NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI 22 FEBBRAIO 2019

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NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI

22 FEBBRAIO 2019

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

Il mondo moderno ha costruito il proprio senso storico

intorno alla valorizzazione e al culto della rovina…

IGINO DOMANIN, Grand Hotel abisso, Bompiani, 2014, pag. 65

 

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Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.

 

Tutti i numeri dell’anno 2018 della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com 

 

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SOMMARIO

 

Lettura tecnica letterale o lettura sociale (o del caso concreto) di una norma?

 

Il curriculum dell’inviato USA in Venezuela. 1

WikiLeaks: l’accordo segreto tra Usa e don Giussani per fermare il Pci, sostegno al Movimento Popolare di Roberto Formigoni 1                    

Il nuovo petrolio si chiama COLTAN

Oligarchia per popoli superflui: così vorrebbero sterminarci 1

Greta Garbo e la religione del cinema 1

Attilio Manca: La Commissione Antimafia senta Giorgio Napolitano 1                 

New York: legale l’aborto fino al nono mese

Mafia nigeriana in Italia: interviene anche l’FBI 1

Avellino, il prete apre la messa sulle note di “Soldi” di Mahmood. 1

LA POLONIA ACCUSA IL GOVERNO ISRAELIANO. DI “RAZZISMO INACCETTABILE”. 1

La mafia nigeriana e quella israeliana 1

L’egemonia di sinistra ha creato un deserto e l’ha chiamato cultura. 1

Stragi ’92, Genchi racconta le indagini sulle utenze clonate. 1

COSA SAPEVA ISRAELE DEI PIANI PER L’11 SETTEMBRE? 1

Ragazzo ucciso in Calabria. Spunta uno 007 del Vaticano 1 1

Venti di guerra contro il Venezuela. A soffiare, come sempre, Amnesty International con l’ennesimo rapporto bufala. 1

CROLLA LO SPREAD… VIVA LO SPREAD! 1             

Gli stipendi italiani sono fermi a venti anni fa

Cina, nasce a Dongguan la prima fabbrica senza operai: “Sostituiti da 1.000 robot” 1

Il silenzio ostinato del Papa sulla persecuzione dei cristiani 1

Yunnan, ponte e frontiera della Cina verso il Sud-est asiatico 1

L’oligarchia zootecnica ci sta spegnendo, anche coi vaccini?. 1

Mafia, ‘Ndrangheta e politica: anche i servizi segreti dietro al massacro dei carabinieri negli anni ’90. 1

 

 

EDITORIALE

Lettura tecnica letterale o lettura sociale (o del caso concreto) di una norma?

Manlio Lo Presti – 22 febbraio 2019

 

LA LETTURA LEGALISTA LETTERALE E PEDANTE di una norma riguardante il principio del “rispetto dei diritti della a persona” decontestualizzandone gli effetti geopolitici sul Paese ospitante è un ‘altra strada per cercare di aprire i porti per fare arrivare senza controlli né contingentamenti (misura in atto in moltissimi Paesi ma a loro nessuno dice niente).

 

La lettura letterale di una normativa sradicandola dalla situazione in cui si trova un Paese in quel momento è una vera e propria COVERT OPERATION / PSY OPS.

 

Per coloro che intendono informarsi, una corretta informazione sulla interpretazione della norma è leggibile qui: http://www.simonescuola.it/areadocenti/s339/Lezione%202.pdf

 

Affermare che il rispetto dei diritti della persona è prioritario IN ASSOLUTO su ogni decisione di un Paese non vuole tenere nella giusta considerazione GLI EFFETTI GEOPOLITICI che tale rispetto pedante e stupido può provocare in termini di ordine pubblico, sicurezza nazionale antiterroristica, disordini sociali, violenze carnali di massa, aggressioni alla popolazione italiana (dati ossessivamente occultati o volutamente sottostimati per non diffondere il panico fra la popolazione).

Quando qualcuno in una ben nota trasmissione in un ben noto canale televisivo pseudo-privato frontalmente brutalmente schierato con la dottrina globalista-immigrazionista-senza-freni-né-controlli, continua a martellare sulla letterale/pedante interpretazione della norma sui diritti della persona e avulsa dai contesti, fa in aperta malafede una operazione sporca di disinformazione deformando la realtà!

Quale è lo scopo di questa interpretazione pedante? Quello di sommergere caoticamente l’Italia da una marea crescente e non quantificabile c.d. immigrati FINO AL SANGUE DEGLI ITALIANI.

Ma quanti soldi fanno guadagnare queste posizioni, considerato che gli incassi delle invasioni precedenti hanno fruttato una cifra intorno ai 12.000.000.000 di euro, con costi di “gestione” del caos migratorio di 4.000.000.000 al mese? Questo immenso oceano di denaro è andato nelle tasche di coop, vaticano, case accoglienza, ong, gruppi politici, 8 mafie, ecc. ecc. ecc. ecc. ecc. ecc. ecc. ecc.

Questa posizione antiitaliana, autorazzista e soprattutto EVERSIVA, danneggia la sicurezza nazionale del Paese bersaglio, a causa di una interpretazione restrittiva di un articolo della Costituzione elaborato per sbarchi sporadici e non per l’accoglienza di invasioni pilotate per incassare proventi superiori al quelli della droga (come detto in colloqui intercettati dalle forze dell’ordine).

Pertanto, la lettura RESTRITTIVA di norme in materia di immigrazione è un atto eversivo in malafede e strumentale per giustificare lucrose invasioni prossime venture, ovviamente giustificate da scopi buonistici di soccorso di poveri c.d. immigrati che quando si imbarcano hanno donne e bambini lacrimosi e quando sbarcano molto spesso sono filmati uomini ben palestrati con cellulari satellitari da ottomila euro ciascuno!

DA QUALE PARTE STANNO COLORO CHE HANNO QUESTE POSIZIONI “LEGALISTE RESTRITTIVE FORMALI”?

Di sicuro, questi non sono a favore degli italiani ma con i loro comportamenti e prese di posizione, formalmente umanitarie e condivisibili, dimostrano di favorire di fatto il gioco:

delle 8 mafie,

del vaticano,

delle ONG,

delle Coop, 

dei gruppi politici,

dei trafficanti di armi,

dei trafficanti di organi,

dei trafficanti di bambini da vendere alle potentissime reti pedofile,

dei trafficanti di terroristi e fuoriusciti ricercati dai Paesi di provenienza,

dei trafficanti di neoschiavi da pagare 3 euro al giorno,

del traffico di stupefacenti. 

 

L’invasione caotica frutta miliardi: QUESTO è il motivo VERO, coperto da un ipocrita pietismo.

(Goldman docet!)

 

La guerra autorazzista ed eversiva contro la popolazione italiana continua …

 

 

 

IN EVIDENZA

Il curriculum dell’inviato USA in Venezuela

Golpe contro Chavez nel 2002, guerra all’Iraq 2003, scandalo Iran-Contra, appoggio ai dittatori di Hounduras, Salvador, Guatemala

 

 

La nomina di Elliott Abrams come inviato per il Venezuela ha scandalizzato vari giornalisti statunitensi, anche quelli più ostili a Maduro, dato il passato e gli scandali che lo hanno coinvolto, dall’Iran-Contra, all’appoggio ai dittatori di Honduras, El Salvador e Guatemala negli anni ’80 del secolo scorso.

Washington sembra così smaniosa di un cambiamento di governo in Venezuela, che il Dipartimento di Stato ha appena nominato un ex diplomatico con una lugubre esperienza in America Latina e Medio Oriente per guidare la “restaurazione della democrazia” a Caracas.

Il Segretario di Stato nordamericano Mike Pompeo ha annunciato ieri la nomina di Elliott Abrams per “aiutare il popolo venezuelano a ripristinare pienamente la democrazia e la prosperità nel paese”. Abrams dovrebbe coordinare tutti gli sforzi diplomatici per sostituire il presidente Nicolas Maduro con l’autoproclamato presidente Juan Guaido, riconosciuto dagli Stati Uniti, dall’OSA e da diversi membri dell’UE.

 

“Ho lasciato questo edificio 30 anni fa – l’ultima volta che ho lavorato qui – quindi è molto bello tornare”, ha dichiarato, ieri, Abrams ai giornalisti al Dipartimento di Stato. “Questa crisi in Venezuela è profonda, difficile e pericolosa e non vedo l’ora di iniziare a lavorarci”.

La nomina è un tentativo da parte degli Stati Uniti di introdurre un controllo diretto del Venezuela come “futuro vassallo regionale”, ha affermato la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova.

Molti giornalisti e osservatori statunitensi – anche quelli che sostengono il cambio di governo in Venezuela come Chris Hayes di MSNBC – sono rimasti allibiti dalla notizia, ricordando la storia oscura dell’ex diplomatico in America Latina.

 

Come assistente segretario di stato dell’amministrazione Reagan per i diritti umani negli anni ’80, Abrams sostenne i dittatori appoggiati dagli Stati Uniti in Guatemala, El Salvador e Honduras nelle loro campagne di repressione, inclusi gli squadroni della morte. È stato anche coinvolto nel lavoro con l’Iran per armare i ribelli sostenuti dagli Stati Uniti in Nicaragua

 

Continua qui: 

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-il_curriculum_dellinviato_usa_in_venezuela_golpe_contro_chavez_nel_2002_guerra_alliraq_2003_scandalo_irancontra_appoggio_ai_dittatori_di_hounduras_salvador_guatemala/82_26880/

 

 

 

 

 

 

WikiLeaks: l’accordo segreto tra Usa e don Giussani per fermare il Pci, sostegno al Movimento Popolare di Roberto Formigoni

Tra i nuovi documenti diffusi da Wikileaks ce n’è uno particolarmente interessante per l’Italia: una comunicazione diplomatica del 19 dicembre 1975 tra il consolato Usa a Milano e la Segreteria di Stato di Washington, in cui il console americano riporta il contenuto di un dialogo avuto con il fondatore di Comunione e Liberazione don Luigi Giussani.

 

Argomento: un “accordo segreto” tra la Segreteria di Stato di Henry Kissinger e il fondatore di Cl per fermare l’avanzata del Partito Comunista in Italia, finanziando le attività e i media del Movimento Popolare. Il braccio politico di Cl appena nato sotto la guida dell’allora ventottenne Roberto Formigoni e con l’aiuto del futuro cardinale di Milano Angelo Scola.

 

I documenti, pubblicati oggi da L’Espresso, raccontano un dialogo molto chiaro. Il console americano incontrò don Giussani per sapere come gli Stati Uniti potevano aiutare il movimento. La risposta del fondatore di Cl fu molto diretta: “Potete aiutare il Movimento Popolare. E darci una mano nel campo della comunicazione e dei media”.

Non quindi un appoggio diretto a Comunione e Liberazione, ma un aiuto al Movimento Popolare di Formigoni, lo strumento attraverso il quale realizzare il progetto di Cl sulla società italiana (“estendere una guida positiva oltre il terreno religioso”).

Nel ’75 l’Italia rappresentava la preoccupazione più grande per gli statunitensi in Europa. In quell’anno alle elezioni amministrative il Pci balzò al 33,4%, accorciando a due punti percentuali la distanza dalla Democrazia Cristiana. Un

 

Continua qui: https://www.huffingtonpost.it/2013/04/08/wikileaks-accordo-segreto-usa-don-giussani_n_3035442.html

 

 

 

 

IL NUOVO PETROLIO SI CHIAMA COLTAN E IL VENEZUELA NE È CASUALMENTE PIENO

DI ROBERTA ERRICO    20 FEBBRAIO 2019

Da mesi ci viene descritto un Paese sull’orlo del collasso, eppure le ricchezze della Repubblica bolivariana del Venezuela sono invidiabili: il Paese sudamericano conserva nel suo sottosuolo cospicue quantità di oro (le riserve stimate sono intorno alle 15 tonnellate), possiede le più grandi scorte petrolifere del pianeta e negli ultimi anni ha scoperto di avere giacimenti ricchissimi di coltan, un minerale destinato a diventare il petrolio del futuro. 

Il coltan è una combinazione di columbite, manganese e tantalite, e contiene un’alta percentuale di tantalio, un superconduttore che sopporta elevate temperature, resiste alla corrosione e possiede una grande capacità di immagazzinare cariche elettriche. Il coltan è il materiale fondamentale per la fabbricazione di condensatori, microchip, console per videogiochi, sistemi di posizionamento globale, satelliti, missili telediretti, apparati di microelettronica e nella chirurgia estetica viene utilizzato per gli impianti mammari. Per il suo utilizzo sempre più massiccio in diversi settori strategici, gli esperti prevedono un’impennata nella richiesta globale che potrebbe triplicare entro il 2025.

Fino all’anno scorso, si pensava che i giacimenti di coltan si trovassero in consistenti quantità solo in Congo, Ruanda e Burundi, ma nell’ottobre 2018 il Venezuela ha inaugurato il più grande impianto di estrazione di coltan di tutto il Sudamerica. Al momento dell’inaugurazione, il leader venezuelano Nicolas Maduro, ha dichiarato che l’impianto avrebbe prodotto 7,8 milioni di dollari al giorno di introiti a beneficio della nazione, rilanciando l’importanza del Paese bolivariano sullo scacchiere energetico globale. Coltan, petrolio e oro: sono materie prime che fanno gola e l’instabilità politicadel Venezuela rende il Paese una preda appetibile.

L’11 gennaio 2019 Nicolas Maduro si è insediato per il suo secondo mandato come presidente del Venezuela. Maduro è in carica dal 2013, da quando il Presidente Hugo Chavez morì in circostanze per alcuni poco chiare, ed è un prosecutore della politica chavista, versione venezuelana della rivoluzione bolivariana: un socialismo del XXI secolo di ispirazione marxista, caratterizzato da uno spiccato anti-imperialismo e con il fine ultimo di realizzare un’esperienza socialista in senso democratico. La rielezione di Maduro è stata la conclusione di una campagna elettorale oggetto di numerose polemiche interne e internazionali, costellata di denunce di irregolarità. Questo clima di tensione ha portato l’Assemblea nazionale, il Parlamento unicamerale controllato dall’opposizione, a dichiarare nulle le elezioni e il suo presidente, Juan Guaidó, si è autoproclamato presidente del Venezuela ad interim mentre Maduro è ancora riconosciuto come legittimo leader dall’Assemblea nazionale costituente.

Oggi Caracas ha due presidenti, mentre le violenze nelle strade si moltiplicano, il popolo è affamato a causa di anni di embarghi e il resto del mondo si schiera tra i due contendenti. Cina, Russia e Turchia riconoscono la legittimità di Maduro mentre la quasi totalità del mondo occidentale si allinea con le ragioni di Guaidó. In Europa, la maggioranza degli Stati membri dell’Unione appoggia la linea dell’opposizione venezuelana, tranne l’Italia che non si è ancora espressa a causa delle diverse correnti che attraversano il governo, diviso tra la Lega che vorrebbe uniformarsi alla presa di posizione dell’Europa e il M5S che non vuole riconoscere Guaidó.

Non è passato inosservato il tempestivo appoggio degli Stati Uniti all’autoproclamazione a presidente di Guaidó ve che tra le prime dichiarazioni pubbliche del giovane deputato sia comparsa l’intenzione di privatizzare la potentissima compagnia petrolifera statale, la Pdvsa, riscrivendo le leggi del Venezuela sugli idrocarburi e distribuendo contratti per consentire alle multinazionali di accedere alle più grandi riserve di petrolio del pianeta. Anche l’oro del Venezuela è stato oggetto di disposizioni immediate: la Banca di Inghilterra, dove sono custoditi una quantità di lingotti di proprietà dello Stato venezuelano pari a 8 miliardi di dollari, ha rifiutato a Maduro il prelievo di 1,2 miliardi. Negli stessi giorni è arrivato il supporto del governo britannico tramite il ministro per gli Affari europei Alan Duncan che ha detto: “Siamo fianco a fianco con gli Stati Uniti nel dire che

Continua qui: https://thevision.com/attualita/petrolio-coltan-venezuela/

 

 

 

 

Oligarchia per popoli superflui: così vorrebbero sterminarci

Scritto il 09/8/18

La rivoluzione del XXI secolo è che, nel sistema tecnologico globalizzato e finanziarizzato, i popoli diventano sempre più intercambiabili e superflui per i nuovi processi di acquisizione di ricchezza e mantenimento del potere. Questa è la causa non detta della continua perdita di diritti sociali, civili, politici, del lavoro, oltre che di reddito, per la popolazione generale a vantaggio delle ristrette élites che prendono le decisioni esautorando o ricattando governi e parlamenti. E’ da questo che viene anche il crescente controllo manipolatorio e il tentativo di risolvere il problema ecologico applicando la biotecnologia alle masse. Nella crisi economico-monetaria e nella sua conduzione, al posto della democrazia trasparente e responsabile della narrazione ufficiale, è apparsa come potere politico effettivo, decidente, un’oligarchia bancaria irresponsabile, dinastico-familiare (assieme a un retrostante Stato-ombra fatto di apparati governativi più o meno segreti, insidiosi e altrettanto irresponsabili), che ha ripetutamente piegato la volontà dei popoli: un dato di fatto sempre più difficile da negare e da gestire, per istituzioni e mass media, che mette in crisi la legittimità giuridica del potere politico, la quale si basa sulla sua proclamata natura democratica.

Se il potere non è democratico, se non ci rappresenta, se fa gli interessi di pochi, perché mai dovremmo obbedirlo e pagargli le tasse, anziché rifiutarlo, soprattutto quando ci affligge con misure ingiuste e illogiche? Machiavelli deve essere ignorato per credere nella possibilità della legalità, della democrazia, della trasparenza – per credere che la competizione per il potere e la sua gestione, nei rapporti interni come quelli internazionali, si svolgano secondo norme di legge e di etica, e in modo scoperto

 

Continua qui: http://www.libreidee.org/2018/08/oligarchia-per-popoli-superflui-cosi-vorrebbero-sterminarci/

 

 

 

 

 

 

ARTE MUSICA TEATRO CINEMA

Greta Garbo e la religione del cinema

Antonello Boassa  • 18 febbraio 2019

Per Federico Fellini, Greta Garbo, “fata severa”, è da considerarsi la fondatrice “di quella religione chiamata cinema”. Definita “divina” dal grande regista David Sjostrom, in effetti i tratti del viso e la stessa espressione del viso sembrano modellati da un Leonardo o da un Velasquez, facendo riferimento ai modelli greci della divinità olimpica

Il cinema di Hollywood è stata ed è l’arma più potente dell’acculturazione di tutto il pianeta da parte degli States.
Hollywood ha creato un mondo immaginario che non esiste e che ha saputo spacciare come realistico. Un immaginario che ha saputo penetrare nell’immaginario degli individui, dando loro quello che desideravano.

Soddisfare il cliente assecondando le sue più profonde pulsioni relative al sesso, all’amore, allo spirito di giustizia, al desiderio di vendetta…

Andare al cinema per star bene, per uscirne soddisfatti sul piano psichico…possibile grazie a interpreti credibili, a regie di alto livello, a scenografie fascinose.

Nulla, soprattutto nella cinematografia americana prebellica, della miseria in cui versava il popolo americano, se non per trovare un esito consolatorio, dato dall’intraprendenza degli individui e dalla tenuta del sistema capitalista. “Furore” di Fritz Lang sembra fare eccezione. ma si badi bene, il film è del 1936. La grande depressione del 1929 è dietro di noi, grazie alle “ricette” di Keynes. La rinuncia alla vendetta da parte del protagonista vuole dare un segnale al Paese. Il sistema ha retto e voi siete stati straordinari.


