere d’arte.

In fondo anche i più sprovveduti sanno che se aumenta la domanda il valore dei titoli cresce, con un automatismo infallibile.

Quindi quella che in borsa viene chiamata “crescita del listino” è quasi solo una forma di inflazione, stranamente salutata con giubilo dai media, di solito così severi con tutti gli altri aumenti dei prezzi.

Al contrario, quando salgono i prezzi dei prodotti di consumo subito scattano i campanelli di allarme come se potesse accadere qualcosa di grave.

E qual’è la caratteristica sociale collegata a queste tipologie di merci?

Semplice: i prodotti di consumo sono le merci prodotte e vendute dai poveri (e che devono costare poco) mentre i titoli finanziari sono la merce che vendono i ricchi (e che li devono far guadagnare molto)!

In proposito Thomas Piketti, nel suo “Il capitale nel XXI secolo” ci offre delle statistiche molto dettagliate ed eloquenti.

Per il 99% della popolazione i redditi da lavoro superano quelli da capitale (cioè affitti, dividendi e interessi), anche se nel 10% più ricco compaiono entrate da capitale, gradualmente crescenti, che arrotondano il reddito da lavoro.

Ma è per l’1% superiore che i redditi da lavoro si trasformano in redditi d’appoggio, mentre i profitti da capitale  diventano l’entrata principale e in particolare si registra la preminenza delle entrate finanziarie per i redditi più alti.

Dunque approssimativamente si può dire che a beneficiare dell’inflazione di Borsa sia lo 0,5% più ricco della popolazione.

La domanda che si pone a questo punto è: come fa questo 0,5% ad alimentare l’inflazione finanziaria?

Certamente il fatto che i media e le agenzie di rating appartengano a esponenti dello 0,5% superiore aiuta, attraverso la manipolazione della cultura, dell’informazione e quando non basta attraverso l’aggiotaggio.

Certamente il fatto che le politiche espansive istituzionali, denominate Quantitative Easing, vengono effettuate acquistando titoli e non, ad esempio, mezzi di produzione industriale o servizi al cittadino, aiuta similmente.

Ma negli ultimi lustri si è praticato un metodo ben più spiccio e diretto, di cui ci ha informato l’ex viceministro statunitense Paul Craig Roberts, ecco le sue parole.

Nel 1989, il governatore della Federal Reserve, Robert Heller, affermò che, poiché la Fed manipola già il mercato obbligazionario con i propri acquisti, essa può anche metter mano al mercato azionario per fermare il calo dei prezzi. Questo è il motivo per cui il Plunge Protection Team (PPT) venne creato nel ’87.

E Craig Roberts prosegue spiegando che oggi queste manipolazioni avvengono: acquistando futures su indici azionari S&P, per arrestare il calo del mercato guidato dalle fundamentals, e per riportare i prezzi in linea con un decennio di creazione di denaro.

In pratica il gestore della macchina che stampa i soldi scommette sul rialzo della Borsa, dando così il segnale agli “investitori” che va tutto bene e che i soldi per dividendi e interessi ci saranno.

E chi sono le persone che fanno queste politiche dirigendo la Fed, esponenti del ceto popolare, rappresentanti eletti, o elementi cooptati dalla élite plutocratica di cui già facevano parte o in cui sono stati accolti?

Non mi risulta che Alan Greenspan sia mai stato visto intento a vendere collanine sulla spiaggia, né Ben Bernanke a lavare i vetri al semaforo, né Janet Yellen a fare la questua.

Piuttosto costoro frequentano club e raduni esclusivi, come il Bilderberg o il forum di Davos, ma abbiamo le prove, grazie alla revisione dei conti del 2011, promossa dal coraggioso senatore Ron Paul, che una campagna segreta di aiuti post crisi in forma di prestiti senza interesse (e, al momento dell’audit, senza nessuna restituzione) era stata fatta a grosse società, per lo più finanziarie, di cui dirigenti e azionisti della Banca Centrale americana erano soci.

Quindi i dirigenti della Fed, in palese conflitto di interessi, possiedono capitali finanziari e, vuoi per interesse personale, vuoi per solidarietà di classe, vuoi per alienazione dalla realtà, profondono i loro sforzi per sostenere il reddito tipico dello 0,5% più ricco (i profitti da capitale) mentre si sono opposti agli aiuti ai poveri, inducendo Bernie Sanders a dire che Questo è un classico caso di socialismo per i più forti e ricchi e di individualismo “arrangiati e fai da te” per tutti gli altri.

