RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 18 DICEMBRE 2020

RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 18 DICEMBRE 2020

A cura di Manlio Lo Presti

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SOMMARIO

 

EDITORIALE

 

IN EVIDENZA

Akio Toyoda, attacco frontale all’auto elettrica: “E’ sopravvalutata, farà collassare l’industria”

Akio Toyoda, attacco frontale all’auto elettrica: “E’ sopravvalutata, farà collassare l’industria”

Il numero uno di Toyota ha espresso il suo pensiero nel corso di una conferenza stampa, spiegando che le auto a batteria non hanno per nulla impatto zero sull’ambiente (come avevano già fatto anche i capi di Rimac e Polestar), che il business dell’industria automobilistica potrebbe uscire con le ossa rotte dalla corsa all’elettrone

Parole di estrema onestà intellettuale: è così che vanno interpretate le ultime dichiarazioni rese da Akio Toyoda, capo supremo della Toyota e presidente della Japan Automobile Manufacturers Association. Nel corso di una conferenza, Toyoda lo ha detto chiaro e tondo: “I veicoli elettrici sono sopravvalutati” e godono di un “eccessivo clamore”, non giustificato né a livello ambientale né a livello economico.

Parole pesanti come un macigno, che arrivano dal capo di uno dei principali costruttori del pianeta, da anni impegnato nella decarbonizzazione attraverso la tecnologia ibrida, di cui è stato inventore ed è principale fautore. Ed è bene precisare che non ci sono conflitti di interessi in ballo: Toyota, infatti, ha già in gamma veicoli 100% elettrici e prevede una massiccia offensiva di modelli a elettroni, composta da 10 modelli che in Europa arriveranno da qui al 2025. Peraltro, l’azienda è fra i pochissimi fabbricanti di auto al mondo a investire pure nell’elettrico alimentato a idrogeno.

Contro chi punta il dito Akio Toyoda, quindi? Contro chi sostiene ciecamente la causa dell’auto elettrica alimentato a batteria senza valutarne il reale impatto ambientale, ben lontano dall’essere zero. Una questione che hanno già messo in evidenza Mate Rimac e Thomas Ingenlath, amministratore delegato di Polestar (marchio di lusso nato da una costola della Volvo).

In particolar modo, il problema risiede nelle emissioni di anidride carbonica generate dalla produzione di elettricità – sia quella che alimenta i veicoli sia quella necessaria per fabbricare le loro batterie, le stesse che hanno un grosso impatto sull’ecosistema – e nei costi sociali della transizione energetica, che oltretutto non sono ricompensati da benefici climatici.

Il presidente della Toyota, poi, ha sottolineato come l’attuale rete elettrica giapponese non sarebbe in grado di sostenere un parco circolante completamente composto da auto a batteria e che l’adeguamento dell’infrastruttura costerebbe allo Stato investimenti fino a circa 300 miliardi di euro. “Quando i politici dicono ‘liberiamoci di tutte le auto che usano la benzina’, capiscono cosa significa?”.

È bene ricordare, comunque, che in Giappone la produzione di elettricità è ancora fortemente legata al carbone e al gas naturale. Ma i combustibili fossili sono anche alla base dell’approvvigionamento energetico in Usa ed Europa (nel Vecchio Continente la quota di energia derivante dal termoelettrico ammonta a circa il 45% del totale, mentre un 12% deriva dal nucleare, che non è considerata una fonte rinnovabile).

In altri termini, se la generazione di elettricità non è “carbon neutral”, non possono esserlo nemmeno le auto elettriche. Anzi, “più veicoli elettrici produciamo, più salgono le emissioni di anidride carbonica”, sostiene Toyoda: e ciò è legato soprattutto alle batterie che, in fase di produzione, fanno quasi raddoppiare le emissioni totali di CO2 di un’auto elettrica rispetto a quelle generate per la fabbricazione di un’auto termica o ibrida.

Da qui, la necessità di rendere green la produzione di elettricità e adeguare le infrastrutture prima di costringere il pubblico a comprare auto a emissioni zero. La troppa foga nella transizione rischia, infatti, di “far collassare l’attuale modello di business dell’industria automobilistica”, determinando la perdita di milioni di posti di lavoro e di rendere la mobilità un lusso per pochi. Concetti su cui riflettere profondamente.

FONTE: https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/12/17/akio-toyoda-attacco-frontale-allauto-elettrica-e-sopravvalutata-fara-collassare-lindustria/6040541/

 

 

 

 

ARTE MUSICA TEATRO CINEMA

UN ECONOMISTA DINANZI A BEETHOVEN

Duecentocinquant’anni fa nasceva Ludwig van Beethoven (1770-1827), fra i massimi geni della storia umana.

Per celebrarne l’anniversario, l’Istituto Bruno Leoni ripubblica come Occasional Paper un breve saggio di Epicarmo CorbinoUn economista dinanzi a Beethoven (PDF). Economista e uomo politico, Epicarmo Corbino (1890-1984) fu professore all’Università di Napoli, ministro dell’Industria e Commercio nel governo di Salerno (11 febbraio-17 aprile 1944), ministro del Tesoro dal dicembre 1945 al settembre 1946, membro della Consulta nazionale, della Costituente e poi, sino al 1953, deputato, sempre in rappresentanza del partito liberale.

In questa conferenza, tenuta all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia il 23 aprile 1953, Corbino descrive «la figura di Beethoven come quella di un genio che ha donato al mondo una fonte perpetua di godimento alla quale le generazioni future potranno sempre accorrere per dissetarsi». Per l’autore «pochi uomini possono dire di aver obbedito ad una coscienza così rigorosamente guidata come Beethoven obbedì a questi Comandamenti fino al suo ultimo respiro. Fare del bene. Amare la libertà. Non rinnegare mai la verità. […] La sua produzione costituisce un monumento a questi tre precetti che noi sentiamo sempre vivi, possenti nelle sue creazioni, dalle più elevate alle più modeste, dalle più semplici alle più complesse».

La musica di Beethoven rivela anche una forte aspirazione alla libertà, in un momento cruciale della storia europea. In un video per l’Istituo Bruno Leoni (QUIGiorgio Pestelli (professore emerito di Storia della musica nell’Università di Torino) ricorda l’afflato di libertà e la sua importanza nell’opera beethoveniana. Della quale l’Istituto Bruno Leoni offre anche un piccolo saggio, con una playlist (QUI) su Spotify, che riunisce alcuni dei lavori di Beethoven in cui è più intensamente presente proprio il tema della libertà umana.

FONTE: http://www.opinione.it/cultura/2020/12/16/istituto-bruno-leoni_ludwig-van-beethoven-occasional-paper-epicarmo-corbino-accademia-nazionale-di-santa-cecilia-giorgio-pestelli/

 

 

 

ATTUALITÁ SOCIETÀ COSTUME

BELPAESE DA SALVARE

Adesso Galli semina la paura. La profezia: “Cosa c’è dopo il Covid”

Il primario infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano: “Arriverà una grande epidemia con germi multiresistenti”

Ancora non abbiamo finito con l’emergenza Covid e già qualcuno prospetta un’altra grande epidemia in arrivo

A lanciare l’allarme è Massimo Galli, primario infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano, docente all’università Statale e past president di SIMIT, la Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, alla vigilia del XIX Congresso: “Arriverà un’altra grande epidemia, causata dai germi multiresistenti”. Questa temuta grande epidemia di cui parla l’infettivologo verrà probabilmente causata da germi multiresistenti e non arriverà in un futuro molto lontano. Potrebbe forse verificarsi a breve distanza da quella che stiamo vivendo ancora adesso. Ma è proprio il caso di parlarne ora?