Negli anni post ’68 la critica si farà più aspra, prima di riprecipitare dagli anni ’80/’90…ma attenti… la critica riguarda personaggi singoli: generali, poliziotti, politici, assicuratori che verranno regolarmente puniti a dimostrazione che il sistema America regge sempre anche moralmente.


Anche il mondo pellerossa verrà rivisitato…buoni film (“Soldato blu”, “Geronimo”, “Balla coi lupi”). Vengono criticati episodi singoli, ma nessuna riflessione seria sul genocidio di milioni di pellerossa, sulla “nuova frontiera”, sulle periferie abbandonate, sui ghetti urbani… Non si poteva e non si può agire se non così. Il sistema ha delle regole da cui non si può prescindere.

Ciò che appariva e risultava convincente era che tutto ciò che fosse americano risultasse come un mondo alternativo alle tristi realtà planetarie…Un rivolo di ottimismo e di speranza che si sarebbe potuto riversare su tutti gli abitanti del pianeta se avessero il coraggio e l’intelligenza di adottare il modello americano…

Quando poi già negli anni 40/50 apparve in primo piano il discorso sulla violenza e sulla criminalità, crebbe a dismisura il ruolo degli investigatori privati (il pubblico piace poco ai produttori americani), in genere divorziati o solinghi innamorati infelici, con una vita disordinata e spesso soggetti a grandi libagioni di alcool. Gli spettatori li vissero come eroi moderni, capaci di riportare giustizia.

Negli ultimi trenta anni, la menzogna sulla criminale politica americana in patria e all’estero viene con grande arte del tutto mascherata, affidata a presunti democratici come Robert Redford o George Clooney e a numerosi registi di talento

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ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

Attilio Manca: La Commissione Antimafia senta Giorgio Napolitano

12 Febbraio 2019 – Francesca Scoleri

Un altro 11 febbraio è trascorso e di riapertura di indagini sulla morte di Attilio Manca, non si parla. Diversi i comunicati sulla vicenda da parte di membri dell’esecutivo ma l’impressione è che si rivolgano ad altri nell’invocare la “ricerca della verità” e non a se stessi pur avendo tutti gli strumenti necessari per far riaprire il caso iniziando con l’audizione dell’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Il contrasto alla mafia è e rimane lo snodo principale per la riaffermazione dello Stato di diritto in questo Paese violato dalla presenza di Cosa nostra fin dentro al Parlamento e questa è storia non sono fantasie di chi scrive.

Lo afferma la sentenza sul processo trattativa Stato mafia emessa nell’aprile dello scorso anno che nel condannare, fra gli altri uomini delle istituzioni, l’ex Senatore Marcello Dell’Utri, dice: “ha fatto da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa nostra e l’allora governo Berlusconi che si era da poco insediato”. 

E prima ancora, lo ha affermato un’altra sentenza direttamente dalla Corte di Cassazione che su Giulio Andreotti, per 7 volte Presidente del Consiglio, si esprime cosi: “I fatti che la Corte ha ritenuto provati in relazione al periodo precedente la primavera ’80 dicono che il sen. Andreotti ha avuto piena consapevolezza che i suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha quindi coltivato, a sua volta, amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi …”

Conclude affermando che la condotta di Andreotti indica “…una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo.”

Gente affidabile dunque – Andreotti e Berlusconi – per Cosa nostra. Del secondo peraltro, neovincitore delle elezioni in Abruzzo accanto ad un membro dell’attuale governo, sappiamo, grazie alle recenti sentenze, che dava soldi ai corleonesi stragisti per mantener fede ad accordi remoti nel tempo (risalgono agli anni 70), “anche da premier, anche dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio”.

Noi veniamo da questo. La nostra storia passa da questi fatti accertati e dalla grave colpa che gran parte degli organi di stampa ha nei confronti dei cittadini proseguendo, ancora oggi a dispetto della sentenza e delle sue motivazioni, sulla via dell’omissione. Una colpa pagata a buon prezzo con ogni evidenza.

Cosa c’entra la storia di Attilio Manca  con le sentenze sopra citate?

La fitta rete di protezione di cui ha goduto Cosa nostra sotto i precedenti governi è sin qui dimostrata; si parla spesso di vertici della cupola mafiosa, ma ora, grazie alle sentenze emesse a Roma e Palermo, sappiamo che c’era un vertice anche nella cupola mafiosa istituzionale con poteri illimitati che si muoveva con estrema facilità anche grazie, non dimentichiamolo mai, alla “morbidezza” dell’informazione pronta a zittire sospetti e perplessità.

Lo abbiamo constatato verificando le proposte contenute nel papello di Totò Riina che sono diventate oggetto di discussione proprio sui banchi del Parlamento.

Gli esponenti di Cosa nostra davano tanto in termini di voti, controllo del territorio, favori di ogni genere ma pretendevano tanto e la protezione di uomini di spicco come Riina e Provenzano era prioritaria. Prova ne è il numero di anni che questi mafiosi hanno trascorso in libertà seppur ufficialmente latitanti.

La latitanza di Provenzano è durata ben 43 anni durante i quali è persino riuscito a raggiungere la Francia per farsi operare ad un tumore, durante i quali si recava a Roma a trovare amici come Vito Ciancimino la cui casa era controllata da telecamere installate dalle forze dell’ordine, durante i quali entrava ed usciva da edifici pubblici a Palermo e in tutta la Sicilia e allora diciamolo con estrema franchezza, Provenzano non era ricercato, Provenzano era “protetto”.

Attilio Manca, giovanissimo urologo di elevate capacità che gli sono valse il titolo di “luminare” è entrato in relazione con Provenzano prima come strumento di aiuto per salvargli la vita durante la grave malattia e poi come minaccia in quanto, forse aveva capito chi era quell’uomo misterioso che familiari vicini alla mafia di Barcellona Pozzo Di Gotto, avevano messo sulla sua strada.

La presidente della Commissione Giustizia Giulia Sarti, ieri ha ricordato le testimonianze di ben quattro pentiti che hanno raccontato nelle aule di tribunale, in processi a Cosa nostra, come Attilio Manca non sarebbe morto suicida – conclusione della procura di Viterbo – ma vi sono racconti dettagliati su come il giovane sia stato ucciso con l’intervento dei Servizi segreti, protagonisti di tante vicende misteriose nel nostro Paese.

Anche il Presidente della Camera Roberto Fico ha ricordato Attilio e questa è indubbiamente una cosa inedita rispetto ai governi passati ma sia chiaro che non può bastare. Non è un sufficiente motivo di discontinuità soprattutto alla luce della sentenza che il processo trattativa ci ha consegnato.

La parte di governo che non va a braccetto con il finanziatore dei corleonesi con sede ad Arcore, dovrebbe rimarcare le motivazioni di quella sentenza e renderle fondamento di una riapertura di indagini sul caso Manca. In realtà sarebbe un’apertura netta visto che i giudici di Viterbo che hanno messo il sigillo sul suicidio per “inoculazione volontaria di stupefacenti”, non hanno mai fatto alcuna indagine degna di questo nome.

Hanno semplicemente avvalorato un’autopsia che faceva acqua da tutte le parti sia a livello medico che giuridico in quanto, nessun rappresentante della famiglia Manca è stato informato dell’esame e alcuni fondamentali passaggi medici, mancano all’appello. I giudici di Viterbo hanno ignorato le testimonianze di chi condivideva la quotidianità con Attilio i quali hanno sempre sostenuto l’impossibilità del suicidio e della tossicodipendenza e allo stesso tempo, hanno considerato attendibili le testimonianze a favore della teoria della tossicodipendenza

Continua qui: https://www.themisemetis.com/mafia/attilio-manca-commissione-antimafia-senta-giorgio-napolitano/2642/

 

 

 

 

New York, legale l’aborto fino al nono mese: “Non è omicidio”

Di Cristina Gauri – 24 Gennaio 2019

Martedì sera il governatore di New York Andrew Cuomo ha firmato una legge che rende legale l’aborto fino a un giorno prima della data del parto. Non è un film dell’orrore, sta succedendo davvero. Il decreto, chiamato The Reproductive Health Act, è passato con 38 voti a favore e 28 contrari.

Cuomo ha dichiarato: “Oggi compiamo un passo da gigante nella battaglia per il diritto di ogni donna di compiere autonomamente le proprie scelte in materia di salute personale: compreso l’avere liberamente accesso alle pratiche di aborto”. In questa selva di diritti conquistati, quindi, gli unici ad esserne privi sono proprio i bambini, cioè coloro che andrebbero maggiormente tutelati. La salute di questi ultimi evidentemente non conta, perché di fatto la legge consente l’uccisione di un feto di nove mesi, completamente sviluppato e senziente, tramite iniezione di potassio nel cuore, e l’”estrazione” tramite parto indotto.

La legge cancella le precedenti limitazioni dell’interruzione di gravidanza alla 24esima settimana di gestazione. E stabilisce: “ogni individuo in stato interessante ha il diritto fondamentale di portare a termine la gravidanza, dare alla luce il bambino, o abortire”. L’aspetto più inquietante e inumano della questione è che il provvedimento cancella, di fatto, il reato di omicidio dal codice penale di New York

Continua qui: https://www.ilprimatonazionale.it/esteri/new-york-legale-aborto-fino-al-nono-mese-non-e-omicidio-102409

 

 

 

 

BELPAESE DA SALVARE

Mafia nigeriana in Italia: interviene anche l’FBI

8 GENNAIO 2019

In questi primissimi giorni del 2019, un fatto molto particolare, inedito e sconvolgente è giunto agli occhi ed alle orecchie dell’opinione pubblica attraverso le agenzie di stampa nazionali e locali: l’FBI sta lavorando a Castel Volturno, nell’ambito di una vastissima indagine sui numerosi traffici illeciti della mafia nigeriana.

Infatti, da luglio 2018, vige una serrata collaborazione fra l’autorità statunitense e la polizia italiana – coinvolte le sezioni di Caserta, Roma, Palermo e Torino – : una task force internazionale, che già ampiamente e dettagliatamente collabora anche con la Procura di Napoli, cui presto potrebbero aggiungersi le forze di polizia canadesi.

Per quanto il fenomeno, qui indagato, sia in realtà radicato da anni sul suolo del Bel Paese, e non soltanto su di esso, i cittadini italiani probabilmente si saranno imbattuti per la prima volta nella sua nomina soltanto un anno fa, quando fu trovato nel maceratese il corpo smembrato della giovanissima romana Pamela Mastropietro, per la quale sono attualmente indagati ed incarcerati Lucky Awelima, Innocent Oseghale e Desmond Lucky.

Ad accusare costoro di essere parte integrante di una delle tante sotto-sezioni della mafia nigeriana è stato il criminologo Alessandro Meluzzi, esperto dell’argomento, che ha individuato nella loro certosina brutalità di azione il “modus operandi” tipico del summenzionato gruppo criminale.

La sua tesi verrebbe fortemente corroborata dalle intercettazioni telefoniche fatte in carcere ai tre detenuti, le cui terribili parole fanno ventilare ed avanzare addirittura l’ipotesi di cannibalismo.

In ogni caso, ritornando all’arrivo dell’FBI nel casertano, l’inchiesta di respiro internazionale che qui si sta svolgendo ha messo in luce ed evidenza l’origine delle indagini, ovverosia dei trasferimenti di denaro sospetti ed anomali negli Stati Uniti: da qui, ingenti somme sarebbero state versate su conti correnti di banche italiane intestati ad immigrati nigeriani ivi presenti, e sfruttate per una serie di attività illegali e criminali, condotte con freddezza e spietatezza.

I soldi, ottenuti tramite il traffico di stupefacenti sul continente europeo – come riporta l’inchiesta -, vengono adoperati per finanziare la tratta di esseri umani nel Mediterraneo, per pagare gli scafisti e per corrompere molti funzionari statali dei Paesi del continente africano, spinti a tacere.

Addirittura, è emerso che questi criminali godono di protezione da parte delle élite nelle nazioni di origine, tanto da essere impiegati per motivi politici ed economici, peraltro sottraendo benessere alla popolazione (circuita ed ingannata attraverso una propaganda falsa e martellante sul presunto paradiso che troverebbero nel Vecchio Continente) ed iniettando ricchezza nelle mani delle cosche criminali e di chi si è corrotto con esse.

La mafia nigeriana [intesa qui come insieme di clan e gruppi criminali non necessariamente legati fra loro, ma con la medesima origine ed i medesimi interessi di lucro, N.d.R.], giunta a fare concorrenza alle mafie nostrane, od addirittura a collaborare con esse per spartirsi il territorio (è il caso dell’accordo con il clan dei Casalesi), è coinvolta in prostituzione, traffico di esseri umani, traffico di droga e finanche traffico di organi (il più delle volte, espiantati da uomini e donne giunti in Italia via mare, e poi scomparsi nel nulla): una delle sue basi operative è proprio Castel Volturno, ed è il motivo per cui l’Ufficio Federale di Investigazione americano è arrivato in Italia.

Come denuncia il quotidiano Il Mattino: «La mafia nigeriana sguazza nel non-mondo dell’Africa trapiantata a forza, tollerata per forza e forzata dai pochi che hanno diritto di parola, azione e movimento. Per il resto, da Destra Volturno a Pescopagano, e lungo la Domitiana, l’esercito di immigrati che una stima approssimativa calcola in 15mila in base alla spazzatura che produce, è ostaggio dei boss neri.

Minacce ai familiari rimasti in Africa, stupri, pestaggi. Chi comanda sul Litorale, collegato ai capi a Benin City e negli USA, è regolare sul territorio italiano e ha potere di vita e di morte sugli altri connazionali, sui ghanesi e sugli ivoriani».

Il sindaco della cittadina, Dimitri Russo, conoscendo la ferocia e l’efferatezza di questo gruppo criminale, ha invocato aiuto e sostegno ulteriori da parte dello Stato italiano (adesso coadiuvato dall’FBI americano), per una situazione fattasi progressivamente sempre più insostenibile, e pericolosa.

Uno studio sulla mafia nigeriana

Molti potrebbero essere rimasti sorpresi dall’apprendere della notizia che una mafia allogena si è radicata così a fondo, nondimeno così silenziosamente, in Italia.

In effetti, i mezzi di comunicazione di massa hanno parlato molto raramente della criminalità africana organizzata (la quale invece conta già su una struttura basica solida e su una ragnatela di legami internazionali, finanche mondiali, molto spessa e fitta): sempre secondo il professor Meluzzi – come dichiarato a La Verità -, per una sorta di “pregiudizio culturale”, di auto-razzismo politicamente corretto, incapace di guardare negli occhi l’abisso di una realtà che va ben oltre, che smonta e che brutalizza i cliché e la prospettiva ideologica che se ne può avere.

Tuttavia, esistono degli studi che permettono di capirne le scaturigini, la diffusione, i metodi operativi, gli attori e le vittime: il Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato” [meglio noto come Peppino, il famoso giornalista anti-mafia siculo ucciso da Cosa Nostra negli anni Settanta, N.d.R.] – già costituitosi parte civile contro i boss della mafia nigeriana operanti a Palermo – ha redatto nel 2015 un lungo documento, a firma di Umberto Santino, dal titolo “Il mercato del sesso a Palermo. Mafia e nuovi gruppi criminali“, nel quale si prende in esame – tra le altre cose – anche la mafia nigeriana.

La medesima su cui l’FBI sta indagando in questi giorni a Castel Volturno, assieme alla Polizia italiana. Il ricercatore cita una Convenzione delle Nazioni Unite sul traffico di esseri umani (il terzo più redditizio al mondo, dopo quelli di droga e di armi), nella quale si esplicita chiaramente come fenomeni criminali di questa portata siano il risultato di Stati sempre più deboli e di mercati sempre più sfrenati e senza regole.

La globalizzazione ha allargato le maglie del commercio (peraltro – nella legalità, molto meno nella moralità – distruggendo i diritti sociali e del lavoro, col fine di una competizione spietata e tutt’altro che solidale), ma con esso ha anche incrementato a dismisura le attività illecite, favorite dall’aumento dello squilibrio territoriale e sociale fra le varie zone del mondo e dalla sempre più vertiginosa finanziarizzazione dell’economia.

Ovverosia: viaggiano i capitali (legali od illegali), viaggiano le persone (legali od illegali), scemano i controlli e per ciò stesso aumentano le attività criminali a scopo di lucro su scala transnazionale, con il guadagno specifico e gargantuesco di mafie ed altri gruppi di tal fatta.

Dopo aver fatto una carrellata delle inchieste più recenti sul traffico di esseri umani e di droga sul suolo nazionale (narcotici, schiavitù, prostituzione, ecc…) – in cui moltissimi nigeriani sono stati coinvolti, o di cui sono stati i principali protagonisti ed artefici -, l’autore si è soffermato sull’origine e sulla recente (ma non troppo) storia di questa vera e propria mafia sub-sahariana, proveniente da uno dei Paesi africani più ricchi, ma anche più problematici (ad esempio, non si conosce il numero preciso dei suoi milioni di abitanti).

Anche se, in realtà, trattasi di un sistema più composito, che coinvolge sia mafie nel senso più proprio del termine (definito nel 1982 dall’articolo 416bis del Codice Penale, dopo la sua precisazione a seguito della morte del generale e prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa), sia altro tipo di organizzazioni: bande criminali, sodalizi criminali, “non-corporated groups”, comunità filiate, confraternite.

Dalla Nigeria al resto del mondo

Come il succitato documento del CSD “Giuseppe Impastato” argomenta, fu proprio da una queste ultime che tale fenomeno partì in sordina, e con intenti in realtà diversi da quelli della criminalità: negli anni Cinquanta, la “Confraternita dei Pirati” si pose obiettivi culturali e politici che si rifacevano alla lotta al colonialismo, al tribalismo ed all’elitarismo.

In comune con le vecchie confraternite, aveva i riti iniziatici, il cultismo e le pratiche voodoo. Dalla sua scissione nacquero gli stessi gruppi che, oggi, operano a livello internazionale e transnazionale nel crimine organizzato, dopo aver (ri-)definito con precisione la loro essenza: “Black Axe“, “Bucaneers“, “Vikings“, “Black Beret” e così via.

Negli anni Ottanta, il susseguirsi di violente dittature militari fece degenerare la situazione nigeriana tutta, e queste confraternite iniziarono non soltanto a guerreggiarsi a vicenda, ma anche ad inserirsi nei gangli distrutti della loro malridotta società.

Una società che, inoltre, era stata economicamente strozzata dalla “cura ricostituente” del Fondo Monetario Internazionale, che impose tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni e blocchi salariali: ne derivò una popolazione stremata, irata e disoccupata, con le proprie condizioni di vita nettamente peggiorate.

Queste confraternite – più liquide della ‘Ndrangheta, ad esempio, ma non meno pericolose ed organizzate – hanno una struttura rigida, utilizzano rituali voodoo come vere e proprie intimidazioni (un condizionamento psicologico che provoca paura di punizioni divine e timore di offendere gli spiriti), non lesinano l’aggressività fisica, le percosse, la violenza sessuale e brutali assassini, senza contare le minacce agli espatriati (soprattutto alle donne, sfruttate nella prostituzione) di ripercussioni nel Paese di origine.

Inoltre, godono dell’appoggio di una sorta di “borghesia mafiosa” (con tutta la prudenza del caso, nell’uso di questa terminologia) – costituita da avvocati e professionisti legali collusi con questo sistema, marcio e coercitivo -, che gestisce per loro il funzionamento della macchina criminale, nel concreto attuato da uomini associati e da uomini ricattati.