Perché.

Qual’è il motivo per cui i ricchi si sentono spinti a condurre perennemente una guerra di classe contro i poveri?

Per provare a rispondere a questa domanda bisogna addentrarsi nei meccanismi psicologici che le condizioni di ricchezza e povertà recano con sé.

Una prima risposta che si può indicare è per atavismo.

Nell’antichità, data l’assoluta preponderanza del lavoro manuale su altri mezzi di produzione, qualunque progetto passava per il reclutamento (sovente coatto) della forza lavoro e il suo inquadramento in un ordine gerarchico, vista la penuria dei mezzi di comunicazione.

Non c’erano molte alternative a queste prassi e sembra che ancora oggi le classi dominanti facciano fatica a liberarsi dal riflesso pavloviano che li induce a sottomettere i collaboratori.

Una seconda risposta la si può trovare nei gradi di soddisfazione e di felicità che provengono dal possesso di beni.

Quando si è molto poveri si soffre per l’indigenza ed è naturale aspirare al benessere, tant’è che gli aumenti di reddito che cambiano la condizione delle persone, facendole passare dalla fascia della miseria a quella della classe media, provocano effetti immediati nell’aumento di felicità.

Ben diverse sono le ripercussioni sulla felicità quando il reddito si innalza ulteriormente dalla fascia media a quelle superiori.

Da indagini specifiche, condotte da varie scuole sociologiche, è risultato che tale incremento dei guadagni è associato a un calo della felicità (misurato con le dichiarazioni degli interessati) e contestualmente a un calo dei beni relazionali.

In sostanza, quando non ci si deve preoccupare di come sbarcare il lunario, non è la ricchezza che aumenta la soddisfazione della vita, ma le buone relazioni umane.

E troppi soldi inducono a trascurare o restringere le relazioni umane, per eccesso di cura verso i beni materiali, per paura di perdere le ricchezze, per il sospetto di essere frequentati per interesse e non per amicizia, per lo sviluppo di un senso identitario particolare che induce ad accompagnarsi solo con altri ricchi…

Qui sotto vediamo uno dei grafici della curva di Kutznet che illustra quanto ho appena esposto.

E purtroppo è facile immaginare come la delusione provocata dall’insoddisfazione pur in presenza di ricchezza possa mutarsi in qualcosa di peggio.

I casi tipici sono due: un arricchito di prima generazione che per un po’ è stato sempre più felice grazie agli aumenti di reddito, dapprima insisterà con questo schema (arricchire sempre di più) poi, dopo un certo numero di prove dell’inutilità di questa tattica, cercherà conferme di natura comparativa per dimostrare a se stesso che non ha sbagliato tutto.

Allora gli sarà di conforto misurare la distanza che c’è fra lui e i poveri, anzi l’infelicità dei poveri fungerà da supporto alle sue certezze e sarà la base su cui fonderà la propria autostima: ecco che è comparsa una forma sadica che sospinge questo tipo di ricco alla lotta di classe.

La seconda psicopatologia si sviluppa in certi ricchi da generazioni, abituati a vivere in un limbo separato dalla realtà: per costoro il rischio è il delirio di onnipotenza di cui un caso esemplare è stato David Rockefeller.

Questo banchiere che invocava un governo mondiale di banchieri (perché ovviamente pensava di essere lui a comandare) vedendo che le folle non scattavano ai suoi ordini, prese a detestare la loro ottusità, pensando quindi a come manipolarle, coartarle, schiavizzarle e anche sterminarle (non si dimentichi la sua ossessione per la riduzione della popolazione mondiale), al fine di conservare solo un gruppo scelto di sudditi che fosse capace di obbedire presto e bene.

L’affetto da delirio di onnipotenza proietta il conseguimento della felicità in un progetto utopistico, il mancato raggiungimento del quale giustifica lo stato di insoddisfazione del momento presente.

Per questo secondo tipo di malato, contagiato dalla ricchezza, la lotta di classe esprime il tentativo di rimuovere gli ostacoli che si frappongono fra il soggetto e la sua felicità, o meglio, la sua idea di felicità.

