RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI  14 GENNAIO 2022

RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 

14 GENNAIO 2022

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

Tutto al mondo è follia, ma non l’allegria

FRIEDRICH DER GROSSE 

in: Il libro dei mille savi, Hoepli, 1967, pag. 11

 

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SOMMARIO

David Rossi, il giallo della mail: «Mi suicido». Ma fu inviata dopo la sua morte
Altre ombre sul suicidio Rossi. Mail falsa, ferite incompatibili
Quando il violentatore è straniero la sinistra tace
VACCINI COVID: CADE UN ALTRO TASSELLO DELLA NARRAZIONE
Rassegnatevi, il romano è la neolingua nazionale
David Rossi, nella commissione d’inchiesta anche Carlo Nordio
Un trionfo triste
L’Afghanistan è ridotto alla fame dalle sanzioni umanitarie
Washington invia segretamente armi in Ucraina
Le linee rosse d’Europa
Il Green Pass e il Capitalismo di sorveglianza 2.0
“Contrada si trova processato per fatti gravi, senza essere indagato o convocato”
Gli strani protagonisti dell’assalto a Capitol Hill
L’invito di Goldman Sachs per il 2022: investire in società con bassi costi di manodopera
L’ITALIA SI RUBARE L’ENERGIA DALLA CROAZIA
Giustizia, la lentezza dei processi nell’ultimo rapporto Eurispes 
Il giudice che collezionava strumenti di tortura. E ci nascondeva le mazzette…
Crisi dello stato sociale e ascesa del Terzo settore
SANITÀ PUBBLICA IN ITALIA. SOTTRATTI 37 MILIARDI IN 10 ANNI
“Ecco cosa sapeva Fauci sul laboratorio di Wuhan”: la rivelazione di Sky Australia
La lezione russa in Kazakistan
La disuguaglianza è una scelta politica
La robotica, una nuova forma di sovversione dell’ordine del creato
Automotive: l’elefante nella stanza
Il sequestro Moro e quelle illusioni della memoria storica

 

 

IN EVIDENZA

David Rossi, il giallo della mail: «Mi suicido». Ma fu inviata dopo la sua morte

David Rossi
La polizia postale sostiene che la mail inviata dall’account di David Rossi sia stata scritta dopo la morte dell’ex capo della comunicazione di Mps
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Spunta un altro giallo nella controversa vicenda della morte di David Rossi, l’ex responsabile della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena: secondo una relazione della Polizia postale, la mail con cui annunciava l’intenzione di suicidarsi all’ex ad della banca, Fabrizio Viola, sarebbe stata in realtà creata il giorno successivo al ritrovamento del suo cadavere. Una scoperta – come sottolinea L’Espresso, che pubblica la relazione della Polposta – che «mette in dubbio la prova chiave utilizzata per chiudere il caso come suicidio».

Anche se la relazione che evidenzia questa «anomalia» è nota da tempo agli inquirenti, poiché si trova «nelle centinaia di allegati alla richiesta di archiviazione della procura di Genova che indagava sui colleghi di Siena e su come erano state fatte le indagini sulla morte» di Rossi. Questi è stato trovato senza vita la sera del 6 marzo 2013, dopo essere caduto da una finestra della sede centrale di Mps in piazza Salimbeni. Secondo la polizia postale la mail incriminata, apparentemente inviata il 4 marzo 2013, è stata invece creata il 7 marzo.

David Rossi, il messaggio “incriminato”

Il messaggio – «Stasera mi suicido, sul serio. Aiutatemi!!!» – è collocato all’interno di uno scambio di mail tra Rossi e Viola. La Polizia postale ha trovato due versioni di questa mail, con la stessa frase, «ma entrambe hanno data di creazione il 7 marzo 2013» alle ore 11.41. Invece, «il delivery time è del 4 marzo 2013 alle ore 10.13». «Va rilevata l’anomalia, alla quale non è stato possibile trovare elementi di riscontro in questo hard disk», conclude la Polposta.

La famiglia di Rossi ha sempre contestato la tesi del suicidio e l’avvocato Carmelo Miceli, che la rappresentata, sottolinea che questo è un elemento importante che non è stato approfondito. «La risposta che ci è stata data – dice il legale, citato sempre dall’Espresso – è che la procura di Genova non aveva delega per indagare sulla morte di Rossi ma solo sulle indagini fatte a Siena, archiviando comunque qualsiasi ipotesi di errore da parte dei colleghi della procura di Siena. Per noi rimane comunque grave che di fronte a quanto scritto dalla polizia postale non ci sia stata alcune verifica ulteriore, considerando che parliamo della prova chiave che avrebbe giustificato per gli inquirenti la tesi del suicidio, visto che l’avrebbe anche annunciato due giorni prima al suo superiore».

Lo scambio di mail tra Rossi e Viola di quel 4 marzo comincia la mattina verso 9 e va avanti fino al pomeriggio. I temi affrontati sono delicati, si parla di una avvenuta perquisizione da parte della Guardia di Finanza e traspare lo stato d’ansia di Rossi («Ti posso parlare del tema di stamani? È urgente. Domani potrebbe essere troppo tardi»). Viola comunque risponde sempre e alle 14.40 scrive: «Ho riflettuto. Essendo cosa molto delicata credo che cosa migliore sia quella che tu alzi il telefono e chiami uno dei pm per chiedere un appuntamento urgente».

Le presunte anomalie sul caso di David Rossi

La conversazione, sempre rimpallandosi la stessa mail con tutti i testi precedenti, viene chiusa alle ore 17.12 quando Rossi scrive a Viola: «In effetti, ripensandoci, sembravo pazzo, a farmi tutti questi problemi. Scusa la rottura… ciao David». In questo alternarsi di messaggi la mail delle ore 10.13, in cui Rossi annuncia il suicidio, appare del tutto fuori contesto ed estranea allo scambio, che avviene sempre con i testi precedenti allegati. Ascoltato dai magistrati Viola dice a verbale di non ricordare un simile messaggio, riconoscendo invece «tutte le altre mail scambiate con lui quel giorno». Dai tabulati telefonici, inoltre, non risultano telefonate tra i due dopo le 10.13, ed appare incredibile che Rossi e Viola non si siano sentiti a voce dopo una comunicazione così drammatica, proseguendo invece via mail una normale conversazione. (ANSA). 

FONTE: https://www.ildubbio.news/2022/01/14/david-rossi-mail-suicidio/

 

 

Altre ombre sul suicidio Rossi. Mail falsa, ferite incompatibili

Una perizia smonta la prova decisiva per i pm. Nel pool di esperti in commissione arriva Nordio

Altre ombre sul suicidio Rossi. Mail falsa, ferite incompatibili

I giochi per il Quirinale «congelano» le audizioni della commissione parlamentare che indaga sulla strana morte di David Rossi. Ad avere la peggio sono Aldo Natalini, Antonio Nastasi e Nicola Marini, i tre magistrati di Siena che in audizione avrebbero voluto smentire la ricostruzione dell’ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena Pasquale Aglieco, che ne ha compromesso immagine e affidabilità, dipingendoli come depistatori. Il Csm li ha scaricati («Nessuna pratica a loro tutela è stata ufficialmente aperta», fanno sapere al Giornale fonti di Palazzo de’ Marescialli) così come l’Anm, solitamente prodigo di contumelie per chi osa accusare un magistrato. Tanto che i tre hanno assunto il legale del figlio di Beppe Grillo, Andrea Vernazza. Intanto Matteo Renzi torna a puntare il dito sullo stesso Nastasi, magistrato del caso Open che oggi a Firenze indaga sull’ex premier, pur senza mai nominarlo: «Se sono state inquinate le prove bisogna che qualcuno paghi».

Ma per capire se davvero il responsabile Comunicazione Mps si sia ucciso o se sia stato ammazzato per evitare che rivelasse ciò che sapeva sui conti disastrati della banca senese o sui festini gay ai quali avrebbero partecipato alcuni magistrati e lo stesso Aglieco (confermati da una lettera anonima e dai racconti del pittore gay Francesco Benocci all’ex ufficiale dei carabinieri Francesco Marinucci) sono stati ingaggiati due ex magistrati di altissimo profilo: Carlo Nordio, già procuratore aggiunto di Venezia, e Roberto Alfonso, già procuratore generale presso la Corte di Appello di Milano. «Lo abbiamo deciso perché il Csm non ha ancora ritenuto necessario autorizzare alcun magistrato di ruolo», dice al Giornale il presidente della commissione Pierantonio Zanettin (Forza Italia) che rivendica anche le prerogative dell’organismo parlamentare rispetto ai timori di una «invasione di campo» nelle inchieste aperte in mezza Italia. «Anzi, mi chiedo che fine abbia fatto la pratica sul caso David Rossi che io ho aperto quanto ero membro del Csm», sottolinea Zanettin. Intanto, come anticipato dal Giornale, secondo una relazione della polizia postale la mail che Rossi avrebbe mandato dall’iPad all’allora ad Mps Marcello Viola per annunciare le sue volontà suicidarie, prova regina sui cui si è basata l’archiviazione, sarebbe stata «creata» il giorno dopo la sua morte. Sarà riprogrammata anche l’audizione dell’ex numero uno Mps Giuseppe Mussari, che dovrà chiarire anche la natura dei suoi rapporti con l’ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli, convinto che Rossi «sia stato ammazzato» come conferma un’intercettazione ambientale captata durante le indagini per ‘ndrangheta in cui è stato coinvolto.

Anche la figlia di David Rossi a Non è l’Arena in onda l’altra sera ha anticipato altre svolte: «Sul corpo di mio padre ci sono lesioni nuove che nessuno aveva mai notato e che fanno pensare a una colluttazione, incompatibili con la caduta», dice citando il parere di un medico legale, come conferma il legale della famiglia Carmelo Miceli. Nel corso della trasmissione è stata fatta ascoltare una telefonata dalla Questura di Siena al 118 la sera del 6 marzo 2013, in cui al centralino l’agente chiede di sapere se il suicida è David Rossi «perché devo riferire a Roma». «Chi era? Perché non si è mai indagato?», si è chiesta la figlia. Interrogativi a cui nessuna inchiesta aveva mai dato importanza fino agli sviluppi nati in commissione.

FONTE: https://www.ilgiornale.it/news/politica/altre-ombre-sul-suicidio-rossi-mail-falsa-ferite-2002015.html

 

 

 

Quando il violentatore è straniero la sinistra tace

VIDEO
Un’analisi di Alain De Benoist.
FONTE: https://www.msn.com/it-it/video/notizie/quando-il-violentatore-%C3%A8-straniero-la-sinistra-tace/vi-AASDDvW

Mentre il governo Draghi estende le restrizioni a fasce e categorie sempre più ampie di popolazione, i dati ufficiali a sostegno di queste misure evidenziano sempre più contraddizioni

Di Filippo Della Santa, ComeDonChisciotte.org

E’ passato più di un anno dall’inizio della campagna di vaccinazione contro la Covid-19.
Ricordiamo ai più smemorati come, grazie ai farmaci autorizzati in via emergenziale dall’Agenzia Europea del Farmaco (EMA), ci fosse stata promessa l’immunità di gregge: prima al 70%, poi all’80%, diventato 90%, in un continuo rincorrere una fine dell’emergenza sempre una dose più in là.

Con l’emergere di nuove varianti, e con i vaccini sottoposti alla prova nel mondo reale, ben presto il raggiungimento di questo obiettivo è risultato sempre più difficile da garantire. Non è certo una novità, ne avevamo parlato la scorsa estate.

I dati dell’Istituto Superiore di Sanità

In una prima fase al sempre crescente numero di casi positivi tra i soggetti vaccinati si opponeva come argomentazione quella del “paradosso di Simpson“.

Con il “Bollettino Epidemia COVID-19 Aggiornamento nazionale 5 gennaio 2022” dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), tale argomentazione ha perso ogni consistenza.
Osserviamo la tabella 5 di pagina 27:

Popolazione italiana numero di casi Covid 19 segnalati, ospedalizzati, ricoverati in terapia intensiva e deceduti per stato vaccinale ed età
Tabella 5 – Popolazione italiana di età ≥ 12 anni e numero di casi di Covid-19 segnalati, ospedalizzati, ricoverati in terapia intensiva e deceduti per stato vaccinale e classe d’età

Come possiamo notare i casi di positività tra i soggetti che hanno ricevuto almeno una dose di vaccino anti Covid-19 rappresentano il 77,3% di tutti i casi positivi valutati nel periodo 03/12/2021 – 02/01/2022.
Essendo la percentuale di popolazione italiana che ha ricevuto almeno una dose di vaccino intorno all’81%, secondo i dati forniti dal sito Ourworldindata.orgsiamo prossimi al punto in cui la probabilità di infezione non sarà più influenzata dallo stato di vaccinazione.

A conferma di ciò il repentino cambio di narrazione. Nonostante tutta la campagna di vaccinazione sia stata basata sul raggiungimento dell’immunità di gregge, e quindi sulla capacità dei vaccini di impedire in modo sostanziale la diffusione del virus Sars-Cov-2, improvvisamente si parla soltanto di occupazione degli ospedali e delle terapie intensive.

Sebbene questo abbia senso da un punto di vista scientifico (l’emergenza deve essere valutata in base a questi parametri, e non in base ai positivi ad un tampone rapido o molecolare), è necessario fare alcune osservazioni.

Sempre dalla tabella riportata nel documeto dell’ISS, si osserva come gli individui non vaccinati occupino il 49,4% dei reparti ordinari e il 65% delle terapie intensive. Questo sembra confermare la tesi di una buona efficacia nella riduzione della forma grave della malattia, tuttavia queste percentuali sono in contrasto con gli stessi dati forniti dall’Istituto Superiore di Sanità relativi ai decessi: contrariamente a quanto avviene nelle terapie intensive quasi il 60% delle persone decedute aveva ricevuto almeno una dose di vaccino anti Covid-19.
Se facciamo riferimento ai dati inglesi relativi al periodo compreso tra le settimane 49 e 52 del 2021 la situazione risulta meno incoerente. Si ha infatti:

  • Diagnosi di positività al Sars-Cov-2 tra individui non vaccinati: 23,2% del totale;
  • Ricoveri per Covid-19 di individui non vaccinati: 41,19% del totale;
  • Decessi per Covid-19 di individui non vaccinati: 28,3% del totale;

Possibili interpretazioni del fenomeno

Una delle possibili spiegazioni di questo fenomeno potrebbe trovarsi nelle parole pronunciate recentemente dal direttore dello Spallanzani Vaia, secondo il quale “si può considerare un paziente vaccinato solo se ha ricevuto anche la terza dose“. A conferma di ciò sui Social girerebbe (il condizionale è d’obbligo) un referto ospedaliero di un individuo con doppia dose presentatosi in pronto soccorso in data 1 gennaio e classificato come non vaccinato.

Sebbene questa spiegazione possa essere considerata valida da un punto di vista della narrazione mediatica, estremamente utile per spingere alle terze dosi, nella tabella 5 l’ISS opera una netta distinzione tra individui con 0, 1, 2 o 3 dosi.

Questa spiegazione non appare quindi sufficientemente concreta.

Un altro possibile fattore potrebbe essere il ricorso, specialmente per le categorie fragili, alla cura precoce con anticorpi monoclonali.

Recentemente il direttore del reparto di malattie infettive dell’ospedale San Luca di Lucca, dottor Luchi, ha elogiato la capacità di mantenere vuoto l’ospedale cittadino intercettando sul territorio gli individui più a rischio di complicanze e curandoli con i monoclonali. Un altro esempio è quello della RSA di Masone (GE), i cui ospiti positivi e vaccinati con terza dose sono stati curati da una equipe guidati dal dottor Bassetti.

Essendo gli individui fragili molto probabilmente in larga parte vaccinati è lecito aspettarsi un contributo nella riduzione delle terapie intensive occupate dai vaccinati.

Sufficiente a spiegare i dati forniti dall’ISS? Molto difficile dirlo, visto le numerose variabili in gioco.

Una spiegazione più semplice la possiamo però trovare osservando i periodi presi in considerazione nel report ISS.

Sappiamo infatti che la curva delle ospedalizzazioni segue la curva dei contagi, per cui i rispettivi picchi sono traslati di circa 2/3 settimane. Ma come possiamo osservare mentre i dati delle diagnosi di Sars-Cov-2 sono riferite al periodo 03/12/2021 – 02/01/2022, quelli delle terapie intensive sono relativi ad un periodo antecedente: 19/11/2021 – 19/12/2021.

Conclusioni

Da queste considerazioni è possibile supporre un aumento nelle prossime settimane della percentuale di posti letto in terapie intensive occupati da individui che hanno ricevuto almeno una dose di vaccino. A quel punto è possibile il raggiungimento di una situazione più coerente come quella inglese (che infatti fa riferimento alla stesso intervallo temporale per la valutazione dei casi positivi, delle ospedalizzazioni e dei decessi).

Assisteremo tra poche settimane al crollo anche dell’ultimo tassello di questa narrazione? Oppure questo non avverrà, confermando in apparenza l’efficacia dei vaccini nel prevenire la malattia grave senza stranamente avere la stessa capacità di riduzione del rischio di morte?
Trarre conclusioni dai dati italiani, quando presenti, è impresa sempre più ardua.
Ma è anche tramite questi che l’esecutivo impone ogni giorno misure sempre più restrittive.

Di Filippo Della Santa, ComeDonChisciotte.org

13.01.2022

FONTE: https://comedonchisciotte.org/vaccini-covid-cade-un-altro-tassello-della-narrazione/

 

 

 

ARTE MUSICA TEATRO CINEMA

Rassegnatevi, il romano è la neolingua nazionale

Le assurde polemiche su “Strappare lungo i bordi”, la serie Netflix del fumettista Zerocalcare

 

 

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

David Rossi, nella commissione d’inchiesta anche Carlo Nordio

David Rossi
La commissione d’inchiesta che indaga sulla morte di David Rossi si avvarrà anche della consulenza di due magistrati: Carlo Nordio e Roberto Alfonso

L’Ufficio di presidenza della Commissione di inchiesta sulla morte di David Rossi ha nominato come consulenti due «magistrati di altissimo valore ed esperienza, ora in pensione»: Carlo Nordio, già procuratore aggiunto di Venezia, e Roberto Alfonso, già procuratore generale presso la Corte di Appello di Milano. Lo rende noto Pierantonio Zanettin, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sul decesso dell’ex capo comunicazione di Mps, morto dopo essere precipitato dalla finestra del suo ufficio il 6 marzo 2013.