Dalla Nigeria, esse si sono sparse (legandosi, o combattendosi, a vicenda) per il mondo nel corso degli ultimi decenni, arrivando negli Stati Uniti, in India, in Regno Unito, in Canada, in Brasile, in Italia ed in tantissimi altri Paesi (se ne stimano almeno ottanta): il metodo di diffusione maggiore è ovviamente la migrazione, vista l’assai elevata natalità in terra patria, l’abbassamento della rigidità dei controlli in moltissimi Stati e quindi la possibilità di avere – letteralmente – abbondante carne da macello per i loro affari criminali, estremamente redditizi.

In contatto con la criminalità organizzata del Paese di arrivo, tale confraternite possono vivere dei rapporti di dipendenza, di convivenza, talvolta persino di sopraffazione [dell’elemento straniero su quello autoctono, N.d.R.].

Un problema allogeno, ora radicato

Da quanto precedentemente argomentato, emerge quindi un preciso “modus

 

Continua qui: https://oltrelalinea.news/2019/01/08/la-mafia-nigeriana-in-italia-fa-intervenire-lfbi/

 

 

 

 

 

Avellino, il prete apre la messa sulle note di “Soldi” di Mahmood

La canzone di Mahmood ha fatto discutere parecchio. Dopo la vittoria a Sanremo il cantante è entrato nel vortice delle polemiche. E ora trova spazio in Chiesa

Luca Romano – Lun, 18/02/2019

Ma c’è chi ha deciso di spalancare le porte della sua chiesa proprio a “Soldi”, la canzone con cui Mahmood ha vinto questa 69esima edizione del Festival. Si tratta di Don Vitaliano Della Sala, parroco della chiesetta di San Giovanni a Mercogliano.

Il prete ha infatti scelto di aprire la celebrazione della messa della domenica pomeriggio delle 18:30 sulle note del brano di Mahmood: “E’ stata una scelta dei ragazzi del coro. Ne hanno parlato all’oratorio e hanno capito il senso della canzone.

Del resto, noi ogni domenica iniziamo la messa con un canto non religioso

 

Continua qui: http://www.ilgiornale.it/news/spettacoli/avellino-prete-apre-messa-sulle-note-soldi-mahmood-1647018.html

 

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

LA POLONIA ACCUSA IL GOVERNO ISRAELIANO. DI “RAZZISMO INACCETTABILE”.

Maurizio Blondet  18 Febbraio 2019

Netanyahu voleva ospitare i quattro stati del Gruppo di VIsegrad in Israele. Era tutto pronto. MA il suo nuovo ministro degli esteri, Yasrael Katz, non è riuscito a trattenersi: «Sono figlio di sopravvissuti dell’Olocausto, non perdoneremo e non dimenticheremo mai, e ci furono molti polacchi che collaborarono con i nazisti», ha detto in intervista al canale israeliano i24 .  Anzi aveva rincarato: «Shamir disse che ogni polacco ha succhiato di antisemitismo con il latte di sua madre. Nessuno ci può dire come esprimere la nostra posizione e come onorare i morti».  Oltre il limite della chutzpah, perché il personaggio che citava, Ytzak Shamir (1915-2012) , due volte primo ministro di Israele negli anni ’80,   antico  capo del gruppo ebraico Lehi (la terroristica Banda Stern), quando ancora usava il suo nome polacco Yezernitski,  aveva offerto davvero al Terzo Reich  – nel 1940 –  d’intervenire  con la sua formazione  nella Seconda guerra mondiale accanto alla Germania nazista per ottenere il suo aiuto nella cacciata della Gran Bretagna dalla Palestina,  e per offrirle assistenza nell’”evacuare” gli Ebrei dell’Europa in base all’argomento che “comuni interessi potrebbero esistere fra l’insediamento di un nuovo ordine in Europa in conformità con le concezioni della Germania, e le reali aspirazioni nazionali del popolo ebraico”.

https://it.wikipedia.org/wiki/Lohamei_Herut_Israel

E pochi giorni prima, Netanyahu, anche lui non potendo trattenersi, aveva irritato  Varsavia dichiarando  a Haaretz: “I polacchi hanno collaborato con i nazisti e non conosco nessuno che sia mai stato denunciato per una simile affermazione”.   Varsavia aveva convocato l’ambasciatore giudaico chiedendo spiegazioni, e l’ufficio di  Bibi aveva detto che Bibi era stato  frainteso,  aveva parlato di “alcuni” polacchi e non “dei “ polacchi.

A questo punto il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki  (anche lui di sangue per metà  ebraico)  ha annunciato che il suo paese non parteciperà alla riunione del “gruppo di Visegrád”) fissata per martedì a Gerusalemme, in Israele. Immediatamente, gli altri paesi di Visegrad, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, hanno fatto sapere che anch’essi avrebbero disertato l’incontro a Gerusalemme  per solidarietà con la Polonia.

Uno scacco così netto per Netanyahu, che tiene a farsi appoggiare da quella che ritiene “l’estrema destra” euroscettica e farsene lo chaperon, è quasi incomprensibile, tanto che alcuni media hanno ventilato che sia una rottura concertata fra Bibi e il governo di Varsavia, entrambi prossimi ad elezioni e che possono trarre vantaggio  da una rottura su temi   molto caldi in entrambi i paesi. Per i sionisti,  la colpa dei polacchi nell’Olocausto. Per i polacchi, l’allarme massimo perché Israele  esige da  Varsavia compensazioni miliardarie  per  gli  ebrei che hanno perso i beni durante l’occupazione  nazista della Polonia.  Hanno  visto con crescente allarme  la modifica della “narrativa” vittimistica ebraica in questi mesi,  consolidata l’anno scorso  a maggio dal vero  di una legge  statunitense, “Holocaust Property Bill” , ovviamente dettata dalla lobby, che dà mandato  al  Dipartimento di Stato di “riferire  al Congresso   dell’impegno dei paesi europei   nel risarcire i sopravvissuti dell’Olocausto o  i loro eredi per i beni sequestrati dai nazisti e in seguito dai comunisti”, imponendo sanzioni agli stati inadempienti.  Una norma che ha specificamente di mira la Polonia: il paese ospitò 3,3 milioni di ebrei prima dell’Olocausto e secondo la lobby è l’unico paese in Europa che non ha approvato leggi per compensare i proprietari di beni sequestrati dai nazisti o dai comunisti. Ovviamente la Polonia si oppone: siamo stati un paese occupato dai nazisti, non un loro complice. Ma la “narrativa” ebraica modificata mira appunto a questo: i polacchi essedo complici dei carnefici, devono pagare i compensi.

Il governo polacco ha per questo reso punibile per legge ogni affermazione delle responsabilità della Polonia nella Shoah.  Ma a livello internazionale, già la World Jewish Restitution Organisation, o WJRO, ha creato il database nel dicembre 2016 in cui, anche con l’aiuto di una guida telefonica di Varsavia del 1939, fortunosamente ritrovata, ha identificato 2613   proprietà che secondo loro appartenevano ad ebrei.

https://www.jpost.com/Diaspora/Database-helps-Jewish-families-obtain-properties-restitution-in-Poland-567028

E soprattutto,  nel vertice organizzato a Varsavia dagli americani per preparare la guerra all’Iran

 

Continua qui: https://www.maurizioblondet.it/la-polonia-accusa-il-governo-isrealiano-di-razzismo-inaccettabile/

 

 

 

 

 

 

 

La mafia nigeriana e quella israeliana

Stefano Zecchinelli • 15 febbraio 2018

 

Gli immigrati, al contrario di quello che dice la retorica razzista e neofascista (in realtà più nazista che fascista), sono nella maggior parte dei casi persone oneste che cercano una migliore prospettiva di vita dopo che il loro paese è stato distrutto dall’imperialismo occidentale. La lotta contro le mafie, crudeli organizzazioni che lucrano sul dolore di queste persone, è doppiamente doverosa così come la rivendicazione di una loro integrazione da parte della Repubblica italiana e non delle ONG, emanazione del capitale privato transnazionale (quindi nemiche dei lavoratori).

Gli immigrati devono rivendicare il diritto all’asilo politico dentro un ordine costituzionale e democratico. Per questa ragione un movimento patriottico ed antimperialista (Fronte patriottico ed antimperialistico) dovrebbe radicalizzarli politicamente – cosa per nulla semplice – contro l’Unione Europea e la NATO. In quanto sfruttati (chi scrive non dimentica che esistono delle divisioni di classe anche al loro interno) hanno il dovere di lottare al fianco dei ceti popolari italiani contro il globalismo neoliberista.

La mafia nigeriana opera come puntella degli imperialismi statunitense e saudita, essendo un macabro prodotto dell’alleanza fra la borghesia compradora nigeriana e l’Arabia Saudita; questa alleanza ha prodotto l’organizzazione terroristica wahabita chiamata Boko Haram. Gli antimperialisti ed i movimenti popolari hanno il dovere di combatterla senza rinunciare a sporcarsi le mani, utilizzando ogni mezzo disponibile, magari promuovendo una cooperazione fra la sinistra africana e la Repubblica Islamica dell’Iran, vero baluardo della decolonizzazione. Questa mafia è disumana e fonda il suo potere sulle basi socio-economicche tribali delle società africane; riti voodoo, maledizioni e superstizioni sono la sua matrice ideologica. La ‘’sinistra radical chic’’ affronta i problemi sovrapponendo una falsa morale “politicamente corretta” alla politica quindi finisce per diventare un piede di porco dell’imperial-globalismo, mentre la destra xenofoba americanizzata parla al ventre del sottoproletariato e della piccola borghesia, armando la mano dello sceriffo, pro-USA, pazzoide e pluriomicida, di turno. Si tratta di ‘’maschere di facciata’’ (utilizzando le parole di Marx) del capitalismo occidentale, servi dei dominanti di turno. Lo squallore è ambivalente.  Il giornale di Lagos (capiale della Nigeria), This Day, scrisse che “i ritualisti, conosciuti anche come cacciatori di teste, vanno alla ricerca di parti umane su richiesta degli erboristi, che li richiedono per i sacrifici o per la preparazione di varie pozioni magiche”. Sono, sembra ombra di dubbio, dei macellai, ma la mafia nigeriana – aldilà delle sciocchezze della destra e delle omissioni dei ‘’radical chic’’ – nel capitalismo occidentale non ha nessun potere decisionale ed è arrivata in Italia opera come ospite delle più potenti camorra, ‘ndrangheta e mafia. I neofascisti, da sempre volto “legale” della camorra, dovrebbero saperlo bene. Loro sì che battono cassa ai boss della mattanza neoliberista. Detto questo ci sono mafie e governi che si comportano molto peggio della mafia nigeriana: uccidono, stuprano e trafficano organi. Chissà perché la destra xenofoba è amica di questi governi, razzisti ed antiimmigrati. Il neofascista medio sogna d’essere un camorrista o un colono israeliano?

Israele è più spietata della mafia nigeriana?

Il governo israeliano è in cima ad una piramide mafiosa planetaria, e ho già spiegato come:

  1. I media si sono ben guardati dall’analizzare la documentazione diWikileaks intitolata “Israele: la terra promessa del crimine organizzato?”definita dal giornale israeliano Jewish Chronicle come ‘’una pubblicazione sconvolgente’’
  2. Gli ignoranti bigotti parlano della ‘’forza’’ della mafia africana quando il giornale israeliano Haaretz, nel 2004, con un eccellente articolo intitolato “The Agony of the Ecstasy”  comunicò ‘’al pubblico europeo e statunitense che il 75 % del traffico di ecstasy, negli Usa, è controllato dalla mafia israeliana’’. 

La destra, da decenni, offre copertura ideologica al sionismo con l’obiettivo, fra gli altri – dichiarato o meno – di criminalizzare gli immigrati. La lotta all’Ascia Nera interessa, in realtà, ben poche persone. Ma torniamo alla mafia israeliana, stabiliamo qual è la mafia più pericolosa analizzando i fatti, i crimini e le tragedie avvenute. Nel 2016 riportavo una interessante documentazione:

‘’ La forza della mafia sionista si evince da queste parole di Cunningham: ‘’Molti criminali sono ‘in possesso di passaporti stranieri,  possono circolare liberamente nei paesi europei, molti  usufruiscono  dell’esenzione del visto  per gli  Stati Uniti. I tentativi dell’ambasciata per impedire ai criminali di raggiungere gli Usa non sono sempre riusciti.  Cinque o sei clan dominano   in Israele: Abergil, Abutbul, Alperon, e Rosenstein .  Arresti e omicidi hanno creato un vuoto di potere al vertice. Nuovi clan come Mulner, Shirazi, Cohen e Domrani si sono mossi rapidamente per colmare il divario. Ci sono anche clan rivali nel settore arabo.  “L’ambasciatore americano ha ammesso che “non è del tutto chiaro in quale misura questi elementi siano penetrati  nell’ establishment israeliano e hanno corrotto  funzionari pubblici”’’. Un sistema capitalista come quello israeliano può facilmente trasformare la burocrazia statale in una immensa ‘’macchina del malaffare’’: la mafia israeliana – a poco, a poco – è diventata tutt’uno con gli apparati del Mossad, a loro volta ben incastonati nelle intelligence dei paesi europei. Forse è questo il motivo per cui le forze di polizia ‘’non catturano mai’’ i boss mafiosi israeliani? Israele è uno dei paesi con la classe politica più corrotta del mondo: vi ricordate dell’ex ministro Gonen Segev che tentò di contrabbandare migliaia di pillole di ecstasy in Israele? E che dire dell’elezione di Inbal Gavrieli, figlia di un boss, alla Knesset, nel 2003? Per l’ex ambasciatore: “Dato il volume di viaggi e gli scambi tra gli Stati Uniti e Israele, non è sorprendente che tali organizzazioni criminali si siano diffuse in America”. Un giro d’affari sporco di fango e di sangue, forse peggiore di quello made in Italy gestito un tempo da Totò Riina e associati’’.

Parlare della mafia israeliana significa prendere posizione contro il corrotto governo sionista, che si macchia di crimini di stampo mafioso nel vero senso della parola. Capite? Un governo che agisce come una mafia; potentissimo e feroce come i tagliagole nigeriani. Netanyahu ha la stessa ferocia di un boss dell’Ascia Nera, ma rispetto a questa possiede almeno 200 bombe atomiche. Chi è, dunque, il nemico principale? La mafia e il governo israeliani si comportano come una mafia di stampo tribale: stuprano e vendono organi nei mercati neri. Emettiamo un mandato di cattura per Netanyahu? Suvvia, il ‘’partito dei coloni’’ non è diverso dall’Ascia Nera. Sono in grado di documentarlo.

Il 6 giugno 2013, all’aeroporto di Fiumicino venne arrestato Tauber Gedalya, ex alto ufficiale di Tsahal, ricercato dall’Interpol. L’agente sionista si trovava in Italia, perché nel nostro paese è operativa una rete d’approvvigionamento umano che penetra, raggirando gli operatori, fin dentro i centri d’accoglienza. La polizia ha dovuto approfondire i loschi traffici di questo gangster, riassunti dal giornalista Gianni Lannes: ‘’Il 77enne Tauber, latitante dal 2010, era ricercato dalla polizia di tutto il mondo per un mandato di cattura internazionale emesso dallo stato brasiliano di Pernambuco. Il «signore degli organi» aveva messo in piedi la sua organizzazione una decina d’anni fa nel nord est del Brasile, buco nero di indigenza e povertà assoluta in un Paese di devastanti contrasti, organizzando l’asportazione di organi umani prelevati ad almeno 19 cittadini. O meglio: soltanto di 19 si sono trovate le prove. La prassi era semplice. Una volta individuato il soggetto, gli si proponeva una cifra variante fra i 6 mila e i 12 mila dollari, lo si sottoponeva a una serie di esami clinici e una volta chiuso il contratto lo si imbarcava su un volo per il Sud Africa, dove certi medici compiacenti, in cliniche compiacenti, sbrigavano il lavoro (l’espianto e il reimpianto di un rene, il più delle volte)’’ 3. Abbiamo il coinvolgimento di un rabbino, Levy-Izhak Rosenbaum, residente a New York ed arrestato nel 2009 con l’accusa di traffico d’organi umani. Il ruolo della mafia ebraica è davvero impressionante, hanno monopolizzato il campo più abietto della criminalità organizzata mondiale, ma pochi giornalisti (tutti esterni ai grandi media) ne parlano: ‘’Il The New York Times ha scritto, in un report dell’agosto 2014

Continua qui: http://www.linterferenza.info/attpol/la-mafia-nigeriana-quella-israeliana/

 

 

 

 

 

CULTURA

L’egemonia di sinistra ha creato un deserto e l’ha chiamato cultura

L’intellettuale organico ha dissolto concetti, valori e modelli positivi lasciando la società in balia del conformismo e della volgarità

Marcello Veneziani –  08/02/2015

Ma è vera o falsa la leggenda dell’egemonia culturale di sinistra? Cos’era e cosa resta oggi di quel disegno di conquista e dominio culturale? In principio l’egemonia culturale fu un progetto e una teoria che tracciò Gramsci sulla base di due lezioni: di Lenin e di Mussolini, via Gentile e Bottai.

La tesi di fondo è nota: la conquista del consenso politico e sociale passa attraverso la conquista culturale della società. Poi fu Togliatti che, alla caduta del fascismo, provò su strada il disegno gramsciano e conquistò gruppi di intellettuali, spesso ex fascisti, case editrici e luoghi cruciali della cultura.

Ma il suo progetto non bucò nella società che aveva ancora contrappesi forti, dalle parrocchie all’influenza americana, dai grandi mezzi di comunicazione come la Rai in mano al potere democristiano ai media in cui prevaleva l’evasione. La vera svolta avviene col ’68: l’egemonia culturale non si identifica più col Pci, che pure resta il maggiore impresario, ma si sparge nell’arcipelago radicale di sinistra. Quell’egemonia si fa pervasiva, conquista linguaggi e profili, raggiunge la scuola e l’università, il cinema e il teatro, pervade le arti, i media e le redazioni.