Bene in proposito aveva sintetizzato Silvio Gesell nel suo “Sistema economico a misura d’uomo” affermando che nella divisione della società in classi ci sono: da una parte quelli che sudano, imprecano e lavorano e, dall’altra i gaudenti che vivono a spese altrui, avviando quindi entrambi verso personalità asociali e conflittuali, perché anche i primi aspirano a diventare… (come i secondi nda)…mentre lo spirito di rivolta serpeggia nei repressi…nei finora vincenti capitalisti aleggia tutta la brutalità della volontà di potenza e di tirannia.

Frase che riassume quanto ho esposto e che sottolinea anche l’effetto di ritorno che hanno i sentimenti popolari nei confronti dei ricchi: l’invidia sociale conferma e inasprisce la brutalità del sadico, mentre lo spirito di rivolta spinge l’aspirante onnipotente a non patteggiare e a perseguire le vie più tiranniche.

Conclusioni.

Le classi si formano a partire dall’attitudine corporativa dei ricchi, i quali tendono anche a stabilire un atteggiamento ostile nei confronti delle classi inferiori.

Di fronte al dato storico della lotta di classe dei ricchi contro i poveri, Marx promosse in risposta una simmetrica lotta dei poveri contro i ricchi, senza rendersi conto (ammesso che fosse ingenuo e non in mala fede) che in questo modo aveva già accettato la logica della divisione dell’umanità in categorie in conflitto reciproco e, peggio ancora, aveva già accettato l’esistenza e per usare il suo linguaggio “la necessità storica” di classi ricche e povere.

Invece Silvio Gesell, nell’opera citata, scrive: in una società ben organizzata ricchezza e povertà non devono esistere e dovrebbero suscitare in ogni uomo libero orrore sorpresa e rivolta.

Pace e libertà sono sinonimi ed è veramente libero solo l’uomo che possa modificare la sua posizione economica col suo lavoro e in funzione delle sue necessità”.

Quindi non sopraffazione da parte dell’una o dell’altra classe, ma eliminazione delle classi (pur conservando dei premi al merito per chi lavora meglio in quantità e in qualità) attraverso l’eliminazione del meccanismo che cristallizza gli strati sociali, cioè i profitti da capitale.

In quest’ottica ho segnalato l’inflazione della borsa come un’arma, poco considerata, della lotta di classe.

Ma l’esistenza delle classi non è necessaria o dovuta e le situazioni di conflitto personale e sociale rendono le persone infelici e possono anche farle ammalare.

Persino un libello cinico e machiavellico come i “Protocolli dei savi di Sion” descrivendo il momento in cui si faranno le cose bene dice che le tasse saranno fortemente progressive e che i ricchi dovranno comprendere che hanno il dovere di dare una parte della loro soverchia ricchezza al governo, perché questo garantisce loro il possesso sicuro del rimanente ed inoltre dà loro il diritto di guadagnare del denaro onestamente.

E aggiunge che tale riforma è la prima e la più importante del nostro programma, essendo la garanzia principale della pace.

Chissà quando i proprietari delle grandi ricchezze si renderanno conto che ciò che devono tutelare non sono i propri possessi, ma la propria felicità, alimentata innanzitutto dalla pace, dalle buone relazioni umane.

 

Andrea Cavalleri

18.07.2020

Di Andrea Cavalleri è uscito il suo primo libro “Processo al liberismo“, con prefazione di L. Roselli e postfazione di P. Ferrari.

FONTE:https://comedonchisciotte.org/lotta-di-classe-come-quando-e-perche/

 

 

 

SCIENZE TECNOLOGIE

UN’APPLICAZIONE DI GOOGLE CHROME CONTRO L’OMOFOBIA

Insulti omofobi in rete: Google dice basta e lancia Love Wins, un’estensione di Google Chrome che trasforma le offese in parole arcobaleno

Da insulti a parole arcobaleno: ecco #LoveWins

 L’estensione di Google Chrome è stata lanciata dall’azienda irlandese Connector che ha pensato di dare un freno al cyber-bullismo, evitando alle persone LGBT di scovare insulti omofobi mentre navigano on line. Love Wins riesce a sostituire tutti gli insulti che rileva in parole dolci e dal colore arcobaleno. Un esempio: ‘Faggot’ (frocio) diventa in un attimo ‘amazing human’, ‘dyke’ (lesbica) si trasforma in ‘unbelievable friend’.

Ad oggi, purtroppo, questa estensione vale solo per l’inglese.