Una lezione da ricordare

Come riportato da Agi, il virologo ha tenuto a sottolineare che l’epidemia da Covid ha dato una lezione a tutti, facendoci capire come sia importante avere una buona rete epidemiologica. Galli ha però precisato che negli ultimi anni l’infettivologia è andata incontro a tagli pesanti, in alcuni casi le unità complesse sono passate a semplici, in qualche struttura ospedaliera la figura dello specialista infettivologo è stata addirittura considerata inutile.

È “opportuno, quindi, che questa epidemia ci insegni ad andare nella direzione esattamente opposta. Oggi la sanità pubblica, purtroppo, vige in stato semicomatoso. Diventa indispensabile, soprattutto per gli anni a venire, la presenza di una funzione specialistica in ogni centro ospedaliero, non soltanto da un punto di vista strettamente clinico, ma anche dal punto di vista epidemiologico, affinché ci possa essere un possibile riscontro precoce di condizioni che diventano poi di interesse della prevenzione territoriale nel senso più vasto” ,ha spiegato Galli.

La terribile profezia: “Cosa c’è dopo il Covid”

Il noto infettivologo ha poi messo in guardia su una nuova epidemia causata da germi multi resistenti che potrebbe colpirci in un futuro neanche troppo lontano. “Mi auguro francamente che si possa fare tesoro da questa lezione in modo che ci possa trovare più pronti ad affrontare l’altra grande epidemia in arrivo: una pandemia neanche tanto strisciante. Parliamo di quella causata dai germi multiresistenti, che colpisce tanto gli ospedali quanto gli ambienti esterni, una delle principali minacce di questo decennio. E mi auguro, infine, che riusciremo ad essere più forti per fronteggiare malattie ‘storiche’, come quelle da HIV e HCV”.

Nonostante quindi il mondo intero si trovi ancora a fronteggiare la pandemia causata dal Covid, c’è adesso la possibilità che poco dopo arriverà un’altra emergenza. E non si tratta della tanto temuta terza ondata, sulla quale diversi virologi stanno scommettendo per dopo le vacanze di Natale. Benissimo mettere le mani avanti, ma si potrebbero anche evitare i toni allarmistici. Almeno ogni tanto.

FONTE: https://www.ilgiornale.it/news/cronache/adesso-galli-semina-paura-profezia-cosa-c-covid-1909423.html

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

CULTURA

LA CASA SULL’ARGINE, TRA RADICI FAMIGLIARI E DESOLAZIONE

Daniela Raimondi, La casa sull’argine. La saga della famiglia Casadio, Editrice Nord, Milano 2020.

Il romanzo abbraccia due secoli di storia, ma non si deve pensare ad un continuum narrativo che aderisca in tutto e per tutto, senza interruzioni, al lento dipanarsi degli anni; no, qui si procede per salti o, se vogliamo, per quadri. I capitoli del libro sono infatti scanditi dagli anni di volta in volta individuati e messi a fuoco nello snodarsi della lunga catena temporale.

L’autrice opera insomma per selezione. Anche quando privilegia alcuni personaggi, i più originali e interessanti della frondosa famiglia, rispetto ad altri solo sfiorati o accennati. Forse per ragioni di mera economia narrativa. La grande Storia, inoltre, dai moti risorgimentali ai due conflitti mondiali, dall’emigrazione al fascismo, dalla Liberazione all’alluvione del Polesine, dagli anni della contestazione a quelli di piombo, più che innervare concretamente le vicende dei singoli personaggi, fa loro da cornice. O resta sostanzialmente sullo sfondo.

Quando questo non succede – e pensiamo in particolare al caso del garibaldino Achille, che viene a contatto con alcuni eroici protagonisti del Risorgimento -, la scelta riesce un po’ ingenua e gratuita. Più convincenti, invece, risulta il coinvolgimento di Donata negli anni roventi della contestazione, degenerata poi nella lotta armata e nel terrorismo. Se ne può anche azzardare una spiegazione: via via che la Storia viene a coincidere con il vissuto esistenziale dell’Autrice e perde, per così dire, il suo alone mitico o il suo spessore di leggenda, la credibilità della narrazione ne guadagna. Dalla tradizione orale, che sostanzia tutta la prima parte del romanzo, si passa alla testimonianza diretta, all’esperienza autobiografica.
In realtà non sappiamo quanto di autobiografico vi sia nella saga familiare, ma che qualcosa vi sia ci pare indubbio, seppure nelle vicende più remote prevalga di gran lunga la fantasia, magari nutrita, appunto, di oralità. E ammantata dal pathos della distanza. Al di là delle divagazioni fantastiche, la volontà di riscoprire le radici familiari ci sembra autentica, così come la pietas che la innesca. Perché è vero: «c’è sempre […] qualcuno, o qualcosa, che ci tiene legati a un mondo».

Leggendo il romanzo, ci è venuto in mente il weberiano «disincantamento del mondo» (Entzauberung der Welt). L’aura mitica (o magica) che pervade la parte iniziale si riverbera pure sul resto del libro, ma finisce gradualmente, e si direbbe fatalmente, per sfaldarsi e dissolversi alla luce della contemporaneità. Con la morte di Donata, Adele ha «la sensazione che il tessuto che per generazioni aveva unito la famiglia si stesse disfacendo, come se il filo che sino ad allora aveva legato tante vite di colpo si fosse lacerato».

Non è un caso: Donata, anche fisicamente, riuniva in sé i caratteri dei due rami all’origine della famiglia Casadio, fin allora rimasti distinti: quello dei «sognatori con gli occhi azzurri e la pelle chiara» e quello dei «sensitivi del ramo zingaro, con gli occhi neri e i capelli corvini».

All’origine della famiglia o almeno della saga c’è infatti il matrimonio contrastato tra Giacomo Casadio e Viollca Toska: lui dotato di «estro visionario» e di «temperamento malinconico», una zingara, lei, in grado di leggere i tarocchi e di «svelare i misteri del futuro». Chiaroveggente. E proprio da una sua lettura delle carte proviene la sinistra profezia che penderà sulle sorti della famiglia come una spada di Damocle, condizionandone i comportamenti.
Per stornare la tragica premonizione che grava su di loro, i Casadio o, meglio, alcuni di essi rinunciano ai loro sogni, abdicano ai loro talenti naturali, si rassegnano a tradire la propria genuina vocazione. Senza per questo evitare sofferenze e sciagure. Anzi: tradire il destino non è meno tragico, a volte, che accettarne la sfida. Davvero, come scrive Seneca, fata volentem ducunt, nolentem trahunt.

C’è, in questa tensione tra la forza spietata del destino e il libero arbitrio dei personaggi, un’eco della tragedia greca. Al fatalismo e alla rassegnazione di alcuni personaggi si contrappone l’empito agonistico di altri, animati da spirito ribelle e pronti a pagarne il fio. Ad espiare, con la morte o con un volontario castigo, le proprie colpe.
Nessuno, in realtà, si ribella al sortilegio che grava sulla famiglia: tutti, anche coloro che lo negano, anche chi pare meno incline alle superstizioni e respinge ogni trascendenza, ne sono in qualche modo suggestionati. D’altra parte c’è chi parla coi morti, chi coi morti gioca a carte, chi sa leggere nel pensiero e chi presagisce il futuro.