In che consiste oggi l’egemonia culturale? In una mentalità dominante che eredita dal comunismo la pretesa di Verità Ineluttabile (quello è il Progresso, non potete sottrarvi al suo esito). Quella mentalità s’è fatta codice ideologico e galateo sociale, noto come politically correct, intolleranza permissiva e bigottismo progressista. Chi ne è fuori deve sentirsi in torto, deve giustificarsi, viene considerato fuori posto e fuori tempo, ridotto a residuo del passato o anomalia patologica. Ma lasciamo da parte le denunce e le condanne e poniamoci la domanda di fondo: ma questa egemonia culturale cosa ha prodotto in termini di opere e di intelligenze, che impronta ha lasciato sulla cultura, la società e i singoli? Ho difficoltà a ricordare opere davvero memorabili e significative di quel segno che hanno inciso nella cultura e nella società. E il giudizio diventa ancor più stridente se confrontiamo gli autori e le opere a torto o ragione identificate con l’egemonia culturale e gli autori e le opere che hanno caratterizzato il secolo. Tutte le eccellenze in ogni campo, dalla filosofia alle arti, dalla scienza alla letteratura, non rientrano nell’egemonia culturale e spesso vi si oppongono. Potrei fare un lungo e dettagliato elenco di autori e opere al di fuori

L’egemonia culturale ha funzionato come dominazione e ostracismo ma non ha prodotto e promosso grandi idee, grandi opere, grandi autori. Anzi sorge il fondato sospetto che ci sia un nesso tra il degrado culturale della nostra società e l’egemonia culturale radical. I circoli culturali, le lobbies e le sette intellettuali dominanti hanno lasciato la società in balia dell’egemonia sottoculturale e del volgare. E l’intellettuale organico e collettivo ha prodotto come reazione ed effetto l’intellettuale individualista e autistico che non incide nella realtà ma si rifugia nel suo narcisismo depresso. Ma perché è avvenuto questo, forse perché ha prevalso un clero intellettuale di mediocri funzionari, anche se accademici? Ci è estraneo il razzismo culturale, peraltro assai praticato a sinistra, non crediamo perciò che sia una questione «etnica» che riguarda la razza padrona della cultura. Il problema è di contenuti: l’egemonia culturale non ha veicolato idee, valori e modelli positivi ma è riuscita a dissolvere idee, valori e modelli positivi su cui si fonda la civiltà. Non ha funzionato sul piano costruttivo, sono naufragate le sue utopie, a partire dal comunismo; ma ha funzionato sul piano distruttivo. Se l’emancipazione è stata il suo valore

Continua qui: http://www.ilgiornale.it/news/legemonia-sinistra-ha-creato-deserto-e-lha-chiamato-cultura-1090970.html

 

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO DISINFORMAZIONE

Stragi ’92, Genchi racconta le indagini sulle utenze clonate

 

Pubblicato: 18 Febbraio 2019 – di Aaron Pettinari

Gioacchino Genchi – Foto © Giorgio Barbagallo

 


Il super consulente sentito al processo contro Messina Denaro

Il 15 febbraio 1993, in un blitz a Calatafimi, in provincia di Trapani vengono arrestati tre latitanti alcamesi: Antonino AlcamoVito Orazio Diliberto e Pietro Interdonato. La Procura di Palermo, che aveva curato l’operazione, trovò in loro possesso dei telefonini che furono oggetto di analisi da parte degli investigatori. Ad occuparsi della consulenza fu Gioacchino Genchi, ex funzionario di polizia ed oggi avvocato, e dalla visione dei tabulati emerse la clonazione di alcuni numeri telefonici e dall’analisi del traffico telefonico si ravvisavano una serie di contatti quantomeno anomali.
Di questo ha parlato proprio Genchi, la scorsa settimana, chiamato a testimoniare al processo in corso davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta (presieduta da Roberta Serio) contro il super latitante trapanese, Matteo Messina Denaro, accusato di essere stato tra i mandanti per le stragi del 1992.
Da una serie di attività – ha ricordato l’ex funzionario di polizia rispondendo alle domande del procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci – ci rendemmo conto che uomini di Cosa nostra erano in grado di utilizzare la clonazione dei cellulari. E nell’ambito di una serie di perquisizioni riuscimmo a ricostruire la storia delle clonazioni, da parte delle organizzazioni criminali. Per quanto concerne quei telefoni emerse che il numero clonato era quello in possesso di Antonietta Castellone, una persona assolutamente perbene che viveva in Campania. Avevamo individuato, nello stesso periodo, chiamate che avevano il prefisso 081, della provincia di Napoli, ed altre 091, della provincia di Palermo. Risalimmo anche alla data della clonazione, che ritengo importante, che avvenne nell’ottobre 1991, quindi prima delle stragi, dell’omicidio Lima e della sentenza del maxiprocesso“.

Quei collegamenti con “Villa Igea”
Ma quali contatti emersero da quell’utenza? Secondo Genchi le tracce che erano presenti “avrebbero potuto fornire ulteriori sviluppo d’indagine sul versante criminale mafioso e trapanese che nel tempo sono rimasti un tantino in ombra“.
Caso vuole che da quel cellulare clonato, in uso ai mafiosi castellamaresi, partirono una serie di telefonate, fino a pochi giorni prima della strage di via d’Amelio, verso il noto ed esclusivo hotel “Villa Igea” di Palermo. Non solo, emergeva anche un contatto con Gioacchino Calabrò, all’epoca incensurato, che poi si scoprirà essere stato tra le figure più potenti della mafia di Castellammare del Golfo e protagonista di stragi e attentati come quelli di Pizzolungo (1985), Roma, Firenze e Milano (1993) ed il fallito attentato allo stadio Olimpico (1994). E dalle indagini emersero anche una serie d contatti tra la Sicilia, gli Stati Uniti, la Germania, Malta e addirittura la Slovenia.
La zona di ‘Villa Igea – ha dichiarato il teste – rientrava nella zona che è poi stata teatro della strage di via d’Amelio, ovvero la zona dell’Arenella. Qui c’è una connotazione criminale precisa, con la presenza di certi soggetti. Ad esempio, qui nasce la famiglia Fidanzati, che sarà fulcro del traffico di stupefacenti e che ha collegamenti con la Lombardia. Ma anche soggetti che poi vennero individuati nell’ambito delle indagini su via d’Amelio, come i fratelli Scotto“. “Io fui contrario all’arresto di Scotto – ha aggiunto – ma non siamo di fronte a santi o vittime di errori giudiziari, ma siamo in presenza di soggetti che hanno avuto a che fare con un humus ed un contesto criminale su cui non si può porre in dubbio nulla“.
Questi contatti che ci sono con Villa Igea durante i giorni di preparazione della strage Borsellino – ha proseguito Genchi – cessano proprio il giorno prima della strage. Possibile che sia una coincidenza? Secondo me il dato va approfondito. Mi ero anche occupato dell’analisi delle celle delle stragi e delle sedi dei servizi di sicurezza ed in quella giornata di domenica, del 19 luglio 1992, emergeva uno strano attivismo della sede del Sisde in via Roma. Ricordo anche che c’era anche un incrocio  di chiamate di altre società di servizi che chiamavano verso alcune villette che si trovavano tra Villagrazia e via d’Amelio, ovvero il percorso che fece il dottor Borsellino. Di queste cose parlai con la Procura di Caltanissetta e tempo dopo anche con un magistrato della Procura nazionale antimafia, il dottor Donadio, a cui feci proprio un report“.
L’ex super consulente ha anche ricordato che dall’analisi di quei cellulari clonati si arrivò anche a “svelare l’esistenza di una centrale di smistamento di codici seriali. Un dato che emerse anche in seguito ad altre perquisizioni in Lombardia, in Calabria, in provincia di Pesaro-Urbino. Tempo dopo da alcune indagini del dottor Bruni, che indagava sulla cosca Mancuso di Vibo Valentia,

 

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COSA SAPEVA ISRAELE DEI PIANI PER L’11 SETTEMBRE?

11 Marzo 2007 DI CHRISTOPHER KETCHAM                             RILETTURA

 

Nonostante abbia recentemente attaccato il 9-11 truth movement e i cosiddetti ‘cospirazionisti’, finalmente anche la celebre newsletter Counterpunch si decide a pubblicare un pezzo di indagine indipendente sull’ 11 Settembre. Christopher Ketcham, entrando personalmente in contatto con fonti giornalistiche, dell’FBI e della CIA, ripercorre la storia dei cittadini israeliani arrestati come sospetti per gli attentati e la vicenda della rete di spionaggio israeliana che seguiva da vicino i presunti dirottatori. Sebbene lo scenario rimanga confuso e oscuro, mettendo insieme gli spiragli di verità che emergono si delineano sempre più i contorni di una gigantesca operazione ‘false flag’ che ha probabilmente coinvolto membri dei settori operativi di agenzie di intelligence di più paesi con lo scopo di creare il pretesto per la presente escalation di guerre imperialiste e repressione. N.d.R.

Nel pomeriggio dell’11 settembre 2001 un dispaccio dell’FBI noto come BOLO ­- “be on lookout” [“state all’erta” n.d.t]-fu emesso a riguardo di tre uomini sospetti che quella mattina erano stati visti lasciare il litorale del New Jersey pochi minuti dopo che il primo aereo aveva colpito la torre 1 del World Trade Center. I funzionari delle forze dell’ordine in tutta l’area di New York-New Jersey furono avvertiti via radio di cercare un “veicolo possibilmente collegato all’attacco terroristico di New York”:

Un furgone Chevrolet 2000 bianco con l’insegna ‘Urban Moving Systems’ sul retro è stato visto al Liberty State Park di Jersey City, NJ, al momento del primo impatto di un aereo contro il World Trade Center. Tre individui che erano col furgone sono stati visti festeggiare dopo il primo impatto e la successiva esplosione. Il Newark Field Office dell’FBI richiede che, se viene individuato il furgone, vengano trattenuti gli individui per l’identificazione e arrestati.

Alle 3.56 del pomeriggio, 25 minuti dopo l’emissione dell’FBI BOLO, agenti del dipartimento di polizia di East Rutherford fermarono il furgone riconoscendolo dal numero di targa. Secondo il rapporto della polizia l’agente Scott DeCarlo e il sergente Dennis Rivelli si avvicinarono al furgone fermo e chiesero al guidatore di uscire dal veicolo. Il guidatore, il ventitreenne Sivan Kurzberg, si rifiutò e “gli fu chiesto diverse altre volte [ma] sembrava stare armeggiando con una borsa simile a un portamonete di pelle nera”. Tirate fuori le pistole i poliziotti hanno poi “fisicamente rimosso” Kurzberg mentre altri quattro uomini-quindi altri due uomini sembravano essersi uniti al gruppo rispetto a quella mattina-furono anche rimossi dal furgone, ammanettati, posti su un’aiuola vicina e gli vennero letti i loro diritti.

Non gli venne detta la ragione del loro arresto. Eppure, secondo il rapporto di DeCarlo, “ al presente agente venne detto dal guidatore [Sivan Kurzberg], senza che gli fosse posta domanda, ‘ noi siamo israeliani. Non siamo noi il vostro problema. I vostri problemi sono i nostri problemi. I palestinesi sono il problema.’” Dall’interno del veicolo gli agenti, che erano stati rapidamente raggiunti da agenti dell’ FBI, sequestrarono diversi passaporti e $ 4700 nascosti in un calzino. Secondo il Bergen Record del New Jersey, che il 12 settembre riferì dell’arresto dei cinque israeliani, un investigatore molto in alto nella gerarchia della polizia di Bergen County affermò che gli agenti avevano anche scoperto nel veicolo “ mappe della città con alcuni posti sottolineati. Sembrava che avessero a che fare con questo fatto”, disse la fonte al Record riferendosi agli attacchi dell’11 settembre. “Sembrava che mentre erano al Liberty State Park sapessero cosa stesse per succedere.”

I cinque uomini erano infatti cittadini israeliani. Essi affermarono di essere nel paese per lavorare come trasportatori per la Urban Moving Systems Inc., che gestiva un magazzino e un ufficio a Weehawken, New Jersey. Essi furono trattenuti per 71 giorni in un carcere federale a Brooklyn, New York, e durante questo periodo furono più volte interrogati da squadre antiterrorismo dell’FBI e della CIA, che facevano riferimento agli uomini chiamandoli gli “high-fivers” [letteralmente “quelli che si danno il cinque” n.d.t.] a causa del loro comportamento di festeggiamento presso il litorale di New Jersey. Alcuni vennero messi in isolamento per almeno 40 giorni; alcuni vennero sottoposti per almeno sette volte alla macchina della verità. Uno degli israeliani, Paul Kurzberg, fratello di Sivan, per 10 settimane rifiutò di sottoporsi al test della macchina della verità. Poi non lo passò.

Nel frattempo, due giorni dopo che gli uomini erano stati arrestati, il proprietario della Urban Moving Systems, Dominik Suter cittadino israeliano di 31 anni, abbandonò la sua compagnia e lasciò gli Stati Uniti per andare in Israele. La partenza di Suter fu improvvisa, si lasciò dietro tazze di caffè, sandwiches, telefoni cellulari e computers sparsi sui tavoli dell’ufficio e migliaia di dollari di materiale in custodia. Suter fu successivamente messo dall’ FBI sulla stessa lista di sospetti in cui era il capo dirottatore dell’11 settembre Mohammed Atta e altri dirottatori e sospetti simpatizzanti di al Qaeda, suggerendo così che le autorità Usa ritenevano che Suter potesse sapere qualcosa degli attacchi. Il sospetto, col proseguire nelle indagini, fu che gli uomini che lavoravano per la Urban Moving Systems fossero delle spie. Chi esattamente li stesse manovrando, e chi o cosa fosse il loro obiettivo, non era ancora chiaro.

Il rispettato settimanale ebraico di New York, The Forward, riferì questa storia nella primavera del 2002, dopo mesi di indagini. The Forward riferì che l’ FBI aveva alla fine concluso che almeno due degli uomini erano agenti che lavoravano per il Mossad, l’agenzia di intelligence israeliana, e che la Urban Moving Systems, l’azienda che apparentemente dava lavoro ai cinque israeliani, era una copertura. Due ex ufficiali della CIA mi hanno personalmente confermato ciò, facendomi notare che i furgoni dei trasportatori sono una usuale copertura dell’ intelligence. The Forward fece anche notare che il governo israeliano stesso aveva ammesso che gli uomini erano delle spie. Un “ex ufficiale americano dell’intelligence di alto livello”, che affermava “di essere regolarmente aggiornato sulle indagini da due diversi ufficiali di polizia”, disse al giornalista Marc Perelman che dopo che le autorità americane si erano confrontate con Gerusalemme alla fine del 2001, il governo israeliano aveva riconosciuto l’operazione e si era scusato per non essersi coordinato con Washington. Oggi, Perelman sostiene ancora quanto aveva scritto. Gli ho chiesto se le sue fonti del Mossad avessero negato la storia. “Nessuno ha smesso di parlarmi”, ha detto.

Nel giugno del 2002 il programma 20/20 di ABC News proseguì una sua indagine sulla questione, raggiungendo le stesse conclusioni di The Forward. Vincent Cannistraro ex capo delle operazioni di antiterrorismo della C.I.A., ha detto a 20/20 che alcuni dei nomi dei cinque uomini apparivano nell’elenco dei ricercati del database nazionale dell’FBI. Cannistraro mi ha detto che l’interrogativo che più turbava gli agenti dell’FBI nelle settimane e mesi dopo l’11 settembre era se gli israeliani fossero arrivati sul luogo dei loro “festeggiamenti” sapendo che stava per esserci un attacco. Secondo Cannistraro sin dall’inizio “l’indagine dell’FBI agiva presumendo che gli israeliani avessero una conoscenza anticipata degli attacchi”. Un altro ex funzionario dell’antiterrorismo della C.I.A. che aveva seguito da vicino il caso, ma che ha parlato a condizione di rimanere anonimo, mi ha detto che gli investigatori stavano seguendo due ipotesi. “Una era che [gli israeliani] fossero apparsi al Liberty State Park subito dopo che il primo aereo aveva colpito. L’altra ipotesi era che essi fossero già nel parco”. In ogni caso, gli investigatori volevano sapere esattamente che cosa stessero aspettando gli uomini quando arrivarono lì.

Prima che tali questioni fossero pienamente esplorate, però, le indagini furono chiuse. In base a quanto riferito da ABC News vi furono “negoziati di alto livello tra funzionari governativi israeliani e americani”, e fu raggiunto un accordo per il caso dei cinque sospetti della Urban Moving Systems. Evidentemente vi erano state forti pressioni politiche. Lo stimato quotidiano israeliano Ha’aretz ha riferito che per l’ultima settimana di ottobre 2001, circa sei settimane dopo che gli uomini erano stati arrestati, il vicesegretario di Stato Richard Armitage e due non meglio identificati “importanti membri di New York del congresso” stavano facendo forti pressioni per il loro rilascio. Secondo una fonte di ABC News vicina al programma 20/20, l’importante avvocato penalista Alan Dershowitz si era fatto avanti come negoziatore in favore degli uomini per appianare le divergenze col governo Usa. (Dershowitz si è rifiutato di commentare per questo articolo). E così, alla fine del novembre 2001, con la motivazione che essi stavano solamente lavorando illegalmente nel paese come trasportatori, in violazione dei loro visti, gli uomini vennero estradati in Israele.

Ancora oggi le cruciali domande sollevate da questa vicenda rimangono senza risposta. Vi sono sufficienti ragioni- per quanto riferito dalla stampa, per le affermazioni di ex e attuali ufficiali dell’intelligence, per un insieme di prove circostanziali e per il citato riconoscimento da parte del governo israeliano-per credere che nei mesi prima dell’11-9, Israele stesse gestendo una propria rete spionistica all’interno degli Stati Uniti che aveva come obiettivi estremisti islamici. Date le preoccupazioni di Israele per quel che riguarda il terrorismo islamico, così come la sua lunga storia di spionaggio in territorio Usa, questo non sembra affatto sorprendente. Ciò che è esplosivo è l’idea-appoggiata, anche se non dimostrata, da diverse prove-che gli israeliani avessero saputo qualcosa dell’11-9 in anticipo ma non avevano condiviso ciò che sapevano con gli ufficiali americani. Le questioni sono abbastanza gravi da richiedere un’indagine del Congresso.

Eppure, nessuna di queste informazioni arrivò al rapporto del comitato del Congresso sugli attacchi terroristici, e non è stata nemmeno sfiorata nelle quasi 600 pagine nel rapporto finale della Commissione sull’11 Settembre. Nemmeno un grande network informativo ha seguito le rivelazioni di The Forward e ABC News per fare altre indagini. “E non vi erano nemmeno servizi che affermassero che si trattava di stupidaggini”, dice Perelman di The Forward. “Onestamente, sono rimasto sorpreso”. Invece, la storia è scomparsa nella nebbia delle teorie del complotto antiisraeliane sull’11-9.

Non è un piccolo regalo per il governo Usa che la storia dello spionaggio israeliano legato all’11 settembre sia stata così accantonata: la storia non si adatta alle chiare linee del racconto ufficiale degli attacchi. Porta alla luce preoccupazioni non solo sul divieto per Israele di fare spionaggio all’interno degli Stati Uniti, il suo maggior benefattore, ma anche sulla possibilità che esso non abbia fornito agli Usa avvertimenti adeguati di un imminente devastante attacco sul suolo americano. Inoltre, le prove disponibili minano l’immagine attentamente coltivata di santità che circonda la relazione tra Usa e Israele. Questi sono tutti fattori che aiutano a spiegare la scomparsa della storia, e sono tutti motivi per rivederla ora.

[La notizia dell’arresto di israeliani sospettati]

Il siluramento delle indagini dell’FBI

Tutti i cinque futuri dirottatori del volo 77 American Airlines, che ha colpito il Pentagono, avevano indirizzi o erano attivi in città in un raggio di sei miglia dagli israeliani impiegati alla Urban Moving Systems. Le contee di Hudson e Bergen, le aree in cui gli israeliani stavano presumibilmente conducendo la loro sorveglianza, erano il territorio dei dirottatori del volo 77 e dei loro complici di al-Qaeda. Mohammed Atta aveva un recapito postale e faceva visita ad amici nel Nord del New Jersey; i suoi contatti in quel luogo comprendevano Hani Hanjour, il pilota suicida del volo 77, e Majed Moqed uno dei complici che hanno aiutato Hanjour ad impadronirsi dell’aereo. Può essere che gli israeliani, che sapessero o meno dei piani dei terroristi, stessero seguendolo gli uomini che presto avrebbero dirottato il volo 77?

In dichiarazioni pubbliche, sia il governo israeliano che l’FBI hanno negato che gli uomini della Urban Moving Systems fossero coinvolti in un’operazione di intelligence negli Stati Uniti. “Nessuna prova suggerisce che alcuno di questi israeliani avesse una conoscenza anticipata degli attacchi dell’11-9, e questi israeliani non sono sospettati di lavorare per il Mossad”, mi ha detto il portavoce dell’ FBI Jim Margolin. (L’ambasciata israeliana non ha risposto a domande per questo articolo). Secondo la fonte di ABC News, gli investigatori dell’ FBI erano irritati per gli ostacoli posti dai loro superiori. “C’è molta frustrazione all’interno del bureau per questo caso”, mi ha detto la fonte. “Pensano che le alte sfere abbiano silurato l’indagine sulla cellula israeliana del New Jersey. Le tracce non sono state pienamente investigate”. Tra queste tracce perse vi è la figura di Dominik Suter, che apparentemente le autorità Usa non hanno mai cercato di contattare. L’esperto di intelligence e scrittore James Bamford mi ha detto che vi è una simile frustrazione all’interno della C.I.A.: “le persone con cui ho parlato all’interno della C.I.A. erano indignate per quello che stava accadendo. Pensavano fosse scandaloso che non vi fosse stata una vera indagine e che i fatti rimanessero lì senza alcuna conclusione.”