«Ho sempre ritenuto – spiega Zanettin – che la commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di David Rossi avesse la necessità di avvalersi anche di magistrati, per svolgere al meglio il proprio compito. Il Csm finora non ha autorizzato alcun magistrato di ruolo a svolgere questa attività di consulenza a favore della commissione. L’Ufficio di presidenza della Commissione ha quindi nominato come consulenti» Nordio e Alfonso che, aggiunge Zanettin, «ringrazio per l’entusiasmo con cui hanno accettato questa nomina».

FONTE: https://www.ildubbio.news/2022/01/14/david-rossi-carlo-nordio/

 

 

 

BELPAESE DA SALVARE

Un trionfo triste

28 novembre, 2021 | 97 commenti

Questo articolo è apparso in versione leggermente ridotta su La Verità di mercoledì 24/11/2021.

Apprendo che in Alto Adige, dove già la primavera scorsa si sperimentava un «Corona pass» in anteprima nazionale, da oggi si applicheranno regole molto più stringenti alle famiglie che scelgono formare i propri figli secondo i principi dell’istruzione «parentale». Cittadino anch’io dell’epoca che giura di non muover dito senza i conforti delle «evidenze» scientifiche, ho cercato nella ragguardevole letteratura sul tema a quali gravi tare culturali, affettive e sociali andrebbero incontro i piccoli homeschooler. Ma non ho trovato nulla del genere, anzi. In compenso ho letto negli stessi giorni una raffica di titoli-fotocopia sulle scuole «clandestine» in cui troverebbero rifugio «soprattutto famiglie no mask» e che starebbero proliferando in tutto il Paese, con in testa l’ex provincia asburgica.

Quanti sono i pargoli così barbaramente «tolti dalla nostra società»? A occhio e croce, meno degli articoli in cui se ne parla. Nella provincia autonoma dove il fenomeno è più diffuso si tratterebbe di 544 (cinquecentoquarantaquattro) bambini: lo 0,7% della popolazione scolastica. Ma la deputata bolzanina e totiana Michaela Biancofiore non ha dubbi: è un «boom» a cui «stiamo assistendo inermi», un proliferare di azioni «che minano la cultura, la coesione sociale, l’ordine pubblico (sic) e la salute». Su che basi lancia queste accuse, quali le fonti, le testimonianze? Non lo dice. L’«involuzione culturale» degli scolari «sottratti alla socializzazione» è «evidente» a lei – e tanto ci basti.

In un’altra era geologica del nostro sentire avremmo apprezzato l’ironia di multare chi definisce «clandestini» le persone che si introducono illegalmente nel nostro Paese e di accettare invece che lo si dica di chi esercita un’attività prevista dalla legge, nel rispetto della legge. Ma oggi sembra tutto normale. Sarebbe legale anche occupare le piazze per manifestare il proprio dissenso, ma da quando lo fanno anche i «no green pass» sono diventate «sempre più tossiche per la nostra democrazia», spiega un senatore orgogliosamente antifascista.

Sviluppi come questi preoccupano, ma non sorprendono. Perché quello tra cittadini e governo sembra ormai essere un gioco scoperto, un bracconaggio normativo che mira a scovare e chiudere ogni spiraglio di fuga per spingere le mandrie nella direzione voluta. Sicché è facile per i braccati indovinare che le nuove restrizioni colpiranno precisamente là dove resiste un rifugio di quiete, un piano B o C, un margine di esistenza possibile tra le ultime pieghe della civiltà anteriore. Sanno che i prossimi strali cadranno ovunque ci sia un margine di vita sulle sponde del fiume, perché le strategie su cui perdono il sonno sono le stesse che tolgono il sonno ai loro castigatori, le loro speranze sono l’assillo di chi li insegue. Contante che ti fa lavorare anche se sei sospeso dallo stipendio? Casa che ti fa sopravvivere anche se non puoi pagare il mutuo? Pensione che ti fa comunque mangiare? Diritto alla riservatezza a cui ti puoi appellare? Sappiamo, sappiamo.

La metafora cara a un medico televisivo si avvera all’estremo, di una caccia ai «sorci» così forsennata da rendere lecita la distruzione di ogni struttura che offra loro un anfratto. Non c’è logica, non c’è dialettica, non c’è tutela, non c’è libertà costituzionalmente o consuetudinariamente ordinata che possa frapporsi. Va demolito ogni scampo e solo una volta ridottisi a vivere tra le macerie, nudi e all’addiaccio, i cacciatori si chiederanno forse se ne sia valsa la pena e se quel deserto non fosse più che un passaggio, la meta di chi ne ha offerto il pretesto.

Come ha osservato non troppo scherzosamente qualcuno, di questi tempi i «complottisti» le azzeccano tutte. Ma è una preveggenza facile, la loro, a cui basta immaginare il finale di una farsa spifferato già dalle prime battute. Dopo quasi ottant’anni di relativa democrazia è difficile digerire oggi l’ipotesi di un governo così accanito verso i propri cittadini, eppure non è raro che accada, è stato ad esempio il caso di molte dominazioni straniere. Il mondo di oggi, i cui tanti governi eseguono a una voce i dettati di pochi padroni sovranazionali, potrebbe integrare il caso particolare di un colonialismo globale senza colonizzatore locale.

O più che particolare, potrebbe anche trattarsi dell’ultima epifania di una norma che serpeggia fin dagli albori della modernità, la cui prima matrice politica non è la Convention nationale, il teatrino rivoluzionario dove destra e sinistra si bisticciavano sui seggi mentre marciavano uniti contro i martiri della Vandea. Quell’antesignano francese delle nostre democrazie non fu invece che la dialettizzazione cosmetica di un progenitore più schietto, del dispotismo illuminato dei philosophes che al popolo può tutt’al più concedere l’inchino del paternalismo volterriano: «tout pour le peuple, rien par le peuple». In tempi di crisi questa contraddizione genetica riemerge come una malattia mai sopita, perché incurabile. Anni fa denunciavo le avvisaglie della sua ricaduta nel diffondersi del concetto di «populismo» che, liquidata ogni parafrasi, storpiava la sovranità scritta nella nostra Carta in un dispregiativo da cui distanziarsi. La retorica delle «riforme» ha dato corpo a questa accezione intendendo l’intervento politico come una necessaria frustrazione del mandato, un farsi vanto delle «scelte impopolari» e del cavare «lacrime e sangue» dalla gente, di costringerla, rieducarla e punirla, avverando in corpore plebis la metafora del virus che attenta alla vita di tutti.

Di questa genitura, ciò a cui stiamo assistendo è l’indiscutibile trionfo almeno in senso quantitativo, per la portata mondiale del metodo «illuminato» e delle sue ambizioni. Mai come oggi, se non forse ai tempi leggendari della torre biblica, si era abbattuta con così ferrea unanimità di intenti l’imposizione della stessa medicina e delle stesse parole a tutti, la soppressione di ogni spazio anche fisico di alterità.

Eppure, per essere un trionfo è ben triste. Dove sono le fanfare e i tripudi di ogni degno regime? Dove suonano le trombe della propaganda, chi magnifica le sorti progressive, proprio ora che bussano all’uscio? Mentre l’armata globale avanza schiacciando ogni ostacolo, si fa più fitto il buio di un crepuscolo paralizzante. Si vive ogni giorno sotto il tallone di qualche nuova minaccia e le uniche vittorie che riusciamo a cantare è che… poteva andar peggio. I territori conquistati non li si guarda nemmeno, contano solo i fazzoletti di terra non ancora aggiogati. Il bicchiere è sempre mezzo vuoto, mancasse solo una goccia, sicché non è mai tempo di festa: più si vince e più si teme il nemico, più lo si schiaccia e più se ne esalta con rabbia il pericolo.

Qualcuno ha evocato i toni lugubri della distopia orwelliana, il cui onnipotente il Partito spendeva ogni sforzo per terrorizzare, sorvegliare e confondere la popolazione, ne reprimeva anche i pensieri e la addestrava ogni giorno a odiare un nemico. È un modello di dominazione in malo, che punta cioè tutto sulla paura dei peggiori e del peggio e che, non potendo offrire alcunché, sa perciò solo togliere o minacciare di togliere. È il modello meritocratico in tutto il suo splendore, quello in cui i meritevoli non guadagnano nulla se non la promessa di non finire (per ora) negli inferi degli immeritevoli, quello i cui «premi» altro non sono che un differimento del castigo. Se quel modello vive oggi nello stile e nelle intenzioni, occorre però chiedersi quanto sia esso sostenibile nella realtà non letteraria e dove possa parare, se a un punto di riposo o rottura. Leggendo gli eventi, appare infatti chiaro che al crescere della violenza crescano di continuo le resistenze, e che queste chiamino di continuo violenza, sicché è difficile credere nell’assestamento più o meno pacifico di un nuovo sistema.

I primi dubbi sulla solidità dell’«ipotesi 1984» risalgono già alla pubblicazione del libro. In una famosa lettera indirizzata al collega più giovane, Aldous Huxley riconosceva sì nel «sadismo» dei reggenti di Oceania la «logica conclusione» di una rivoluzione che partendo da Robespierre e Babeuf «mira alla sovversione totale della psicologia e della fisiologia dell’individuo», ma si diceva scettico sul fatto che «la politica dello stivale-che-calpesta-il-volto possa andare avanti all’infinito». Riteneva piuttosto che «nella prossima generazione i padroni del mondo scopriranno che il condizionamento dell’infanzia e la narco-ipnosi sono strumenti di governo più efficaci delle mazze delle prigioni, e che la fame di potere può essere soddisfatta meglio condizionando le persone ad amare la propria schiavitù, che non frustandole e prendendole a calci per spingerle all’obbedienza».

Per Huxley non si poteva aggirare il problema del «consent of the ruled», il consenso dei dominati che, spiegava in un’intervista televisiva del 1958, sarà assicurato dalle nuove tecniche di propaganda suggerite dalla pubblicità commerciale per «bypassare il lato razionale dell’uomo e appellarsi direttamente alle sue forze inconsce» in modo non direttamente violento. Per rendere i sudditi «felici sotto il nuovo regime [o almeno] in situazioni in cui non dovrebbero esserlo» sarà fondamentale, prevedeva, l’apporto dei nuovi ritrovati tecnici: da un lato degli «apparecchi tecnologici che tutti desiderano utilizzare [e che] possono accelerare questo processo di sottrazione della libertà e di imposizione del controllo», dall’altro della «rivoluzione farmacologica in corso… potenti sostanze in grado di alterare la mente quasi senza effetti fisiologici collaterali». Molte di queste strategie sono diventate pietre angolari della gestione del consenso, dalla sempre più fitta codifica dei programmi educativi rivolti all’infanzia allo stile tanto martellante e suggestivo quanto povero di ragionamento delle campagne di «sensibilizzazione» governative, fino alle onnipresenti tecnologie digitali che agiscono sia come anestetico della socialità, sia come strumento panottico di sorveglianza globale. Per quanto ci è dato sapere, mancano invece gli indizi di un condizionamento psicochimico in larga scala, benché l’apparato di medicalizzazione reiterata e universale su cui si insiste oggi con così tanta ossessione renderebbe per la prima volta praticabile un siffatto intervento, almeno in potenza. Non è inutile ricordare che nel romanzo distopico di Huxley, Brave New World, la scure della repressione si abbatte sui dissidenti proprio dopo un loro tentativo mancato di impedire la distribuzione del «soma», la droga di Stato con cui il governo mondiale manteneva soggiogati e «felici» i cittadini.

Secondo alcuni commentatori la prospettiva huxleriana non sostituisce quella del collega, ma la integra, dovendo il bastone della repressione spingere sempre più persone verso la carota del condizionamento. Sennonché oggi accade l’inverso: la carota perde appeal e il bastone picchia sempre più duro, il residuo dissenziente si espande e i dispositivi di propaganda, per quanto poderosi, non tengono il passo. Gli scenari possibili sembrano dunque tendere alla crisi più che alla normalizzazione. Ma fino a che punto? Una persecuzione aperta, una purga, una recessione, un collasso, una rivoluzione «colorata» o una guerra che offra il destro alla legge marziale? E quanto l’esasperazione delle piazze è un intoppo, quanto un coltivato pretesto? Non lo sappiamo. Ma anche l’idea che all’«ultima rivoluzione» potrebbero non bastare gli strumenti sin qui affinati e che debba perciò reclamare un reset anche fisico non era estranea all’Huxley, la cui lettera si concludeva con l’ammissione che «nel frattempo, naturalmente, potrebbe scoppiare una guerra biologica e nucleare di vaste dimensioni, nel qual caso avremo incubi di altro genere e difficili da immaginare».

Una conclusione un po’ sconcertante, invero, che sconfessa l’ineluttabilità del processo e conferma il sospetto che i grandi architetti, i costruttori di un progresso lontano da Dio e dagli uomini, riescano solo a seminare macerie per trionfare tristi e gioire schiumando, e che il loro sognato edificare sia precisamente e soltanto un distruggere. Alla fine – ma solo alla fine – è una buona notizia.

FONTE: http://ilpedante.org/post/un-trionfo-triste

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

L’Afghanistan è ridotto alla fame dalle sanzioni umanitarie

10 gennaio 2022

“Mesi dopo la caduta del governo afghano sostenuto dagli Stati Uniti e l’insediamento dei talebani, il popolo afghano sta affrontando quello che potrebbe essere l’inverno più terribile degli ultimi decenni. A causa del collasso economico seguito al ritiro dell’esercito americano, alle sanzioni internazionali comminate contro il Paese e al ritiro di gran parte degli aiuti umanitari, milioni di afgani devono fare i conti con la reale prospettiva della fame […] Molti perderanno la vita per cause che potrebbero essere prevenute”.

Inizia così un articolo di The Intercept che prosegue: “Sebbene nelle ultime settimane siano state state sollevate alcune misure in ambito commerciale per motivi umanitari, l’Organizzazione mondiale della sanità ha avvertito che nel corso di questo inverno, se non verranno presi provvedimenti drastici, potrebbero morire a causa della malnutrizione fino a 1 milione di bambini afgan.

“I bambini stanno già sopportando il peso maggiore della catastrofe umanitaria, che vede storie orribili di bambini venduti per comprare cibo. E l’inverno notoriamente rigido del Paese li sta già mettendo a dura prova: gli afgani stanno morendo di freddo”.

“La colpa di tutto ciò è delle sanzioni statunitensi, che spingono gli afgani oltre il limite, quando già lottano per affrontare la pandemia di Covid-19 e lo sconvolgimento politico creato dal crollo del governo centrale”.

“Tali morti saranno da addebitarsi alle decisioni prese dagli Stati Uniti. Oltre alle nuove sanzioni imposte dopo l’ascesa al potere dei talebani, infatti, Washington  ha congelato quasi 10 miliardi di dollari della banca centrale afghana” depositati dal governo filo-Usa in alcuni Istituti di credito americani.

“Mentre tutto succede tutto questo, il clamore delle voci critiche sul ritiro dell’esercito americano di quest’estate, contrarie  per motivi umanitari, è diventato mortalmente silenzioso”.

“Dopo il ritiro, molti commentatori ed esponenti politici hanno affermato che l’intervento era motivato un imperativo umanitario, in particolare la protezione delle donne afghane”.

“Molte delle argomentazioni umanitarie e femministe sono state usate per anni per giustificare un’occupazione militare troppo spesso malvista dalle stesse persone che apparentemente difendeva”.

“Al contrario, la fine dell’attuale regime di sanzioni e lo sblocco dei fondi di proprietà degli afgani farebbero effettivamente qualcosa di inequivocabilmente positivo per i civili del Paese, compresi donne e bambini che sono particolarmente a rischio”.

Questa la grande ipocrisia della propaganda di guerra denunciata dal media americano, che ha motivato l’occupazione decennale del Paese, durante la quale sono morte decine di migliaia di persone, molte delle quali sotto le bombe americane come vittime collaterali, e che ora affama quelle stesse popolazioni per gli stessi motivi umanitari.

L’Afghanistan sta così inaugurando un nuovo tipo di tragedia, dopo le guerre umanitarie, le sanzioni umanitarie, che non fanno meno morti delle prime.

A margine, si può notare che i talebani stanno tentando di contrastare le coltivazioni di oppio (India Today) così com’era avvenuto in passato, quando nel loro primo governo del Paese, eradicarono completamente l’oppio dall’Afghanistan, facendo un grande favore al mondo, dal momento che tale traffico finanzia il terrorismo internazionale.

Se ridotti alla fame, l’oppio potrebbe risultare l’unica risorsa per tanti diseredati, buttati così tra le braccia dei signori della droga, che tornerebbero ad assumere, nel segreto, il ruolo avuto durante l’occupazione americana, quando le lucrose rendite del narco-traffico li metteva in grado di condizionare pesantemente la macchina statale del governo fantoccio filo-Usa.

FONTE: https://piccolenote.ilgiornale.it/54146/lafghanistan-e-ridotto-alla-fame-dalle-sanzioni-umanitarie

 

 

 

Washington invia segretamente armi in Ucraina

Politico rivela che a fine dicembre 2021 Joe Biden ha segretamente approvato la consegna di armi all’Ucraina per 200 milioni di dollari.

La decisione del nuovo invio è concomitante con la proposta russa, pubblicata il 17 dicembre 2021dal presidente Vladimir Putin, di un Trattato che garantisca la pace sulla base del rispetto della Carta delle Nazioni Unite e della parola data.

Il totale delle armi inviate in Ucraina dall’amministrazione Biden ammonta perciò a 500 milioni di dollari, cui vanno aggiunti i 200 milioni delle armi in consegna. Al totale vanno sommate le armi spedite dalla Turchia, nonché le armi USA, tedesche e finlandesi spedite dall’Estonia.

FONTE: https://www.voltairenet.org/article215313.html

Le linee rosse d’Europa
SECONDA PARTE – LO SCUDO DELLA NATO
Autore: Mirko Mussetti
Infografiche: Alberto Bellotto

La corsa all’istmo d’Europa vede la Russia in netto svantaggio rispetto agli Stati Uniti. Gli strateghi americani si sono mossi con largo anticipo, serrando le fila dei paesi mitteleuropei e vincolandoli sul piano logistico e difensivo alle decisioni di Washington. E il processo va avanti da anni in modo silente e lineare.