Di fronte al “meraviglioso” che aleggia tutt’attorno e che impronta di sé la cultura – popolare e contadina – del piccolo borgo di Stellata, dove affonda le sue radici la famiglia Casadio e dove sorge l’eponima casa sull’argine (del Po), non resta che o condividerlo o rimuoverlo. Non si spiega altrimenti perché Giacomo proibisca alla moglie di seguitare a fare l’indovina e perché il mazzo dei tarocchi venga per tanti anni relegato in una scatola recondita. Solo quando esso diventerà un innocuo e ludico trastullo, l’incantesimo avrà fine. Ma con esso finirà anche la civiltà contadina, col suo fascino d’autrefois. Tanto che Stellata, un tempo fervida di vita ed ormai abbandonata dai giovani, si ridurrà ad un «paesino […] imbalsamato». A un’ombra di quel che fu.

Sarà la sensitiva Neve, uno dei personaggi più persuasivi del romanzo, a rendersi conto, nel rimirare nell’acqua del Po il sovrapporsi del volto di Donata a quello della sua ava Viollca, che l’incantesimo era forse frutto di un errore d’interpretazione della zingara e di quanti ne rimasero poi ammaliati. Ella avrà allora «la sensazione che premonizioni funeste non avrebbero più tormentato nessuno della famiglia».

Caduto l’incantesimo, s’imporrà la desolazione. Non per nulla la casa sull’argine, già «popolata di memorie e di fantasmi», sarà messa in vendita e svuotata: «Non è rimasto nulla di noi fra queste mura, nulla di tutto ciò che siamo stati», commenterà sconsolata nell’“Epilogo” Norma, la voce narrante in cui si rispecchia l’Autrice. La conclusione del romanzo è una sorta di epicedio e nell’epicedio la casa assurge a simbolo di un mondo scomparso, di una comunità familiare e della terra fra Mantova, Rovigo e Ferrara in cui affondavano le loro radici i «sognatori sconfitti» che danno vita all’epos popolare qui rievocato.
La storia si chiude con uno sradicamento, con uno strappo, dal quale però scoccherà la scintilla della pietas che dovrà risarcirlo. La narrazione si propone come il gesto di Dante che nel canto XIV dell’Inferno, mosso dalla «carità del natìo loco», raccoglie «le fronde sparte» al piede del cespo smembrato dell’anonimo suicida fiorentino. È un gesto riparatorio, che in questo caso risponde pure ad un’esigenza identitaria, al bisogno – proprio di chi scrive – di rimediare allo sradicamento, di riconoscersi in un luogo, in una comunità, in una famiglia. Rivendicando, in una sorta di palinodia, il diritto a sognare. Perché non è vero che i sogni siano solo un lusso da ricchi: «Forse erano proprio i sogni a tenere in vita la gente», si ricrede infine Neve. E con lei concorda la narratrice.

Abbiamo parlato di “meraviglioso”, ma di quale? Se qualche raffronto si può fare con il «meraviglioso padano» di Alberto Bevilacqua, ci sembra nondimeno che le fonti o i modelli cui attinge la Raimondi siano altri, in particolare La casa degli spiriti di Isabel Allende e più ancora, per il realismo magico che ha qui ampio spazio, Cento anni di solitudine di Gabriel García Márquez.

Ma il sostrato popolare è quello padano. E tale è anche il paesaggio, descritto o evocato con poetica maestria, senza pesantezze o pedanterie di sorta. Sublime, nella sua levità quasi estatica, è, ad esempio, la passeggiata notturna che precede la morte di Neve: «Il fiume era una seta…» Il linguaggio, piano e scorrevole, è eminentemente paratattico, di musicale suasione: da poetessa quale è la Raimondi, adusa ad assecondare il dettato di «un angelo» che stringe in pugno «il ritmo segreto dei nomi e dei suoni».

Ma anche i dialoghi, nei quali ella a volte, con icastica naturalezza, inserisce lacerti dialettali, sono ben modulati, di mimetica e non di rado ironica immediatezza. E, quasi a compensare la sommaria ambientazione storica delle vicende, a restituirci un po’ del colore temporale soccorrono i brani di canzone disseminati qua e là nel corso della narrazione. Come tante briciole di Pollicino.

FONTE: https://electomagazine.it/la-casa-sullargine-tra-radici-famigliari-e-desolazione/

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

 

DIRITTI UMANI

ECONOMIA

Il MES va fermato, perché strangolerà la sovranità dei popoli e anche la nostra.

L’Italia è nel mirino di questo infernale meccanismo economico.

Carlo Franza – 17 12 2020

E’ l’argomento cardine oggi  in Italia, perché  mercoledì 9 dicembre 2020  il Parlamento italiano  è stato chiamato ad esprimersi sulla approvazione definitiva del Trattato UE del MES, il cosidetto meccanismo economico salva-Stati. In un momento così difficile non solo in Italia ma a livello  planetario da rendere tutto instabile, il confronto sul MES è una mina esplosiva  che rischia di attentare senza dubbio  ai caposaldi giuridici della sovranità politica delle nazioni d’Europa, che non riesce più a far fronte  e ad innervare maggiormente una  strategia internazionale come global player portatrice di valori identitari culturali attaccati dalle  minacce del pensiero unico globalista e dell’aggressivo progetto totalitario comunista di Pechino. Cos’è il MES? Eccolo. Il “Meccanismo Europeo di Stabilità” è un trattato che crea un’istituzione intergovernativa che avrebbe lo scopo -dico avrebbe- di aiutare i paesi dell’Eurozona, che si trovano in difficoltà economiche sia per ragioni politiche  interne sia a causa degli effetti della pandemiaL’obiettivo della UE, dei Paesi appartenenti, ossia di quegli Stati della UE che sono entrati da anni nell’utilizzo dell’Euro quale moneta comune nelle attività economiche e finanziarie, è di giungere nel gennaio del prossimo 2021 alla sottoscrizione del nuovo trattato che lo regola, a cui dovrà seguirà la ratifica ufficiale da parte dei 19 parlamenti dell’Eurozona. E dunque mi spiego meglio, affinchè i lettori intendano.  In realtà il Trattato del MES è perversamente progettato  in modo da permettere alle istituzioni UE di imporsi direttamente e pesantemente su quegli Stati che siano in difficoltà economica, così da  intervenire  nei processi decisionali legislativi nazionali,  il che vuol dire sostituirsi ai parlamenti e governi nazionali, appropriandosi addirittura direttamente e legalmente dei risparmi dei privati cittadini sui loro conti correnti. Gli Stati,  o lo Stato Italiano  in difficoltà,  si vedranno  imporre una “dittatura sovranazionale” sulla sovranità politica degli Stati  che passa attraverso il potere della cosidetta Troika (Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea e Commissione UE) – l’autorità  che secondo il Trattato del MES  avrà  il potere di imporre norme esterne automaticamente vincolanti per gli Stati in difficoltà economica finanziaria con il fine della cosiddetta “ristrutturazione del debito pubblico”. In parole povere vuol dire  che  ciò si tradurrà per l’Italia in un aumento esponenziale del rischio di una crisi politica e finanziaria che ci costringa ad adeguarci alla cosidetta “ristrutturazione del debito”, ovvero ad una serie di riforme strutturali politiche istituzionali potenzialmente ad ampio raggio in tutti i settori legislativi, dall’economia all’ordine pubblico ed alla difesa, dalla scuola alla sanità, ai temi etici in materia di nuovi diritti, non deliberate dal Parlamento nazionale, ma direttamente  dalla Troika, che andranno  ad erodere direttamente  la sovranità politica del popolo italiano.  Il che vuol dire per chi ha ancora difficoltà  a ben recepire, vista la disinformazione che compie la stampa  di sinistra o questo governo PD-Cinquestelle, che uno dei più accreditati sociologi e politologi italiani, il prof. Luca Ricolfi, studioso liberal, di area progressista, nel dettaglio mostra tutta la sua preoccupazione sull’eventuale approvazione del Trattato del MES. Ha detto testualmente il prof. Ricolfi sulle pagine del quotidiano “Il Messaggero”: “Prima di leggere il testo del MES non ero eccessivamente preoccupato, dopo averlo letto attentamente lo sono moltissimo. Il trattato è pericoloso per l’Italia, e aumenta il rischio di una crisi finanziaria che ci costringa a una pesante “ristrutturazione del debito” (eufemismo per non dover dire: perdite patrimoniali e relativa catena di conseguenze)”. Che traduco ancora in parole povere, vuol dire far piombare gli italiani nella povertà più estrema. 