Eppure, ciò che è “assolutamente certo”, secondo Vincent Cannistraro, è che cinque israeliani facevano parte di una rete di sorveglianza nell’ area di New York- New Jersey. Lo scopo della rete era di seguire estremisti islamici e/o supporter di gruppi palestinesi come Hamas o la Jihad Islamica. L’ex e funzionario dell’antiterrorismo della C.I.A., che parla in anonimato, mi ha detto che gli investigatori dell’FBI avevano scoperto che i sospetti israeliani svolgevano il ruolo di interpreti dall’arabo alle prese con “operazioni tecniche” nelle estese comunità islamiche del New Jersey settentrionale. L’ex funzionario della C.I.A. mi ha detto che queste operazioni comprendevano spionaggio telefonico, piazzamento di microfoni nelle stanze e sorveglianza mobile. La fonte di ABC News è d’accordo: “la nostra conclusione fu che erano esperti di arabo coinvolti in operazioni di sorveglianza, cioè di sorveglianza elettronica. Membri dell’FBI sono d’accordo con questa conclusione”. La fonte di ABC News ha anche aggiunto, “ciò che abbiamo sentito è che gli israeliani potessero aver ascoltato conversazioni sul fatto che stava per accadere qualcosa la mattina dell’11-9”.

L’ex ufficiale dell’antiterrorismo della C.I.A. mi ha detto: “non c’è dubbio che [l’ordine di chiudere le indagini] provenisse dalla Casa Bianca. Fu immediatamente compreso nei quartieri generali della C.I.A. che questo insabbiamento stava avvenendo in modo che gli israeliani non fossero in alcun modo coinvolti nell’11 settembre. Tenete in mente che questa era una questione politica, non una questione di polizia o di intelligence. E’ come se qualcuno avesse detto “non vogliamo che gli israeliani vengano coinvolti in ciò-sappiamo che stavano spiando alla grande contro di noi, sappiamo che forse avevano informazioni anticipate sugli attacchi, ma affrontare questo sarebbe politicamente un incubo”.

Gli “Studenti d’Arte” Israeliani

Vi è una seconda parte di prove che suggeriscono che gli agenti israeliani stessero spiando al Qaeda negli Stati Uniti. È la strana vicenda degli “studenti d’arte” israeliani, raccontata dal sottoscritto per Salon.com nel 2002, in seguito alla soffiata di un memorandum interno fatto circolare dall’ Office of Security Programs [ufficio dei programmi di sicurezza n.d.t.] della Drug Enforcement Administration [agenzia antidroga, DEA, n.d.t.]. Il memorandum del giugno 2001, emesso quindi tre mesi prima degli attacchi dell’11-9, riportava che più di 120 giovani cittadini israeliani, che fingevano di essere studenti d’arte che vendevano per strada quadri economici, avevano ripetutamente-in modo apparentemente inspiegabile-cercato di penetrare negli uffici della DEA e di altre agenzie di polizia e del Dipartimento della Difesa in tutto il paese. Il rapporto della DEA affermava che gli israeliani potevano avere a che fare con “ un’attività organizzata di raccolta di intelligence”, il cui fine gli investigatori Usa, nel giugno 2001, non poterono determinare. Il memorandum sollevò brevemente la possibilità che gli israeliani fossero coinvolti nel traffico di ecstasy. Secondo il memorandum “la maggiore attività era stata riportata nello Stato della Florida” durante la prima metà del 2001, dove la città di Hollywood sembrava essere “un punto centrale per questi individui che avevano diversi indirizzi nell’area”.

A posteriori il fatto che un grande numero di “studenti d’arte” operassero a Hollywood è quanto meno intrigante. Durante il 2001, questa città, appena a Nord di Miami, era un punto caldo dell’attività di al Qaeda e serviva come uno dei maggiori luoghi di addestramento per il dirottamento degli aerei contro il World Trade Center e dell’aereo schiantatosi in Pennsylvania; ospitava tra i 15 e i 19 futuri dirottatori, nove a Hollywood e sei nell’area circostante. Tra le 120 sospette spie israeliane che fingevano di essere studenti d’arte, più di 30 vivevano nell’area di Hollywood e 10 proprio a Hollywood. Come notato nel rapporto della DEA, molti di questi giovani uomini e donne erano addestrati come funzionari per l’intercettazione elettronica dell’esercito israeliano-addestramento ed esperienza molto superiori a quelli obbligatori in base alla legge israeliana. “Il fatto che viaggiassero attraverso gli Stati Uniti vendendo arte non sembrava accordarsi con il loro background”, in base al rapporto della DEA.

Uno “studente d’arte”, un ex ufficiale dell’intelligence militare di nome Hanan Serfaty, prese in affitto due appartamenti a Hollywood vicini alla casella postale e all’appartamento di Mohammed Atta e di quattro altri dirottatori. Serfaty stava spostando grandi quantità di denaro: portava con sé documenti bancari che mostravano che aveva depositato più di $ 100.000 tra il dicembre del 2000 e il primo quarto del 2001; altri documenti bancari mostravano prelievi di circa $ 80.000 durante lo stesso periodo. Gli appartamenti di Serfaty, che servivano come dormitorio per almeno altri due “studenti d’arte”, erano localizzati al numero 4220 di Sheridan Street e al numero 701 di South 21st Avenue. Il capo di dirottatori Mohammed Atta aveva la sua cassetta della posta al numero 3389 di Sheridan Street–a circa 900 metri dall’appartamento di Serfaty in Sheridan Street. Sia Atta che Marwan al-Shehhi, il pilota suicida del volo 175 United Airlines che ha colpito la torre 2 del World Trade Center, vivevano in un appartamento in affitto al numero 1818 di Jackson Street a circa 600 m dall’appartamento di Serfaty nella South 21st Avenue.

Difatti, una improbabile serie di coincidenze emerge da un’attenta lettura del memorandum del 2001 della DEA, dalle affermazioni dello staff e del rapporto finale della Commissione sull’11-9, dalle liste dei sospettati dell’FBI e del Dipartimento di giustizia, dalla cronologia dei dirottatori compilata dai maggiori media e dalle affermazioni del personale delle forze dell’ordine locali, statali e federali. In almeno sei centri urbani, sospette spie israeliane e dirottatori dell’11 settembre e/o sospetti legati ad al Qaeda vivevano e operavano l’uno vicino all’altro in alcuni casi a meno di mezzo miglio di distanza, per diversi periodi nel 2000-2001 durante la preparazione degli attacchi. In aggiunta al New Jersey e a Hollywood, Florida, questi centri comprendevano Arlington e Fredericksburg, Virginia; Atlanta; Oklahoma City; Los Angeles; e San Diego.

Gli “studenti d’arte” israeliani rivelano anche vicini a sospetti terroristi dentro e attorno a Dallas, Texas. Un venticinquenne studente d’arte di nome Michael Calmanovic, arrestato e interrogato da gente texani della DEA nell’aprile del 2001, aveva il recapito postale al numero 3575 della North Beltline Road a meno di 300 metri dall’appartamento di Ahmed Khalefa al numero 4045 della North Beltline Road, un sospetto terrorista per l’FBI. Dallas e i suoi dintorni, specialmente la città di Richardson, Texas pulsavano di attività degli “studenti d’arte”. Richardson è nota per essere la patria della Holy Land Foundation, un’organizzazione di carità islamica indicata come finanziatrice del terrorismo dall’Unione Europea e dal governo Usa nel dicembre 2001. Alcune fonti nel 2002 hanno detto al The Forward, in un articolo non legato alla questione degli studenti d’arte, che “l’intelligence israeliana ha avuto un grande ruolo aiutando l’amministrazione Bush a sconfiggere le organizzazioni islamiche di carità sospettate di fornire denaro a gruppi terroristi, specialmente la Holy Land Foundation di Richardson, Texas, nello scorso dicembre [2001]”. È plausibile che le informazioni che hanno permesso di chiudere la Holy Land Foundation provenissero dagli studenti d’arte – spie dell’area di Richardson.

Altri tra gli studenti d’arte avevano specifiche conoscenze in sorveglianza elettronica o intelligence militare, o erano associati con aziende israeliane di sorveglianza e intercettazione, che causarono ulteriori preoccupazioni tra gli investigatori Usa. Per esempio, gli agenti della DEA descrissero Michael Calmanovic come “un operatore di intercettazione elettronica dell’esercito israeliano recentemente congedato”. Lior Baram, interrogato vicino a Hollywood, Florida, nel gennaio 2001 disse che aveva prestato servizio per due anni nell’intelligence israeliana “lavorando con informazioni classificate”. Hanan Serfaty che gestiva gli appartamenti di Hollywood vicino ad Atta e ai suoi complici, aveva prestato servizio nell’esercito israeliano tra i 18 e i 21 anni. Serfaty si rifiutò di dichiarare le sue attività tra le età di 21 e 24 anni, comprese quelle successive al suo arrivo negli Usa nel 2000. Il quotidiano francese Le Monde ha nel frattempo riportato che sei studenti d’arte stavano apparentemente usando telefoni cellulari che erano stati acquistati da un ex viceconsole israeliano negli Usa.

La sospetta spia israeliana Tomer Ben Dor, interrogata all’aeroporto Fort Worth di Dallas nel maggio 2001, lavorava per la compagnia israeliana di intercettazione e sorveglianza elettronica NICE Systems Ltd (la sussidiaria americana della NICE Systems Ltd, la NICE Systems Inc., è collocata vicino a Rutherford, New Jersey, non lontano dal luogo di East Rutherford dove vennero arrestati i cinque “trasportatori” israeliani il pomeriggio dell’11 settembre). Ben Dor portava nel suo bagaglio un foglio stampato al computer che faceva riferimento a “gruppi della DEA”. Come egli abbia acquisito informazioni sui cosiddetti “gruppi della DEA”-ad esempio tramite il suo impiego con un’azienda israeliana di intercettazione-non è mai stato determinato, a quanto affermano i documenti della DEA.

Lo “studente d’arte” Michal Gal, arrestato dagli investigatori della DEA a Irving, Texas, nella primavera del 2001 fu rilasciato grazie a una cauzione di $ 10.000 inviata da Ophir Baer, impiegato della compagnia israeliana di software per le telecomunicazioni Amdocs Inc., che fornisce tecnologie di fatturazione telefonica a clienti che comprendono alcune delle maggiori compagnie telefoniche negli Stati Uniti così come ad agenzie governative Usa. La Amdocs, il cui consiglio di amministrazione è pieno di membri in carica o in pensione del governo e dell’esercito israeliano, è stata indagata almeno due volte negli scorsi 10 anni da autorità Usa con l’accusa di spionaggio per la perdita di dati che l’azienda aveva certificato come sicuri. (La compagnia nega fortemente ogni addebito).

Secondo l’ex funzionario dell’antiterrorismo C.I.A. a conoscenza delle indagini sullo spionaggio israeliano legato all’11 settembre, quando ufficiali delle forze dell’ordine esaminarono il fenomeno degli “studenti d’arte”, vennero alla provvisoria conclusione che “probabilmente gli israeliani hanno in corso negli USA una grossa operazione di spionaggio e che erano riusciti a identificare un certo numero di dirottatori”. Il quotidiano tedesco Die Zeit pervenne alla stessa conclusione nel 2002, riferendo che “agenti del Mossad negli Usa stavano con tutta probabilità sorvegliando almeno quattro dei 19 dirottatori”. Anche il canale televisivo Fox News aveva riportato che gli investigatori Usa sospettavano che gli israeliani stessero spiando militanti islamici negli Stati Uniti. “Non vi è indicazione che gli israeliani fossero coinvolti negli attacchi dell’11 settembre, ma gli investigatori sospettano che gli israeliani potessero aver preventivamente raccolto intelligence riguardante gli attacchi senza condividerla”, ha riferito il corrispondente della Fox Carl Cameron in una serie di servizi del dicembre 2001 che fu la prima grande esposizione al pubblico delle accuse di spionaggio israeliano legato all’11-9. “Un investigatore molto alto in grado ha detto che vi sono dei ‘legami’. Ma quando gli sono stati chiesti dei dettagli si è fermamente rifiutato di esporli dicendo che ‘ le prove che legano questi israeliani all’11-9 sono classificate. Non posso dirle nulla sulle prove che sono state raccolte. Sono informazioni classificate.’”

Un elemento delle accuse non è mai stato chiaramente compreso: se gli “studenti d’arte” fossero stati davvero spie che avevano come obiettivo gli estremisti islamici tra cui quelli di al Qaeda, perché stavano anche sorvegliando agenti della DEA in modo così compromettente? Perché, in altre parole, delle spie straniere si sarebbero dovute introdurre a frotte in uffici federali col rischio di esporre la loro operazione? Una spiegazione è che un certo numero degli studenti d’arte erano, di fatto, giovani israeliani coinvolti in semplici truffe di arte e che inconsapevolmente fornivano una copertura per le vere spie. Il giornalista investigativo John Sugg, che come editore anziano della rivista Creative Loafing riferì degli studenti d’arte nel 2002, mi ha detto che gli investigatori con cui parlò all’interno dell’FBI pensavano che la cerchia degli studenti d’arte funzionava come un’ampia copertura che nella sua ovvietà era anti-intuitiva. Per esempio, gli investigatori della DEA scoprirono prove che legavano gli studenti d’arte israeliani a note operazioni di traffico di ecstasy a New York e in Florida. Secondo Sugg queste erano informazioni false. “La spiegazione è che quando i nostri ragazzi dell’FBI iniziarono ad interessarsi a questi tizi [gli studenti d’arte] -e quando arrivarono troppo vicini a quale fosse il loro scopo-gli israeliani si gettarono in un giro di ecstasy”, mi ha detto Sugg. “L’idea era che se i nostri agenti avessero pensato che gli israeliani erano coinvolti in un giro di spaccio allora non avrebbero visto il vero scopo dell’operazione”. Sugg che sta scrivendo un libro che esplora la questione degli “studenti d’arte”, mi ha detto che diverse fonti all’interno dell’FBI, ed almeno una fonte che faceva parte dell’intelligence israeliana, hanno suggerito che “l’aspetto delle effrazioni [negli uffici governativi] da parte degli studenti d’arte era intenzionale”.

Quando scrissi di questa vicenda per Salon.com nel 2002, un agente operativo veterano dell’intelligence Usa con esperienza di lavori sia per la C.I.A. che per la NSA suggerì una possibilità simile. “Era un’operazione chiassosa”, mi disse il veterano dell’intelligence. L’agente mi citò il film Victor, Victoria. “Riguardava una donna che fingeva di essere un uomo che a sua volta fingeva di essere una donna. Forse bisognerebbe pensare a questa questione sotto quest’aspetto e chiedersi se stessimo cercando qualcosa che era sotto i nostri occhi ma che non aveva senso e che non era possibile attribuire a loro”. L’agente dell’intelligence aggiunse, “guardala in questo modo: come potevano gli esperti pensare che ciò potesse avere un qualche valore? non avrebbero accantonato ciò che vedevano?” I funzionari americani e israeliani, negando le accuse di spionaggio come “mito metropolitano”, hanno pubblicamente affermato che gli “studenti d’arte” israeliani erano solamente colpevoli di lavorare in territorio Usa senza le giuste autorizzazioni. Le forti smentite emesse dal Dipartimento di Giustizia sono state ampiamente pubblicizzate sul Washington Post e altrove, e la nota finale da parte di ambienti ufficiali e nei media dell’establishment nella primavera del 2002 fu che gli studenti d’arte erano stati arrestati ed espulsi semplicemente per colpa di innocue violazioni del visto. L’ FBI da parte sua, si rifiuta di confermare o smentire la storia di spionaggio degli “studenti d’arte”. Il portavoce Jim Margolin mi ha detto che “ per quel che riguarda le indagini sugli studenti d’arte israeliani, l’FBI non può fare alcun commento su nessuna di esse”. Come per gli israeliani del New Jersey, l’indagine sugli “studenti d’arte” israeliani sembra essere stata fermata dall’alto. L’ agente veterano per la CIA e l’ NSA mi ha detto nel 2002 che vi era una “grande pressione per screditare questa storia, screditare le connessioni e impedire agli investigatori di andare oltre. Si è detto alla gente di starsene ferma. Il nome dell’agenzia l’hai già detto tu, a loro venne detto di fermarsi”. L’ agente aggiunse, “ le persone che si pensava stessero indagando [su questa questione] si trovarono improvvisamente sotto tiro da tutte le direzioni. L’interesse da parte della burocrazia non era che ci fosse stata una infrazione nella sicurezza ma che qualcuno si fosse messo a indagare su tale infrazione. Questa era la paura”.

Il Soffocamento della Copertura Giornalistica

Vi fu una simile pressione contro i media che avevano osato riferire le accuse sullo spionaggio israeliano riguardante l’11-9. Un ex impiegato della ABC News ben introdotto nella redazione del network mi disse che quando ABC News aveva mandato in onda il suo reportage nel giugno 2002 sugli israeliani che festeggiavano nel New Jersey, “venne fatta un’enorme pressione da parte di organizzazioni pro Israele” –e queste pressioni iniziarono mesi prima che il pezzo fosse pronto per andare in onda. La fonte mi disse che i suoi colleghi di ABC News si chiedevano “come [le organizzazioni pro-Israele] avessero scoperto che stavamo lavorando su questa storia. Persone a favore di Israele chiamavano il presidente di ABC News. Barbara Walters veniva bombardata di chiamate. La storia fu una questione difficile ma ABC News ne venne fuori isolando i giornalisti dalle pressioni ricevute dai dirigenti”.

L’esperienza di Carl Cameron, capo dei corrispondenti da Washington per Fox News Channel e primo giornalista mainstream Usa a presentare le accuse di sorveglianza israeliana sui dirottatori dell’11-9, è stata forse più tipica, sia nei particolari che nel seguito. L’attacco contro Cameron e Fox News fu guidato da un gruppo di lobbysti pro Israele chiamato Committee for Accuracy in Middle East Reporting in America (CAMERA) [comitato per l’accuratezza in America dei servizi sul medio oriente n.d.t.], che operava in tandem con le due e più potenti e visibili lobby filo israeliane, la Anti-Defamation League (ADL) [lega anti-diffamazione, ADL n.d.t.] e la American Israel Public Affairs Committee [comitato per le questioni pubbliche Israele-americane AIPAC, n.d.t.] (essa stessa attualmente implicata in uno scandalo spionistico legato al Dipartimento della difesa e all’ambasciata israeliana). Carl Cameron mi disse nel 2002 che “CAMERA ci tirò addosso di tutto”, riferendosi a un bombardamento di e-mail che finì per mandare in tilt i server di Fox News.com. Lo stesso Cameron ricevette 700 pagine di messaggi e-mail praticamente identici da centinaia di cittadini (sebbene sospettasse che questi fossero nomi inventati per fare spam). Il portavoce di CAMERA Alex Safian mi ha successivamente detto che il fatto che Cameron forse cresciuto in Iran, dove il padre aveva viaggiato come archeologo, aveva reso il giornalista “molto favorevole alla parte araba”. Safian aggiunse: “io penso che Cameron ha personalmente qualcosa contro Israele” –un linguaggio in codice per dire che Cameron è un antisemita. Cameron è rimasto indignato dall’accusa.