L’Iniziativa dei Tre Mari (I3m, gergalmente Trimarium) è concepita formalmente per favorire la cooperazione economica tra i paesi dell’Europa centro-orientale incastonati tra i tre bacini: Baltico, Nero, Adriatico. Ma i propositi geoeconomici celano in realtà obiettivi infrastrutturali d’impatto geostrategico. Tra i principali progetti vi è il tracciato ferroviario Rail2Sea, che collegherà le città portuali di Danzica (Polonia) sul Mar Baltico a di Costanza (Romania) sul Mar Nero. Ma spostare merci da un mare semi-chiuso a un altro bacino semi-chiuso non è di per sé una gran pensata: per rifornire i mercati mitteleuropei è assai preferibile avvalersi dei collegamenti logistici alla città portuale di Trieste sul terzo mare: l’Adriatico.

L’esercitazione Nato Defender Europe 2021

Quindi il senso profondo del progetto ferroviario Rail2Sea promosso ardentemente dagli Stati Uniti non risiede tanto nello sbandierato sviluppo economico, bensì nel trasporto efficiente di mezzi militari lungo l’intero fianco orientale della Nato. Contribuendo solo in minima parte al Fondo I3m, gli Usa scaricano gran parte dei costi delle proprie ambizioni strategiche sui dodici paesi membri del Trimarium: repubbliche baltiche, Polonia, Cechia, Slovacchia, Austria, Slovenia, Croazia, Ungheria, Romania e Bulgaria. Avvalendosi della propria influenza diplomatica e militare, Washington ridistribuisce gli oneri infrastrutturali per rendere sostenibile il progetto di ripartizione delle sfere di influenza con Mosca. E lo fa in modo altamente geometrizzante.

La simmetria della nuova cortina di ferro virtuale è macroscopica e si appoggia sui due bastioni del fianco orientale dell’Alleanza Atlantica: Polonia e Romania. Il nuovo corridoio ferroviario idoneo al trasporto militare Rail2Sea correrà in gran parte parallelo all’istmo d’Europa, bypassando per ora la Galizia (Ucraina) e permettendo un celere dispiegamento di mezzi in caso di scontro frontale con Mosca. A una distanza sufficiente da sfuggire alla avanzata strumentazione per la guerra elettromagnetica russa dispiegata nella exclave di Kaliningrad e potenzialmente trasferibile in Transnistria.

La variante C del programma attraversa la Moldavia romena, servendo al contempo la base aerea multinazionale Mihail Kogălniceanu nei pressi di Costanza e la città di Bacău, calamita di interessi israeliani (es. Elbit Systems) nel campo dei droni e della componentistica militare. Ma soprattutto attraversa l’infausta “porta di Focșani”, lembo di terra tra i fiumi Danubio e Siret considerato dalla dottrina militare romena come il punto più debole della linea difensiva romena ed euroatlantica. Secondo i comandi militari (e l’esperienza storica) di Bucarest, ipotetiche forze d’invasione russe posizionate sulla costa nord-occidentale del Mar Nero raggiungerebbero la capitale in poco più di 24 ore.

A nord della Polonia (Redzikowo) e a sud della Romania (Deveselu) sono ubicate le due basi missilistiche della Nato Aegis Ashore in grado di garantire la più ampia protezione alla penisola europea. Ufficialmente i lanciatori verticali Mk-41 dello scudo missilistico americano sono presentati come difensivi, ma nella realtà si prestano al doppio impiego. È la stessa compiaciuta casa produttrice (Lokheed Martin) a renderlo noto. La cosa impensierisce parecchio i consiglieri del Cremlino, che sobbalzano all’idea di constatare la presenza di missili da crociera a capacità nucleare stoccati nelle due basi. Mentre lo scudo di Deveselu è già operativo, il gemello di Redzikowo lo sarà solo a fine 2022.

A Łask (Polonia centrale) e a Câmpia Turzii (Transilvania), ben distanti dalle coste per sfuggire agli attacchi aeronavali, sono situate le basi aeree che un domani acquisiranno preminente rilievo strategico per il fianco orientale della Nato. Esse costituiscono i due fuochi dello spazio ellittico del fronte orientale. La base polacca è stata selezionata per ospitare i moderni caccia F35a Lighting II. La base romena già ospita droni Mq-9 Reaper e i lavori di ristrutturazione rappresentano il principale investimento militare statunitense del 2021 nel Vecchio Continente (152 milioni di dollari). Tra i lavori non c’è solo la ristrutturazione dell’esistente, ma anche la realizzazione di un centro di comando – per ora Câmpia Turzii risponde ad Aviano – e la costruzione di un nuovo deposito di munizioni. Il tutto lascia pensare che l’arsenale aggiuntivo possa ospitare bombe atomiche americane per armare i caccia di quinta generazione. Magari provenienti dalla sempre discussa base Nato di İncirlik (Turchia) o, più semplicemente, da Ghedi e Aviano (Italia). Le attività di monitoraggio e di spionaggio aereo potrebbero proliferare nel futuro prossimo, sotto la diretta supervisione di Avril Haines, direttore dell’intelligence a stelle e strisce ed esperta analista nel campo dei droni.

Inoltre la base aerea romeno-statunitense 71 “Emanoil Ionescu” di Câmpia Turzii – ben protetta orograficamente dai Carpazi – potrebbe superare per importanza anche la base aerea multinazionale 57 “Mihail Kogălniceanu” nei pressi del porto di Costanza. Sebbene potenziata, a quest’ultima sarebbe affidato il gravoso compito di assorbire il primo impatto di un’offensiva aeronavale dal Mar Nero, ripartendo più equamente sugli alleati le perdite materiali e umane; mentre alle più protette forze statunitensi spetterebbe il compito di organizzare la riscossa.

La Romania è quindi concepita come piattaforma per una triplice proiezione di potenza: contrasto all’assertività russa, rapido intervento nei Balcani occidentali, dissuasione nell’Egeo in caso di escalation di tensione tra Grecia e Turchia. L’intenzione di costruire una conduttura militare terrestre per idrocarburi che colleghi il porto di Alessandropoli (Grecia) alle basi Nato in Bulgaria e Romania ha come principale scopo quello di garantire i dovuti rifornimenti di carburante militare a Sofia e Bucarest, nel caso in cui Ankara optasse per un blocco dei transiti navali attraverso gli Stretti (Bosforo e Dardanelli). Bypassando la Tracia orientale con un mix logistico terra-mare, gli Stati Uniti neutralizzano la possibile infedeltà della Turchia.

Il grosso degli insediamenti militari americani e alleati è ubicato a ovest dei fiumi Vistola (Polonia) e Prut (Romania/Moldova). Questi due corsi d’acqua delimitano in modo naturale le zone cuscinetto a bassa militarizzazione tra i due blocchi contendenti. Le truppe americane non sono propense a oltrepassarli per almeno tre ragioni: rispettare gli accordi assunti con la morente Unione Sovietica nel 1991 (poco importante); tenere al riparo l’equipaggiamento dalla strumentazione elettromagnetica russa e prevenire danni alla salute delle truppe provocati dai cannoni a microonde (importante); marcare stretto la Germania minacciandola con la “deterrenza negativa” (molto importante).

I missili russi tattici a capacità nucleare dispiegati a Kaliningrad potrebbero colpire Berlino (dista 500 chilometri) in assenza della frapposizione americana e dell’attivazione dello scudo a stelle e strisce. Ricordarlo costantemente al cancelliere tedesco è una formidabile arma diplomatica nella panoplia del Dipartimento di Stato Usa.

Al Pentagono si sta radicando la consapevolezza che un’ulteriore spinta a est comporterebbe la diluizione delle energie e la maggiore indisciplina delle principali potenze europee, Germania in primis. Non vi è nulla di strategico nell’overstretching (sovraestensione). È questa la ragione per la quale vale la pena investire miliardi di dollari in opere logistiche e strategiche perfettamente in linea su un fronte non troppo ampio e sufficientemente lontano dalla Russia da non provocarne la reazione nucleare, ma abbastanza vicino alla Germania da contenerne le ambizioni. Il grosso della fanteria alleata e statunitense è e sarà dispiegato a Poznán (Polonia) e Craiova (Romania): nelle retrovie rispetto al fronte russo, ma in posizione ottimale per effettuare pressioni politiche (o interventi militari) verso la Germania e i Balcani occidentali.

L’asse Danzica-Costanza corre in modo (quasi) parallelo all’asse Kaliningrad-Tiraspol, cioè alla vera linea rossa a cui allude sovente il presidente russo Vladimir Putin. E non deve stupire che la presenza militare americana in Ucraina si attesti al centro di addestramento di Yavoriv vicino a Leopoli (Ucraina occidentale): essa giace sulla linea Danzica-Costanza in un punto quasi mediano. Secondo il capo di Stato russo, i soldati americani lì dovrebbero rimanere. L’accerchiamento moscovita a nord dell’Ucraina (presenza militare in Bielorussia) e il monopolio navale russo nel Mar Nero inibiscono qualsiasi massiccia concentrazione di truppe americane nell’Ucraina centro-orientale. Nessun generale assennato sarebbe lieto di condurre o stazionare le proprie truppe in quella che si presenta come un’enorme sacca priva di elementi orografici difensivi.

Gli investimenti infrastrutturali americani e del Fondo I3m hanno il fine strategico di compattare le nazioni alleate a ridosso dell’istmo d’Europa. Mantenere fervido lo spauracchio russo è una misura ottimale per affossare le ambizioni di potenziali competitori degli Stati Uniti nell’appendice occidentale del Vecchio Continente. Il disaccoppiamento economico, strategico e culturale tra le due sfere di influenza lungo l’istmo d’Europa diviene di giorno in giorno più evidente. Il definitivo allontanamento della Bielorussia dalle ammalianti sirene occidentali e il suo ritorno sotto l’ala protettiva della Russia ne è un chiaro esempio. Così come lo è la rottura diplomatica con Mosca dei paesi slavi appartenenti al Trimarium.

Il gioco delle spie e delle reciproche espulsioni riguarda principalmente loro, non nazioni di altra estrazione linguistico-culturale o di aree geografiche più remote. Intenzione di Washington è completare la fortificazione del proprio lato con ampio anticipo, attraendo poi il rivale moscovita inviso (russofobia dei paesi I3m) e in affanno (resistenza ucraina) sul fiume Nistru/Dnestr. Il programma americano di ripartizione razionale delle sfere egemoniche con il “rivale” russo prosegue rapido e sottotraccia.

FONTE: https://it.insideover.com/reportage/difesa/le-linee-rosse-deuropa-2/le-mosse-anti-putin-della-nato-lungo-il-fronte-orientale-delleuropa.html

 

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

Il Green Pass e il Capitalismo di sorveglianza 2.0

8 gennaio 2022
di Eleonora Piegallini

Il passaporto vaccinale, o green pass, è ormai una realtà in molti Paesi. Le problematiche che da mesi vengono sollevate da attivisti, politici e gente comune sono varie e, a fronte del dato, ossia che ad oggi il passaporto vaccinale potrebbe restare nelle nostre vite a lungo, dovremmo iniziare ad interrogarci sui rischi che comporta tale controllo capillare dei cittadini.

Le Big Tech spingono per un green pass perenne

Problemi di privacy, rischio di uso improprio dei dati anagrafici, informazioni sensibili nelle mani di aziende tecnologiche e dello Stato (che, peraltro, come hanno dimostrato gli ultimi due anni, intrattengono relazioni non proprio trasparenti), sono solo alcune delle criticità poste dall’introduzione di tale ,misura. E, come si legge in un recente articolo apparso su The Intercept, “L’evidenza supporta i sospetti dei più critici”.

Infatti, continua The Intercept,“ogni governo che introduce un passaporto vaccinale giura che l’uso che se ne fa è su base volontaria e che nessuna informazione personale non necessaria sarà conservata. Organismi internazionali tra cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’UE e la Camera di Commercio Internazionale stanno mettendo a punto degli standard normativi al fine di evitare il rischio di un abuso nell’utilizzo di questi dati”.

“Ad oggi, però, i governi non si trovano d’accordo nemmeno su semplici questioni come se chiedere il green pass per permettere l’ingresso in un bar o al cinema, figuriamoci su questioni ben più complesse come quali dati sia lecito richiedere o no, di chi sia responsabile di conservare e visionare questi dati e soprattutto per quanto tempo saranno archiviati”.

Il tempo è una questione cruciale. Infatti, con tutta probabilità, i passaporti vaccinali sono una realtà con cui dovremo fare i conti a lungo. Continua a tal proposito The Intercept: “New York, per esempio, non si aspetta di dismettere tale misura quando finirà il Covid”.

“Insieme a IBM (International Business Machines Corporation, una delle più importanti multinazionali americane del settore hig tech), le varie amministrazioni statali stanno già cercando di capire come poter impiegare queste nuovo tecnologie per altri tipi di documenti e credenziali”.

Dal pass al chip sottocutaneo

Il problema risiede principalmente nel fatto che una volta create le infrastrutture che supportano queste nuove tecnologie è difficile pensare che, visti gli interessi in gioco e la spinta crescente per una sorta di sicurezza assoluta, queste misure non verranno implementate… per tutelare la nostra sicurezza.

Ancora su The Intercept; “L’esperienza dell’Excelsior pass (il passaporto vaccinale istituito dallo Stato di New York) ha accelerato la ricerca sul cosiddetto governo digitale, secondo quanto riferito dall’ingegnere che ha creato la piattaforma. Il presidente Joe Biden userà il passaporto per far rispettare l’obbligo di vaccinazione dei dipendenti statali? E poi? Ci sarà un limite?”.

Non esiste infatti un pulsante per cancellare i dati biometrici (dati relativi alle nostre caratteristiche fisiche e fisiologiche) raccolti ed archiviati. Inoltre, come è intuibile, dato che la raccolta di dati biometrici è strettamente connessa allo sviluppo e all’implementazione di tecnologie di sorveglianza, sia il potenziale di profitto che le ambizioni di imprenditori-visionari stanno aumentando a dismisura.

Continua The Intercept “Gli analisti prevedono che il mercato globale della biometria crescerà del 15% all’anno, raggiungendo quasi 105 miliardi di dollari entro il 2028. […] Allo stesso tempo, ricercatori provenienti dall’ambito accademico e dall’industria stanno lavorando a un archivio globale di bio-dati. Sarebbe ingenuo supporre che investimenti e ricerca non siano collegati”.

FONTE: https://piccolenote.ilgiornale.it/54132/il-green-pass-e-il-capitalismo-di-sorveglianza-2-0

“Contrada si trova processato per fatti gravi, senza essere indagato o convocato”

Contrada
Il suo legale annuncia ricorso alla Cedu: «mai stato convocato neanche per le indagini preliminari». Ma per Il giudice del rito abbreviato per l’omicidio Agostino, l’ex 007 e “Faccia da mostro” si incontravano con i boss

Nemmeno durante il fascismo poteva capitare di ritrovarsi accusati, direttamente in sentenza, per fatti gravi senza subire almeno formalmente un processo con tutte le garanzie del caso. Nella nostra Repubblica democratica, un tempo definita culla del diritto, può succedere eccome. Lo ha scoperto per caso l’avvocato Stefano Giordano, legale dell’ex 007 Bruno Contrada, quando il suo assistito nei giorni scorsi è stato invitato a comparire, come testimone, al processo del delitto Agostino.

Nella sentenza del processo con rito abbreviato per la morte di Agostino Contrada risulta come persona coinvolta in fatti gravi

A quel punto, autonomamente, l’avvocato Giordano è venuto in possesso della requisitoria della Procura Generale di Palermo e della sentenza del processo per la morte di Agostino celebrata con il rito abbreviato. Ed è in questa sentenza – a firma del Gup di Palermo Alfredo Montalto, l’allora giudice del processo trattativa di primo grado – che ritrova il nome di Bruno Contrada come persona coinvolta in fatti gravi. Ma senza, come detto, essere stato indagato, inquisito o interrogato sui fatti.

La sentenza mai comunicata da alcun organo giudiziario contiene gravi violazioni convenzionali

«Appare assurdo – denuncia l’avvocato Giordano – come in questo Paese sia ancora consentito fare processi senza tutelare i diritti delle persone che vengono giudicate e quindi senza le garanzie che la Costituzione, la Cedu ed il codice pongono a tutela dell’indagato e dell’imputato. È certamente agevole celebrare i processi contro persone che non hanno alcuna possibilità di difendersi».

Secondo l’avvocato, è stata commessa una grave violazione, per questo annuncia che porterà il caso davanti ai giudici della Corte Europea di Strasburgo. «La sentenza – spiega sempre il legale di Contrada -, mai comunicata al mio assistito né al sottoscritto da alcun organo giudiziario, contiene gravi violazioni convenzionali, tra cui il diritto alla presunzione di innocenza e il diritto di accesso al giudice, tutelati dagli artt. 3 e 13 Cedu».

La sentenza del marzo 2021 ha condannato il boss Nino Madonia

Ricordiamo che si tratta di una sentenza emessa a marzo del 2021. Il gup di Palermo Alfredo Montalto ha condannato il boss Nino Madonia accusato del duplice omicidio del poliziotto Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio commesso il 5 agosto 1989. Il processo si è svolto con rito abbreviato. Del duplice omicidio era imputato anche il boss Gaetano Scotto che, a differenza di Madonia, ha scelto il rito ordinario e quindi era in fase di udienza preliminare. Il gup lo ha rinviato a giudizio. Il processo a suo carico è cominciato il 26 maggio scorso.

Nella sentenza in questione, recuperata da pochi giorni dall’avvocato Giordano, in effetti compare anche Bruno Contrada. Il giudice Montalto scrive che, come possibile concomitante movente dell’omicidio dell’agente Agostino e della moglie, oltre a confermare anche sotto tale diverso profilo la matrice mafiosa, «conduce ancora una volta il delitto nell’alveo degli interessi precipui del “mandamento” di Resuttana capeggiato dai Madonia, con i quali, infatti, tutti gli esponenti delle Forze dell’ordine e dei Servizi di sicurezza oggetto di indagini intrattenevano, a vario titolo, rapporti. Ci si intende riferire a Bruno Contrada, ad Arnaldo La Barbera e allo stesso Giovanni Aiello».