Risultati di ricerca della parola “faggot” (frocio)

Un calcio all’omofobia

L’obiettivo di questa applicazione è quello di limitare l’omofobia in rete, evitando ai membri della comunità LGBT di incontrare insulti e offese gratuite in internet o sui social.

#LoveWins è un’estensione per Google Chrome e può essere scaricata e installata gratuitamente.

Ivan Adriel, capo del dipartimento digitale di Connector, ha detto: ‘A livello internazionale, le statiche formulate dall’organizzazione statunitense GLSEN ha dimostrato che il 42% dei giovani LGBT ha subito cyber-bullismo, il 58% ha sperimentato commenti negativi online dovuti alla propria sessualità e oltre un terzo ha ricevuto minacce. L’alto livello di bullismo e molestie online può avere un impatto molto negativo sulla salute mentale e fisica della categoria LGBT’. Love Wins (come si può ben capire dal nome) vuole rendere il web un ambiente più tollerante anche attraverso i termini scelti per rimpiazzare gli insulti: aggettivi positivi che celebrano orgoglio, coraggio e amichevolezza della comunità LGBT.

FONTE:https://www.coolcuore.it/unapplicazione-di-google-chrome-contro-lomofobia/

 

 

 

STORIA

In Italia non c’è mai stata una Guerra civile

Ma quale guerra civile! Ma quale pacificazione! è il titolo di un articolo del 18 maggio di Alessandro Campi sul sito dell’Istituto di Politica, dove il politologo perugino sostiene che “guerra civile” e “pacificazione” sono due luoghi comuni della nostra politica, strumentalizzati dal berlusconismo. Per Campi l’unica guerra civile reale è  quella da cui è nata la nostra democrazia, anche se difficilmente sarebbe nata dalla “lotta fratricida” tra fascisti e antifascisti, se gli Alleati non fossero mai sbarcati in Sicilia. Poi questa categoria, per Campi, è stata erroneamente applicata a tutta la storia italiana e alla politica post-45.

La mia tesi, simile a quella di Galli della Loggia de La morte della patria, è che nel periodo ‘43-‘45 non vi fu in Italia una guerra civile, né furono repubblichini e partigiani a decidere il futuro dell’Italia, ma due eserciti stranieri, quello tedesco e quello angloamericano, che combatterono, loro sì, uno scontro mortale sul suolo italiano. In questa guerra, da cui le nostre città bombardate uscirono a pezzi, sia la Rsi, sia i partigiani ebbero un ruolo secondario. I tedeschi, come ha dimostrato più volte Roberto Vivarelli, giovanissimo volontario, come tanti altri ragazzi italiani, della Rsi,  non si fidavano dei fascisti, non li facevano combattere: la Rsi era uno stato fantoccio, privo di autonomia.  Mussolini – come scrisse De Felice – avrebbe preferito essere mandato in qualche  Sant’Elena, come Napoleone,  non essere liberato dai tedeschi.

I partigiani, come ha mostrato De Felice in Rosso e Nero, furono finanziati ed equipaggiati dagli Alleati per fare azioni di disturbo contro i tedeschi, atti di sabotaggio, spionaggio, preparazione di attentati e colpi di mano. Gli Alleati, soprattutto gli inglesi, non volevano certo organizzare un esercito partigiano di cui non avevano e non potevano avere il controllo politico-militare, ma piccoli gruppi di guerriglia. E questo fu il movimento partigiano. Non sostenne una sola battaglia degna di tale nome con i soldati della Rsi, né con i tedeschi e gli Alleati non ne riconobbero mai il ruolo politico-militare, come lo riconobbero soltanto a parole al del Regno del Sud, tanto che l’Italia, a differenza della Francia, non sedette al tavolo dei vincitori alla conferenza di Parigi del ‘47, ma fu trattata da nazione sconfitta  e come tale punita con perdite di territori acquisiti nella prima guerra mondiale e delle colonie.