Secondo una fonte di Fox News Channel, il presidente della ADL, Abraham Foxman, telefonò ai dirigenti della società proprietaria di Fox News, la News Corp., per chiedere una smentita subito dopo il reportage di Cameron. La fonte ha detto che Foxman disse ai dirigenti di News Corp.: “guardate, voi in genere siete stati molto equilibrati con Israele. Come vi viene in mente di far uscire queste cose? così ci state uccidendo”. La fonte a Fox News ha continuato, “come sono soliti fare, davanti a un buon caffè a Manhattan i ragazzi si sono chiesti, ‘bene che facciamo con tutto questo?’ alla fine, Fox News ha detto, ‘ fermate l’invio di e-mail. Smettete di criticarci. Smettete di venirci contro e noi smetteremo di venire contro di voi–togliendo la storia dal Web. Non la ritratteremo; non la smentiremo; la difendiamo. Ma almeno la leviamo dal Web’”. Dopo questo incontro, meno di quattro giorni dopo che la serie di servizi di Cameron era stata messa su Fox News.com, la trascrizione è scomparsa, sostituita dal messaggio, “questa storia non esiste più” [ma sul web c’è chi l’ha salvata e riproposta: a questo link si trovano la trascrizione del servizio di Cameron e vari altri articoli. Basta cercare su Google per ottenere articoli riguardanti la vicenda, ad esempio il dettagliato articolo di Wayne Madsen o la ricostruzione del sito What Really Happened. Nelle reti peer to peer (ad esempio quella basata sul metodo Bittorrent) è molto facile trovare pure il filmato originale di Fox News. N.d.t].

Cosa sapeva il Mossad e ha detto agli USA?

Che le spie israeliane sapessero o no in anticipo degli attacchi dell’11-9, le autorità israeliane sapevano abbastanza da avvertire il governo Usa nell’estate del 2001 che era in vista un attacco. Il britannico Sunday Telegraph ha riportato il 16 settembre 2001 che due agenti anziani del Mossad erano stati mandati a Washington all’agosto del 2001 “per avvertire la C.I.A. e l’FBI dell’esistenza di una cellula di almeno 200 terroristi che stava preparando una grossa operazione”. Il Telegraph ha citato un “ufficiale anziano della sicurezza israeliana” che avrebbe affermato che gli esperti del Mossad “non avevano informazioni specifiche su ciò che veniva pianificato”. Eppure, l’ufficiale disse al Telegraph che i contatti del Mossad “avevano collegato l’operazione a Osama Bin Laden”. Allo stesso modo il corrispondente Oliver Schröm di Die Zeit ha riferito che il 23 agosto del 2001 il Mossad “consegnò alla sua controparte americana una lista di nomi di terroristi che risiedevano negli USA e che stavano presumibilmente pianificando di lanciare un attacco nel prossimo futuro”. Anche Carl Cameron di Fox News, nel maggio 2002, ha riferito di avvertimenti da parte di Israele: “basandosi sulla sua intelligence, il governo israeliano fornì informazioni ‘generali’ agli Stati Uniti la seconda settimana di agosto sul fatto che un attacco di al Qaeda era imminente”. Il governo Usa ha successivamente affermato che questi avvertimenti non erano abbastanza specifici da permettere di poter intraprendere alcuna azione preventiva. L’esperto sul Mossad, Gordon Thomas, autore di Gideon’s Spies, afferma che fonti dell’intelligence tedesca gli hanno detto già nell’agosto del 2001 che spie israeliane negli Stati Uniti avevano intrapreso contatti di sorveglianza “con noti adepti di Bin Laden negli Usa. Sono stati questi i contatti di sorveglianza che successivamente sollevarono la domanda: quanta conoscenza anticipata aveva il Mossad

 

Continua qui: https://comedonchisciotte.org/cosa-sapeva-israele-dei-piani-per-l-11-settembre/

 

 

 

 

 

 

 

Ragazzo ucciso in Calabria. Spunta uno 007 del Vaticano

Un sacerdote in contatto con il servizio segreto della Santa Sede interviene nell’inchiesta su un omicidio commesso in Calabria. Un mistero su cui proseguono le indagini

DI LIRIO ABBATE – 16 ottobre 2014                rilettura

 

È il servizio segreto più antico e più misterioso del mondo, tanto che il fondatore della Cia lo definì “l’Entità”: l’intelligence del Vaticano è una rete di spie che opera nell’ombra da quattro secoli. Ma ancora più sorprendente è scoprire che gli agenti della Santa Sede si sono interessati a un delitto di ’ndrangheta, compiendo un’istruttoria parallela. Un vero giallo: cosa ci fa un giovane prete calabrese che collabora con i servizi segreti pontifici dietro l’omicidio di un diciottenne, ucciso per vendetta da un sicario delle cosche? La storia comincia in una pizzeria di Taurianova, il paesone reggino alle pendici dell’Aspromonte, dove nel dicembre 2009 un gruppo di ragazzi si prepara a festeggiare il compleanno di una sedicenne. Un killer solitario, protetto dal buio della sera, si piazza davanti al locale e impugna la pistola. Spara con freddezza nove proiettili, tutti contro Francesco Inzitari: è il figlio da poco maggiorenne di Pasquale, un politico e imprenditore della zona arrestato nel maggio del 2008 con l’accusa di essere colluso con i clan. Il pistolero è un professionista, rapido, preciso e spietato: finisce la vittima con tre colpi alla testa. Un’esecuzione, rimasta ancora oggi senza responsabili.

La rete di spie agli ordini del pontefice risale al 1566. Simon Wiesenthal, il celebre cacciatore di criminali nazisti, la definì “il migliore e più efficace servizio segreto al mondo”. A dargli importanza in tempi recenti fu Karol Wojtyla

Ma le indagini hanno svelato un’altra trama, che coinvolge boss, sacerdoti e “l’Entità” vaticana. La famiglia del ragazzo assassinato è infatti di Rizziconi, un piccolo centro della Piana di Gioia Tauro: il regno dei Crea, mafiosi di peso della ’ndrangheta, collegati a uomini infedeli dello Stato, politici, medici e professionisti romani. La loro rete di potere sembra avere agganci solidi e oscuri ben lontano dalla Calabria. E incute un muro di paura.

In molti hanno assistito al delitto, quasi tutti coetanei della vittima, ma nessuno ha visto in faccia il killer. Descrivono altezza, corporatura, il giubbotto scuro: «Ho visto un ragazzo di circa 23 anni. È spuntato da una strada vicino al locale e impugnava una pistola. Ha sparato a distanza ravvicinata un colpo all’altezza del petto di Inzitari che stava per cadere a terra. Ho visto quest’uomo di spalle mentre aveva il braccio teso ed impugnava una pistola di grosso calibro di colore nero. Non era incappucciato e non l’avevo mai visto prima», dichiara un testimone ai carabinieri e poi aggiunge: «Dopo aver sparato l’ultimo colpo si è girato completamente, rivolgendo le spalle al morto, ed è scappato a piedi».

Le modalità non lasciano dubbi: sull’omicidio c’è il sigillo della ’ndrangheta. E questa matrice alimenta una coltre di omertà. Lo dimostrano le intercettazioni sui telefoni dei ragazzi, terrorizzati dall’esecuzione. Cinque giorni dopo, dai controlli sui cellulari ordinati dalla magistratura arriva il colpo di scena.

Una delle testimoni riceve in serata un sms: «Ciao Angela, ti sei ripresa un po’? Se vuoi qualcosa non farti problemi a chiedermela. Non preoccuparti: sappiamo chi è stato. A presto». A scriverlo è un giovane prete, Giuseppe Francone, originario di Polistena, che all’epoca aveva 25 anni e affiancava il parroco di Rizziconi.
Angela fa leggere al padre il messaggio che ha ricevuto e che fa riferimento all’omicidio. Il genitore è sbigottito, chiama subito il sacerdote per chiedere spiegazioni. Don Francone gli risponde con voce calma: «Sappiamo chi è». Il papà di Angela lo incalza: «Cioè sapete chi è proprio materialmente?». «Sì sì, anche i mandanti», replica il sacerdote. Lo stupore del padre aumenta: «Mi sorprende il fatto che è una cosa che sai tu ma… le vie del signore sono infinite». Alla fine della conversazione l’uomo passa il telefono alla figlia e don Francone la tranquillizza: «Non ti preoccupare che tutto passa». Poi si mettono d’accordo: non bisogna dire nulla, in particolare a un’altra ragazza, tutti devono stare in silenzio.

Sono informazioni inquietanti. I magistrati della procura di Reggio Calabria che conducono l’inchiesta convocano il prete. Ma don Francone si giustifica e minimizza. Spiega solo di «aver sentito alcune voci in parrocchia sui possibili autori del delitto che sono vicini alla famiglia Crea» e inoltre dice che «dell’omicidio se ne è parlato anche all’interno della Curia (il vescovato di Oppido – Palmi ndr) e le voci sugli autori erano tutte indirizzate alla famiglia Crea, che personalmente non conosco». Gli inquirenti fanno notare che queste indicazioni confermano che Francone è a conoscenza del contesto criminale in cui è nato l’omicidio, ma il religioso – contrariamente a quanto affermato nella telefonata – non indica esecutori e mandanti.

Quando esce dalla procura, il prete sale in auto. Non sa che i carabinieri hanno nascosto una microspia nella vettura. Il sacerdote prende un cellulare, che non è intestato a lui e quindi non è stato messo sotto controllo. La cimice registra solo le sue parole, non è in grado di rivelare le risposte. Don Francone chiama il Vaticano e chiede di parlare con la segreteria di Stato. Poi si fa passare un ufficio di copertura dei servizi segreti del Santo Padre e si presenta al suo interlocutore con un codice numerico di sei cifre: la versione pontificia della sigla 007 di James Bond.

A quel punto domanda di «monsignore Lo Giudice», a cui fornisce una lunga descrizione. Don Francone racconta. Anzi fa rapporto a questo prelato che sembra essere il suo referente superiore. Nelle frasi captate dalla microspia ci sono accenni enigmatici: l’ipotesi che qualcuno, forse dell’intelligence vaticana, possa avere «interferito» con le indagini. Si evocano verbali e archivi, custoditi in Calabria, nei quali il religioso farà un controllo per vedere cosa emerge su Crea e Inzitari. Infine, esponendo al suo superiore la deposizione davanti ai pm, il prete dice: «L’unica cosa che mi hanno chiesto è che se acquisiamo informazioni di fargliele avere». Così sembra far comprendere al suo interlocutore che i pubblici ministeri forse sanno dei contatti con il servizio segreto della Santa Sede. Ma non intende fornire una collaborazione limpida. Sottolinea che prima di passare le informazioni ai magistrati vuole trasmetterle in Vaticano, in modo tale – spiega nella telefonata – che possano «lavorarle» a Roma e solo dopo, quando daranno il via libera, girarle alla procura. La conversazione si conclude rimarcando che è tutto «riservato» e augurando buon lavoro.

Don Francone è alto, bruno, con i capelli corti: ha il physique du rôle dell’agente speciale. L’unica foto disponibile sulla sua pagina Twitter lo mostra mentre stringe la mano a papa Francesco. Nel 2012 ha lasciato la Calabria e si è trasferito in una parrocchia del quartiere Prati, a pochi passi da San Pietro. Si è presentato ai suoi nuovi fedeli spiegando di essere stato vicario in tre parrocchie in Calabria, di aver ricoperto incarichi nella Curia diocesana e di aver insegnato religione nella scuola pubblica. Manifesta umiltà: «Ora il vescovo di Oppido-Palmi mi ha chiesto di specializzarmi in Utroque iure, cioè in Diritto canonico e civile, così da potermi mettere al servizio della diocesi, per cercare di renderla un po’ migliore di quanto già lo sia».

Dal 2009 le indagini sull’omicidio non hanno fatto passi avanti. Il Pm Roberto Di Palma ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta. I familiari di Francesco Inzitari però si sono opposti e il gip ha accolto la loro istanza, ordinando alla procura nuovi accertamenti che sono ancora in corso.

L’ipotesi investigativa è che dietro l’uccisione del diciottenne ci sia una vendetta.

Continua qui: http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2014/10/16/news/agente-vaticano-in-missione-per-la-ndrangheta-1.184272

 

 

 

 

 

DIRITTI UMANI – IMMIGRAZIONI

Venti di guerra contro il Venezuela. A soffiare, come sempre, Amnesty International con l’ennesimo rapporto bufala

21 febbraio 2019

 

Nel momento di massima pressione internazionale contro il Venezuela con un golpe in corso e i venti di guerra che spirano forte da Washington verso Caracas, arriva puntuale come un orologio svizzero l’ennesimo rapporto farsa di Amnesty International.

La circostanza non ci stupisce. L’approccio della nota ONG, per casualità divina o agenda concordata, risponde sempre ai dettami del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti e pertanto riprende acriticamente la narrazione della «crisi umanitaria» nella sua concezione destituente.

Amnesty International, è importante ricordare come premessa, opera in oltre 150 paesi, dove compila report per giustificare «guerre umanitarie» ed edulcorare, o difendere (in questo caso è lo stesso in quanto propaganda), le invasioni della NATO nel suo dispiegamento militare-territoriale, ricorda Mision Verdad. Per poi aggiungere che «oltre a distorcere selettivamente l’opinione pubblica sui diritti umani e il suo concetto, assegna risorse e mobilita operatori nel quadro delle missioni per i diritti umani, soprattutto in paesi che non seguono le direttive del Dipartimento di Stato (USA), le centrali di intelligence e i gruppi finanziari. Amnesty International è il riferimento obbligato ideologico e fattuale di chi prende le grandi decisioni in seno all’oligarchia globale».

Nello stesso articolo, tradotto in italiano da l’AntiDiplomatico nell’agosto del 2017, si parla del ruolo svolto da Amnesty nella propaganda di guerra contro il Venezuela: «La merce chiamata diritti umani utilizza l’arena mediatica per diffondere quanto pensato e scritto dai think-thank al servizio di Pentagono e CIA, dai laboratori di guerra, e con l’assedio finanziario di schiera contro il paese e il popolo venezuelano. Amnesty International gioca un ruolo attivo a livello internazionale, in quelle zone dove vanno definendosi i futuri scenari geopolitici nell’ambito della guerra mondiale-societaria in corso. Il Venezuela ha un ruolo nodale in questo schema, dove si sviluppa uno scenario golpista che ha come proscenio politico e istituzionale l’Assemblea Nazionale controllata dalla MUD e l’offensiva economica condotta contro l’esecutivo guidato da Nicolas Maduro».

«La propaganda contro il Venezuela si intensifica quando il chavismo avanza con mosse strategiche per smontare la guerra. Non bisogna sottovalutare i nodi imperiali che convergono con ingenti risorse in questa Guerra Non Convenzionale con un volto «civico», come lo sono ONG come Amnesty International».

L’ultimo rapporto  

Basterebbero già solo queste righe a far perdere ogni credibilità all’ennesimo attacco mediatico contro il Venezuela. Questa volta ancor più grave perché incombe su Caracas la minaccia di un intervento armato, ma forse proprio per questo è scesa di nuovo in campo Amnesty. Per giustificare l’ennesimo massacro compiuto dalla NATO contro un paese che ha l’unica colpa di non volersi piegare ai dettami di Washington.

Leggi anche: Le ultime due incredibili fake news del mainstream sul Venezuela

Come suo solito Amnesty risulta essere alquanto vaga nel momento di citare le fonti. Leggiamo nel rapporto frasi come «numerose segnalazioni», o «relazioni pubblicate da organismi indipendenti». Mentre tra le ONG scorgiamo la nota Foro Penal, foraggiata direttamente da Washington con fondi provenienti dalla NED per destabilizzare il Venezuela, come denunciato in questo articolo apparso su l’AntiDiplomatico nel maggio del 2017.

Ancora più inquietante è la presenza di un fantomatico ‘Osservatorio venezuelano del conflitto sociale’, che ricorda in maniera sinistra l’Osservatorio siriano per i diritti umani, strumento della propaganda di guerra al servizio dell’imperialismo occidentale in Siria.

Nessun rapporto di Amnesty sulle violenze della polizia francese o gli assalti ai consolati venezuelani all’estero?

A colpire è inoltre il silenzio assordante di Amnesty sulle violenze commesse dalla brutale polizia francese contro il movimento di protesta dei gilet gialli che reclama la fine dell’austerità e migliori condizioni di vita e lavoro. Insomma, questi per la ONG al servizio della NATO non sono diritti umani da difendere?

Secondo il quotidiano ‘Le Monde’ sarebbero già state comminate 1800 condanne con 1500 dossier in fase di giudizio. Nello stesso articolo uno dei leader del movimento, Christophe Castaner, denuncia che ben 7500 arresti sarebbero stati effettuati nel tentativo di reprimere la protesta che fa tremare Macron.

Intanto complice il clima d’odio creato ad arte dai media e da quelle ONG come Amnesty, continuano gli assalti alle sedi diplomatiche venezuelane. In Costa Rica un gruppo a suo dire incaricato dal golpista Guaidò ha provato a buttare fuori il personale diplomatico e prendere il controllo dell’ambasciata.

A Guayaquil, in Ecuador, un gruppo armato ha fatto irruzione nel Consolato venezuelano e preso in ostaggio tutto il personale diplomatico e gli utenti presenti nella sede. Il console Fernando Bello ha reso noto che la banda criminale dopo aver insultato i presenti in quanto chavisti, ha sottratto il denaro trovato nell’ufficio.

 

VIDEO QUI: https://youtu.be/uva0kgAM1dc

 

Leggeremo una denuncia di Amnesty riguardo questi gravi attacchi?

P.s.

Non abbiamo davvero null’altro da aggiungere a questa lettera che aveva tra i primi firmatari Esquivel e Frei Betto, due giganti della Storia dell’America Latina che conoscono bene come si viveva in quelle dittature neo-liberali che gli Stati Uniti (e Amnesty International?) vorrebbero tornassero in America Latina.

I fatti descritti dalla lettera si riferiscono ad un altro rapporto farsa di Amnesty del 2017, quando erano in corso le famigerate Guarimbas, altro tentativo violento di destituzione del governo costituzionale del Presidente Maduro.

Signor Riccardo Noury,


Portavoce e responsabile della comunicazione di Amnesty International Italia

con grande rammarico e preoccupazione apprendiamo come la sua organizzazione sia tornata a prestare il fianco all’offensiva delle destre contro la Repubblica Bolivariana del Venezuela. In un nuovo rapporto intitolato ‘Ridotti al silenzio con la forza: detenzioni arbitrarie e motivate politicamente in Venezuela’, Amnesty accusa le autorità venezuelane «di aver intensificato la persecuzione e le punizioni nei confronti di chi la pensa diversamente, in un contesto di crisi politica in cui le proteste che si susseguono in tutto il paese hanno dato luogo a diverse morti e a centinaia di ferimenti e arresti».

 

Si tratta di una ricostruzione falsa, tendenziosa e che getta ulteriore benzina sul fuoco delle violenze provocate da chi cerca, per la terza volta (2002 e 2014 i precedenti), di esautorare un governo legittimo con la violenza e con il terrorismo sulle strade.

I dirigenti dell’opposizione venezuelana hanno innescato una spirale di odio ormai sfuggito anche al loro stesso controllo. Gruppi di violenti – fascisti e mercenari con un tariffario preciso perlopiù – applicano con un’organizzazione paramilitare omicidi (che poi i media trasformano in “morti per la brutale repressione del regime”), rapine e devastazioni, oltre a veri e propri atti di terrorismo contro ospedali infantili, linciaggi in piazza, blocco di strade e distruzioni di edifici pubblici.