Il gup Alfredo Montalto ritiene attendibile il pentito Vito Galatolo

Ed ecco che fa un riferimento ancora più esplicito. Il Gup dichiara attendibile il pentito Vito Galatolo, il quale testimonia che ebbe a vedere personalmente Contrada in occasione di alcune visite in vicolo Pipitone e «in alcune di tali occasioni contestualmente ad una persona, “appartenente ai servizi segreti”, soprannominata il “mostro” perché “aveva la guancia destra deturpata da un taglio, la pelle rugosa e arrossata..”». Quest’ultimo sarebbe Giovanni Aiello, conosciuto con il soprannome “Faccia da mostro”Anche lui compare in sentenza, senza essere processato. La differenza con Contrada, è che lui è morto da qualche anno.

Secondo il Gup Contrada e “Faccia da mostro” incontravano i boss in vicolo Pipitone

«I predetti – prosegue il Gup – , in particolare, nel vicolo Pipitone, si incontravano con Antonino Madonia (ma anche con Vincenzo Galatolo e Gaetano Scotto) con il quale si appartavano “all’interno della casuzza… … …a volte anche un’ora o due ore” e ciò nel periodo precedente all’arresto del Madonia (29 dicembre 1989) ancorché imprecisamente indicato dal Galatolo, in sede di incidente probatorio, negli anni “87 – 88 – 89 fino all’arresto di Nino Madonia” tenuto conto che il Madonia sino al 5 novembre 1988 era detenuto e, quindi, certamente non poteva essersi trovato presente nel vicolo Pipitone». Ma per il Gup Montalto, questa imprecisione temporale «non inficia minimamente la complessiva attendibilità della dichiarazione di Vito Galatolo».

Galatolo è stato considerato inattendibile per le procure di Caltanissetta e Catania

Per completezza, c’è da dire che per la stessa dichiarazione di questo pentito, ben due procure (quella di Caltanissetta e Catania) hanno chiesto l’archiviazione, perché secondo i Pm è risultato inattendibile. Ma evidentemente, per la procura generale di Palermo no. Parere confermato dal gup Montalto. Resta il fatto che Contrada (ma anche Aiello, alias “faccia da mostro”, mai inquisito), si ritrova in sentenza per un fatto gravissimo e senza essere indagato o sentito nel merito.

Secondo questo assunto cristallizzato in sentenza, l’ex 007 avrebbe partecipato alle riunioni con esponenti mafiosi dove si decidevano alcuni tra i delitti più atroci. Sempre il giudice Montalto, scrive in sentenza che «secondo quanto riferito da Vito Galatolo, una delle visite di Contrada ed Aiello, in occasione della quale questi incontrarono Nino Madonia, Pino Galatolo, Vincenzo Galatolo, Gaetano Scotto e Raffaele Galatolo, fu notata dall’Agostino che stava effettuando un appostamento proprio nel vicolo Pipitone».

Contrada non è mai stato né convocato né sentito nel processo e né durante la fase delle indagini preliminari

In una sentenza, Contrada viene indicato come frequentatore degli esponenti mafiosi nella casa al vicolo del Pipitone di Palermo dove si decidevano le stragi. Fatti gravissimi, ma senza essere mai stato né convocato né sentito nel processo e né durante la fase delle indagini preliminari. È possibile? Ma non è finita qui. C’è il processo Agostino, quello con rito ordinario, in Corte d’Assise di Palermo e Contrada è stato invitato a deporre come testimone. Attraverso il suo legale, l’ex funzionario di polizia ha fatto avere alla Corte che celebra il dibattimento un certificato medico che attesta le sue gravi condizioni di salute.

L’avvocato di Contrada Stefano Giordano annuncia ricorso alla Cedu

Ma la questione è ancora più surreale. Contrada viene sentito come testimone, quindi privo di garanzie rispetto a una persona imputata. Il paradosso è che formalmente non è imputato, ma viene sentito nel processo del delitto Agostino dove, parallelamente, in quello abbreviato appare in sentenza come persona indirettamente legata all’omicidio. E senza, ribadiamolo, essere inquisito. «Per entrambi i motivi – annuncia l’avvocato Giordano – agiremo davanti alla Corte Europea per la violazione di questi diritti e sarà mia cura interloquire con la Procura Generale e soprattutto con la Corte di Assise, in via ufficiale, affinché il dottor Contrada possa rendere dichiarazioni, eventualmente dal domicilio, nella veste di indagato di reato connesso».

FONTE: https://www.ildubbio.news/2022/01/12/contrada-si-trova-sentenza/

 

 

 

Gli strani protagonisti dell’assalto a Capitol Hill

23 dicembre 2021

Nuove rivelazioni sull’assalto a Capitol Hill da parte del sito di destra Revolver. Già in altra nota avevamo ripreso quanto riferiva questo sito – con filmati incontrovertibili – su Ray Epps, il misterioso individuo in divisa mimetica che in quel giorno e nei giorni precedenti arringava la folla per incitarla a prendere d’assalto l’edificio istituzionale e sembrava dirigere la prima violazione del suo perimetro.

Il Comandante

L’anomalia annotata da Revolver stava nel fatto che, a differenza di tanti altri manifestanti molto meno attivi, Epps, nonostante il ruolo da protagonista, non solo non è stato inquisito, ma non risulta neanche tra i ricercati, suscitando interrogativi sulla reale funzione svolta in quel giorno.

In questa seconda puntata, Revolver pubblica altri filmati di quanto avvenuto il 6 gennaio scorso, che mostrano altri personaggi chiave dell’assalto non inquisiti né ricercati.

Il primo è individuato col nome in codice ScaffoldCommander ed è un signore dall’apparenza paciosa, che però ha avuto un ruolo più che strategico quel giorno.

Appollaiato sull’impalcatura eretta davanti Capitol Hill nell’occasione, posta proprio davanti alle transenne dov’è avvenuta la prima violazione del luogo pubblico (operazione supervisionata da Epps), megafono in mano, ScaffoldCommander  ha costantemente incitato la folla ad “andare avanti”, di fatto dirigendo il flusso dei manifestanti verso l’interno di Capitol Hill.

Sul punto, Revolver accenna anche alla strategia adottata nell’occasione. Quel giorno Trump doveva tenere, e ha tenuto, un comizio in una zona adiacente. Finito il comizio, la folla avrebbe dovuto dirigersi verso Capitol Hill per manifestare il suo sostegno al presidente che stava contestando l’esito delle elezioni (viziate, a suo dire, da brogli). E attestarsi fuori dall’edificio.

Ma per dirigersi verso Capitol Hill la folla doveva fare una strada ben precisa, che l’avrebbe portata proprio nella zona in cui è avvenuta la prima violazione, quella dominata dalla torre in cui si era attestato ScaffoldCommander (attorniato da gente ben addestrata, come si può vedere dai filmati, che inquadrano individui aitanti aggrappati alla struttura).

La rete divelta e il bus esplosivo

Revolver spiega che quell’area normalmente è aperta al pubblico e le transenne erano state messe nell’occasione, proprio per evitare che i manifestanti si appressassero troppo all’edificio istituzionale, come accade in queste occasioni.

Per questo non solo occorreva rimuovere quelle transenne, ma anche la rete stesa a recintare l’area, così che la gente non si accorgesse di violare una zona interdetta.

Così, mentre le prime transenne venivano abbattute sotto la direzione di Epps, altri individui, con fare professionale, si adoperavano a togliere la rete di recinzione stesa all’intorno, che non solo veniva rimossa, ma anche arrotolata con metodo, per nasconderla agli occhi dei manifestanti.

Tra questi individui intenti in questa opera di metodica rimozione, Revolver ne individua uno in particolare, che identifica con il nome in codice BlackSkiMask, la cui storia è davvero strana.

L’individuo era stato fermato il giorno precedente dalla polizia: un filmato inquadra il suo autobus multicolore e con scritte inneggianti a Trump e di protesta contro i brogli elettorali, in mezzo a uno sciame di auto delle forze dell’ordine con i lampeggianti accesi.

L’autobus di BlackSkiMask era stato fermato perché sospetto e, sul veicolo, parcheggiato davanti al Dipartimento di Giustizia, erano stati trovate armi ed esplosivo, come spiegano i poliziotti a un cronista locale accorso a documentare il fermo.

Eppure, non solo nessuno ha mai saputo niente di questo fermo, nonostante ben corroborasse la narrazione anti-Trump, ma BlackSkiMask, il giorno dopo, era ancora a piede libero e scorrazzava tranquillamente sul prato adiacente a Capitol Hill, intento a tagliare e arrotolare la rete di recinzione posta a presidio dell’edificio.

Operazione psicologica?

Nei filmati, inoltre, si può vedere come sia Epps che ScaffoldCommander e altri individui che potrebbero essere loro complici, si trovassero a ridosso delle recinzioni di Capitol Hill ben prima dei manifestanti, mentre ancora era in corso il comizio di Trump. Filmati e foto li inquadrano mentre osservano il prato, come a studiare un’ultima volta la situazione.

Non solo loro, altri filmati inquadrano un altro individuo, identificato col nome in codice BeCivilGuy, che, durante l’assalto, dirige, ammonisce e dà consigli alla folla che stava investendo Capitol Hill.

Altre immagini inquadrano BeCivilGuy  ben al di là delle transenne, prima ancora che esse fossero violate, intento a un qualche misterioso dialogo con la polizia che presidia la zona.

Un altro piccolo particolare accomuna Epps, BeCivilGuy e ScaffoldCommander: hanno tutti l’identico megafono bianco e azzurro, come se fosse una sorta di dotazione.

Nei filmati pubblicati da Revolver di tutti questi individui si vedono perfettamente i volti, eppure nessuno di essi risulta nel novero dei ricercati, da qui l’anomalia.

Abbiamo riportato un’estrema sintesi dell’articolo di Revolver, lunghissimo e ben documentato, che vale la pena leggere per intero, dal momento che spiega non solo il ruolo di questi individui e di altri, ma dettaglia come si è svolta l’azione, che il cronista denuncia come una classica “operazione di intrappolamento”, usate per indirizzare una folla ignara verso un obiettivo preciso.

Conclusioni e annunci

Secondo Revolver, dietro questa operazione si celerebbero agenti federali e sarebbe una sorta di operazione psicologica di cui gli americani sono maestri (le forze PsiOps Usa hanno il loro quartier generale a Fort Bragg). Un’operazione volta a creare il casus belli che avrebbe travolto Trump, come poi accaduto.

Non partecipiamo delle conclusioni del media americano, ovviamente, ci limitiamo a riferire un articolo che appare invero interessante, opera evidente di professionisti del settore e che dimostra la vivacità dello scontro che si sta consumando in America tra destra ed establishment.

Non sappiamo se e come tale denuncia, insieme alla pregressa su Epps, evolverà. Ad oggi è ignorata dai media mainstream, che non ne riferiscono neanche per bollarla come Fake news (farebbero pubblicità a un documento davvero difficile da contestare).

E certo è difficile che essa possa esser ripresa in futuro, data la sua enormità. Ma sta circolando egualmente negli Stati Uniti e non è detto che prima o poi quel che oggi è ignorato o sarebbe bollato come fake news un domani abbia accoglienza diversa.

Trump ha annunciato che il 6 gennaio terrà una conferenza stampa a Mar-e-lago. Possibile che voglia dare visibilità a questa documentazione, dal momento che, avendola letta, ha detto di aver imparato cose. Ma una denuncia pubblica è passo pericoloso e molto a rischio. Vedremo.

FONTE: https://piccolenote.ilgiornale.it/53948/gli-strani-protagonisti-dellassalto-a-capitol-hill

 

 

 

ECONOMIA

L’invito di Goldman Sachs per il 2022: investire in società con bassi costi di manodopera

06 Gennaio 2022 17:15

L'invito di Goldman Sachs per il 2022: investire in società con bassi costi di manodopera

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Non è nulla che provenga da una riunione segreta, ormai i padroni della finanza ce lo dicono con la loro sfacciataggine in tv, sui giornali, senza alcun ritegno.

In un’economia votata alla finanza, i ricavi maggiori per gli azionisti sono dati dalle ristrutturazioni aziendali con riduzione di manodopera e, soprattutto dei suoi salari, al di là del rendimento di queste realtà lavorative, non importa che siano efficienti. Tagliare la manodopera, ridurre gli stipendi per quelli che restano, è la via maestra per i profitti degli azionisti.

Quindi, cosa è successo? Gli esperti di Goldman Sachs, che è uno dei più grandi gruppi bancari di investimento e titoli al mondo, hanno creato un elenco di società statunitensi le cui azioni hanno un’elevata redditività e bassi costi di manodopera.

Gli esperti dell’azienda consigliano di optare per tali titoli nel 2022, poiché aiuteranno a proteggere gli investimenti dall’inflazione.

“Entro il 2022, gli investitori dovrebbero concentrarsi su titoli ad alta crescita e ad alto margine ed evitare le società con un’elevata esposizione all’inflazione salariale”. Questo invito è frutto delle dichiarazioni rilasciate qualche giorno fa alla CNBC da uno dei principali strateghi dei titoli di Goldman Sachs, David Kostin.

C’è anche un apposito elenco di società dove c’è un basso costo della manodopera e tale resterà probabilmente anche quest’anno. Come precisa il portale Market Watch tali aziende sono: Apple, Coca-Cola, Under Armour, Dish Network, Netflix, HP (Hewlett-Packard), Dish Network, AmerisourceBergen, PayPal.

Ormai da anni questo è un circolo più che vizioso perverso, questo esempio proveniene da oltreoceano ma è valido anche in Italia. Il caso della chiusura della Whirlpool di Napoli è emblematico. Un’azienda con lavoratori specializzati ce produceva lavatrici di alta gamma con margini di profitto è stata chiusa. A Napoli si è incrementata la produzione. Azienda e azionisti hanno incrementato i loro utili. È il neoliberismo bellezza, anche per il 2022. Parola e consigli di  Goldman Sachs.

FONTE: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-linvito_di_goldman_sachs_per_il_2022_investire_in_societ_con_bassi_costi_di_manodopera/11_44650/

 

 

 

L’ITALIA SI RUBARE L’ENERGIA DALLA CROAZIA

VIDEO QUI: https://www.facebook.com/watch/?v=1110741319667204

 

FONTE: https://www.facebook.com/watch/?v=1110741319667204

 

 

 

GIUSTIZIA E NORME

Giustizia, la lentezza dei processi nell’ultimo rapporto Eurispes 

La domanda fondamentale per centrare gli obiettivi della riforma legata ai fondi del PNRR: quali sono le vere ragioni della irragionevole durata del processo italiano?

Quali sono le vere ragioni della irragionevole durata del processo italiano? La domanda è indispensabile per centrare gli obiettivi della Riforma legata ai fondi del Next Generation EU. Una risposta di valore scientifico arriva dall’indagine statistica dell’ultimo rapporto Eurispes. Un documento da conoscere per superare visioni riduttive e sfatare descrizioni faziose.

Dopo la prima indagine condotta dall’Eurispes nel 2008, arrivano i risultati dell’ultimo studio statistico condotto su un campione di 32 tribunali italiani, monitorando l’andamento di 13.755 processi penali. Scopo del minuzioso lavoro di raccolta dati è quello di restituire una fotografia chiara delle cause dei ritardi della giustizia, in un momento storico in cui la riduzione della durata dei processi (civili e penali) costituisce uno degli obiettivi primari della stagione del Recovery Plan post-pandemico. L’auspicio, si legge nel rapporto, è quello di  “ricondurre la indispensabile riforma dei tempi del processo penale dentro i confini di un dibattito serio e non più propagandistico, con un duplice obiettivo: rispettare i parametri delle garanzie costituzionali dettate dallarticolo 111 della Costituzione, ed intervenire sugli istituti processuali muovendo non da pregiudizi ideologici e pulsioni contro-riformatrici, ma dalla conoscenza certa e chiara delle cause del dissesto che si intende risolvere.”

Prima di elencare i risultati numerici del rapporto Eurispes, partiamo subito col dare le buone notizie che emergono dall’indagine: i veri colpevoli delle lungaggini del processo penale non sono le regole del giusto processo, e neppure gli avvocati che ne assicurano il rispetto.

È vero che il 78,7 per cento dei processi di primo grado termina con un rinvio ad altra udienza. Ma cosa dicono i numeri rispetto alle cause di questi rinvii? Nel 16,4 per cento dei casi il rinvio è dovuto al fatto che l’udienza è destinata solo all’ammissione delle prove; nel 16,1% il motivo invece è la prosecuzione dell’istruttoria. Il 10,7% dei processi viene rinviato per la discussione finale, nell’ 8,3% dei casi la ragione è che mancano i testi del P.M., nel 6,2 % è colpa invece della irregolarità della notifica all’imputato. Il 4,3 per cento dei rinvii è legato alla richiesta di messa alla prova e infine il 3,3% dei processi è differito per mancanza del giudice titolare.

Rispetto all’anno 2008 sono allungati i tempi di rinvio ad altra udienza, passando da 139 giorni di media a 154 giorni nel rito monocratico e da 117 a 129 giorni per quello collegiale, mentre è diminuita la durata media della singola udienza (da 18 a 14 minuti per il monocratico da 52 a 39 minuti davanti al Collegio).

La prescrizione è un motivo di estinzione del reato che incide per il 10% sui procedimenti arrivati a sentenza e rappresenta poco più del 2% del totale dei processi monitorati.

Analizzando i dati statistici che emergono dalle ragioni di rinvio delle udienze, si osserva che accanto alle cause “fisiologiche” del processo, sono soprattutto ragioni “patologiche”, come quelle relative alle notifiche all’imputato, alla citazione dei testi dell’accusa, all’assenza del giudice a rallentare inutilmente la durata del processo penale. E le patologie derivano tutte dalla inefficienza della macchina giudiziaria.

Il quadro statistico del rapporto Eurispes mette in luce anche il noto divario italiano tra Nord e Sud del Paese, dove le cause patologiche di rinvio sono numericamente più elevate al Sud che al Nord, e sempre al Sud sono più lunghi in media anche i tempi dei rinvii.

Conclude il Presidente delle Camere Penali, Giandomenico Caiazza: “Quando in un dibattito politico fortemente connotato da pregiudiziali ideologiche fa irruzione la realtà raccontata da rigorose evidenze statistiche, occorre che i protagonisti di quel dibattito (e soprattutto delle scelte legislative che si andranno ad adottare) facciano i conti con essa”.