La difficoltà a definire ciò che accadde nel periodo 43-45 (guerra civile o resistenza) da parte italiana implica la difficoltà a definire cosa accadde.  E’ noto che i primi a parlare di guerra civile furono i fascisti della Rsi (Giorgio Pisanò con la Storia della guerra civile in Italia. 1943-1945), mentre gli storici accademici, non solo quelli di sinistra, rifiutarono sempre con indignazione la nozione di guerra civile fino al saggio di Claudio Pavone (1991), Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza. Pavone tentò di prendere due piccioni con una fava: in realtà gli scienziati politici e i filosofi politici seri sanno che la guerra e la guerra civile non  hanno niente a che fare con la morale. Le guerre si vincono se si uccidono più nemici e qualsiasi mezzo è valido pur di raggiungere lo scopo: questa è la moralità della guerra, la cui razionalità è quella strumentale. “It is a shameful thing to win a war”, scrisse  Malaparte e con questa frase Rachel Kushner inizia l’introduzione all’edizione americana di The Skin.

Il saggio di Pavone era politicamente intelligente:  era caduta l’Urss, era fallito il progetto del Pci, il partito comunista era stato legittimato da quanto accaduto nel ‘43-‘45, l’ideologia dell’antifascismo che aveva tenuto insieme la prima repubblica diventava meno praticabile e Pavone optò per accogliere il concetto di guerra civile, unito però a quello di morale e di Resistenza e in virtù di questa sovrapposizione la Resistenza diventava una guerra civile, morale e patriottica. Il saggio di Pavone poteva aprire un grande dibattito nella sinistra con risultati politici importanti: purtroppo la lungimiranza di Pavone non fu raccolta.

In realtà, in Italia dal ‘43 al ‘45 non si combatté una guerra civile (le guerre civili reali sono cose serie), i partigiani fecero quello che è accaduto infinite volte nella storia durante una guerra, quando un paese è invaso e lo Stato che ha dichiarato la guerra a chi lo ha invaso sta perdendo la guerra. Da sempre il sovrano o il capo politico sconfitto viene abbandonato dai suoi, qualcuno dei suoi lo consegna al sovrano vincitore per accreditarsi e così accade ai lealisti che gli rimangono vicino. Insomma, la solita storia, a tale told by an idiot.

Per questo, dopo tanti anni, va sdrammatizzato quanto accadde, prendendo gli uomini e le donne per quello che sono, più feroci degli animali talvolta. A provocare una profonda frattura non fu la supposta guerra civile, ma  ciò che accadde dopo il 25 aprile: risentimenti e passioni di ogni tipo. La frattura fu causata soprattutto da quanto avvenne dopo il 25 aprile: le mattanze descritte da Pansa, le epurazioni, la caccia al fascista, uccisioni di preti, di piccoli proprietari, di ufficiali, maestre, etc: vendette di ogni tipo. La frattura venne istituzionalizzata dalla grande vittoria Dc del 48, risultato non tanto del timore di essere invasi dell’Urss, ma della paura dei comunisti nostrani, dei vari triangoli della morte, delle mattanze, etc., del terrore che i comunisti prendessero il potere e facessero una piazza pulita alla Pol Pot, come diremmo oggi. In politica sociale, la Democrazia cristiana non era rigidamente anticomunista e in politica estera non era rigidamente antisovietica. I due partiti Dc e Pci sbraitavano, ma dettero anche vita al consociativismo, com’è noto.

Per tutta la prima repubblica la religione dominante è l’antifascismo, la resistenza o guerra civile viene lottizzata, tutti i partiti dell’arco costituzionale hanno storici che rivendicano il ruolo  della loro parte nell’abbattimento del fascismo, come se gli Alleati non fossero mai sbarcati in Sicilia. E’ un mantra dire  che la resistenza ci ha liberati dal fascismo ed è un’eresia pericolosissima dire che Mussolini e il fascismo sono stati abbattuti dagli anglo-americani. La fine dell’Urss e la vittoria di Berlusconi nel 1994, alleato con la Lega Nord e con il Msi riporta in primo piano la guerra di civile. E’ il periodo del revisionismo, si scoprono aspetti nascosti del periodo 43-45, il Sangue dei vinti di Pansa  rivela ai più la grande mattanza ed è il libro cult del periodo.

In questo periodo la categoria della guerra civile si estende alla storia italiana, diventa una metafora della politica italiana, ma in Italia non è stata combattuta alcuna guerra civile. Questo è il grande paradosso. Le guerre civile reali, quella inglese, americana, spagnola, per citare le più famose, sono combattute ferocemente da popoli divisi in due con eserciti, battaglie dove non si fanno prigionieri, città rase al suolo o incendiate (si pensi ad Atlanta) etc. Senza interventi stranieri, anche se possono esservi aiuti stranieri, come in quella spagnola, dove però gli stranieri non sono decisivi, il vincitore è Franco.