I punti  drammatici del Trattato MES che si vorrebbero  imporre ai Paesi membri dell’UE, sotto il profilo giuridico di diritto UE, sono due: intanto  l’eccesso di potere del Mese della Troika – a scapito del potere costituzionale legislativo ed esecutivo dei Paesi membri – e la pericolosità delle cosidette Clausole di Azione Collettiva (Cacs) che renderanno  con precise leggi  molto più facile costringere gli Stati a ristrutturare il debito, ovvero a rinunciare allo loro sovranità politica cedendo quote di potere decisionale interno a favore delle macrostrutture politiche UE. La testa d’ariete di questo  drammatico intervento  è  nell’art.12 B del Trattato MES: “In casi eccezionali, una forma adeguata e proporzionata di partecipazione del settore privato, in linea con la prassi del FMI, è presa in considerazione nei casi in cui il sostegno alla stabilità sia fornito in base a condizioni che assumono la forma di un programma di aggiustamento macroeconomico”. Questo è il mezzo legale che verrà imposto, e con il  quale i poteri forti sovranazionali della Ue e del Fondo Monetario Internazionale potranno mettere le mani nelle tasche dei risparmiatori italiani, dei cittadini,  affondare le mani nei nostri conti che verranno così depredati  anche contro la volontà del governo di Roma, del governo italiano. Vi sembra poco? Il Trattato MES parla in sostanza  di «partecipazione del settore privato» al risanamento del debito pubblico: ciò significa  il diritto per il potere UE di attingere direttamente al risparmio, ai beni, alle imprese ed alle proprietà dei singoli privati cittadini italiani per operazioni di risanamento del debito pubblico. Poiché l’Italia – per quanto abbia un debito pubblico enorme pari al 150% del Pil – è lo stato membro dell’Ue col più alto risparmio privato in Europa, sarà così  del tutto lecito considerare che le istituzioni sovranazionali UE e del Fondo Monetario Internazionale  attenteranno  alle libertà dei cittadini italiani impossessandosi di uno dei diritti costituzionali ad oggi garantiti e tutelati, ovvero impossessarsi della  proprietà privata. E’ proprio ciò che  interessa al Trattato MES, ed è questo che, con ogni probabilità, ha permesso l’introduzione dell’articolo 12, il quale prevede quindi che la Ue possa impossessarsi del risparmio privato, dei soldi e dei risparmi di tutti i cittadini  per abbattere il debito dello Stato.

Ecco perché va fatta opposizione al MES, la battaglia è aperta, occorre mettere in discussione  queste politiche maldestre, che tentano – o tenteranno- di mettere fuori gioco le libertà italiane.

 

FONTE: https://blog.ilgiornale.it/franza/2020/12/17/il-mes-va-fermato-perche-strangolera-la-sovranita-dei-popoli-e-anche-la-nostra-litalia-e-nel-mirino-di-questo-infernale-meccanismo-economico/

 

 

EVENTO CULTURALE

 

FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI

 

GIUSTIZIA E NORME

SI CAMBIANO GLI ORDINI PROFESSIONALI PER ELIMINARE PMI E LIBERTÀ

Sembra di assistere progressivamente allo svuotamento e depotenziamento del diritto di proprietà, che potrebbe essere cancellato nell’ottica di questi equilibri di potere che comandano i ns governi.

E ciò è tanto più vero se si guarda alle gestioni di alcuni ordini professionali e alle riforme delle professioni recenti.

Mentre qualche anno fa si parlava di come il digitale in qualche modo sovvertisse il vecchio discorso sul capitale e la proprietà dei mezzi di produzione, dicendo che lo Smart working consentirebbe di essere padroni del proprio tempo e del proprio lavoro, le riforme degli ordini invece sembrano dire altro.

Si insiste sulle continue specializzazioni con esami continui, gli stessi che non fanno nel percorso educativo gli studenti, ma che si chiedono a professionisti e che prevedono spesso lauti pagamenti. Pare che si cerchi di ridurre al lumicino il numero dei professionisti iscritti i quali per conservare la possibilità di lavorare e di campare consegnano il loro lavoro, quindi lo strumento, al vaglio e al pagamento delle autorità di riferimento. Potrebbe ricordare i soviet.

È chiaro che tale sistema favorisce la concentrazione delle professioni in pochi, costosi studi o associazioni tra professionisti con la seria possibilità che si tratti di branches di studi esteri. In tale circostanza saranno favorite le mediazioni o il libero “arbitrio” degli esasperati, in ambito tecnico è possibile il far west.

Se così fosse andiamo non solo verso l’abolizione del diritto di proprietà, ma anche della libera impresa, della proprietà dei mezzi di produzione, del libero pensiero, della possibilità di vivere.

FONTE: https://electomagazine.it/si-cambiano-gli-ordini-professionali-per-eliminare-pmi-e-liberta/

 

 

 

IMMIGRAZIONI

LA LINGUA SALVATA

 

LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

Ora Papa Bergoglio vi chiede di obbedire al nuovo ordine: sta facendo finta di non sapere…

Diego Fusaro – 17 12 2020

VIDEO QUI: https://youtu.be/d9Z9WBwmcBM

FONTE: https://www.facebook.com/groups/208781980338378/permalink/398596791356895/

 

 

 

 

POLITICA

LA RELIGIONE CINQUE STELLE: L’INDIFFERENZA AL POTERE

Ormai è chiaro a gran parte degli italiani che i 5 Stelle siano ben più d’un partito, ma anche cosa assai diversa da un partito. Peculiarità che emergono sia dai piccoli che dai grandi gesti. I piccoli gesti: di proposito si capita in un caffè romano, abitualmente frequentato dai pentastellati, l’attenzione cade su due di loro che si salutano. Un grillino si rivolge ad una grillina con le mani giunte a mo’ di preghiera buddista, e senza abbassare la mascherina esclama “nel massimo rispetto delle norme anti-Covid”. La grillina, sempre con mani giunte all’altezza del viso” risponde “nel massimo rispetto delle norme anti-Covid”. Quindi silenziosamente i due s’accomodano con distanziamento ad un tavolo, ed aprono i loro computer portatili: si guardano ma dialogano solo in modalità digitale. Che siano una “setta”, e poco importi loro dei problemi del popolo, emerge anche dalle priorità dei loro ministri: moneta elettronica con totale abolizione del contante, totale digitalizzazione di ogni interazione sociale, green economy in ogni ambito. Di fatto questi grillini poco o nulla si confrontano con il consenso popolare, soprattutto ignorano i veri problemi dell’Italia. Fa testo che siano rimasti impassibili a cospetto del milione di disoccupati in più degli ultimi tre mesi e, soprattutto, che circa dieci milioni d’italiani siano ormai censibili come membri effettivi nel club della “povertà irreversibile” per motivi bancari, tributari, giudiziari, fiscali…tutto questo scivola sulle loro coscienze come acqua sull’incerata. Sono indifferenti, ma i loro capi sanno che Giuseppe Conte sta portando avanti un progetto per l’Italia non condivisibile dal Parlamento, dalla democrazia. Matteo Renzi non è certo un santo, ma è un politico toscano di grande intuito, e forse ha saputo od intuito gli obiettivi (le mire) impopolari di Giuseppe Conte. Quindi Renzi ha minacciato di far cadere il Governo. Conte ha risposto “capiremo cosa nascondono le critiche, serve trasparenza”. Ma di quale trasparenza parla l’avvocato Conte? Ben sappiamo che la sua nomina a premier è stata partorita dalla setta pentastellata, che ha conosciuto il supermanager Vittorio Colao (il capo della Task-force economica da Londra) quand’era membro dello studio legale Alpa, che ascolta in materia di bilancio dello Stato italiano più i gesuiti dello Ior che il Parlamento. E in materia di bilanci a posto, non dimentichiamo che Colao avrebbe già elencato a Conte i patrimoni italiani che interesserebbero ai fondi esteri. Non aggiungiamo altro. Ergo, Giuseppe Conte non più certo dare lezioni di trasparenza a Matteo Renzi.