Se la situazione non fosse così grave per il futuro del Venezuela, suonerebbero quasi comiche le parole di Erika Guevara Rosas, direttrice per le Americhe della sua organizzazione, che arriva a parlare di una «campagna diffamatoria sui mezzi d’informazione nei confronti di oppositori politici». Siamo oltre il farsesco.

Quale sarebbe, signor Noury, secondo Lei la reazione di un qualunque governo occidentale se i dirigenti dell’estrema destra del paese scendessero in piazza a coordinare le azioni dei violenti, spesso armati, come fatto da Freddy Guevara di Voluntad Popular? Il Partito estremista e violento di Gilbert Caro e Stelcy Escalona, che citate nel vostro rapporto. Il dirigente e la militante del partito guidato dal golpista Leopoldo Lopez, sono stati fermati di ritorno dalla Colombia e trovati in possesso di un fucile FAL calibro 7,62 mm, di proprietà della Forza Armata Nazionale Bolivariana con il numero di serie cancellato; un caricatore con 20 cartucce; 3 stecche di esplosivo C4. Ci sembra quanto meno arduo prendere le difese di chi viene trovato in possesso di un vero e proprio arsenale.

Quale sarebbe, signor Noury, secondo Lei la reazione di un qualunque governo occidentale se uno dei leader dell’estrema destra del paese in un’intervista alla BBC, certamente non un organo che può essere additato di simpatie con l’attuale governo venezuelano, invitasse testualmente l’esercito e la polizia del paese a compiere un colpo di stato non obbedendo più agli ordini dello Stato? E’ quello che ha fatto recentemente Julio Borges, altro leader della destra venezuelana.

Come nel caso di Honduras, Haiti, Paraguay e Brasile, in Venezuela è in corso un nuovo tentativo di “golpe morbido”. E i mezzi di comunicazione, purtroppo, si sono posti al servizio dei grandi interessi economici e politici, con l’intento di screditare il governo venenzuelano attraverso notizie false che servono a provocare il deterioramento generale del paese. “Quello che mi spaventa di più del Venezuela è l’opposizione, o una gran parte di essa. Credo che ci sia un clima di radicalizzazione che si è trasformata in irrazionale e che nel lungo periodo finisca per favorire la destra. Questo è molto pericoloso dato che c’è Trump negli Stati Uniti. Siamo ormai abituati alla retorica della difesa della democrazia, dei diritti umani, contro le armi di distruzione di massa. E dopo arriva sempre il terribile intervento armato degli Stati Uniti. Il peggio che possiamo fare come latinoamericani è fare da sponda all’interventismo. La radicalizzazione e quello che sta facendo Almagro nell’OSA è un pericolo, non solo per il Venezuela, ma per tutto il continente”. Sono le parole illuminanti di Pepe Mujica, ex Presidente dell’Uruguay.

Ecco, signor Noury, perché la sua organizzazione ha deciso di fare da “sponda all’interventismo”? Prevenire le guerre di aggressione, come le tante che l’Occidente ha condotto in questi decenni, è un modo sicuro per evitare oceani di dolore e il disfacimento di interi paesi

 

Continua qui:

 

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-venti_di_guerra_contro_il_venezuela_a_soffiare_come_sempre_amnesty_international_con_lennesimo_rapporto_bufala/82_27271/

 

 

 

 

 

FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI

CROLLA LO SPREAD… VIVA LO SPREAD!

Scritto il 31 gennaio 2019 alle 07:24 da icebergfinanza

Dopo mesi e mesi passati ad ascoltare il mago Cottarelli e la maga Fornero a raccontarci che lo spread sarebbe esploso a 10.000 punti se il governo italiano avesse approvato il reddito di cittadinanza e quota 100 all’improvviso…

Nuova discesa per lo spread tra Btp e Bund tedeschi che chiude a 243 punti base con il rendimento del decennale italiano al 2,63% sul mercato secondario. Nel corso della seduta di scambi, il tasso sul decennale è sceso al 2,62%; un livello che rappresenta i minimi dal settembre 2018.

Giusto a beneficio di coloro che non conoscono il nostro Machiavelli e i suoi manoscritti e il nostro caro amico Puntosella il vero mago della cinematica in Italia, altro che Cottarelli o affini vari, ecco quello che scrivevamo in epoca non certo sospetta, dinamica della quale sono testimoni centinaia di amici di Icebergfinanza.

Ricordo a tutti coloro che ci seguono che Puntosella aveva dichiarato che ben difficilmente lo spread sarebbe potuto salire oltre quota 400 punti, alcuni sorridono, ma ci sono testimoni di un certo livello che hanno avuto la fortuna di conoscere la sua competenza e professionalità, il resto sono chiacchiere da bar comprese quelle di Cottarelli e compagnia bella.

Era il 19 di novembre dello scorso anno, ribadisco epoca non sospetta…

Rapida occhiata a quello che sta accadendo ai nostri bond, ai nostri rendimenti, tranne ribadire che per i cassettisti, questi sono ottimi rendimenti da portare a scadenza almeno per i prossimi 10 anni.

Come scrive il nostro Puntosella, la febbre resta sostenuta, per il nostro Paese…

Lo Spread usato dai poteri forti (BCE, Commissione, Eurogruppo, ecc… ecc…) come arma letale contro governi che si ribellano alle loro direttive e terapie.

Ci vogliono sottomessi ed imbelli come siamo stati in passato, un minimo di orgoglio è necessario per tentare di rompere le catene della schiavitù, costi quel che costi, sono solo numeri ormai.

La condizione rimane critica: la febbre si sta mantenendo sopra 301 punti

 

Continua qui: http://icebergfinanza.finanza.com/2019/01/31/crolla-lo-spread-viva-lo-spread/

 

 

 

LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI

GLI STIPENDI IN ITALIA SONO FERMI A VENT’ANNI FA. COSÌ CI HANNO RUBATO IL FUTURO.

DI ALESSIO AMORELLI    18 FEBBRAIO 2019

La classe politica italiana che ha governato negli ultimi trent’anni ha fallito. Non lo dice un esponente del governo del cambiamento, lo dicono i numeri. Dal 2000 al 2017 gli stipendi dei dipendenti italiani sono aumentati in media soltanto di 400 euro all’anno, mentre nello stesso periodo in Germania si è registrata una crescita media di 5mila euro annui e in Francia la crescita media dei salari ha raggiunto i 6mila euro. Mentre i lavoratori nel resto del continente europeo hanno guadagnato potere di acquisto, la nostra classe media è praticamente scomparsa dai radar, scatenando nel Paese quello che il Censis ha definito “sovranismo psichico” e generando una prevedibile ondata di rancore.

L’Italia ha smesso di crescere da decenni, alternando gravi fasi di recessione a momenti di debole ripresa. Oltre al danno per le finanze pubbliche, l’economia che arranca ha un effetto diretto anche sullo stipendio che arriva nelle tasche degli italiani ogni mese. Così, negli ultimi anni, la forbice salariale si è ulteriormente ampliata a favore di Paesi come la Spagna che all’inizio del nuovo millennio aveva un livello medio salariale molto simile a quello italiano, mentre adesso c’è una distanza reale di circa 2mila euro. D’altronde, se alla mancata crescita aggiungiamo l’assenza di una seria politica industriale in grado di favorire lo sviluppo tecnologico e delle competenze la stagnazione dei salari diventa quasi ineluttabile.

In Italia c’è un evidente problema di produttività: non riusciamo a produrre valore aggiunto e ci accontentiamo di quello che abbiamo, cercando di recuperare quanto abbiamo perso attraverso la svalutazione del lavoro. Il risultato è che i nostri salari si stanno pericolosamente avvicinando a quelli dell’Europa dell’Est, non compensati però dai ritmi di crescita elevati. L’Italia dovrebbe essere in prima linea nelle produzioni ad alto valore aggiunto e nell’erogazione di servizi di eccellenza. Dovremmo puntare sulle competenze specialistiche e operai altamente specializzati. Dovremmo, appunto.

A partire dal secondo dopoguerra, una buona parte della forza lavoro è stata vincolata a contratti collettivi nazionali, con il sindacato che negoziava il compenso minimo per una larga fetta di lavoratori. Negli ultimi trent’anni, la precarietà introdotta nel mercato del lavoro ha ridotto il potere contrattuale esercitato dai sindacati con le imprese e di conseguenza quello, dei loro iscritti. Nel frattempo i dati negativi sulla crescita retributiva e l’aumento del lavoro precario hanno portato al centro del dibattito l’idea di stabilire un salario minimo legale – idea tutt’altro che peregrina. Le decine di migliaia di lavoratori della Gig Economy riceverebbero così il giusto compenso per l’attività svolta, così come i giovani professionisti, che rappresentano la fascia meno tutelata nell’attuale mondo del lavoro.

Se il contratto a tempo indeterminato è diventato una chimera, sono i contratti a tempo determinato e stage a conoscere un vero boom. Tra il 2012 e il 2017 il numero degli stage è cresciuto del 100%, arrivando a 368mila attivazioni in un anno. La precarietà dei tirocini non conosce crisi: più del 10% di quelli attivati riguarda persone di età compresa tra i 35 e i 54 anni e sono in aumento

Continua qui: https://thevision.com/attualita/stipendi-italia-futuro/

 

 

 

Cina, nasce a Dongguan la prima fabbrica senza operai: “Sostituiti da 1.000 robot”

 

di Cecilia Attanasio Ghezzi

 

Il piano della Shenzhen Evenwin Precision Technology Co, un’azienda privata che fabbrica componenti per telefoni cellulari, è quello di ridurre del 90% l’attuale forza lavoro (1.800 persone) sostituendola con un migliaio di robot. Nella regione del Guandong il governo ha annunciato un piano di investimenti di 135,5 miliardi di euro nei prossimi tre anni per sostituire sulle linee di assemblaggio gli automi agli umani. Ma Pechino è ancora in ritardo rispetto a Giappone, Germania e Usa

di China Files per il Fatto | 6 Maggio 2015

Dongguan – l’ex “fabbrica del mondo” – al via il primo stabilimento che sostituirà completamente il lavoro manuale con gli automi. Il piano della Shenzhen Evenwin Precision Technology Co, un’azienda privata che fabbrica componenti per telefoni cellulari, è quello di ridurre del 90% l’attuale forza lavoro sostituendola con un migliaio di robot. Chen Xingqi, presidente dell’azienda, ha previsto che dopo questa prima fase sarà sufficiente il lavoro di appena duecento persone contro le attuali 1800. E che la capacità di produzione annuale dell’azienda si assesterà attorno ai 280 milioni di euro. Quello che non ha ancora reso pubblico è a quanto ammonta l’investimento fatto per la riconversione degli stabilimenti.

Secondo i dati ufficiali, da settembre scorso la metropoli di 6,5 milioni di abitanti avrebbe già avviato l’automazione di 500 fabbriche rendendo superflui 30mila lavoratori. E questi numeri verranno triplicati entro il 2016. Dongguan è nella regione sudorientale del Guandong, da sempre la più sviluppata nell’ambito del settore manifatturiero. Qui il governo ha annunciato un piano di investimenti di 135,5 miliardi di euro nei prossimi tre anni per sostituire sulle linee di assemblaggio i robot agli operai. Le singole aziende potranno ricevere sussidi per avviare il processo di automazione nei loro stabilimenti. Si tratta di cifre che oscillano tra i 20 e i 70 milioni di euro

Continua qui: https://www.ilfattoquotidiano.it/2015/05/06/cina-nasce-a-dongguan-la-prima-fabbrica-senza-operai-sostituiti-da-1-000-robot/1656031/

 

 

 

LA LINGUA SALVATA

Robotica

robòtica  Settore disciplinare che ha per oggetto lo studio e la realizzazione di robot, e le loro applicazioni pratiche nelle attività di produzione industriale e di ricerca scientifica e tecnologica. La r. si è sviluppata secondo tre filoni principali: lo sviluppo della tecnologia costruttiva, lo sviluppo della capacità di ragionamento, l’integrazione con l’ambiente operativo.

Evoluzione tecnologica

La tecnologia costruttiva dei robot si è evoluta grazie sia ai materiali utilizzati (più leggeri, robusti e, ove richiesto, flessibili) sia agli attuatori (più potenti, leggeri e veloci); tale evoluzione consente una rapidità e una precisione di movimento molto superiori a quelle dei robot della generazione precedente. La capacità di ragionamento, grazie agli sviluppi degli elaboratori (più in generale dei sistemi informatici e

Continua qui: http://www.treccani.it/enciclopedia/robotica

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

Il silenzio ostinato del Papa sulla persecuzione dei cristiani

di Giulio Meotti – 17 febbraio 2019

Pezzo in lingua originale inglese: The Pope’s Stubborn Silence on the Persecution of Christians
Traduzioni di Angelita La Spada

Purtroppo, la posizione di Papa Francesco sull’Islam sembra provenire da un mondo fantastico.

“Il vero Islam e un’adeguata interpretazione del Corano si oppongono ad ogni violenza”, ha dichiarato il Pontefice, non del tutto accuratamente. È come se tutti gli sforzi del Papa siano diretti a esonerare l’Islam da qualsiasi responsabilità. Sembra che abbia fatto questo ancor più di musulmani perspicaci, come il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, l’autore e medico americano M. Zuhdi Jasser, l’ex ministro kuwaitiano dell’Informazione Sami Abdullatif Al-Nesf, la scrittrice franco-algerina Razika Adnani, il filosofo tunisino residente a Parigi Youssef Seddik, il giornalista giordano Yosef Alawnah e lo scrittore marocchino Rachid Aylal, tra molti altri.

“Papa Francesco non poteva in alcun modo ignorare i gravi problemi causati dall’espansione (..) nel cuore stesso del dominio cristiano (…) Rileviamo ancora questo (…) l’ultima religione arrivata in Europa ha un intrinseco impedimento all’integrazione nel quadro europeo fondamentalmente giudaico-cristiano.” – Boualem Sansal, scrittore algerino, nel suo best-seller 2084.

Papa Francesco ora affronta il potenziale rischio di un mondo cristiano fisicamente inghiottito dalla mezzaluna musulmana – come nel logo scelto dal Vaticano per il prossimo viaggio del Pontefice in Marocco. È ora di sostituire l’appeasement.

Nel 2018, sono stati 4.305 i cristiani uccisi per cause legate alla loro fede. È questa la drammatica cifra contenuta nella nuova “World Watch List 2019”, appena redatta dall’organizzazione non governativa Open Doors. La Ong rivela che nel 2018 sono stati uccisi più di mille cristiani – il 25 per cento in più – rispetto all’anno precedente, quando furono registrate 3.066.vittime.

In questi giorni, 245 milioni cristiani nel mondo sono apparentemente perseguitati soltanto a causa della loro fede. Lo scorso novembre, l’organizzazione Aiuto alla Chiesa che soffre ha pubblicato il suo “Rapporto sulla Libertà religiosa” per il 2018 e ha raggiunto una conclusione analoga: 300 milioni di cristiani sono stati vittime di violenza. Il Cristianesimo, nonostante la dura competizione, è stato definito come “la religione più perseguitata del mondo“.

Nel marzo prossimo, Papa Francesco si recherà in Marocco, un altro paese presente sulla lista nera diffusa da Open Doors. Purtroppo, la posizione di Papa Francesco sull’Islam sembra provenire da un mondo fantastico. La persecuzione dei cristiani è ora una crisi internazionale. Si pensi a quanto accaduto ai cristiani nel mondo musulmano soltanto negli ultimi due mesi. Un poliziotto è rimasto ucciso nel tentativo di disinnescare una bomba all’esterno di una chiesa copta, in Egitto. Precedentemente, sette cristiani erano stati assassinati da estremisti religiosi durante un pellegrinaggio. Poi, in Libia, è stata scoperta una fossa comune contenente i resti di 34 cristiani etiopi uccisi dai jihadisti affiliati allo Stato islamico. Il regime iraniano, nell’ambito di nuove e pesanti repressioni, ha arrestato più di 109 cristiani. La pakistana cristiana Asia Bibi, tre mesi dopo essere stata assolta dalle accuse di “blasfemia” e rilasciata dal braccio della morte, vive ancora come una “prigioniera“, perché i suoi ex vicini vogliono comunque che venga giustiziata. A Mosul, che era la culla del Cristianesimo iracheno c’è stato un “Natale senza cristiani“, e in Iraq, in generale, l’80 per cento dei cristiani è scomparso.

Il cardinale Louis Raphael Sako, patriarca di Babilonia dei caldei e capo della Chiesa cattolica caldea, di recente, ha fornito alcune cifre riguardanti la persecuzione dei cristiani in Iraq: “61 chiese sono state bombardate, 1.224 cristiani sono stati uccisi, 23mila case e proprietà immobiliari dei cristiani sono state sequestrate”. Il patriarca ha ricordato al mondo la politica dello Stato islamico, che ha dato “tre opzioni ai cristiani”: la conversione all’Islam, il pagamento di una tassa speciale o l’abbandono coatto e immediato della loro terra. “Diversamente sarebbero stati uccisi”. In questo modo, 120mila cristiani sono stati espulsi.

“L’ostinato silenzio dei leader europei sulle religioni, in particolare l’Islam, stupisce e delude”, ha scritto di recente lo scrittore algerino Boualem Sansal.

“Il loro atteggiamento è semplicemente irresponsabile, suicida e persino criminale (…) nel contesto attuale, segnato dalla vertiginosa espansione (…) È come vivere ai piedi di un vulcano e non capire che si prepara a scoppiare”.

Sansal, che è stato minacciato di morte dagli islamisti in Francia, come in Algeria, è l’autore del best-seller 2084. Nel libro, egli scrive che la posizione di Papa Francesco sull’Islam sembra simile a quella dei leader occidentali:

“Papa Francesco non poteva in alcun modo ignorare i gravi problemi causati dall’espansione dell’Islam nel mondo e nel cuore stesso del dominio cristiano (…) Rileviamo ancora questo (…) l’ultima religione arrivata in Europa ha un intrinseco impedimento all’integrazione nel quadro europeo fondamentalmente giudaico-cristiano, anche se negli ultimi secoli questo referente si è eroso”.

Papa Bergoglio è riuscito a spiegare che “l’idea di conquista” è parte integrante dell’Islam come religione, ma ha rapidamente aggiunto che si potrebbe interpretare il Cristianesimo nello stesso modo. “Il vero Islam e un’adeguata interpretazione del Corano si oppongono ad ogni violenza”, ha dichiarato il Pontefice, non proprio accuratamente. Inoltre, in modo altrettanto non del tutto accurato ha osservato che “l’Islam è una religione di pace e può accordarsi con il rispetto dei diritti umani e favorire la convivenza di tutti”. È come se tutti gli sforzi del Papa siano diretti a esonerare l’Islam da qualsiasi responsabilità. Sembra che abbia fatto questo ancor più di quanto abbiano fatto musulmani perspicaci, come il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, l’autore e medico americano M. Zuhdi Jasser, l’ex ministro kuwaitiano dell’Informazione Sami Abdullatif Al-Nesf, la scrittrice franco-algerina Razika Adnani, il filosofo tunisino residente a Parigi Youssef Seddik, il giornalista giordano Yosef Alawnah e lo scrittore marocchino Rachid Aylal, tra molti altri.

La tragica persecuzione dei cristiani nel mondo islamico evidenzia un paradosso occidentale: “Dalla loro vittoria nella Seconda guerra mondiale, gli occidentali hanno saputo arrecare grandi benefici a tutta l’umanità”, ha scritto Renaud Girard su Le Figaro.