Dopo le guerre civili vere, si cambia lo Stato completamente, ma rapidamente si passa alla pacificazione. Nelle guerre civili reali, storiche, i vincitori hanno tutto l’interesse a ricompattare il popolo, la nazione, e in genere segue un periodo di intenso patriottismo. In alcuni casi, come in Gran Bretagna, la seconda guerra civile è indolore, priva di sangue, tory e whig si uniscono nella celebrazione della gloriosa rivoluzione che li ha liberati dalla Chiesa Roma e segue un periodo di espansione,  la fondazione dell’impero. Storici saggi come lo whig Hume scrivono storie che pacificano gli ultimi irrequieti e descrivono la guerra civile come il male peggiore che possa accadere a un popolo, una malattia non inglese, tipica dei paesi del Sud Europa, come quei poveri, disgraziati greci, che inventarono parole come amnistia e ostracismo, dove la guerra civile (Hume pensa ad Atene della Guerra del Peloponneso di Tucidide tradotta in inglese da Hobbes) distrugge una grande civiltà.

Perché da noi, dove non c’è stata una reale guerra civile, la guerra civile è diventata la metafora preferita per descrivere la vita politica italiana da quasi settant’anni? Perché il paese è sempre pronto a dividersi, a detestarsi, e perché il berlusconismo è diventato sinonimo di fascismo, the devil, come dice qualche corrispondente inglese e americano che legge troppo Repubblica?

Non c’è una sola risposta, certo la stasis, come direbbe Tucidide,  è di casa tra noi, e il ruolo geopolitico dell’Italia non aiuta, ma forse è proprio perché nel 1945 non c’è stato nessun vincitore: nessuno ha vinto e i “vincitori” non hanno avuto l’onestà di ammetterlo. Come giustamente afferma Campi, le pacificazioni “non si risolvono con il disarmo contestuale dei combattenti e un gesto concertato di pubblica concordia: la pacificazione presuppone sempre la vittoria di una delle due parti”. Oggi però non è necessaria una vittoria che annienti l’avversario per arrivare non tanto alla concordia magica ( difficile immaginare una democrazia priva conflitti), ma a una società decente, gettandosi alle spalle l’illusione di annientare per sempre l’avversario, con qualsiasi mezzo.

Proprio perché non c’è stato alcun vincitore reale tra gli italiani nel 1945, i “vincitori” potrebbero ammettere, come i “vinti”, di non essere speciali, “antropologicamente diversi” o più morali: di essere  come tutti gli altri.  Sarebbe bastato un leader di sinistra dopo il 1989 o il 1994 che avesse avuto il coraggio  di trovare le parole per dirlo e l’Italia avrebbe avuto un’altra storia meno bombastica in questi ultimi due decenni. C’è ancora tempo per trovare le parole per dirlo e auguriamo all’Italia un leader di sinistra coraggioso che abbia la forza di gettarsi alle spalle il passato e dire quello che disse Croce nel ‘47: “abbiamo perso tutti. Stop”.

Per il resto, occorre sdrammatizzare la politica, piantarla d’immaginare grandi lavacri, pensare alle cose pratiche, a cui pensa la maggioranza degli italiani. Certo, gli intellettuali italiani che si occupano di politica non hanno il dono anglosassone di sdrammatizzare, ma potrebbe aiutarli la lettera di un condannato a morte durante la resistenza. E’ la lettera di un repubblichino, condannato alla fucilazione. Dice pressappoco così: “Cara mamma, mi hanno condannato a morte. Non credere a quello che ti diranno, ho fatto quello che hanno fatto tutti gli altri. Ho scelto il cavallo perdente”.

Mi è sempre sembrata la cosa più lucida di quel periodo, sarà perché appartengo alla specie dei facoceri, descritta  sul Foglio da Giovanni Orsina. E so che la politica, come ogni altra cosa, fa parte della corsa della vita e che i filosofi morali, come Hobbes chiamava i filosofi politici, passano la vita a combattersi con la penna e con la spada per decidere il giusto e l’ingiusto, senza arrivare a niente di concreto, ma alimentando incendi di ogni tipo, con l’idea dell’umanità perfetta e dello Stato (etico) perfetto.

FONTE:https://loccidentale.it/in-italia-non-ce-mai-stata-una-guerra-civile/

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