FONTE: https://www.altalex.com/documents/news/2021/12/30/giustizia-lentezza-processi-ultimo-rapporto-eurispes

Il giudice che collezionava strumenti di tortura. E ci nascondeva le mazzette…

Una storia di giustizia tormentata scritta da un giudice. Ogni riferimento a fatti reali è puramente casuale, così come a fatti di cronaca accaduti

Il Tribunale di Belvirate era non era veramente un tribunale. Sembrava più un museo, visto che in passato era stato un carcere in epoca austroungarica, con le sue segrete sotterranee collegate al vicino castello veneziano, eretto su un più antico fortilizio bizantino, posto a protezione del lato est del territorio imperiale, a guardia dall’arrivo dei mongoli. Da queste parti li hanno attesi per secoli, a volte sembrava che stessero arrivando, si intravvedevano polveroni all’orizzonte, cavalieri e carri, soprattutto all’imbrunire, giusto per mettere in allarme le sentinelle del castello sul poggio ad est, poi più niente per giorni e giorni, per mesi lo sguardo perso nell’attesa.

Non era veramente un tribunale, incastonato com’era tra l’antico Duomo gotico trecentesco, di fronte al piazzale, e il palazzo della Curia, risalente al XVI secolo, a destra, eretto ai tempi della controriforma, con annesso museo medioevale. Alle spalle del tribunale si apriva poi l’ampio piazzale che conduceva al castello con le sue massicce torri quadrate. E infine, a ridosso dell’intero complesso, i vicoli del quartiere ebraico, con ben due sinagoghe, testimonianza di una delle più floride e ricche comunità dell’est. Chiudevano il piazzale a sinistra il palazzo della Dogana, e il vecchio monastero di San Giovanni, che secondo la leggenda non solo sarebbe passato di qua, ma avrebbe anche scritto proprio da queste parti ampi stralci della sua Apocalisse, forse sentendo la presenza del Maligno.

Ma non era veramente un tribunale anche perché i capi degli uffici facevano i magistrati “a tempo perso”, come un Presidente del Consiglio di qualche anno fa, sorpreso con alcune dame di compagnia nella villa di famiglia, a cui confidava che il ponderoso peso del governo era per lui, in realtà, un ameno passatempo. E facevano i magistrati “a tempo perso” perché la loro occupazione principale era occuparsi delle loro aziende. Sia il Procuratore Malerba sia il Presidente Adduce avevano chi una azienda agricola, chi un resort a quattro stelle con annessa spa, e quindi erano molto più interessati alle vicende delle loro imprese piuttosto che allo stato dei rispettivi uffici giudiziari.

Quando arrivai qui, qualche anno fa, trasferito dal Tribunale di Valdifiori nelle serre calabresi come seconda sede, fui ricevuto da entrambi, e mi dissero che potevo fare domanda tranquillamente, perché “si stava bene”. Questo mi doveva mettere in allarme: che voleva dire, infatti, che “si stava bene”? Si riferiva alla vita? Al lavoro? Al rapporto con gli avvocati? Può esistere un luogo di lavoro di giudice dove “si sta bene”? O invece questo lavoro è per definizione un lavoro dove “si sta male”, alle prese com’è con i mali della vita, decisioni, anche la più banale, sempre impegnativa e difficile perché riguarda la vita degli altri? Invece non ci feci caso, e ammaliato dalla bellezza del posto, ad un passo dalle montagne innevate dell’est, estrema propaggine verso i sempre attesi barbari, decisi di stabilirmi proprio qui, tra i vicoli del quartiere ebraico. Non immaginavo che barbari erano già arrivati, e si erano già da tempo impossessati della città.

Qui lavorava da sempre il giudice Bretella. Questo non era il suo vero nome, ma il suo soprannome, poiché aveva una vera passione per le bretelle, che ostentava in vari colori e fantasie. Ne aveva, si diceva, centinaia. Era costui un vecchietto magro e leggermente ricurvo, naso aquilino, su cui poggiavano degli occhialetti tondi a molla, molto retrò, capelli bianchi tirati all’indietro, il volto scavato incorniciava degli occhietti piccoli e di un celeste slavato. Vestito sempre con completi stile anni ’30 del 1900, a passeggio sempre con l’inseparabile bastone col pomello argentato, abitava con l’anziana governante, ed era conosciuto da tutti in città, oltre che per le doti di fine giurista, proprio per la sua passione per il collezionismo. Quelle che erano note e palesi erano due: bretelle e francobolli.

La sua bella casa, un attico in un palazzetto dell’ottocento nel centro moderno, limitrofo alla centralissima piazza della Repubblica, aveva una stanza adibita ad esposizione, con mobili alle pareti dalle ante trasparenti dove alloggiavano infiniti album di francobolli divisi e sistemati per provenienza geografica, mentre le bretelle erano in un luogo più riservato, prossimo alla capiente cabina-armadio. Una volta che lo andai a trovare, mi mostrò orgoglioso l’intera collezione delle une e degli altri. Per i francobolli era in grado di precisare provenienza ed epoca di alcuni pezzi pregiati, il cui costo, a me non appassionato del settore, mi parve esorbitante.

In giro, però, si parlava di un’altra passione che lo rendeva strano: collezionava strumenti di tortura, trovati in giro per il mondo, e che secondo qualcuno erano collocati in alcuni scantinati del palazzo, adibiti a esposizione in un luogo che poteva essere considerata una camera degli orrori della storia giudiziaria. Una volta, visti i buoni rapporti di colleganza, gli chiesi di vederla, ma lui negò di possedere una siffatta collezione. Eppure qualcuno parlava della “Sedia di Giuda”, o della “Sedia delle streghe”, degli “Strappaseni”, della “Vergine di ferro”, e di tutta una serie di diavolerie usate dall’Inquisizione per strappare confessioni. “Dicerie”, mi disse, chi mai collezionerebbe roba del genere? Se vuoi un giorno ti mostrerò invece la mia collezione di pistole moderne, ne ho varie decine, e alcune di cui vado molto fiero, soprattutto alcuni modelli della seconda guerra mondiale, tra cui una Luger cal.9 appartenuta ad un ufficiale nazista, e una Walter PPK simile a quella usata da James Bond nei romanzi di Fleming”. “Si mi piacerebbe molto”, risposi convinto, le pistole erano una mia passione fin da quando frequentavo il poligono di tiro, quando ero giù in Calabria, anche se non fino al punto da collezionarle.

Un giorno, tuttavia, successe l’imprevisto. Alcuni pentiti, che da mesi stavano rivelando una serie di particolari su alcune assoluzioni sospette dei giudici del Tribunale di Belvirate, avevano tirato in ballo il giudice Bretella e alcuni suoi provvedimenti. Ebbene, le osservazioni, le intercettazioni e le rivelazioni di alcuni pentiti avevano condotto gli inquirenti a sospettare che quei provvedimenti di assoluzione fossero stati oggetto di compravendita da parte del giudice. Il suo arresto, in virtù di inequivocabili riprese dove si notavano gli scambi e i passaggi di buste negli stessi uffici giudiziari, e in particolare nella stanza del giudice incriminato, fu un vero terremoto, anche se qualcuno ricordava che alcuni pentiti di camorra già nei primi anni 2000 avevano parlato di scambi di favori, ma non erano stati ritenuti credibili. L’ambiente era scosso, avvocati e magistrati si trincerarono dietro le solite dichiarazioni di circostanza circa “la necessità da parte dei cittadini di continuare a mantenere la fiducia nelle istituzioni così gravemente colpite, e considerare il lavoro onesto e indefesso di tanti professionisti, magistrati, avvocati e cancellieri, che ogni giorno fanno il loro lavoro con onestà e dedizione”.

FONTE: https://www.ildubbio.news/2022/01/06/il-giudice-collezionista-di-strumenti-tortura-custodi-di-mazzette/

 

 

 

IMMIGRAZIONI

MESSICO AL COLLASSO

Sono immagini che hanno sconvolto il mondo quelle che a fine settembre hanno mostrato gli uomini a cavallo della Border Patrol rincorrere, catturare e frustare i migranti haitiani che cercavano di raggiungere il Messico. Fotografie del presente ma che sembrano provenire da un’epoca passata. In queste terre dove oggi migliaia di uomini assaltano armati di privazioni e miseria il confine tra Messico e Stati Uniti, a metà ottocento si consumavano gli assalti tra le armate messicane e quelle statunitensi in guerra per un appendice di terra, un lacerto di coste e baie, per un confine sempre più diviso e divisivo.

 

Fucili spianati, barricate e cavalli a spingere uomini all’assalto per il confine da difendere, per il limite che deve essere invalicabile. Tutto questo è rimasto cristallizzato in questo lembo di mondo blindato dagli uomini per gli uomini. Oggi però non ci sono più uniformi e armate a combattersi , da un lato c’è la polizia di frontiera: alte uniformi, cappelli a tesa larga e briglie, dall’altro c’è il popolo della Grande Migrazione, quello che divora i confini dell’Africa sub sahariana, e che qui, con altri nomi e altri volti, lo stesso germinale febbricitante, senza rimpianti e ripensamenti, incendiato dall’assenza, attraversa rios e si nasconde nei doppifondi dei treni per rincorrere il domani, o comunque ciò che esiste al di là del muro.

(AP Photo/Julio Cortez)

Le redini scoccano, la schiena sanguina e il sangue forma grumi rossi su questa terra così rossa che sembra aver rappreso il sangue che generazioni di uomini qui vi hanno versato. C’è chi fugge, chi si butta sott’acqua, chi viene arrestato e chi si dispera, chi ci riprova e chi guarda indietro e rivede tutto il viaggio affrontato ora sbarrato dall’antemurale della migrazione. Le foto raccontano tutto questo, ce lo descrivono istante per istante le diapositive che dal Rio Bravo hanno alluvionato la rete e i quotidiani. Ma sono foto che vanno osservate in filigrana, dietro quelle immagini si cela infatti una crisi umanitaria senza precedenti che da mesi va aggravandosi sempre più in Messico.

(AP Photo/Eric Gay)

Una crisi che incomincia in Honduras, in Guatemala, che attraversa lo stato nord americano e si arena sulle acque del Rio Bravo, acque nere, acque torbide ma che vanno affrontate in un’apnea piena di spasmo e paura per comprendere quei fremiti e quella paura che provano i ”chicanos” ogni volta che su queste rive affrontano la loro resa dei conti personale con il destino e la loro guerra privata con un’ epoca che li ha confinati in un presente senza domani.

Nel 2021, spinte dalla fame, dalle violenze delle “pandillas” (bande criminali) e dai disastri naturali, intere famiglie centroamericane hanno deciso di abbandonare le proprie case per inseguire il sogno americano. Vengono soprattutto da Honduras, El Salvador, Guatemala, Ecuador ma anche da Venezuela, Cuba, Colombia e Haiti. Percorrono centinaia di chilometri, quasi sempre a piedi, organizzate in carovane. Il tasso di mortalità durante questi viaggi è altissimo ma il rischio di morire restando a casa è decisamente maggiore, così le persone che vi prendono parte sono sempre più numerose. I numeri parlano chiaro: secondo i dati dell’Onu più di 700mila migranti hanno attraversato il Messico diretti a nord nei primi mesi del 2021 mentre, stando ai rapporti dell’agenzia governativa americana U.S. Customs and Border Protection, nello stesso periodo sono stati intercettati 1.541.651 migranti irregolari solo lungo il versante sudoccidentale della frontiera, il triplo rispetto allo stesso periodo del 2019, prima dello scoppio della pandemia.

(AP Photo/Eric Gay)

Zattere fatte con le camere d’aria dei penumatici dei camion puntellano il Rio Suchiate al confine tra Messico e Guatemala. Decine, centinaia, migliaia di famiglie percorrono a bordo di queste chiatte improvvisate il corso d’acqua che divide i due stati. I traghettatori ricevono il proprio compenso per il viaggio poi uomini, donne e bambini salgono a bordo dei gommoni, portano con sé soltanto l’essenziale, borse di plastica contenenti tutta la loro vita, il resto è stato lasciato indietro, alle spalle. Per sempre. I profughi guadano il fiume e sbarcano sulla riva messicana. Le guardie di frontiera presidiano, osservano, ma il flusso di migranti centro americani che approdano in Messico, diretti negli Stati Uniti, è inarrestabile, nessuno riesce a fermare questa marea umana e le pantagrueliche proporzioni del fenomeno si mostrano in tutta la loro evidenza a Tapachula, la prima città messicana dopo la frontiera guatemalteca.

(AP Photo/Eduardo Verdugo)

La cittadina centroamericana è ormai un luogo dell’attesa, un limbo per migliaia di esistenze che caracollano per le vie cittadine come anonime anime penitenti. Migliaia di uomini, sin dalle prime ore dell’alba, sono accampati fuori dagli uffici dell’ Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati nella speranza di poter ottenere un visto che permetta loro di proseguire il viaggio verso nord. La popolazione dei migranti a Tapachula aumenta giorno dopo giorno, in ogni dove si incontrano famiglie che cercano di costruirsi un giaciglio con materiali di fortuna. Mancano i servizi igenici, i rifiuti sono in ogni dove, l’odore che si leva dalle strade colpisce e disorienta, e le immagini , anche questa volta, sembrano provenire da un’altra epoca, riportano la memoria ai momenti che accompagnano i terremoti con gli sfollati nelle strade e le case abbandonate, ma a Tapachula non c’è stato alcun cataclisma naturale.

Questa città è soltanto la porta d’ingresso per il Messico, la prima tappa obbligata per il raggiungimento degli Stati Uniti. “Le istituzioni sono collassate. – Spiega è Mitzi Gomez, portavoce dell’Oim-Unhcr. – Nessuna istituzione potrebbe mai riuscire a gestire un numero così alto di migranti. Per la prima volta giungono intere famiglie. Mai si era registrata una presenza così alta di minori, molti dei quali non accompagnati. Il 50% degli arrivi sono donne. Non è possibile neanche riuscire ad offrire i servizi di base.” La situazione è fuori controllo, i cittadini centro e sudamericani vivono in balia di se stessi e della sorte per le strade di Tapachula. Alcuni raccontano di essere fermi qui da mesi sperando nel visto altri invece vedono ormai nei trafficanti di uomini la loro unica e sola possibilità per poter raggiungere l’America.

(AP Photo/Eric Gay)

Questo esodo ha obbligato Washington a correre ai ripari costringendo il governo messicano a fare da filtro, dapprima minacciandolo di aumentare i dazi doganali e, successivamente rafforzando il programma MPP, “Protocolos de Protección a Migrantes” (Protocollo di Protezione Migranti, creato da Trump e rinnovato da Biden), che impone ai migranti di attendere in Messico l’esito del proprio iter di richiesta di asilo. Le città di confine come Tijuana, Mexicali, Nogales, Ciudad Juarez, Reynosa in brevissimo tempo si sono trasformate in bolge infernali in cui confluiscono sia i migranti provenienti da sud che i deportati, oltre che i ricollocati del programma MPP in attesa di asilo. E sono in molti a puntare il dito contro l’amministrazione Biden per questo aumento esplosivo e incontrollabile del flusso migratorio.

(AP Photo/Felix Marquez)

Padre Persy Cervera, direttore della Casa del Migrante di Tecun Uman in Guatemala racconta: “L’unica differenza fra Trump e Biden è che il primo declamava apertamente le sue intenzioni mentre il secondo agisce in modo più ondivago ed il muro umano ne è la prova. Inoltre il numero di deportazioni non è diminuito e le promesse del nuovo governo americano si sono rivelate parole al vento”. Fanno eco le parole di Josè Luis Perez Canchola, Direttore Municipale degli uffici di Attenzione ai Migranti di Tijuana, che spiega che questa crisi è iniziata durante la campagna elettorale di Biden, quando il candidato presidente promise il rilascio di 125mila visti umanitari nel suo primo anno di mandato. “Questo ha causato una forte ondata migratoria proveniente dal Centro America – racconta Canchola – Una volta eletto Biden però ha fatto marcia indietro posticipando al 2022 il rilascio dei visti promessi. Ma la gente è già qui”.

Se Tapachula è il punto di inizio dell’esodo la città di Tijuana, al confine tra Messico e Stati Uniti, è quello finale. In queste ore nella cittadina di frontiera che si infrange contro il muro che separa i due Paesi, decine di migliaia di migranti vivono nei rifugi gestiti dai volontari che offrono gratuitamente vitto, alloggio ed assistenza legale. Ma ormai anche questi centri di accoglienza sono al collasso e così i migranti non possono fare altro che riversarsi per le strade, lungo la frontiera, tra le sterpaglie e a bordo delle carreggiate messicane. Sono centinaia questi insediamenti improvvisati fatti di tende da campo e teli di plastica a ridosso dei valichi di frontiera. A Chaparral, uno dei due ponti pedonali che collegano la città di Tijuana (Messico) con San Diego (Stati Uniti) ventimila persone vivono senza acqua, luce e gas esposti alle intemperie e alle malattie, ancorati unicamente alla speranza che il proprio nome sia incluso nell’elenco delle 125mila persone che beneficeranno di un visto. Se così non sarà per questa gente non ci saranno che due opzioni: il ritorno a casa o l’affidarsi a un coyote: un trafficante.

(AP Photo/Julio Cortez)

In queste condizioni è difficile restare lucidi, è difficile resistere al richiamo del sogno americano che è li, soltanto al di là del muro. E così molti cedono alle lusinghe e alle promesse dei trafficanti di esseri umani che per cifre che vanno dai 7mila ai 12mila dollari traghettano i migranti dall’altro lato. Ma da queste parti nessuno possiede tali cifre. Il meccanismo purtroppo è ormai tristemente noto ed il migrante, accettando l’aiuto dei “coyotes” e dei “polleros” (trafficanti di esseri umani), è poi costretto, per saldare il suo debito, a lavorare per un periodo di tempo più o meno lungo al servizio delle organizzazioni criminali, ma l’esito finale è già scritto: il migrante rimane intrappolato in una rete di ricatti che di fatto lo trasforma in uno schiavo al soldo dei cartelli e degli smugglers. E secondo l’Onu tale commercio frutta alle organizzazioni criminali 6,6 miliardi di dollari l’anno.

