NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI 12 MARZO 2019

https://www.imolaoggi.it/2018/05/28/suicidio-assistito-in-ospedali-e-case-per-anziani/

NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI

12 MARZO 2019

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

Principio 8 – Tenere a bada la plebaglia.

NOAM CHOMSKY, Le dieci leggi del potere, Ponte alle grazie, 2017, pag. 107

 

http://www.dettiescritti.com/

https://www.facebook.com/Detti-e-Scritti-958631984255522/

 

Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.

 

Tutti i numeri dell’anno 2018 della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com 

 

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SOMMARIO

 

 

Questa non è una crisi, è una guerra 1

L’ULTIMA “CONQUISTA” DELLA GENERAZIONE LIBERTARIA. 1

I grandi scrittori? Tutti di destra. 1

Il dibattito choc dei radical chic: “Si può fare figli con i leghisti?” 1

Riconoscere 1

Vaticano: sì al farmaco per cambiare sesso 1

Oggi i grandi evasori non so condannati, i papà si

Pedofilia: È il Vaticano a “gonfiare” il fenomeno? 1

Palermo, cerca di rapinare un negozio: tunisino ucciso a bastonate 1

La “disintegrazione” del capitalismo globale potrebbe scatenare la Terza Guerra Mondiale, avverte un importante economista dell’UE. 1

Come giungere al “linguaggio superiore” 1

Ancora sulla funzione pubblica dell’intellettuale

Bassa redditività degli istituti di credito?

A quanto le banche italiane hanno ceduto gli Npl (Crediti inesigibili) 1

Quell’ultima chance per salvare Deutsche Bank 1

Non c’è ricerca della Verità senza analisi dei documenti originali 1

Pence ha proposto di provocare militarmente la Russia 1

La Cina, Amnesty e i Gilets Jaunes 1

Berlusconi e i comunisti

Tempo fa il PCI

Così l’intelligenza artificiale cambierà il mondo. E l’uomo. 1

Flotta romana e cartaginese

La Caporetto di Hemingway è una vittoria letteraria. 1

 

 

IN EVIDENZA

Questa non è una crisi, è una guerra

DI FABIO CONDITI – 11 marzo 2019

comedonchisciotte.org

Sono più di 10 anni che siamo in crisi economica, e le conseguenze per la popolazione ed il nostro territorio sono simili a quelle di una guerra. Anzi forse peggio di una guerra.

Si può parlare di crisi economica per un paese povero di risorse, senza capacità produttiva, costretto ad importare la maggior parte dei beni e servizi di cui ha bisogno. Oppure si può parlare di crisi economica se una particolare congiuntura richiede un riassetto delle strutture produttive.

In realtà sono ormai quasi trent’anni che assistiamo al lento ed inesorabile degrado dell’Italia, da 4° potenza industriale mondiale nel 1994 ad uno dei paesi più indebitati al mondo e senza crescita economica.

Come è stato possibile? Eppure siamo sempre lo stesso territorio e lo stesso popolo che nel passato ha prodotto la civiltà romana, il mondo medievale, l’arte rinascimentale e barocca, che ha insegnato al mondo la politica, l’economia, il diritto, la cultura, l’arte e la tecnologia.

Solo per restare in ambito economico, siamo noi ad aver inventato le banche e la partita doppia, che sono alla base della contabilità bancaria.

Il concetto di crisi economica prevede un peggioramento momentaneo o al massimo breve, della situazione precedente, ma oggi, dopo più di 10 anni dal crollo dei titoli subprime e dal fallimento della Lehman Brothers, si può ancora dire che siamo in crisi?

Per decenni si è pensato alla crisi del ’29 come alla peggiore situazione economica accaduta. Quella sì che fu una crisi, ma la situazione fu recuperata nel giro di una manciata d’anni da tutte le economie mondiali. Quella che stiamo vivendo oggi è una crisi che assomiglia sempre di più ad una guerra, che però è già durata il doppio della Seconda guerra mondiale e il triplo della prima guerra mondiale.

Una guerra dove l’aggressore combatte tutti i giorni 24 ore al giorno, mentre noi italiani, e non solo italiani, dormiamo 24 ore al giorno.