E non dimentichiamo che a dicembre 2019 Beppe Grillo già usava la mascherina anti-Covid, mentre l’intera Italia era all’oscuro circa l’imminente pandemia. Fonti autorevoli ci confermano che, a dicembre 2019 lo stato maggiore pentastellato già avrebbe fatto uso di distanziamento sociale e mascherina. Si può facilmente affermare che i 5 Stelle siano dei beninformati, del resto il loro scomparso guru Gianroberto Casaleggio avrebbe frequentato master in comunicazione e security in centri di ricerca vicini al Pentagono (Langley) oltre ad aver intrattenuto rapporti con i responsabili economici del venezuelano Hugo Chavez (Nicolas Maduro finanziava la propaganda venezuelana nel mondo), senza considerare che la Philip Morris avrebbe finanziato con due milioni di euro la Casaleggio Associati per non ben chiare consulenze. L’elenco è lungo, l’iceberg è enorme, ed a noi italiani è visibile solo il ciuffo di Giuseppe Conte. Il resto è sommerso in oscure acque. Anche il capo della comunicazione, Rocco Casalino, lavora alla poca trasparenza e crede nel bavaglio alla stampa. Casalino sarebbe stato fin da tenera età folgorato dalla visione orwelliana della società, crede gli umani vadano gestiti da un Grande Fratello: queste sue radicate convinzioni lo portarono ieri ad entrare a pieni voti nella prima edizione del reality, ed oggi a gestire la paludata comunicazione del Governo Conte.

Matteo Renzi è sempre più distante da Conte perché ha compreso come i 5 Stelle abbiano fatto propri i pieni poteri, gli stessi che Matteo Salvini avrebbe voluto solo a parole. Ma se il leader della Lega è un “Capitan Fracassa”, diversamente Giuseppe Conte è un gesuita con furbizia alla Antonio de Oliveira Salazar (il professore che instaurava la dittatura in Portogallo). Infatti, vista la maretta, il presidente del Consiglio ha già sentenziato “il Parlamento deve assumersi le sue responsabilità”, come per dire che contagi da Covid e disastro economico sono addebitabili agli ostacoli parlamentari. Matteo Renzi ha in sostanza detto di voler togliere il sostegno al Governo se sul “Recovery plan” non venissero ascoltate le richieste di Italia Viva. E Conte ha ribattuto sornione “ben vengano tutte le proposte per migliorare la capacità amministrativa dello Stato…noi però abbiamo bisogno di una cabina di monitoraggio, altrimenti perderemmo soldi”: come per dire “la cabina di regia la gestisco io e con le persone di mia fiducia”. Poi, per dare a bere un po’ di democrazia ai due Mattei, Conte aggiunto “il senatore Salvini mi ha inviato un messaggio, mi ha chiesto disponibilità al confronto, io gli ho detto come già in altre occasione che il tavolo di confronto del governo con l’opposizione resta sempre aperto…ci confronteremo con la Lega e con le altre forze d’opposizione”. La dittatura morbida e progressiva è decollata, e difficilmente sarà scalzabile: i 5 Stelle ne sono più o meno consapevoli collaboratori.

Oltre settantamila poliziotti in più per le strade controlleranno i cittadini, e difficilmente si potrà prevedere un dopo Covid con minor “Stato di polizia”. Poi sono stati rinforzati i servizi di polizia per garantire l’incolumità di alti burocrati, dirigenti di Stato e pubblici funzionari vari: gli 007 avrebbero allertato circa probabili aggressioni a pezzi dello Stato. Del resto basta avvicinarsi al centro di Roma per accorgersi del crescente “Stato di polizia”. Poi è aumentato il controllo di polizia sulle pubblicazioni che, via internet e carta stampata, esprimono dissenso contro il governo: idea che sarebbe stata lanciata dal profeta Rocco Casalino in concomitanza con gli aiuti alla stampa che parla di Covid h24. Intanto, dal primo gennaio entreranno in vigore le nuove disposizioni della Banca centrale europea in merito alle sofferenze bancarie, chi non coprirà entro novanta giorni i debiti scaduti (di qualsivoglia importo e verso ogni sorta di creditore, dal fisco alla giustizia passando per banche e sistemi vari) verrà dichiarato mondialmente “cattivo pagatore”: infatti, il novero degli indebitati verrebbe così messo a disposizione del Fondo monetario internazionale per censire chi colpevole di “deterioramento del credito”. Questa procedura anticiperebbe solo di qualche mese i famigerati “pignoramenti europei” che, entro primavera 2021, potrebbero fare strame di patrimoni pubblici e privati proprio nel Belpaese. Ne consegue che la dittatura farà in modo che la crisi da Covid (quindi anche i “Recovery plan”) vengano poggiati patrimonialmente sui cittadini. Il dopo Covid vedrà una società con evidenti caste economiche, le forze di polizia eviteranno che ricchi e potenti subiscano la pressione dei milioni di poveri. Sembra difficile si possa tornare indietro, è stata spalancata la porta dell’indifferenza al potere.

FONTE: http://www.opinione.it/politica/2020/12/14/ruggiero-capone_cinque-stelle-potere-preghiera-consenso-popolare-conte-renzi-grillo-covid/

 

 

 

Ma Renzi non sfratterà Conte, servo di poteri anti-italiani

«E’ destituita di ogni fondamento la voce secondo la quale ci sarebbe l’eventuale elezione di Joe Biden, alla Casa Bianca, dietro l’improvvisa offensiva di Matteo Renzi nei confronti di Giuseppe Conte». Lo afferma Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt nonché osservatore privilegiato della politica italiana e internazionale, grazie alla sua militanza nei circuiti massonici sovranazionali di segno progressista. «Conte non è particolarmente legato a Trump, così come non è legato a nessun altro. Insignificante com’è, non è certo un problema, per Biden. E’ solo un mediocre, docile esecutore degli ordini di qualunque vero potente che lo incoraggi a restare dov’è, continuando a operare come ha fatto finora: cioè male, visto che si è limitato a servire gli interessi di poteri superiori». Quanto a Renzi, il suo ostruzionismo polemico (spinto fino alla minaccia di far cadere il governo) per Magaldi non è che un fuoco di paglia: «L’unico obiettivo di Renzi è quello di potersi sedere in posizione privilegiata alla “tavolata” che si spartirà i 209 miliardi del Recovery Fund». Purtroppo, aggiunge Magaldi, data la qualità imbarazzante dell’offerta politica italiana, il paese non riuscirà a liberarsi tanto presto, del pessimo Giuseppe Conte. «Se non altro, col passare dei mesi e l’aggravarsi della crisi, gli italiani – che hanno già cominciato a cessare di avere fiducia in Conte – capiranno sempre di più qual è la reale consistenza di questo primo ministro, e scopriranno che non è affatto al servizio dell’Italia».