Per cercare di contrastare i cartelli e il traffico di uomini Washington e Città del Messico hanno dato vita alle “operazioni specchio”, operazioni di controllo della frontiera portate avanti in simultanea, specularmente, dalla Border Patrol statunitense e dalle forze di polizia messicana. ”Mia moglie era anche lei un agente che si occupava del controllo della frontiera.- racconta un agente della polizia messicana- Come me cercava di contrastare l’immigrazione illegale e soprattutto il traffico di essere umani che i gruppi di narcotrafficanti gestiscono in questa zona frontaliera. E’ un lavoro che ci espone a molti rischi e infatti mia moglie ha pagato caro il prezzo per il suo sacrificio per la legalità”.

(AP Photo/Fernando Llano)

L’agente di polizia, mentre racconta la sua storia, non smette di setacciare con gli occhi i campi che circondano il muro e prosegue spiegando: ”Alcuni uomini legati a un cartello locale, pochi mesi fa, l’hanno rapita e le hanno sparato. E’ rimasta gravemente ferita ”. L’uomo, che per ragioni di sicurezza ha preferito mantenere l’anonimato, improvvisamente si interrompe. Una donna viene avvistata mentre cerca di superare la frontiera, il fuoristrada delle forze dell’ordine messicane allerta i colleghi statunitensi che raggiungono la migrante originaria dell’Ecuador che viene immediatamente fermata e controllata. Del coyote invece nessuna traccia.

(AP Photo/Felix Marquez)

Spariscono i clandestini, muoiono i poliziotti e franano i sogni di migliaia di persone sotto la grande muraglia che separa USA e Messico, ma le maglie del muro non sono impenetrabili per i cartelli che attraverso questa fascia di terra trasportano, armi, droga e uomini . L’oscurità avvolge la barriera, le tenebre trasportano un eco lontano, forse un pianto, forse un urlo di disperazione.

E’ l’urlo di un ombra che si leva dal mondo delle ombre, quelle che si annidano ai piedi di un muro che a migliaia di uomini e donne  sembra precludere persino i raggi di luce dell’alba di domani.

FONTE: https://it.insideover.com/reportage/migrazioni/messico-al-collasso.html

 

 

 

LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI

Crisi dello stato sociale e ascesa del Terzo settore: “Si ha il doppio lavoro essenzialmente per necessità”

16 Dicembre 2021 10:00

Crisi dello stato sociale e ascesa del Terzo settore: "Si ha il doppio lavoro essenzialmente per necessità"

di Eugenio Donnici

 

Il Terzo settore venne alla luce nei primi anni settanta del secolo scorso, quando iniziarono i primi segnali di crisi del Welfare state; in quel periodo entrarono in scena gruppi di volontari cattolici e laici, soprattutto nell’ambito socio-sanitario, con l’intento di provare a soddisfare i crescenti bisogni sociali che il sistema statale non riusciva più a garantire, per una serie di implicazioni che abbiamo delineato in altri percorsi di ricerca. Le forme spontanee di volontariato, ben presto, furono trasformate in strutture organizzate, dando vita a enti privati (associazioni, imprese sociali, fondazioni, cooperative sociali, eccetera). Tali enti hanno finito per posizionarsi tra il Primo settore, ossia l’insieme delle attività economiche svolte dallo Stato e dagli altri enti pubblici, senza scopo di lucro, e Il Secondo settore, vale a dire le imprese private che nella produzione di beni e sevizi da vendere sul mercato, perseguono l’obiettivo fondamentale di conseguire il profitto.

Negli ultimi venti anni, il Terzo settore, con un giro di affari che in base a stime recenti si attesta intorno al 5% del Pil nazionale, è divenuto l’asse portante del cosiddetto Welfare mix, potendo contare su un esercito di volontari e dando lavoro a circa 850.000 addetti. Tuttavia, le condizioni di vita delle persone occupate in questo contesto, nei diversi ambiti in cui le attività di queste ultime si concretizzano, esprimono ampie fasce di immiserimento crescente.

Per addentrarci nella fitta rete di quell’ossimoro che costituisce il “privato sociale”, mi sono posto degli interrogativi che ho cercato di sviluppare con Mario Piras, operatore pluri-qualificato, con molti anni di esperienza nelle cooperative sociali.

La stragrande maggioranza delle cooperative sociali, per il solo fatto di scrivere nei propri statuti che perseguono finalità mutualistiche e solidaristiche, tendono a propagare un’immagine della loro mission che fa a pugni con i racconti di vita quotidiana dei loro dipendenti. Qual è la tua percezione nei confronti di queste forme distorsive delle relazioni sociali? Quali sono le dinamiche interne tra soci e dipendenti?

Mi sembra importante dire, poiché è proprio nella mia esperienza di lavoratore, come vi sia una narrazione promossa da quadri e semplici dipendenti soci, secondo la quale ai soci venga riservata una priorità nella conservazione del posto di lavoro in caso di riduzione di budget. Sono gli stessi lavoratori e lavoratrici della cooperativa che raccontano di come essere soci presenti dei vantaggi che, secondo la mia opinione, non sono limitati alle finalità mutualistiche e solidaristiche. Ecco, faccio un esempio concreto: succede, non di rado, di essere penalizzati per l’improvvisa riduzione di ore di servizio, riduzione che può dipendere da una improvvisa diminuzione dei fondi pubblici che erano stati inizialmente previsti. Se succede, una pratica molto comune è quella in cui si dice ai lavoratori del servizio penalizzato di condividere equamente la riduzione del monte orario complessivo. Può accadere, però, e lo so per esperienza personale, che uno o più soci chiedano di mantenere il proprio monte orario e se non hanno risposta positiva, magari perché non ci sono nemmeno ore disponibili per l’integrazione in altri servizi, chiedano di mantenere le stesse ore nel servizio penalizzato a danno di uno o più dipendenti non soci, che così vedono ridotte le proprie ore anche per le quote di questi soci. Io non credo che questa dinamica abbia a che fare con le finalità mutualistiche e solidaristiche di una cooperativa. Penso che sia una distinzione non legittima che i dirigenti di cooperativa operano perché hanno un interesse a tutelare i soci maggiormente, poiché sono ovviamente solo i soci ad avere potere di voto nell’elezione del Consiglio di amministrazione di una cooperativa.

Nel 1883, quando fu fondata a Ravenna la prima società di mutuo soccorso, l’Associazione Generale degli Operai e dei Braccianti, i loro membri e sostenitori, tra cui Andrea Costa, posero un argine alle gare al ribasso per aggiudicarsi gli appalti, per le opere di sistemazione del territorio. A distanza di circa un secolo e mezzo, il principio di non ingaggiare competizioni distruttive tra i lavoratori si è dileguato. Come giudichi la tendenza delle cooperative ad accapigliarsi tra di loro per ottenere la gestione di un servizio dalla Pubblica Amministrazione? E soprattutto, date queste circostanze, credi che sia possibile disinnescare “la guerra tra poveri” che pervade le condizioni di esistenza dei dipendenti e dipendenti-soci?

Io non parlerei di cooperative che si “accapigliano”. Ricorderei che formalmente siamo in regime di libero mercato, perché è necessario farlo, proprio per disvelare e chiarire meglio le contraddizioni. E infatti in un libero mercato del sociale un evento storico come Mafia Capitale ha consentito di mettere in evidenza come il fare “cartello” fosse pratica assai comune fra imprese cooperative a Roma. Altro che libera concorrenza! le cooperative si mettevano d’accordo per la spartizione di lotti dei bandi pubblici emanati per la gestione di alcuni servizi territoriali, eliminando ogni beneficio che avrebbe potuto derivare da una competizione vera fra imprese.

Per quanto riguarda la “guerra tra poveri” dei lavoratori delle cooperative non la definirei come tale. I lavoratori delle cooperative, essendo, per lo più, lavoratori che svolgono le loro funzioni nell’erogazione di servizi socio-sanitari, raramente sono assoggettati a orario d’ufficio e questo consente loro di avere una seconda e, a volte, terza attività che incrementa non poco il loro reddito.

La questione andrebbe posta in altro modo, secondo me, dovremmo farci più spesso questa domanda: è sano lavorare 60/70 ore a settimana su servizi alla persona? Quali sono gli effetti su psiche e fisico dei lavoratori?

Io spesso vedo lavoratori logorati, più’ che poveri, che riescono a pagare il mutuo e andare in vacanza in giro per il mondo, ma che sono in burn out permanente. Ecco, per me, la nuova alienazione è insita in questa condizione, sulla quale i lavoratori e le lavoratrici non riescono mai a riflettere abbastanza.

È vero che ci possono essere dinamiche feroci fra lavoratori, specie fra soci e non soci, ed è vero che lo stipendio del CCNL è vergognosamente basso. Ma inquadrare questi fenomeni solo come “guerra tra poveri” non consente una riflessione più profonda. Oggi i lavoratori e le lavoratrici delle cooperative sono a rischio di povertà, quando si ammalano o invecchiano e non riescono a svolgere un secondo lavoro, oppure quando non riescono a sviluppare un sapere professionale tale da consentirgli la prospettiva di una seconda attività, che non di rado rimane nel sociale.

 

Al di là dei concetti astratti come libero mercato, concorrenza, “cartelli mafiosi” e della metafora “guerra tra poveri”, mi sembra di captare, tra le righe, che, da un lato, esista un problema di ripartizione del monte orario complessivo e, dall’altro, intuire che con quaranta ore settimanali dei vostri contratti di cooperazione sociale “non si campa”. Per di più le cose si complicano, quando si è costretti a tenere relazioni lavorative in due o più contesti produttivi, per il semplice fatto che dobbiamo computare i ”tempi morti“ e gli incrementi di tempo per l’accresciuta mobilità. Pertanto, concordo sulla tesi che il concetto di povertà debba essere correlato con l’estensione della settimana lavorativa a 60/70 ore e prenderei spunto dalla domanda che tu poni qui sopra, provando a dispiegarla anche agli altri settori produttivi: è sano, è giusto (aggiungerei io) lavorare 60/70 ore a settimana? Pensi che gli individui coinvolti in questa spirale lo facciano per scelta o per necessità?

Gli stipendi previsti nel CCNL dei lavoratori delle cooperative sociali, lo ripeto, sono vergognosamente bassi. Questo è un punto incontrovertibile. E poi ci sarebbe da fare un discorso sul fatto che spesso i lavoratori sono sotto-inquadrati.

Si ha il doppio lavoro essenzialmente per necessità, ma in ambito educativo, che è quello che conosco meglio, se si sviluppa l’adeguato sapere professionale, l’impegno profuso in attività che eccedono le 38 ore settimanali del contratto può diventare in molti casi una scelta dettata dal desiderio di maggiore guadagno. Ci sono una serie di bisogni sociali a cui lo Stato non dà risposta, di conseguenza le famiglie pagano i servizi, il più delle volte in nero e i lavoratori riescono cosi a guadagnare di più, a volte molto di più. Bisogna aggiungere che i lavoratori del sociale potrebbero facilmente guadagnare di più e in maniera ufficiale e garantita, se si applicassero inquadramenti adeguati al lavoro effettivamente svolto e contrattazioni di secondo livello. In molti casi i fondi per farlo già ci sono, ma troppo spesso i Cda delle cooperative propongono alle assemblee dei soci l’utilizzo degli utili in attività etichettate come socialmente utili, che poi in realtà si rivelano agire come società profit: ristoranti, asili privati, società multiservizi per l’inserimento di persone svantaggiate, etc.

Ma il sindacato e la politica sono assenti per quanto riguarda questi aspetti. Il sindacato interviene troppo spesso solo nelle procedure di cambio di gestione dell’appalto. Una routine, a volte complessa, che garantisce i livelli occupazionali, ma la cui ratio non è la rinegoziazione delle condizioni di lavoro.

In merito alla domanda se è sano e giusto lavorare 60/70 a settimana nel sociale, io affermerei semplicemente che non è giusto farlo in nessun ambito lavorativo. Ne viene penalizzata la qualità del lavoro e della vita di chi lavora. Però non dimentichiamo, per dare il giusto peso alla questione, che anche tantissimi medici hanno doppio/triplo lavoro e tanti professori della scuola pubblica hanno il doppio lavoro. Insomma, il problema della doppia attività lavorativa non riguarda solo il sociale.

FONTE: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-crisi_dello_stato_sociale_e_ascesa_del_terzo_settore_si_ha_il_doppio_lavoro_essenzialmente_per_necessit/11_44392/

 

SANITÀ PUBBLICA IN ITALIA. SOTTRATTI 37 MILIARDI IN 10 ANNI

Alla sanità pubblica in Italia sono stati sottratti 37 miliardi solo negli ultimi 10 anni (di quelli precedenti non ho dati certi), anche per favorire i privati. Tenetele a mente queste cose quando questo incubo sarà finito.

Tenete a mente che c’è bisogno di una sanità nazionale (se non europea), uguale e accessibile per tutti, pubblica e sottoposta a controlli e trasparenza tali che chi pensa di fare il furbo e speculare deve sapere che si butta via la chiave. Dire che la sanità pubblica sia stata fonte di scandali, sprechi, stipendifici e clientele della politica non è una buona giustificazione, per la stessa politica autrice di quei disastri, per dirottare le risorse sul privato.

La sanità pubblica deve essere difesa e tutelata da tutti i cittadini come se fosse il bene personale che ciascuno di noi ha più a cuore. Perché riguarda la nostra vita e quella dei nostri cari.
E chi fa affari, o fa il furbo con la sanità pubblica, va etichettato da tutti come un criminale, come un terrorista che attenta alla salute pubblica, perché di questo si tratta e va punito con pene severissime.
In gioco c’è la vita. La vita di tutti noi e adesso, dopo tanti anni di smantellamento stiamo vedendo cosa significa.

Leggete qui quanti ospedali hanno chiuso regione per regione –> https://bit.ly/2Urmqwh 

 

FONTE: http://www.ignaziocorrao.it/sanita-pubblica-in-italia-sottratti-37-miliardi-in-10-anni/

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

“Ecco cosa sapeva Fauci sul laboratorio di Wuhan”: la rivelazione di Sky Australia

Non si placano le polemiche intorno alla figura del consigliere sanitario del presidente americano Joe Biden, Anthony Fauci, accusato di aver mentito ai cittadini circa i presunti finanziamenti statunitensi alle ricerche svolte nel laboratorio di Wuhan, città dalla quale è partita la pandemia di Covid. Sky Australia, in un servizio andato in onda nelle scorse ore, ha rivelato la scoperta di “nuove prove di una ricerca su virus pericolosi portata avanti e poi interrotta dal Wuhan Institute of Virology”.
"Ecco cosa sapeva Fauci sul laboratorio di Wuhan": la rivelazione di Sky Australia

“Una ricerca che prevedeva la creazione di nuovi, pericolosi virus che non erano mai esistiti fino a quel momento – ha spiegato la testata giornalistica – L’intelligence sta investigando sulla possibilità che uno di questi virus possa essere fuoriuscito dalla struttura dando il via alla pandemia. La persona più informata in merito è il consigliere sanitario del presidente Biden, Anthony Fauci”.

Fauci è finito nel mirino per non aver mai parlato apertamente delle ricerche condotte nella struttura e per aver negato che dei soldi pubblici americani possano averle finanziate. Una tesi contestata da molti politici repubblicani, che continuano a puntare il dito contro di lui accusandolo di aver mentito: “Gli esperimenti includevano ricerche sulla trasmissibilità e la contagiosità dei virus. Questo tipo di ricerche è stato vietato negli Stati Uniti nel 2014, ma dei finanziamenti americani hanno continuato ad arrivare in Cina per supportare gli esperimenti”.

” Fauci è l’uomo responsabile di tutto questo: era ai vertici dell’NIH quando nel 2017 sono stati revocati i divieti per questo tipo di ricerche. Proprio l’NIH supportava anche ricerche portate avanti dagli scienziati militari cinesi. I soldi dei contribuenti americani finanziavano ricerche per manipolare geneticamente i coronavirus, portate avanti insieme all’Esercito popolare di liberazione cinese. Questo progetto in particolare ha coinvolto il Wuhan Institute of Biology e due istituti americani”.

FONTE: https://www.ilparagone.it/attualita/ecco-cosa-sapeva-fauci-sul-laboratorio-di-wuhan-la-rivelazione-di-sky-australia/

 

 

La lezione russa in Kazakistan

Il presidente del Kazakistan Qasym-Jomart Tokayev lo ha detto in modo esplicito. Le truppe della Csto, l’alleanza a guida russa, hanno “completato con successo” la missione e lasceranno il Paese nei prossimi giorni. Secondo il governo di Nur Sultan, le forze dell’ex blocco sovietico procederanno a un “ritiro graduale” che potrebbe durare “non più di dieci giorni”. E per la Russia è (almeno formalmente) arrivato il momento in cui si può dare il via al ritorno delle truppe nelle basi.

Il ministro della Difesa russo, Sergej Shoigu, lo aveva già detto chiarito giorni: i contingenti del Csto avrebbero considerato terminata la missione una volta giunto il via libera della leadership kazaka. E per adesso tutto sembra far propendere per un progressivo e rapido ritiro delle truppe, iniziato, come confermato anche dai militari russi, alle prime ore di questa mattina.

Mentre il Kazakistan prova a ristabilire una strana normalità e ricucire le sue ferite umane e fisiche – fatti di sangue, morti, incendi e saccheggi – è la Russia in questo momento a raccogliere il frutto di un’operazione che può essere utile per capire il nuovo corso della leadership di Vladimir Putin. Una missione in cui gli elementi che hanno caratterizzato lo sforzo diplomatico ma soprattutto bellico russo indicano quale potrebbe essere la nuova strategia dello “zar” con questi nuovi conflitti. Lezione tattica che può servire per comprendere eventuali ulteriori azioni militari da parte del Cremlino.

La scelta di invocare il blocco

Primo elemento di particolare rilevanza è la scelta di muovere l’alleanza. La Csto, per la prima volta, ha attivato l’articolo 4 su richiesta di un Paese e ha fatto seguito un intervento militare da parte della Federazione Russa e di altri alleati di Mosca. Un messaggio che indica il desiderio di Putin di dare l’immagine di un blocco e non di un Paese contro tutti, in modo da promuovere l’idea di una potenza leader e non di una superpotenza sostanzialmente isolata che gioca la sua partita nel territorio di un vecchio impero che rischia di sfuggirle di mano.