“Dal punto di vista scientifico hanno condiviso le loro grandi invenzioni, come la penicillina o internet. I diritti umani e la democrazia sono lontani dall’essere applicati ovunque nel mondo, ma sono l’unico riferimento per la governance che esiste a livello internazionale. È innegabile che sotto l’impulso degli occidentali i vasti successi politici, tecnici, sociali e della medicina sono stati raggiunti in due generazioni. Ma c’è un ambito in cui il pianeta è indubbiamente regredito dal 1945 e in cui la responsabilità occidentale è ovvia. È la libertà di coscienza e religione. (…) Astenendosi dal difendere i cristiani d’Oriente, l’Occidente ha fatto un duplice errore strategico: ha dato un segnale di debolezza abbandonando i suoi amici ideologici e ha rinunciato al proprio credo”.

“Agli occhi dei governi e dei media occidentali”, osserva un altro rapporto sulla persecuzione dei cristiani diffuso dall’organizzazione Aiuto alla Chiesa che soffre. “La libertà religiosa sta scivolando verso il basso nelle classifiche dei diritti umani, eclissata da questioni come gender, sessualità e razza”.

“La correttezza politica non vuole sapere nulla della persecuzione e della soppressione in corso del Cristianesimo e che pertanto sono ignorate in un modo quasi sinistro”, ha di recente dichiarato il vescovo di Linz, nell’Alta Austria, Manfred Scheuer.

Questa eclissi è ancora più tragica, perché tutti sanno che il Cristianesimo è a rischio di “estinzione” in Medio Oriente, ha osservato l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby:

“Centinaia di migliaia sono stati costretti a lasciare le loro case. Molti sono stati uccisi, ridotti in schiavitù, perseguitati o convertiti a forza. Anche quelli che rimangono si pongono la domanda: ‘Perché restare?’. La popolazione cristiana dell’Iraq, ad esempio, è meno della metà di ciò che era nel 2003 e le loro chiese, case e imprese, sono state danneggiate o distrutte. La popolazione cristiana siriana si è dimezzata dal 2010. Di conseguenza, in tutta la regione le comunità cristiane che erano il fondamento della chiesa universale ora affrontano la minaccia di un’estinzione imminente”.

L’Occidente ha tradito i suoi amici cristiani in Oriente (si veda qui e qui). L’Occidente potrebbe chiedersi: cosa stanno facendo il Vaticano e il Papa per combattere questa nuova persecuzione religiosa?

Le critiche sono già arrivate dal mondo cattolico. “Così come ha poca ansia per l’ondata di chiusure delle chiese, Papa Francesco sembra avere poca ansia riguardo all’islamizzazione dell’Europa”, ha scritto l’editorialista cattolico statunitense William Kilpatrick.

“In effetti, come dimostra il suo incoraggiamento alle migrazioni di massa, sembra non avere obiezioni all’islamizzazione. O perché crede davvero alla falsa narrazione che l’Islam è una religione di pace, o perché crede che la strategia di profezia che si realizza creerà un Islam più moderato. Francesco sembra essere in pace con il fatto che l’Islam si stia diffondendo rapidamente. Che Francesco sia stato male informato sull’Islam o se abbia adottato una strategia di disinformazione, si sta assumendo un enorme rischio, non solo per la propria vita, ma per la vita di milioni di persone”.

Ora ci sono intere aree in Siria che sono state “ripulite” dei loro cristiani storici. Papa Francesco ha di recente ricevuto una lettera da un francescano in Siria, padre Hanna Jallouf, patriarca di Knayeh, un villaggio nei pressi di Idlib, la roccaforte dei ribelli islamisti anti-Assad. “I cristiani di questa terra vivono come gli agnelli tra i lupi”, ha scritto Jallouf.

“I fondamentalisti hanno devastato i nostri cimiteri, ci hanno proibito di celebrare qualsiasi liturgia fuori dalla chiesa togliendoci i segni esterni della nostra fede ovvero croci, campane, statue e l’abito religioso”.

Se il Papa non vuole ricevere più lettere del genere, dovrà mostrare coraggio e far

Continua qui: https://it.gatestoneinstitute.org/13746/papa-silenzio-persecuzione-cristiani

 

 

 

Yunnan, ponte e frontiera della Cina verso il Sud-est asiatico

14/02/2019

BOLLETTINO IMPERIALE Retroterra strategico durante la seconda guerra sino-giapponese e crogiolo di etnie, la provincia è la porta di accesso all’Indocina. Il senso di Pechino per il Mekong.

di Giorgio Cuscito

Il Bollettino Imperiale è l’osservatorio settimanale di Limes dedicato all’analisi geopolitica della Cina e alle nuove vie della seta. Grazie al sostegno di TELT. Puoi seguirci su Facebook e Twitter.

Questa è la quarta analisi di “Cina-Cine”, il ciclo mensile (interno al Bollettino Imperiale) di articoli dedicato alle aree geopoliticamente più rilevanti dell’Impero del Centro. Le prime tre puntate sono state dedicate al delta del Fiume delle Perle, al Guizhou e allo Shaanxi.

Lo Yunnan è la provincia più variegata sul piano biologico, etnico e culturale della Repubblica Popolare cinese. Per secoli la sua complessa geografia le ha consentito una certa autonomia dal governo centrale. Dalla dinastia Ming in poi il suo territorio montagnoso ha rappresentato allo stesso tempo la frontiera e l’anello di congiunzione tra la Cina e il Sud-est asiatico. Non a caso, la connettività infrastrutturale con l’Indocina è uno dei fattori su cui Pechino conta per far crescere l’economia della provincia, che è una delle più povere del paese.

 

Carta geopolitica IL NUCLEO CINESE E LA SUA PERIFERIA è visionabile su: http://www.limesonline.com/rubrica/cina-yunnan-ponte-frontiera-verso-il-sud-est-asiatico-myanmar-mekong-nuove-vie-della-seta

 

Geopolitica dello Yunnan

 

Lo Yunnan si trova tra la regione autonoma del Tibet a nord-ovest, il Sichuan a nord, il Guizhou a nord-est, il Guanxi a est, il Vietnam a sud-est, il Laos a sud e il Myanmar a sud-ovest. La provincia può essere suddivisa in due regioni geografiche. A occidente quella dei canyon, dove montagne a strapiombo si alternano a strette vallate. A oriente si sviluppa l’altopiano di Yungui (crasi tra Yunnan e Guizhou) plasmato dai processi carsici, dove i corsi d’acqua non sono navigabili. L’altitudine media della provincia è di quasi duemila metri ma nel Nord i picchi più alti raggiungono i cinquemila metri. I fiumi Salween, Yangtze e Mekong attraversano le profonde gole tra le montagne. Tutti e tre originano dall’altopiano del Tibet. Lo Yangtze, prosegue nell’altopiano di Yungui, taglia da Ovest a Est il paese e sfocia nel Mar Cinese Meridionale in prossimità di Shanghai. Il Mekong, superato lo Yunnan si dirige verso Sud attraversando Myanmar, Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam, dove si trova il suo fertile delta.

Grazie alla peculiare geografia e alla latitudine tropicale, lo Yunnan è estremamente variegato dal punto di vista naturalistico. Delle trentamila specie di piante rilevate in Cina, la metà si possono trovare in questa provincia. Solo il 6% del territorio è coltivabile, ma le variazioni climatiche assicurano diversi tipi di raccolti, soprattutto quello del riso. La provincia possiede uno dei più grandi giacimenti al mondo di alluminio e produce notevoli quantità di rame. Lo Yunnan è probabilmente il luogo in cui si è sviluppata originariamente la coltivazione del tè e da qui oggi proviene la variante Pu’er. La provincia è celebre anche per la lavorazione del tabacco, la cui manifattura è essenziale per la sua economia. Non a caso da qui proviene anche quello presente nelle sigarette contrabbandate in Europa.

L’orografia ha per lungo tempo isolato lo Yunnan dal resto della Cina, malgrado i suoi abitanti avessero riconosciuto la sovranità dei Qin (221-206 a.C.) e poi degli Han (202 a.C.-220 d.C.). Lo Stato di Dali tenne il controllo di questo territorio tra il 937 e il 1253. Poi fu invaso dai mongoli, che lo incorporarono nel proprio impero. Gli Yuan (1271-1368) del sovrano Kublai Khan lo chiamarono Yunnan, per indicare che si trovava “a sud delle montagne Yunling”, le quali si stagliano longitudinalmente nella parte nordoccidentale della provincia. Il territorio entrò a far parte pienamente dell’Impero del Centro solo durante la dinastia Ming (1368-1644). Questi lo conquistarono nel 1381 e tra il XV e il XVI secolo incentivarono la colonizzazione han e l’assimilazione delle tribù locali, generando frizioni interetniche. Nel 1659, i Qing presero il controllo di Kunming, che oggi è il capoluogo della provincia.

 

La carta geopolitica. L’ESPANZSIONE IMPERIALE DELLA CINE è visionabile su: http://www.limesonline.com/rubrica/cina-yunnan-ponte-frontiera-verso-il-sud-est-asiatico-myanmar-mekong-nuove-vie-della-seta

Nel XIX secolo, lo Yunnan entrò nelle mire dei britannici via Birmania e dei francesi via Vietnam. Questi ultimi costruirono la ferrovia Hanoi-Kunming per sfruttare le risorse del territorio. La provincia ebbe un ruolo fondamentale durante la seconda guerra sino-giapponese (1937-1945). I britannici usarono prima Burma road, che collegava Kunming e Lashio in Birmania, e poi Stilwell road, che deviava verso l’India, per rifornire l’allora Repubblica di Cina e sostenerne gli sforzi contro l’impero nipponico. Nello Yunnan furono spostati diverse agenzie governative, fabbriche e università. Chengkung, vicino Kunming, divenne la base dell’aviazione Usa tra il 1942 e il 1945. Alla luce di tali eventi, Mao Zedong considerò il Sud-ovest il retroterra strategico per la sicurezza del Nord-est prima e dopo la fondazione della Repubblica Popolare.

Prima dell’apertura della Cina al mondo negli anni Ottanta, la diversità culturale e la natura selvaggia dello Yunnan erano poco conosciute nel resto del paese e nel mondo. Solo dagli anni Novanta, la provincia è stata valorizzata come meta turistica. La città di Lijiang, rilevante sul piano culturale e strategico, è diventata famosa solo dopo il terremoto del 1996, che ha innescato una corsa ai finanziamenti per la sua preservazione. Ora Lijiang è patrimonio dell’Unesco, malgrado il riammodernamento l’abbia trasformata in un distretto commerciale privo di autenticità.

Oggi lo Yunnan è abitato in maggioranza dall’etnia han, ma un terzo della popolazione è composta da una ventina di minoranze. Queste hanno assorbito più facilmente la cultura dell’Impero del Centro rispetto a quelle presenti in altre aree periferiche della Cina, sia per la relativa prossimità geografica al nucleo geopolitico del paese sia per lo stile di vita simile.

Gli uiguri, musulmani e turcofoni che popolano il Xinjiang, conoscono bene la rilevanza strategica dello Yunnan. Tra il 2014 e il 2016, la provincia è stata punto di transito di quelli che volevano fuggire dalla Repubblica Popolare e raggiungere la Turchia. Da qui, diversi soggetti sono entrati in Siria per unirsi allo Stato Islamico o ad al-Qaida. Nel 2014, la stazione ferroviaria di Kunming è stata teatro di un attentatoattribuito a una cellula estremista di etnia uigura. Tale attacco e quello avvenuto a Pechino lo stesso anno hanno convinto il governo cinese a rafforzare la campagna antiterrorismo nel Xinjiang, particolarmente contestata negli ultimi mesi, e a interrompere la rotta degli uiguri passanti per il Sud-est asiatico.

Se si esclude l’attentato di Kunming, la provincia si è dimostrata in questi anni di gran lunga più stabile sul piano sociale rispetto al Tibet e al Xinjiang, le due “regioni cuscinetto” rivolte a occidente. Anche per questo Wang Junzheng, che ha rivestito diverse cariche nello Yunnan tra il 1988 e il 2012, è stato da poco nominato membro del comitato permanente del Partito per il Xinjiang

 

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SCIENZE TECNOLOGIE

L’oligarchia zootecnica ci sta spegnendo, anche coi vaccini?

Scritto il 02/2/19

Falsi vaccini, progettati per rendere innocua un’intera generazione? Quella che, per inciso, si troverà senza lavoro con l’esplosione – ormai in corso – della robotizzazione della produzione, grazie all’avvento della sconvolgente rivoluzione tecnologica del terzo millennio, affidata all’intelligenza artificiale. Lo sostiene l’avvocato Marco Della Luna, autore di saggi come “Tecnoschiavi” e “Oligarchia per popoli superflui”, che gettano una luce sinistra sulle principali dinamiche della globalizzazione, denunciando un disegno egemonico, da parte dell’élite, fondato su meccanismi ormai “zootecnici” di manipolazione di massa. Per Della Luna, purtroppo, l’attuale democrazia non è una finzione: in realtà, scrive l’analista, «ogni società è gestita da una ristretta oligarchia detentrice di potere, ricchezza, competenza». Quando una classe dominante perde il potere, un’altra la sostituisce. E per ogni oligarchia, «la popolazione è un mezzo, non un fine: uno strumento da controllare e sfruttare, ma anche dimensionare, in base all’evoluzione delle tecniche e delle circostanze». Alle categorie intermedie, l’élite consente anche di violare le leggi: Della Luna ne parlerà nel saggio “Le chiavi del potere”, di cui è in uscita la terza edizione. Il vero problema? Siamo noi: ci lasciamo regolarmente ingannare.

«Le masse, educate e incoraggiate a ciò dalla famiglia, dalla scuola e da quasi ogni altra istituzione sociale – scrive Della Luna nel suo blog – tendono a pensare che, all’inverso, la popolazione (il suo benessere, la sua tutela) sia il fine dell’ordinamento sociale, politico, giuridico, fino al punto di convincersi che il popolo sia il contraente attivo del patto sociale e il detentore della sovranità, e che la democrazia esista». Tutt’alpiù le masse «si scandalizzano quando si accorgono di ingiustizie e inefficienze palesi e facilmente rimediabili a danno della collettività, che le istituzioni e la politica però lasciano continuare». Da questo schema di dominio non si esce mai, secondo Della Luna: la lotta di classe «è assolutamente improduttiva, perché non cambia (ma riproduce esattamente) quella struttura oligarchica della società, che professa di voler abbattere». Forse, per le masse “dominate”, è preferibile «restare inconsapevoli, credere nell’illusione della democrazia-legittimità, o pensare che l’ineguaglianza sociale sia nell’ordine naturale delle cose oppure voluta da Dio, oppure ancora conseguenza del karma».

Che di “dominio” si tratti, secondo Della Luna, lo si vede da come lo Stato, ad esempio, «autorizzi la produzione e il commercio di alimenti e bevande, soprattutto diretti ai fanciulli, che sono diabetizzanti, obesizzanti, cancerogeni, neurotossici». In molti luoghi pubblici, di fatto, si permette «lo smercio di droga», sotto gli occhi di tutti. Ci sono leggi che «rimettono prontamente in libertà delinquenti pericolosi, che poi tornano a delinquere». E poi «si omettano controlli e manutenzioni di poco costo su opere pubbliche, che poi causano stragi e danni economici enormi». Vengono fatte scelte di politica economica palesemente sbagliate e contrarie agli interessi nazionali? Ovvio: «Gli interessi dei manovrati non coincidono con quelli dei manovratori». Della Luna punta il dito contro l’istruzione, la sanità, la giustizia, la polizia, la difesa, le tasse: «Si tratta di servizi introdotti e gestiti dalla classe dominante, nei vari paesi e nelle varie epoche storiche, allo scopo di aumentare l’efficienza del suo strumento, cioè della popolazione generale, come le stalle e il veterinario sono uno strumento per aumentare la redditività del bestiame».

La stessa sanità, aggiunge Della Luna, «è utile ad avere lavoratori e combattenti più numerosi e più sani anche innalzando la natalità – finché non si scelga di ridurre la popolazione o di aumentarne le malattia per vendere più farmaci». La pubblica istruzione? Finisce per formare «sudditi e lavoratori più indottrinati e produttivi». La previdenza sociale? Fidelizza al sistema le classi subalterne. Giustizia e apparati di sicurezza contribuiscono a sostenere «la percezione di legittimità del potere costituito, tutelandone al contempo i privilegi». Quanto al sistema bancario-monetario, va da sé: serve a «concentrare nelle mani della grande finanza il controllo dei redditi, dello sviluppo, del potere politico, permettendo e coprendo (in cooperazione con la giustizia), al contempo, le grandi truffe al risparmio e la pratica dei prestiti usurari e predatori». Così, conclude Della Luna, si comprende come la giustizia «non punisca praticamente mai banchieri per l’usura (che in Italia interessa la grande maggioranza dei prestiti bancari) o per le grandi truffe». E la stessa difesa, presentata come protezione della popolazione da nemici esterni, ha una doppia natura: «Nel corso della storia, le classi dominanti hanno usato le forze armate quasi sempre al contrario, cioè in danno e a spese delle rispettive popolazioni, facendole pagare, combattere e morire per aumentare la ricchezza e il potere loro proprio».

La stessa Seconda Guerra Mondiale, sempre secondo Della Luna, non è stata «una guerra ‘spontanea’ tra sistemi politici incompatibili», bensì «un’operazione decisa dalla strategia del capitalismo finanziario: il capitalismo americano finanziò massicciamente il movimento nazionalsocialista, la ricostruzione e l’armamento della Germania hitleriana, la sua stessa guerra di conquista e sterminio fino al 1945». General Motors, General Electric, Standard Oil e Ford «costruirono e gestirono, in alcuni casi anche direttamente, impianti industriali strategici e per produzioni belliche del III Reich». Analogamente, il Giappone «venne rifornito e armato dall’élite capitalistica statunitense affinché potesse iniziare e sostenere la guerra». Soprattutto, «in violazione del fittizio embargo disposto da Washington», al Sol Levante «fu data una grande quantità di petrolio americano, senza il quale non avrebbe potuto iniziare la guerra». A che fine armare e sostenere la Germania e il Giappone? «Al fine immediato di arricchirsi – le commesse belliche dall’una e dall’altra parte moltiplicarono gli utili delle corporations – e a quello di lungo termine di indebitare in modo e misura irreversibile gli Stati (iniziando dagli Usa e dal Regno Unito) verso i banchieri privati, affinché questi potessero

 

Continua qui: http://www.libreidee.org/2019/02/loligarchia-zootecnica-ci-sta-spegnendo-anche-coi-vaccini/

 

 

 

STORIA

Mafia, ‘Ndrangheta e politica: anche i servizi segreti dietro al massacro dei carabinieri negli anni ’90

 

Pubblicato: 23 Aprile 2018

 

VIDEO QUI: http://www.antimafiaduemila.com/

da youmedia.fanpage.it

Mentre in queste ore a Palermo i giudici sono in camera di consiglio per emettere la sentenza sulla trattativa stato-mafia, Fanpage.it racconta in tre puntate gli anni del terrore (le stragi dal ’92 al ’94).

 

Nella strategia stragista di Cosa Nostra, dopo venticinque anni, scopriamo che anche la ‘Ndrangheta e la camorra erano coinvolte in questa opera di destabilizzazione, “una cosa nostra unica nazionale”

 

A Reggio Calabria è in corso il processo che vede alla sbarra come mandanti il boss mafioso di Brancaccio, Giuseppe Graviano e il capo ‘ndrangheta Rocco Santo Filippone, legato al clan Piromalli,

 

Continua qui: http://www.antimafiaduemila.com/

 

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