Perché dormiamo? Perché non ci rendiamo conto di essere in guerra da 10 anni e soprattutto non vediamo il nemico e cosa ci sta portando via.

Ma se non sappiamo di essere in guerra, come potremo mai vincere?

L’Italia è, dopo gli Usa, la nazione con più militari in servizio all’estero, stupidamente andiamo a fare i poliziotti in giro per il mondo mentre abbiamo i ladri in casa.

Solo che la guerra che stiamo combattendo non è militare ma economica, ed ha come obiettivo lo smantellamento delle strutture economiche e monetarie del nostro paese, fino a ridurlo a semplice colonia del potere economico e finanziario mondiale.

In questi ultimi 30 anni abbiamo perduto la nostra moneta nazionale, la gestione del debito pubblico, il controllo del sistema bancario, le nostre migliori aziende strategiche, i nostri migliori marchi del Made in Italy.

Le politiche di qualsiasi Governo devono ormai sottostare a tali norme e vincoli da ridurre le politiche economiche alla semplice adozione delle stesse ricette che fino ad oggi non hanno funzionato ed anzi hanno aggravato la situazione di crisi economica.

Negli ultimi 10 anni ci hanno convinto a fare politiche di austerity, con la scusa che l’anno dopo ci sarebbe stata la ripresa, ma in realtà abbiamo avuto solo una ripresa … per i fondelli!

La realtà è che tutto ciò non è frutto del caso, ma è voluto e programmato da anni, ed ha come obiettivo la colonizzazione finanziaria di una delle popolazioni più ricche al mondo per patrimonio artistico e culturale, risorse ambientali ed umane e per risparmio privato.

Per la mancanza di soldi e per i ricatti dei mercati finanziari, le cosiddette politiche di austerity distruggono territorio, edifici e infrastrutture, e uccidono la popolazione per suicidi, povertà e malattie.

Continua qui: https://comedonchisciotte.org/questa-non-e-una-crisi-e-una-guerra/

 

 

 

 

L’ULTIMA “CONQUISTA” DELLA GENERAZIONE LIBERTARIA

Maurizio Blondet  12 Marzo 2019

Il parlamento olandese ha legalizzato l’eutanasia nel 2002. Più precisamente (e ipocritamente)  ha depenalizzato “l’interruzione della vita su richiesta”, evitando la parola eutanasia e suicidio assistito.    Il fatto resta proibito in teoria, ma il  medico può praticarlo se giudica   il paziente   soggetto “a sofferenze intollerabili e senza prospettive”.

Nel 2007,  i suicidi medicalmente assistiti erano ancora meno di 2000.  Nel 2017, sono stati 6.600, e un numero almeno pari di richieste è stato rifiutato.  Nello stesso anno, 1900 olandesi si sono tolti la vita – e il numero di coloro che sono morti sotto sedazione palliativa (il che significa, realisticamente,  morire per sete mentre si  è stati resi in stato di incoscienza) ha raggiunto la cifra di 32  mila.  Numero “sorprendente”,   secondo l’inchiesta del Guardian da cui ho tratto i dati. “Nell’insieme,  nei   Paesi Bassi,  oltre un quarto di tutti i decessi  nel 2017 sono stati indotti”.

Un quarto dei decessi in Olanda

Il 25 per cento.  La quantità di candidabili alla morte sanitariamente somministrata  si è rapidamente estesa dai cancerosi terminali che sarebbero comunque morti per la loro malattia in pochi giorni, ai malati di distrofia muscolare, poi ai sessantenni   cui è stato fatto firmare un contratto in cui chiedono di porre termine alla loro vita   se cadono nella demenza o   perdono il controllo sulle loro deiezioni, si è arrivati alla suicidio assistito di giovani  malati mentali “convinti” dai genitori a porre fine alle loro sofferenze.

Qualche medico ha resistito a porre fine alla vita di una anziana depressa, per scoprire che tornato dalle vacanze, la paziente era stata eliminata da un collega.  In   un altro caso, un anziano aveva firmato l’impegno a  farsi suicidare se perdeva la ragione, poi, via via che la demenza avanzava,     ha cercato di ritirare il suo consenso – ma la moglie ha voluto che il medico eseguisse lo stesso la sequenza  sedazione-iniezione letale.