Il fatto che questo sia avvenuto in Kazakistan e non in altre circostanze – altri Paesi richiesero a suo tempo l’intervento dell’alleanze senza ottenere il placet di Mosca – è frutto di una combinazione di fattori. Da un lato le condizioni più rischiose di altri interventi militari (vedi il caso armeno), dall’altro lato le tempistiche, in pieno periodo di negoziati con gli Stati Uniti per il destino dell’Ucraina, che hanno aiutato il Cremlino nella decisione di mostrare i muscoli. Quello che però sembra possibile prevedere è l’inizio di un nuovo modo di condurre la diplomazia da parte di Putin: evidenziando un salto di qualità anche rispetto al rapporto con gli alleati dello spazio post-sovietico.

Un blitz repentino con truppe d’élite

Altro elemento fondamentale è il tempo. La mossa russa di intervenire a sostegno del governo kazako contro i rivoltosi è stata repentina, quasi istintiva (almeno nell’immagine), e il dispiegamento dei soldati altrettanto rapido. In poche ore, le basi russe di Orenburg, Pskov, Ivanovo, Seshsha e Chkalovsky hanno attivato un piano di azione che ha visto forze d’élite e i migliori mezzi blindati sbarcare nei centri nevralgici del Kazakistan. Dagli aeroporti sono decollate decine di cargo Il-76 e An-124, e Mosca ha dimostrato di saper mobilitare truppe aviotrasportate in grado di blindare nel giro di un brevissimo arco temporale tutte le infrastrutture strategiche per la sicurezza del Paese e della Russia. Un segnale di capacità tattiche interessante anche in ottica di possibili blitz in altri territori.

La scelta di utilizzare gli Spetsnaz della 45esima brigata aviotrasportata e in generale parà impiegati nelle azioni in Crimea – così come quella di dare il comando al generale Andrei Serdyukov – si iscrive in questa metodologia di blitz rapido e immediatamente efficace. Elementi da tenere particolarmente sotto osservazione soprattutto se messi in parallelo con le più recenti esercitazioni delle forze armate russe: tutte campagne addestrative largamente orientate all’intervento di paracadutisti, cecchini e schieramento di mezzi per la conquista di piccole porzioni di territorio da difendere. Un qualcosa avvenuto, pur con modalità peculiari, anche nella crisi kazaka.

La via russa alla guerra contro-insurrezionale

L’utilizzo di forze armate in un conflitto sostanzialmente contro-insurrezionale pone poi un ulteriore spunto di riflessione. Qui la lezione russa è soprattutto tesa a far comprendere che Mosca non è solo capace di condurre una guerra ibrida o irregolare, ma anche a condurre una guerra “contro-irregolare”. Elemento come l’antiterrorismo, la stabilizzazione di un alleato in pericolo e la capacità di contrastare delle rivolte vengono mosse non sul piano della guerra ibrida né con l’utilizzo di regolamenti internazionali di più ampio respiro né tantomeno sul piano sistemico o politico, come può essere ad esempio una tipica operazione di peacekeeping occidentale.

La Russia ha dimostrato che in un conflitto di questo genere interviene in modo rapido per eliminare il problema nella sua manifestazione reale, cioè la guerriglia, e non ha una matrice contro-insurrezionale. L’obiettivo della campagna russa non è stato quello di sradicare il male per cui è esplosa la protesta, né si è cercato di chiarirlo in modo netto: lo scopo è stato quello di evitare che l’incendio deflagrasse, a mostrare le capacità russe di contrasto fisico di qualsiasi forma di insurrezione e dare modo agli avversari strategici di orientarsi di conseguenza. E in questo, forse, è la vera lezione che si può trarre da questa operazione in Kazakistan.

FONTE: https://it.insideover.com/guerra/la-lezione-russa-in-kazakistan.html

 

 

 

 

POLITICA

La disuguaglianza è una scelta politica

Il 7 dicembre scorso è stato rilasciato il World Inequality Report per il 2022un rapporto che traccia il quadro della disuguaglianza di reddito e ricchezza a livello internazionale. La situazione che emerge è quella di un mondo caratterizzato da diseguaglianze feroci, sia tra Paesi che all’interno dei Paesi. In altre parole, le disparità di reddito e ricchezza sono forti e persistenti sia tra Nord e Sud del mondo, sia tra individui all’interno di ciascuna economia nazionale. Niente di nuovo sotto il sole, purtroppo.

Partiamo da una prima fotografia globale, facendo tuttavia una preliminare distinzione. Con il termine ‘ricchezza’ intendiamo l’ammontare di risorse che, in un determinato momento, un soggetto possiede. Con il termine ‘reddito’ intendiamo invece l’ammontare di risorse che, in un preciso intervallo di tempo (generalmente, un anno), giunge nelle mani di un soggetto per effetto del proprio apporto al processo produttivo: un lavoratore, ad esempio, riceverà come reddito il salario derivante dal proprio lavoro; un capitalista riceverà il profitto derivante dalla propria attività d’impresa; il proprietario di un immobile locato percepirà come reddito i canoni di affitto dell’inquilino. Certo, seppur stiamo parlando di due concetti differenti, è facile immaginare che le due grandezze si parlino: un basso livello reddito non contribuirà ad accrescere in misura rilevante la ricchezza di un individuo (perché questi non potrà permettersi di risparmiare risorse in ammontare considerevole), e soprattutto non gli permetterà di godere nel presente di un buon tenore di vita, in quanto potrà permettersi un ammontare più basso di beni e servizi.

Bene, il report in questione analizza la disuguaglianza attraverso le lenti di entrambe le dimensioni appena introdotte: reddito e ricchezza. Se, tornando al rapporto (Figura 1), consideriamo la distribuzione dei redditi e della ricchezza su scala mondiale, scopriamo che la metà più povera dei cittadini del mondo (bottom 50% nella figura, in blu) arriva a raggranellare solo l’8% del reddito totale, e a possedere appena il 2% della ricchezza complessiva. Dalla parte opposta, il 10% più ricco (top 10% nella figura, in rosso) è oggi in grado di accaparrarsi il 52% del reddito mondiale, e addirittura possiede il 76% della ricchezza. Dati che fotografano una situazione di fortissima disuguaglianza.

Figura 1. Fonte: Global income (reddito) and wealth (ricchezza) inequality 2021.

A un livello di analisi più specifico, il documento indica che i livelli di disuguaglianza non sono gli stessi nelle diverse aree del mondo. L’Europa, per esempio, mostra ancora una distribuzione del reddito meno diseguale rispetto agli Stati Uniti e, soprattutto, rispetto alle aree più povere del pianeta, come il Medio Oriente (MENA), il Nord Africa e l’Africa Sub Sahariana (Figura 2). Nonostante la crisi che stiamo vivendo sulla nostra pelle, la situazione è molto peggiore in altre parti del mondo, e parte di questa tendenza è attribuibile alla sopravvivenza di qualche residuo di stato sociale e di tutela del lavoro che in altre parti del globo non sono mai esistite o sono completamente scomparse.

Figura 2. Distribuzione del reddito in varie aree del mondo. Fonte: ibid.

Tuttavia, la vicenda si fa ancora più interessante una volta che si sposta il focus sul livello nazionale delle disuguaglianze, e soprattutto sulle macrotendenze storiche che hanno caratterizzato la dinamica delle disuguaglianze di reddito e ricchezza in Italia.

Partiamo dal primo punto. Anche in questo campo, il Belpaese primeggia. Per quanto concerne la distribuzione del reddito, la metà più povera degli italiani riesce a racimolare appena il 20% del reddito prodotto, mentre il 10% più alto ne raccatta un cospicuo 32%. Passando alla distribuzione della ricchezza, la metà che sta in basso detiene una quota che non supera il 10%, mentre al top 10% è riconducibile il 48% della ricchezza complessiva. Quasi la metà! Senza contare che il top 1% (l’uno percento più ricco della popolazione) detiene il 18% della ricchezza nazionale.

Figura 3: distribuzione del reddito in Italia (1900/2020). Fonte: ibid.

Come è stato possibile? Questo è l’aspetto più interessante del rapporto, che consente di cogliere in una singola immagine la storia che ci ha condotto verso questa situazione drammatica. Nella Figura 3 è riportato l’andamento, in Italia, della quota di reddito riconducibile al 10% più ricco e al 50% più basso della distribuzione nel corso del secolo scorso e fino al 2020. Come si può osservare, fino agli anni ’70, l’andamento è decrescente per i redditi più alti e crescente per la metà più bassa della distribuzione, tanto che in questo decennio avviene un sorpasso, comunque non entusiasmante, con la quota riconducibile al 50% più basso dei redditi che supera quella del top 10%. Viceversa, dai primi anni ’80 questa tendenza convergente si inverte in maniera permanente e, dopo il contro-sorpasso, la distanza continua ad aumentare fino ai giorni nostri. In altri termini, fino agli anni ’70 la parte meno agiata della popolazione era riuscita ad accaparrarsi fette sempre più ampie del prodotto sociale, mentre dagli anni ’80 in poi i più ricchi hanno visto sempre più aumentare i loro redditi.

L’andamento della distribuzione della ricchezza va ancora peggio (Figura 4) e questo è bene sottolinearlo, anche in considerazione del fatto che l’Italia è uno dei primissimi Paesi al mondo per rapporto tra ricchezza privata e reddito nazionale. Tale indice è esploso dal 250% del 1970 al 650% del 2010 (oggi siamo intorno al 700%) e sta ad indicare che la distribuzione della ricchezza è particolarmente importante per valutare la distribuzione complessiva e dunque le disuguaglianze nel nostro Paese.

Figura 4: Distribuzione della ricchezza in Italia (1995-2021). Fonte: ibid.

Come si spiega questo andamento? Quali politiche si sono consolidate e rafforzate in particolare a partire dagli anni ’80? Il documento esaminato afferma che la disuguaglianza – e la sua crescita – è una precisa scelta politica e non è inevitabile. Non a caso, in Italia (e in molti altri Paesi a dire il vero) prende il via da quegli anni un preciso percorso di deregolamentazione del mercato del lavoro e di libera circolazione su scala mondiale di merci e capitali, un copioso processo di finanziarizzazione, un progressivo smantellamento dello stato sociale e una sostanziale riduzione dei diritti dei lavoratori. Tali strumenti hanno rappresentato un formidabile dispositivo per le classi dominanti per invertire la tendenza di convergenza nella distribuzione del reddito e della ricchezza, instaurando una nuova fase caratterizzata dalla crescente precarizzazione del lavoro e dall’indebolimento delle organizzazioni sindacali. Si tratta di deliberate scelte politiche che hanno contribuito a ridurre la quota del prodotto che va al lavoro, ossia la porzione di reddito che i salariati riescono a portare a casa nel conflitto distributivo, e, in tal modo, ad aumentare anche le disuguaglianze di reddito e di ricchezza: esiste infatti una precisa correlazione tra la quota di reddito che va ai percettori di profitto e quella che va alle fasce più agiate della popolazione (in altri termini, non lo scopriamo oggi che i capitalisti sono di norma più benestanti dei lavoratori). Risultato: alla riduzione della quota salari si è accompagnata la parallela crescita della quota profitti, che è stata il motore vero e proprio dell’esplosione delle disuguaglianze a livello internazionale. Questo ragionamento vale specialmente per l’Italia, unico paese tra quelli dell’OCSE, dove dal 1990 al 2020 dove si è registrata una diminuzione (-2,9%) dei salari reali.

Davanti a questo quadro a tinte fosche, che fare? Politiche di redistribuzione (come, ad esempio, aumentare la tassazione su redditi alti e grandi ricchezze per finanziare la fornitura di servizi pubblici ai meno benestanti) sono senz’altro necessarie, ma potrebbero rivelarsi non sufficienti alla luce delle mostruose disuguaglianze esistenti. Occorre, pertanto, intervenire sulla la distribuzione primaria dei redditi, ossia garantire ai lavoratori un salario reale più elevato. Solo in questo modo verrebbero sostanzialmente intaccati gli enormi margini di profitto e le rendite che hanno contribuito, negli ultimi 40 anni, a polarizzare la ricchezza nelle mani di pochi. Per concludere, il miglioramento delle condizioni di vita per le classi subalterne passa in primo luogo per un aumento dei salari, e, in secondo luogo per forme di redistribuzione ex-post (da sole però non sufficienti), ma soprattutto, specie in un’ottica di lungo periodo, per una trasformazione del sistema economico nella direzione di una pianificazione e di una trasformazione in senso collettivo della proprietà. L’esatto contrario di quanto sta accadendo sotto la gestione Draghi, alfiere di un Governo di impronta liberista che mira a privatizzare quel poco che resta dei servizi pubblici, a tagliare la spesa sociale e a promuovere una riforma fiscale i cui frutti più prelibati saranno raccolti dalle classi medio-alte.

FONTE: https://coniarerivolta.org/2021/12/13/la-disuguaglianza-e-una-scelta-politica/

 

 

 

SCIENZE TECNOLOGIE

La robotica, una nuova forma di sovversione dell’ordine del creato

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Si chiama Ameca e, come hanno ammesso i suoi creatori che lavorano per la società di robotica Engineered Arts, è sicuramente «l’umanoide più avanzato finora realizzato». Su Corriere.tv è stato pubblicato un video in cui è possibile vederlo in azione. Il video vale più di mille parole. Ameca segue con gli occhi il dito di un ricercatore che si muove davanti a lui, presenta espressioni facciali molto realistiche, si ritrae se qualcosa si avvicina troppo a lui e addirittura afferra una mano che cerca di toccarlo. Il tutto con movenze fluide e non meccaniche. “Spaventoso” lo hanno definito gli stessi suoi sviluppatori. C’è da aggiungere che Ameca non è radiocomandato, bensì è programmato per l’autoapprendimento. Infatti le telecamere integrate negli occhi utilizzano il software TensorFlow per l’apprendimento automatico. Da qui il termine “automa”, quasi che la macchina possa scegliere liberamente cosa fare e cosa non fare.

Dall’America finiamo in Cina. Lì alcuni ricercatori hanno messo a punto un procuratore robot. Si tratta di una macchina che, utilizzando l’intelligenza artificiale (AI), sarebbe capace di identificare otto reati comuni tra cui la frode, il gioco d’azzardo e la guida pericolosa analizzando alcuni fatti. In Cina già si usa l’intelligenza artificiale per prevedere quanto un sospettato possa essere pericoloso socialmente. Il determinismo meccanicistico entra nei tribunali e nelle prefetture.

Vi sono moltissimi altri esempi di applicazione dell’AI e di robotica avanzata, ma ci bastino i due casi appena citati per la breve riflessione che andremo qui ad articolare. La robotica e l’AI portano con sé molti effetti positivi, ma anche molti rischi. Qui ne vogliamo sottolineare uno: la personificazione dei robot. Il bioeticista Tristram Engelhart nel Manuale di Bioetica (Il Saggiatore, Milano, 1991, pp. 126s.) scrive: «non tutti gli esseri umani sono persone. I feti, gli infanti, i ritardati mentali gravi e coloro che sono in coma senza speranza costituiscono esempi di non persone umane. Tali entità sono membri della specie umana. Non hanno status in sé e per sé, nella comunità morale. No sono partecipanti primari all’impresa morale. Solo le persone umane hanno questo status». Per Engelhart alcune funzioni attuali conferiscono lo status di persona all’essere umano: l’autocoscienza, la razionalità, il senso morale.

Un altro bioeticista, Peter Singer, nel suo Etica pratica (Liguori, Napoli, 1989) si muove sulla stessa lunghezza d’onda. Solo quegli esseri umani capaci di attualizzare alcune facoltà, chiamate “indicatori di umanità”, sono persone. Tali indicatori sono i seguenti: autocoscienza, autocontrollo, senso del futuro, senso del passato, capacità di porsi in rapporto con gli altri, riguardo per gli altri, comunicazione, curiosità.

Non vogliamo qui confutare le tesi di questi due autori, tra i più citati in campo bioetico, bensì vogliamo applicare le loro tesi alla robotica. Guardando il video di cui sopra potremmo pensare che Ameca sia autocosciente: un dito si avvicina a lui e questi si ritrae. Coglie quindi la diversità tra il sé e l’altro da sé. Oppure potremmo ritenere che abbia una capacità di porsi in rapporto volontario con gli altri: afferra il braccio di chi vuole toccarlo, segue con lo sguardo il dito del ricercatore. Più in generale, grazie al programma di autoapprendimento, ci pare che Ameca sia un robot che decida quale azione compiere e che quindi sia un soggetto libero. In breve dato che Ameca ha dato prova di intelligenza – le reazioni agli stimoli ricevuti e la capacità di interrelazione ne sarebbero una prova – e di porre in essere atti liberi, dovremmo concludere che Ameca sia persona, dato che caratteristiche essenziali della persona sono intelligenza e libertà.

Partiamo dalla libertà. Ameca non è libero perché tutto ciò che fa è stato preordinato dai suoi creatori. Facciamo un esempio: un abilissimo giocatore di biliardo riesce a mandare in buca tutte le biglie al primo tentativo, solo colpendo nel modo corretto la biglia al vertice del triangolo di biglie che sono così poste sul tavolo all’inizio di una partita. Le biglie finiscono ognuna in una buca non perché ogni biglia lo abbia deciso liberamente, ma perché sono state così indirizzate dalla intelligenza e libertà del giocatore. Tramite una serie assai complicata di urti reciproci e rimbalzi sulle sponde, le biglie sono state ordinate dal giocatore a finire in buca, sono state mosse a tal scopo da costui e non da loro stesse. È ciò che accade con tutti gli enti creati che si comportano in modo intelligente, ossia perseguono un fine, pur non essendo intelligenti. Lo sviluppo geometrico dei cristalli di un minerale è un fine intelligente, ma non è stato deciso dal minerale che non è un ente intelligente; la sintesi clorofilliana è un fine intelligente, ma non è voluta dalle piante che non sono enti intelligenti; un castoro, che non è un ente intelligente, costruisce dighe ed è un fine intelligente, ma soddisfatto non per libera scelta; il nostro occhio, che non è un ente intelligente, vede – e vedere è un fine intelligente – ma non perché vuole vedere. Funzioni intelligenti a cui gli enti non personali, per loro natura, non possono in alcun modo sottrarsi: le compiono perché determinate per natura a compierle. Tutte queste funzioni intelligenti sono insite in questi enti e, nello stesso tempo, provengono dall’esterno, cioè da Dio che creando ha ordinato ogni ente al suo debito fine.