Magaldi denuncia, nelle retrovie dell’esecutivo, la presenza di un “partito cinese”, trasversale, che inasprisce il rigore dell’emergenza-Covid, favorisce gli interessi egemonici di Pechino e indebolisce costantemente l’Italia, anche a beneficio deiMagaldimaggiori player dell’Ue franco-tedesca (l’asse di potere a cui Conte si genuflette ad ogni occasione). Il paese, per il leader “rooseveltiano”, è finito in una morsa: «Il governo Conte ha finto di scambiare il coronavirus per l’Ebola, provocando danni irreparabili al tessuto socio-economico italiano: un disastro che andrà fermato dalla mobilitazione dei cittadini, che dovranno imparare a battersi per riconquistare libertà e democrazia». Rispetto invece alle incognite del convulso esito delle presidenziali americane, Magaldi ribadisce le proprie convinzioni: dopo l’ultima sentenza della Corte Suprema, che ha negato al Texas e ad altri 17 Stati la possibilità di contestare le modalità elettorali scelte dagli Stati accusati di aver favorito Biden, sembrano davvero ridursi al lumicino le residue speranze di Trump di ribaltare il risultato. Magaldi solidarizza comunque con Trump: «Ha subito un’inaudita campagna di demonizzazione, dai parte dei grandi media, e ha giustamente rimproverato il ministro della giustizia, William Barr, per non averlo informato per tempo delle indagini in corso sul figlio di Biden, accusato di una brutta storia di corruzione».

Al tempo stesso, Magaldi sottolinea come Trump agisca in modo legalitario, da presidente ancora in carica di un grande paese democratico: «Sa che, se i brogli ci sono stati – e se sono stati decisivi, contro di lui – tutto questo andrà provato, a livello giudiziario». Per il momento, forse è meglio «metterlo da parte, il veleno, e trasformarlo in farmaco», già pensando alle presidenziali 2024, magari impegnandosi direttamente nel sistema-media (creando un proprio network, televisivo e web) e gettando le basi per un clamoroso “ticket” con Robert Kennedy Junior, che potrebbe spazzare via gli equivoci di un establishment che da decenni ripropone la falsa dicotomia destra-sinistra». Il giudizio di Magaldi su Trump resta invariato: «E’ stato un ottimo presidente e meritava la riconferma: l’avrebbe avuta, non fosse stato per lo sconquasso anche economico provocato dal Covid». Avverte però Magaldi: «Lo stesso Biden, prima ancora delle elezioni, ha sottoscritto un patto riservato: si è impegnato infatti a non smentire la politica estera varata da Trump, specie nei confronti della Cina». Come dire: «E’ bene evitare conclusioni affrettate, perché la realtà è sempre molto più complessa e sfumata di quanto possa apparire».

FONTE: https://www.libreidee.org/2020/12/ma-renzi-non-sfrattera-conte-servo-di-poteri-anti-italiani/

 

 

 

SCIENZE TECNOLOGIE

L’anticorpo monoclonale fatto in Italia che noi non usiamo.

Prodotto a Latina, poteva curare (gratis) 10mila malati. I burocrati lo lasciano agli Usa

Grazie alla terapia usata da Trump, 10mila nostri malati sarebbero potuti guarire. Ma il via libera alla sperimentazione è ancora in stallo. Clementi: “Abbiamo ‘pallottole’ che possono salvare migliaia di pazienti, ma decidiamo di non spararle”

Diecimila italiani potevano guarire subito, come tanti Donald Trump. Invece, aspettando un vaccino, l’Italia va incontro alla terza ondata Covid senza terapie a base di anticorpi monoclonali, quelli che in tre giorni neutralizzano il virus evitando il ricovero. Da uno stabilimento di Latina in realtà escono furgoni carichi di questi farmaci, ma sono destinati a salvare pazienti americani, non gli italiani. Ai quali, per altro, erano stati offerti a titolo gratuito già due mesi fa. È il paradosso di una storia che ha pesanti risvolti sanitari, politici ed etici. “Abbiamo ‘pallottole’ specifiche contro il virus. Possono salvare migliaia di pazienti, evitare ricoveri e contagi, ma decidiamo di non spararle. Non si spiega”, ripete da giorni Massimo Clementi, virologo del San Raffaele di Milano.

Racconta che i colleghi negli Stati Uniti da alcune settimane somministrano gli anticorpi neutralizzanti come terapia e profilassi per malati Covid. La stessa cura che ha salvato la vita a Donald Trump in pochi giorni, nonostante l’età e il sovrappeso: “Dopo 2-3 giorni guariscono senza effetti collaterali apparenti”. Il tutto a 1000 euro circa per un trattamento completo, contro gli 850 euro di un ricovero giornaliero.

Gli Stati Uniti ne hanno acquistato 950mila dosi, seguiti da Canada e – notizia di ieri – Germania. Non l’Italia, dove si producono. Il nostro Paese ha investito su un monoclonale made in Italy promettente ma disponibile solo fra 4-6 mesi. Scienziati molto pragmatici si chiedono perché, nel frattempo, non si usino i farmaci che già si dimostrano efficaci altrove: fin da ottobre – si scopre ora – era stata data all’Italia la possibilità di usare questi anticorpi attraverso un cosiddetto “trial clinico”, nel quale 10mila dosi del farmaco sarebbero state proposte a titolo a gratuito. Una mano dal cielo misteriosamente respinta mentre il Paese precipitava nella seconda ondata.

Il farmaco – bamlanivimab o Cov555 – è stato sviluppato dalla multinazionale americana Eli Lilly. La sua efficacia nel ridurre carica virale, sintomi e rischio di ricovero è dimostrata da uno studio di Fase2 randomizzato (la fase 3 è in corso) condotto negli USA. I risultati sono stati illustrati sul prestigioso New England Journal of Medicine. Dall’headquarter di Sesto Fiorentino spiegano che l’anticorpo è stato messo in produzione prima ancora che finisse la sperimentazione perché fosse disponibile su scala globale il prima possibile.

Dal 9 novembre, quando l’FDA ne ha autorizzato l’uso di emergenza, gli Stati Uniti hanno acquistato quasi un milione di dosi. In Europa si aspetta il via libera dell’Ema che non autorizza medicinali in fase di sviluppo. Una direttiva europea del 2001 consente, però, ai singoli Paesi EU di procedere all’acquisto e la Germania ieri ha completato la procedura per autorizzarlo. A breve toccherà all’Ungheria. E l’Italia? Aspetta. Avendo il suo cuore europeo alle porte di Firenze, finito lo studio la società di Indianapolis ha preso contatto con le autorità sanitarie e politiche nazionali, anche italiane. Il 29 ottobre riunione con l’Aifa: collegati, tra gli altri, Gianni Rezza per il Ministero della Salute; Giuseppe Ippolito del Cts e direttore dello Spallanzani di Roma; il professor Guido Silvestri, virologo alla Emory University di Atlanta che aveva favorito il contatto con Eli Lilly. Sul tavolo, la possibilità di avviare in Italia la sperimentazione con almeno 10mila dosi gratis del farmaco che negli USA ha dimostrato di ridurre i rischi di ospedalizzazione dal 72 al 90%. In quel contesto viene anche chiarito che non sarebbe stato un favore alla multinazionale, al contrario: una volta che l’FDA l’avesse autorizzato, sarebbero partite richieste da altri Paesi.