Adesso un caso simile  ha dato origine a quello che è forse il primo processo a  un dottore per mal pratica nel  suicidio assistito: la vittima, una 74 enne che aveva dato il suo “consenso informato” prima, ma poi ha ripetutamente detto che non voleva morire, ed è stata ritenuta incompetente  a ritirare il consenso perché priva  di ragione….Nei fatti, il medico le ha messo del sonnifero di nascosto nel caffè; poiché la signora non s’è addormentata, le ha iniettato altro sonnifero;  sembrava si fosse finalmente assopita, ma quando il medico ha provato a iniettare   il veleno fatale, si è alzata in piedi. A quel punto “il marito e il figlio  adulto  di  lei hanno aiutato a trattenere la paziente in modo che il medico le iniettasse l’intera dose”.   Il pubblico  ministero ha ritenuto che con questo aiuto, “è stata superata la misura”.

https://www.theguardian.com/world/2018/nov/09/doctor-to-face-dutch-prosecution-for-breach-of-euthanasia-law

Se il numero dei suicidi assistiti è diminuito    del 9% nel 2018, la prima volta dal 2006, non è  perché  ne sia diminuita la  richiesta da parte della popolazione, ma    al contrario:   per la resistenza dei medici  sempre più a disagio di fronte a pazienti che  li considerano dei semplici tecnici del  suicidio indolore, privandoli  del diritto di diagnosticare se  occorre questa “cura”  estrema,  anzi persino di chiedere perché il paziente vuol metter fine alla propria vita. “Per i medici di base, affrontare richieste di eutanasia da parte di pazienti risoluti, che sanno il fatto loro, e che si risentono della minima riluttanza da parte del dottore,  è diventata uno degli  aspetti più sgradevoli della professione”.   Come i pazienti normali esigono ormai dal dottore che firmi le ricette di farmaci di cui hanno letto su internet, così in Olanda esiste questa forma macabra di auto-somministrazione.

“L’offerta ha creato la domanda”

Morite fra i vostri cari…. scena da un documentario   promozionale della clinica Levenseinde.

 

E conclude: “L’offerta ha creato la domanda”  E’ il mercato, ragazzi.

La versione letale dello slogan sessantottino “il corpo è mio e lo gestisco io”,.  Infatti, dice la  dottoressa Agnes,   le richieste di questo tipo crescono fra i 70 enni, i baby-boomers  nati attorno al  1945  che sono stati  all’avanguardia  delle lotte per la liberazione sessuale, l’aborto, la droga .  Ma  una volta “sistemati” questi, non si pensi – dice – che i  giovani    siano meno decisi ed assertivi . “Per i giovani, la  libertà e autonomia è  la base del loro modo di essere”.

Per venire incontro a questa autonomia, due anni fa il ministro della Sanità e quello della Giustizia hanno proposto insieme   la messa a disposizione, a spese del servizio sanitario, di una “pillola della vita completa”  per cui ogni settantenne abbia il diritto  di ricevere il   veleno letale,  tagliando fuori completamente i medici  dalla decisione.

La proposta è per il momento ferma, ma la  Società Olandese per la Eutanasia Volontaria (NVVE)  si dà da fare perché essa venga approvata, come si è mobilitata perché il beneficio del suicidio assistito venga esteso ai malati mentali giovani e sani (ho detto che gli psichiatri si oppongono).

La NVVE  ha 177 mila membri, più di qualunque partito politico  dei Paesi Bassi.  “Nessun medico ha il decidere al posto mio quando posso morire”, ha detto  il presidente, Steven Pleiter,  che è anche il direttore della  Levenseindekliniek, la clinica della buona morte dove praticano l’eutanasia assistita.