In modo analogo accade con Ameca: ciò che fa è l’effetto di un programma chiamato di autoapprendimento progettato da alcune persone. Sono i codici inventati dai ricercatori che determinano uno sviluppo della capacità di Ameca nel tempo, come le leggi della botanica regolano lo sviluppo dei vegetali. Ameca necessariamente obbedisce a questi codici, non se ne può liberare, è vincolato ad essi in modo deterministico, così come le biglie dell’esempio di prima finiscono necessariamente in buca perché effetto determinato dal giocatore. Anche noi siamo stati “programmati” da Dio per compiere il bene – ecco il significato di natura umana – ma Dio ci ha anche creati liberi e quindi ci possiamo discostare dai codici divini che ci indirizzerebbero verso il bene. Dunque Ameca ci pare libero, ma non lo è. In realtà è sempre eterodiretto da chi lo ha creato, non sarà mai autonomo, non potrà mai autodeterminarsi. Dato che gli atti di Ameca non sono voluti, possiamo concludere che non sono atti autentici, bensì simulati, proprio perché non liberi, quindi non propri. Se vediamo una marionetta che cammina e saluta, sappiamo bene che non è la marionetta a scegliere di camminare e salutare, ma chi muove i fili legati ai suoi arti di legno. Ameca è solo una sofisticata marionetta, di cui non riusciamo a vedere immediatamente i fili che la legano ai suoi ideatori. E Ameca non è libero perché, come accenneremo più avanti, non ha un’anima razionale.

Passiamo alla intelligenza. Ameca compie sì azioni intelligenti pur non essendo intelligente: afferra cose, segue con lo sguardo chi gli sta di fronte, risponde agli stimoli, etc. Ciò vuol dire che possiede una intelligenza comandata dall’esterno. Così come la funzione della sintesi clorofilliana è funzione sicuramente intelligente che però è presente in un ente privo di intelletto. Dunque Ameca si muove intelligentemente non grazie a sé, ma grazie ai suoi creatori che lo hanno programmato intelligentemente. In un certo qual modo ciò accade anche con le persone: noi abbiamo un’anima razionale che opera in modo intelligente compiendo così atti intelligenti, ma che non abbiamo creato noi, bensì è stata infusa direttamente da Dio. Ma la differenza tra noi e Ameca su questo punto sta ancora nel fattore libertà: noi usiamo di questa intelligenza venuta dall’alto in modo libero, scegliamo quali azioni razionali compiere, Ameca usa dell’intelligenza proveniente dai suoi creatori in modo necessitato, ossia non sceglie quali azioni razionali compiere, bensì sono altri a scegliere per lui tramite codici di programma a cui il robot non può sottrarsi. Ecco perché possiamo dire che gli esseri umani sono enti intelligenti ed invece i robot non lo sono e non potranno mai esserlo.

Un secondo aspetto in merito all’intelligenza che ci distingue da Ameca è il seguente: questa macchina compie alcune azioni intelligenti, ma non potrebbe compiere altre azioni particolarmente intelligenti come l’autocoscienza, la creazione artistica, l’astrazione, l’amare, etc. Questo perché per compiere tali azioni di natura sovrasensibile occorre avere un’anima razionale: effetti metafisici comportano di necessità una causa altrettanto metafisica. E l’“anima” di Ameca è fatta solo di ferro e plastica e non potrà mai avere un’anima razionale. Se compie queste azioni, in realtà sono solo simulate, sono finte: ci sembra che Ameca abbia coscienza di sé, ma è solo un’illusione come un fuoco dipinto su un muro.

Il libero arbitrio e la razionalità sono appannaggio solo delle persone, quindi di Dio, degli angeli e di noi uomini. La persona, come diceva Boezio, è «sostanza individuale di natura razionale» (La consolazione della filosofia. Gli opuscoli teologici – Contra Eutychen et Nestorium, [a cura di L. Orbetello], Rusconi, Milano, 1979, III, 4-5, p. 326). È l’anima razionale che, insieme al corpo, fa dell’essere umano una persona. Lì risiede la nostra capacità razionale (intelligenza) che muove la volontà (libertà) per compiere alcuni atti e che usa del cervello ed eventualmente di altre parti del nostro corpo per porre in essere atti razionali, ossia per attualizzare le proprie potenze/facoltà intellettive. Gli atti comunicativi, di introspezione, quelli artistici, i giudizi morali, etc. mostrano solo la presenza di questa capacità razionale insita nell’anima dell’uomo. Gli enti privi di anima razionale quindi non potranno mai compiere atti razionali in modo autonomo. E quegli enti, tra questi, costruiti da mani umane mostreranno una razionalità la cui causa ultima naturale, come già appuntato, non risiede in loro, bensì nei loro creatori, manifesteranno non una loro intelligenza, ma l’intelligenza di chi li ha costruiti: saranno specchio di una razionalità che non viene da loro. Così come le parole scritte in un libro mostrano non l’intelligenza del libro, ma del suo autore. O come la ragnatela di un ragno appalesa l’intelligenza non del ragno, bensì di Dio. Anche noi, come già detto, mostriamo una razionalità che viene da Dio, ma la possiamo usare in modo libero a differenza degli enti non personali, tra cui i robot. Così si esprime sul punto Tommaso d’Aquino: gli esseri dotati di intelligenza «non sono guidati, ma guidano se stessi nei propri atti al debito fine» (Summa contra Gentiles,III, 1).

Nel campo della roboetica, invece, sempre più si inizia a parlare dei robot come persone, di soggettività robotica, proprio perché i robot appaiono liberi di decidere e capaci di compiere atti intelligenti. Il (falso) sillogismo alla fine è semplice: se persona è un ente intelligente e se un pc compie operazioni intelligenti – ben più intelligenti di quelle che potremmo compiere noi, addirittura sbagliando molto meno di noi umani – allora significa che un pc è persona. Ma, lo ripetiamo, le macchine, pur sofisticate che siano, compiono alcune azioni intelligenti non da sé, per proprio libero arbitrio, ma grazie agli uomini. Non scelgono di compiere queste azioni. Sono solo marionette mosse alla fine da noi umani, mosse da noi persone. E inoltre non potranno mai compiere alcune azioni particolarmente elevate come l’introspezione, i giudizi morali, etc. Un ultimo appunto: tutti i processi rivoluzionari tendono a sovvertire l’ordine del creato. E così abbiamo che i nascituri e le persone non più vigili da anni non sono ancora/non sono più persone e diventano oggetti, invece gli oggetti (Ameca rimane una cosa, un oggetto) sono persone, si umanizzano. Ecco infatti chiamarli umanoidi.

FONTE: https://www.corrispondenzaromana.it/la-robotica-una-nuova-forma-di-sovversione-dellordine-del-creato/

 

 

Automotive: l’elefante nella stanza

Lo stop dall’Europa ai motori a combustione dal 2035 pone, al di là delle considerazioni tecniche, diverse riflessioni di tipo strategico, che rivoluzioneranno ancora più rapidamente e profondamente il nostro modo di vivere.

La determinazione a livello europeo di non commercializzare più automobili a combustione interna a partire dal 2035 è in qualche modo passata sotto silenzio nell’agenda politica italiana.

La conversazione pubblica è incentrata – a parte il toto-Presidente di questi giorni – sul discutere aspetti tutto sommato secondari, quale ad esempio l’impatto ambientale ed energetico reale delle automobili elettriche. Ci si preoccupa giustamente di come si produrrà l’elettricità necessaria a ricaricare le batterie dei veicoli di nuovo tipo, e si polemizza affermando che ciò dovrà avvenire utilizzando le fonti fossili, la qual cosa dunque non risolverebbe il problema ambientale.

Al di là delle considerazioni tecniche – solo a titolo di esempio, la maggior parte del peso di un veicolo a combustione interna proviene dal motore, che sarà sostituito dalle molto più leggere batterie – in realtà sfuggono diverse riflessioni di tipo strategico, che rivoluzioneranno ancora più rapidamente e profondamente il nostro modo di vivere.

Innanzitutto, la prospettiva di investire una cifra consistente in un asset che rischia di diventare virtualmente senza valore entro pochi anni deprimerà il mercato del nuovo per le auto di vecchio tipo molto prima del 2035. Sicuramente il phasing out del vecchio parco macchine a combustione richiederà diversi anni, ma difficilmente la politica si potrà permettere transizioni temporalmente comode come fatto con le varie versioni Euro-n delle auto a benzina e diesel.

A spingere per una transizione rapida saranno le stesse case automobilistiche, le quali se vogliono sopravvivere alla competizione degli attori nativamente elettrici come Tesla, dovranno effettuare una veloce reingegnerizzazione di impianti e processi. Questo avrà come conseguenza che quelle che ci riusciranno per prime vorranno consolidare rapidamente la propria base di mercato e recuperare gli investimenti. A questo scopo, intensificheranno le azioni commerciali e di lobbying nei confronti dei decisori politici perché questi ultimi mettano appena possibile fuori legge le automobili tradizionali. Al 2035 mancano tredici anni, ma la combinazione di questi fattori porterà il mercato a cambiare molto prima.

Segnali di movimento in questa direzione si fanno sempre più evidenti. Il CEO di Volkswagen Herbert Diess ha invitato Elon Musk a parlare di innovazione e del futuro dell’auto elettrica ai propri manager, puntando chiaramente il dito nella direzione verso la quale vuole spingere il secondo attore dell’industria mondiale dell’auto.

Ancora più significativamente, Stellantis ha annunciato al CES di Las Vegas la chiusura di una serie di accordi pluriennali con Amazon, finalizzati ad adottare il cloud computing come cuore della costruzione e gestione dei propri autoveicoli. Una mossa di grandissimo significato, che vede la nuova joint venture adottare quello che nativamente è il modello Tesla: non più l’elettrificazione di modelli esistenti; non più l’inserimento di software come add-on su una struttura fondamentalmente meccanica; ma la costruzione dell’auto e dei servizi correlati intorno ad un software.

Ad indicare un commitment estremo del gruppo verso obiettivi di rapida riconversione, la stessa Stellantis ha inoltre annunciato che trasformerà Alfa Romeo in un brand completamente elettrico entro il 2027 e Chrysler entro il 2028. Solo un quinquennio, dunque, è l’orizzonte che al di là degli obiettivi politici fissati al 2035, uno di più significativi attori dell’industria automotive si assegna per la riconversione di due dei suoi marchi più forti.

Una classe dirigente nazionale accorta e versata nell’analisi strategica avrebbe tutti gli elementi per derivare le conseguenze industriali, economiche e sociali di quanto abbiamo appena esposto. All’orizzonte si addensa una tempesta perfetta per il nostro settore produttivo automotive: un cambio epocale di tecnologia, dall’elettromeccanico all’IoT e Cloud Computing by design; scadenze di mercato che indicano una riconversione all’elettrico più veloce rispetto alle pur prossime deadline  politiche; l’obsolescenza non solo di un sistema industriale, ma anche e soprattutto di un capitale umano numericamente molto significativo.

Il nostro paese è disseminato di stabilimenti primari e di indotto che fondano la propria esistenza sul modello di automotive che innovazione e mercato metteranno presto in discussione. Si è facili profeti quando si prevede che in mancanza di una solida politica di riqualificazione del personale del comparto, e di una interlocuzione di qualità con gli attori di mercato – Stellantis su tutti – potremmo ritrovarci a breve con tensioni lavorative e sociali non di poco conto.

Accanto alle minacce, tuttavia, intravvediamo delle opportunità: quelle legate ad una forte scolarizzazione informatica della prossima generazione di lavoratori dell’automotive; ed allo sviluppo di una visione industriale strategica che consenta al nostro paese di non perdere uno dei pilastri maggiori della nostra struttura produttiva.

FONTE: https://www.infosec.news/2022/01/13/news/trasporti-e-mobilita/automotive-lelefante-nella-stanza/

 

 

 

STORIA

Il sequestro Moro e quelle illusioni della memoria storica

Paolo Persichetti, ex membro dell’Unione dei Comunisti Combattenti (Br-Ucc), oggi storico e ricercatore, anticipa al Dubbio alcuni capitoli del suo prossimo saggio “La polizia della Storia”

Vi ricordate il blitz della polizia nel paese di Gradoli durante i drammatici giorni del sequestro Moro? I blindati della celere, gli elicotteri, le unità cinofile, le perquisizioni “casa per casa”, “cantina per cantina”, gli sguardi attoniti degli abitanti del piccolo centro della Tuscia?

Immagini vivide, impresse nella memoria anche di chi scrive. Peccato che quel blitz tanto spettacolare quanto inutile non sia mai avvenuto e le forze dell’ordine non siano mai entrate a Gradoli per cercare il covo dove era prigioniero il presidente della Dc.

Una fake news come si dice oggi. Tutta la vicenda, poi era circondata da un fitto mistero; il nome di Gradoli emerge nella famosa seduta spiritica del 2 aprile 1978 tenuta da alcuni professori universitari tra cui Romano Prodi. Una boutade se non fosse che in via Gradoli a Roma ci fosse stata effettivamente una base delle Br che venne poi scoperta fortuitamente a causa di un guasto idraulico nell’appartamento.

«La comune convinzione che ci fu una perquisizione di massa nasce dalle immagini di un film di Giuseppe Ferrara sul rapimento Moro, apparso nel 1986, ben otto anni dopo i fatti. Fu proprio Ferrara a mettere in scena la perquisizione di fantasia i cui frames sono fissati nelle menti di molti, persino in quella del presidente della Commissione stragi che ribadì con forza questa sua convinzione: “Ne è stata data notizia su tutte le televisioni, serbo ancora un ricordo preciso, si vedevano gli uomini con il mitra che entravamo e perquisivano un intero paese”».

A raccontare con dovizia di particolari questa vera e propria “illusione di memoria” che ci ha colpiti tutti è Paolo Persichetti, ex membro dell’Unione dei Comunisti Combattenti (Br-Ucc), oggi storico e ricercatore che ha anticipato al Dubbio alcuni capitoli del suo prossimo lavoro “La polizia della Storia”, edito da Derive e Approdi.

Un’opera complessa di ricostruzione degli eventi come probabilmente nessuno aveva fatto prima, che si scontra inevitabilmente con i miraggi della percezione che offuscano fatti lontani nel tempo, a volte avvolgendoli in una densa cortina di fumo, altre volte operando scambi, sostituzioni, inversioni.

Lo storico rigoroso sa che i fatti non corrispondono alla memoria, e che attingere alle fonti seguendo una tesi da dimostrare a priori è uno degli errori più gravi che si possano commettere. Specialmente se la tesi è di natura politica.

La narrazione complottista che da oltre quarant’anni avvelena i pozzi e accompagna il sequestro Moro (senza mai aver fornito una prova concreta), adombrando fantomatiche infiltrazioni e manipolazioni da parte di altrettanto fantomatici poteri occulti che avrebbero eterodiretto i brigatisti ha contribuito non poco a traviare la nostra memoria.

Anche opere di scarso livello come i libri di Sergio Flamigni o pellicole fantasy come Piazza delle Cinque Lune di Renzo Martinelli (di cui Flamigni è stato consulente storico) pur nella loro inverosimiglianza hanno nutrito l’inconscio cospirazionista naqzionale. Che in Italia è una specie di disposizione permanente, un habitus per dirla con Pierre Bordieu.

L’allucinazione collettiva del blitz della polizia nel paese di Gradoli è solo un esempio di quanto sia difficile mettere a fuoco gli eventi, anche per chi agisce in buona fede e non ha interessi diretti nella vicenda. Peccato che questi bias cognitivi tracimino nella letteratura ufficiale, nelle aule di giustizia e nelle Commissioni parlamentari facendo a loro modo la “Storia”.

«Quando tra il 2014 e il 2015 ho iniziato il lavoro di ascolto delle fonti orali in parallelo alla raccolta dei documenti disponibili per la ricostruzione degli aspetti politici, logistici, e operativi del sequestro Moro ho scoperto che il memoriale Morucci e la ricostruzione effettuata in sede giudiziaria corrispondevano solo in parte a quanto realmente accaduto».

Secondo Persichetti le stesse “verità giudiziarie” sottoscritte dai giudici che hanno redatto la sentenza del Moro quater sono piene di approssimazioni, di piccoli grandi errori.

Ad esempio sempre secondo i giudici il primo trasbordo del prigioniero dalla Fiat 132 al furgone Fiat 850 sarebbe avvenuto in via Bitossi anziché piazza Madonna del Cenacolo, il che contrasta in modo flagrante con le testimonianze di tutti i membri del commando, da Valerio Morucci a Mario Moretti, a Prospero Gallinari. In realtà i brigatisti nella seconda parte della via di fuga utilizzano un altro mezzo ancora di cui non si sapeva l’esistenza: è la famosa Renault4 rossa dove poi verrà ritrovato il corpo di Moro in via Caetani che venne usata da due membri del commando che dovevano dare appoggio a un secondo trasbordo del prigioniero previsto nel quartiere di Valle Aurelia che alla fine non avvenne.

Questa informazione è presente nelle carte del Moro quater ma inquirenti e giudici non l’hanno mai sfruttata probabilmente perché non hanno voluto dare credito al racconto della via di fuga fatto dai brigatisti. Se invece di sequestrare l’archivio di Persichetti per cercare reati alla cieca avessero riletto i documenti dei processi questi elementi sarebbero venuti alla luce.

Si tratta di aspetti  secondari del sequestro che non toglie o aggiunge granché al quadro d’insieme, ma la distorsione della memoria si annida anche nei dettagli apparentemente insignificanti, alimentata poi dal mormorio, quello senz’altro in malafede, delle dietrologie.

«Nella nostra ricerca ci siamo dovuti misurare costantemente con questa insidia, chi si confronta con la memoria sa che questa può giocare pericolosi tranelli. Per il ricercatore a volte è meglio confrontarsi con testimoni che hanno vuoti di memoria piuttosto che doversi misurare con le illusioni del passato, ricordi distorti e reinvenzioni che stravolgono i fatti».

FONTE: https://www.ildubbio.news/2021/11/26/il-sequestro-moro-e-quelle-illusioni-della-memoria-storica/

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