L’occasione, da cogliere al volo, cade nel vuoto, forse per una rigida adesione alle regole di AIFA ed EMA che non hanno però fermato la rigorosa Germania. Altra ipotesi: l’offerta è stata lasciata cadere per una scelta già fatta a monte. Sui monoclonali da marzo il Governo ha investito 380 milioni per un progetto tutto italiano che fa capo alla fondazione Toscana Life Sciences (TLS), ente non profit di Siena, in collaborazione con lo Spallanzani e diretto dal luminare Rino Rappuoli. La sperimentazione clinica deve ancora partire e la produzione, salvo intoppi, inizierà solo a primavera 2021. A quanto risulta al Fatto, l’operazione con Eli Lilly, che già due mesi fa avrebbe permesso di salvare migliaia di persone, non sarebbe andata in porto per l’atteggiamento critico verso questi anticorpi del direttore dello Spallanzani che lavorerà al progetto senese. “Non so perché sia andata così, dovete chiedere ad AIFA”, taglia corto il direttore Giuseppe Ippolito, negando un conflitto di interessi: “Non prescrivo farmaci, mi occupo solo di scienza”.

Quando l’FDA autorizza il farmaco, la multinazionale non può più proporre il trial gratuito ma deve attenersi al prezzo della casa madre. Per assurdo, sfumata l’opzione a costo zero, l’Italia esprime una manifestazione ufficiale di interesse all’acquisto. Il negoziato va in scena il 16 novembre alla presenza di Arcuri, del DG dell’Aifa Magrini e del ministro della Salute Speranza. Si parla di prezzo e di dosi ma il negoziato si ferma lì e non va avanti. Neppure quando il sindaco di Firenze torna alla carica. Dario Nardella annuncia ai giornali di aver parlato coi vertici di Eli Lilly e che “se c’è l’ok della Commissione Ue, la distribuzione del farmaco a base di anticorpi monoclonali potrebbe cominciare dopo Natale non solo in Francia, Spagna e Regno Unito ma anche in Italia”. Natale è alle porte e in Italia non c’è traccia di farmaci anticorpali né si ha notizia di una pressione dell’Aifa per sollecitare l’omologa agenzia europea. Come se l’opzione terapeutica per pazienti in lotta col virus, già disponibile altrove, non interessasse.

L’AIFA e la struttura di Arcuri – sentite dal Fatto – ribadiscono: finché non c’è l’autorizzazione EMA non si va avanti. Di troppa prudenza si può anche morire, rispondono gli scienziati. “Io avrei accelerato”, dice chiaro e tondo il consulente del ministro Walter Ricciardi, presente alla riunione un mese fa: “Con tanti morti e ospedalizzati valutare presto tutte le terapie disponibili è un imperativo etico e morale”. Il virologo Silvestri, che tanto aveva spinto: “Non capisco cosa stia bloccando l’introduzione degli anticorpi di Lilly e/o Regeneron, che qui negli States usiamo con risultati molto incoraggianti”. Ieri sera si è aggiunta anche la voce critica dell’immunologa dell’università di Padova Antonella Viola: “E’ sorprendente questo ritardo, cosa aspettiamo?”.

Per il professor Clementi, siamo al paradosso. “È importante trovare il miglior farmaco possibile, ma non possiamo scartare a priori una possibilità terapeutica che altrove salva le persone. Una fiala costa poco più di un giorno di ricovero e ogni risorsa che risparmi la puoi usare per altro. Tenere nel fodero un’arma che si dimostra decisiva è incomprensibile. Da qui, la mia sollecitazione all’AIFA”.

Certo, una soluzione al 100% italiana garantirebbe autosufficienza e prelazione nell’approvvigionamento. Da Sesto Fiorentino, però, rispondono che il loro farmaco, oltre ai benefici in termini di salute e risparmio, avrebbe avuto anche ricadute economiche per l’Italia: nella produzione è coinvolto un fornitore italiano, la Latina BSP Pharmaceutical. “Se andrà bene potremmo distribuirlo non solo negli Usa ma anche in Italia”, esultava a marzo il titolare dell’impresa pontina, Aldo Braca. Nove mesi dopo dallo stabilimento di Latina esce il farmaco più promettente contro il Covid. Ma va soltanto all’estero.

Articolo aggiornato il 17 novembre

FONTE: https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/12/17/il-salvavita-italiano-che-noi-non-usiamo/6039624/

 

 

 

STORIA

Primavere arabe dieci anni dopo

Il filo rosso dalle fiamme in Tunisia alla controrivoluzione dei regimi, che si legittimano agli occhi dell’Europa usando terrorismo e migranti

Primavere arabe dieci anni dopo: il filo rosso dalle fiamme in Tunisia alla controrivoluzione dei regimi, che si legittimano agli occhi dell’Europa usando terrorismo e migranti
In Tunisia la rivoluzione ha sgombrato la via ad un susseguirsi di proteste che ricordano l’urgenza di implementare non solo i diritti civili, ma anche quelli sociali ed economici, tallone d’Achille dei governi post 2011. E se il bilancio delle primavere arabe a distanza di un decennio viene spesso ridotto ad una lista di successi o fallimenti, diversi intellettuali della regione concordano nel considerarle un processo storico ancora in divenire

Era il 17 dicembre 2010 e Mohamed Bouazizi, venditore ambulante di 26 anni, si immolava di fronte alla prefettura di Sidi Bouzid. Una via di questa città dell’entroterra tunisino oggi porta il suo nome. Della sua famiglia però non c’è più traccia: la madre e i fratelli sono fuggiti in Canada, dove hanno ottenuto l’asilo. Dieci anni dopo Sidi Bouzid rimane un simbolo, un termometro attraverso cui misurare la temperatura sociale del paese che per primo ha dato inizio all’ondata di rivoluzioni conosciute con il nome di primavere arabe. A Sidi Bouzid, come in molte altre città della Tunisia, i cittadini sono tornati in piazza nelle ultime settimane per chiedere più lavoro e meno diseguaglianze. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, questa volta, è stata la morte di Badreddine Aloui, giovane medico deceduto il 3 dicembre all’ospedale di Jendouba (nord ovest) non per Covid-19, ma per una caduta di cinque metri in un ascensore guasto e mai riparato. Ai funerali del 26enne si sono presentate centinaia di persone. La protesta ha raggiunto anche la capitale, dove il personale sanitario ha sfilato per le strade guidato dalla fotografia del volto sorridente di Aloui.

In Tunisia la rivoluzione ha sgombrato la via ad un susseguirsi di proteste che ricordano l’urgenza di implementare non solo i diritti civili, ma anche quelli sociali ed economici, tallone d’Achille dei governi post 2011. E mentre chi si immola in piazza non fa più notizia – l’ultimo caso risale al 1° dicembre, quando un uomo si è dato fuoco a Zaghouan dopo aver scoperto di non esser stato assunto come operaio – la giustizia di transizione fa il suo corso. Il paese che ha cacciato il dittatore Zine el-Abidine Ben Ali è riuscito ad intraprendere un lungo e tortuoso percorso verso uno Stato di diritto. Un processo non ancora terminato: sebbene i riflettori non siano più puntati sui tribunali tunisini, molte vittime di crimini e violazioni commessi durante i sessant’anni di dittatura attendono ancora giustizia. A seguito di più di 50mila audizioni private, l’Istanza Verità e Dignità (IDV), una commissione istituita per far luce su violazioni dei diritti umani e crimini di Stato commessi tra il 1955 e il 2013, ha reso pubblico il suo rapporto finale ad inizio 2019. 174 sono i dossier in attesa, trasmessi a tribunali speciali. Si contano più di 1700 responsabili, tra cui molti membri dell’attuale apparato securitario, incluso l’ex presidente Béji Caïd Essebsi deceduto l’anno scorso. Ma gli accusati, spesso ancora in carica, non assistono alle udienze.