Il costo, 3 mila euro, è pagato dalle assicurazioni.    L’osservazione

 

Continua qui: https://www.maurizioblondet.it/lultima-conquista-della-generazione-libertaria/

 

 

 

I grandi scrittori? Tutti di destra

Nicola Lagioia, direttore editoriale del Salone del Libro, lo dice a chiare lettere. O meglio, lo fa intendere, ma in maniera abbastanza chiara: anche quest’anno sarà un fortino auto-celebrativo per la cultura progressista. E ne fa addirittura una questione di quote. A leggere la realtà, ogni dieci scrittori, a suo dire, ben otto sarebbero progressisti, i restanti due conservatori, anarchici di destra o similari. Per tale motivo, ha sentito la necessità di invitare solo uomini di cultura dichiaratamente di sinistra e fare “selezioni all’ingresso”.

Non entriamo nel merito di questa stantia differenziazione; tuttavia, a Lagioia, rispondiamo con un articolo di Giovanni Raboni (non propriamente un reazionario o un pericoloso criptofascista), pubblicato sul Corriere della Sera del 27 marzo 2002.

Se lo legga, il caro Lagioia (… o magari se lo rilegga), e poi si riaccomodi pure sulle calde e comode poltrone della Fiera di Torino insieme ai suoi compagni di questo misero tempo. L’articolo di Raboni dice molto sia sulla cultura del Novecento, che è stata nelle sue punte più alte essenzialmente non di sinistra, sia sull’approccio metodologico manicheo, settoriale e ideologico, e perciò cupo e poco intelligente, di un mondo che ha preferito l’egemonia alla qualità, il consenso immediato alle vette solitarie e ineguagliabili di artisti, letterati e filosofi spesso non classificabili, e perciò ritenuti ingiustamente degli outsider.

Non sappiamo se oggi sia lo stesso; se cioè le vette siano da additare ad una parte mentre il resto, quel magma mediocre e indistinto, sia da lasciare all’altra. Non entriamo in queste classificazioni da Bar dello sport. Ma una rilettura consapevole del testo di Raboni si impone, almeno per avere contezza di cosa ci siamo lasciati alle spalle e quanta acredine e falsità sia circolata intorno ad autori non succubi della egemonia culturale. E soprattutto come non sia cambiato questo puerile e limitato metro di giudizio.

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Se c’ è qualcosa sui cui destra e sinistra sembrano essere, da un po’ di tempo, sorprendentemente d’ accordo è che in Italia non esiste una cultura di destra degna di questo nome: con il corollario o, invece, per il motivo che i cosiddetti intellettuali – categoria di cui fanno naturalmente parte, fra gli altri, i romanzieri, i poeti, i drammaturghi, insomma gli scrittori – sono «tutti di sinistra». Si tratta di una convinzione talmente diffusa e soprattutto, si direbbe, così profondamente radicata, da trasformarsi nell’immaginario collettivo in una sorta di luogo comune metastorico: come, insomma, se non soltanto adesso e qui da noi, ma ovunque e da sempre vi fosse un nesso consolidato e in qualche modo fatale fra l’essere scrittore e l’essere «di sinistra».

E una delle conseguenze di questa credenza o diceria è l’atteggiamento di incomprensione se non di rifiuto, di estraneità se non di malanimo, di diffidenza se non di disprezzo nei confronti dell’intera categoria, ravvisabile in larghi strati dell’opinione pubblica piccolo borghese, a cominciare da alcuni dei più pittoreschi rappresentanti dell’ attuale maggioranza politica. Peggio per loro, si potrebbe commentare; ma anche, a pensarci bene, peggio per noi.

Ma c’ è anche, forse, un altro modo di porsi di fronte alla questione, ed è quello di andare e vedere e il luogo comune che ne costituisce il fondamento non sia, per conto suo, almeno in parte infondato. È quanto, personalmente, mi sono proposto di fare, sforzandomi in primo luogo di ampliare decisamente la prospettiva, cioè di spostare l’attenzione dell’angusta e, ahimè, molto significativa attualità italiana a quanto è successo durante gli ultimi cento anni in ambito mondiale.

E il risultato è quello che mi permetto qui di sottoporre alla riflessione dei lettori (di destra e di sinistra) eventualmente interessati all’argomento. Per dirla nel più diretto e disadorno e a prima vista (ma solo a prima vista) provocatorio dei modi, la verità dei fatti è la seguente: che non pochi, anzi molti, anzi moltissimi tra i protagonisti o quantomeno tra le figure di maggior rilievo della letteratura del ‘ 900 appartengono o sono comunque collegabili a una delle diverse culture di destra – dalla più illuminata alla più retriva, dalla più conservatrice alla più eversiva, dalla più perbenistica alla più canagliesca – che si sono intrecciate o contrastate o sono semplicemente coesistite nel corso del ventesimo secolo.