Una stagione in divenire – “Dal 2014 siamo dotati di una costituzione democratica e di un nuovo sistema di governo. È un passo avanti considerabile, ma non ancora sufficiente”, avverte lo scrittore tunisino Aziz Krichen nel suo libro La promessa della primavera (Script Éditions). La generazione che dieci anni fa occupava Avenue Bourguiba, oggi vittima della più grave crisi economica dai tempi dell’indipendenza, condivide un generale sentimento di disillusione, se non di delusione. Ma vista con gli occhi degli altri, la Tunisia resta l’eccezione nord africana: “Quando sono arrivato a Tunisi nel 2016 ho assistito ad uno sciopero e quasi non riuscivo a crederci: sono stato trasportato indietro nel tempo”, racconta un attivista egiziano al fatto.it. Mentre il bilancio delle primavere arabe a distanza di un decennio viene spesso ridotto ad una lista di successi o fallimenti, diversi intellettuali della regione concordano nel considerarle un processo storico ancora in divenire. “Due anni fa non avremmo discusso di rivoluzioni in Nord Africa e Medio Oriente come lo facciamo oggi dopo l’avvento di nuovi movimenti di protesta in Libano, Iraq, Algeria e Sudan”, conferma al fatto.it Ziad Majed, autore franco-libanese e studioso dei processi di transizione democratica.

“Gli eventi del 2019 sono la prova che la storia deve ancora fare il suo corso, e che potrebbe essere prematuro trarre conclusioni. Possiamo però affermare che le condizioni di oggi sono certamente meno favorevoli per i manifestanti rispetto a dieci anni fa, anche a seguito della violentissima repressione che si è abbattuta sulla popolazione di certi paesi, come in Siria. I regimi hanno imparato la lezione del 2011”, osserva il professore dell’Università americana di Parigi. In Nord Africa, l’esempio algerino illustra una logica ormai chiara: l’estromissione simbolica del presidente non sempre corrisponde ad un ribaltamento reale del sistema. In Algeria infatti l’apparato del potere resta ben saldo a quasi due anni dalle dimissioni di Bouteflika. “I regimi adottano diverse strategie per mantenersi al potere. L’ultima potrebbe essere la normalizzazione dei rapporti con Israele, un modo per garantirsi la protezione statunitense”, ipotizza ancora Majed. All’espressione “primavere arabe” il ricercatore preferisce un semplice “rivoluzioni arabe”, non solo per evitare di romanzare i fatti storici, ma anche per evidenziare l’altro aspetto delle proteste: la controrivoluzione. In Nord Africa, impossibile non far riferimento al caso dell’Egitto, dove il generale Abdel Fattah Al-Sisi, sostenuto da un apparato militare tentacolare, guida il paese con il pugno di ferro dai tempi del colpo di stato che nel 2013 ha destituito il presidente Mohamed Morsi.

“La controrivoluzione è sostenuta politicamente, economicamente e mediaticamente dagli Emirati e dall’Arabia Saudita, che infatti sono alleati di Al-Sisi in Egitto o di Haftar in Libia”, ricorda Ziad Majed. Anche per questo in Sudan, dopo l’estromissione di Omar El-Bechir nel 2019, il movimento di protesta ha scelto di scendere a patti con i militari: “Ormai la forza di chi opera per una contro rivoluzione è chiara anche ai manifestanti”, specialmente in assenza di una presa di posizione da parte occidentale, spesso in nome del ricatto della “stabilità regionale”. Il termine istiqrar – stabilità in arabo – ricorre per esempio nei discorsi del presidente egiziano Al-Sisi. “I regimi si sono resi conto che l’Europa è sensibile a due argomenti: l’arrivo di nuovi migranti e la minaccia islamista. Li usano per legittimarsi”, ricorda Majed. Per lui, dal 2011 ad oggi qualcosa è cambiato anche tra i manifestanti: “Nel 2019 abbiamo visto che i giovani scesi in piazza non si identificano più nella propria comunità, religiosa o etnica che sia, ma si riconoscono e si uniscono innanzitutto perché cittadini algerini, sudanesi, libanesi. Proprio da questa idea potrebbero nascere in futuro progetti più precisi, capaci di oltrepassare il grande scoglio delle rivoluzioni: trasformare un movimento di piazza in alternativa politica”.

FONTE: https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/12/17/primavere-arabe-dieci-anni-dopo-il-filo-rosso-dalle-fiamme-in-tunisia-alla-controrivoluzione-dei-regimi-che-si-legittimano-agli-occhi-delleuropa-usando-terrorismo-e-migranti/6037999/

L’impresa divenuta leggenda: così i Mas colpirono Alessandria

La notte del 18 dicembre 1941, sei italiani su tre siluri entrarono nella leggenda. E colpirono al cuore la flotta inglese ad Alessandria d’Egitto

La notte del 18 dicembre 1941, Alessandria d’Egitto dormiva placida insieme alle navi dell’Impero britannico ormeggiate nel suo porto. Il mare era calmo, il vento completamente scomparso. La Luna illuminava con la sua tiepida luce le acque del Mediterraneo, mentre le onde si infrangevano sulle pietre e il cemento del porto di più importante dell’Egitto.

Una notte perfetta, che presto si sarebbe trasformata nell’incubo della marina britannica e in uno dei maggiori trionfi per la Regia Marina.

Tutto ebbe inizio la notte del 3 dicembre a La Spezia. Dopo settimane di addestramento durissimo con l’obiettivo di lavare l’onta dell’attacco a Taranto di un anno prima, il sommergibile Scirè, comandato dal tenente di vascello Junio Valerio Borghese, prese il largo.

L’ordine prevedeva di simulare un’esercitazione per eludere le reti di spionaggio Alleate nel Mediterraneo. Una questione di importanza fondamentale, dal momento che le capacità di intelligence e le differenze tra i vari schieramenti potevano significare la stessa vittoria in guerra.

Mentre la notte calava sulle coste liguri, Borghese diede l’ordine di imbarcare, senza farsi vedere da alcun occhio indiscreto, tre “maiali”, i siluri a lenta corsa che sarebbero diventati il marchio di fabbrica della Decima Mas. I tre siluri vennero posizionati all’interno dei cilindri a tenuta stagna posizionati nella pancia del sottomarino. Una volta presi i maiali, l’ordine era quello di recarsi a Porto Lago, nell’isola di Lero, dove lo Scirè avrebbe imbarcato i sei assaltatori pronti a unirsi alla missione. Un viaggio non privo di pericoli: navi e aerei da ricognizione britannici solcavano costantemente cieli e mari sulla rotta del sommergibile italiano, rendendo particolarmente complesso il passare inosservato. Un rischio che l’equipaggio decise non soltanto di accettare, ma anche di prendere di petto, addirittura sfidando un aereo inglese, che venne “salutato” dal sottomarino italiano rilanciando un codice che i servizi segreti erano riusciti a intercettare nelle settimane precedenti l’operazione.

Sulla piccola isola del Dodecaneso italiano, Borghese e gli uomini della Mas attendevano il loro destino e le notizie che arrivavano da Alessandria. Le ricognizioni aeree sul porto egiziano avevano dato alcune indicazioni, ma l’ordine tardava ad arrivare. Troppi i dubbi per una missione così complessa come quella che si stava per compiere. Dopo giorni di attesa nella piccola isola immersa nell’Egeo, l’quipaggio dello Scirè e gli assaltatori che erano giunti nell’isola passano per Rodi, ricevettero l’ordine di partenza. Il sommergibile di Borghese avrebbe preso il mare alle ore 7:00 del 14 dicembre: iniziava la penultima fase dell’operazione G.A.3. Quella che sarebbe diventata l’impresa di Alessandria.

FONTE: https://www.ilgiornale.it/news/cultura/limpresa-divenuta-leggenda-cos-i-mas-colpirono-alessandria-1910544.html

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