Per chi non volesse (e farebbe, sia ben chiaro, benissimo) credermi sulla parola, ecco un po’ di nomi, messi in fila secondo il più neutrale dei criteri, quello alfabetico, e mescolando (un po’ per non complicarmi la vita e un po’ perché si farebbe altrimenti, ai fini di quanto sto cercando di dire, più confusione che altro) ogni tipo di destra possibile: Barrès, Benn, Bloy, Borges, Céline, Cioran, Claudel, Croce, D’ Annunzio, Drieu La Rochelle, T. S. Eliot, E. M. Forster, C. E. Gadda, Hamsun, Hesse, Ionesco, Jouhandeau, Jünger, Landolfi, Thomas Mann, Marinetti, Mauriac, Maurras, Montale, Montherlant, Nabokov, Palazzeschi, Papini, Pirandello, Pound, Prezzolini, Tomasi di Lampedusa, W.B. Yeats…

E non è finita; a parte, per un minimo di rispetto alla peculiarità del loro tragitto, ho tenuto infatti i transfughi dalla sinistra, quelli che sono stati folgorati, a un certo punto della vita, dalla rivelazione dei disastri e dei crimini del comunismo storico e che per questo hanno finito con l’attestarsi su posizioni sostanzialmente liberali: Auden, Gide, Hemingway, Koestler, Malraux, Orwell, Silone, Vittorini… E a parte ancora, perché è impossibile immaginare quali sarebbero state le loro convinzioni e vicende politiche se il destino li avesse fatti vivere altrove, i grandi perseguitati da Stalin: Babel’ , Brodskij, Bulgakov, Cvetaeva, Mandel’ stam, Pasternak, Solzenicyn… Il tutto, s’ intende, salvo (probabilmente) omissioni.

Ma ce n’ è già abbastanza, mi sembra, per mettere seriamente in discussione la credibilità della famosa equazione dalla quale siamo partiti: per il sollievo di chi detesta o teme la sinistra ma anche, per motivi magari un po’ più complessi, per il conforto di chi pensa che essere di sinistra sia una scelta etica e non una questione di appartenenza automatica o, peggio, una specie di

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Il dibattito choc dei radical chic: “Si può fare figli con i leghisti?”

Il dibattito lanciato dalla rivista Internazionale dopo che una lettrice si è lamentata di aspettare un figlio da un “becero” che “parla come Salvini”

Sergio Rame – 12/03/2019

“Si può fare un figlio con un leghista?”. Il dibattito è surreale.

Eppure ha trovato spazio tra le pagine di Internazionale, intervista radical chic che racconta il mondo attraverso inchieste, reportage e opinioni tratte gli articoli delle più grandi testate internazionali. A sollevarlo è stata una lettrice, mentre ad approfondirlo c ha pensato il direttore della rivista Giovanni De Mauro (leggi qui).

“Sono una vostra lettrice e trovo i vostri articoli sempre molto illuminanti”, scrive la donna che si firma solo con le iniziali: M.S. A Internazionale si rivolge per chiedere “un’illuminazione” che non è passata affatto inosservata. Tanto che Libero ha subito ripreso la notizia per sottolinearne l’assurdità del dibattito. Ma veniamo al punto centrale del “problema” posto dalla lettrice della rivista: “Il mio compagno e io stiamo insieme da sei anni. È raro che parliamo di attualità ma quando capita insorgono terribili discussioni, sul tema dei migranti poi è come parlare con Salvini! Il suo pensiero è povero, pieno di luoghi comuni e disinformazione. Sono terrorizzata. Non si informa, non legge i giornali, ma pretende di giudicare! Aspettiamo un figlio e sono preoccupata all’idea di doverlo crescere con un papà becero”.

Ricapitolando: la lettrice ha paura ad avere un figlio dal compagno perché questo parla e pensa come Matteo Salvini. Teme, pertanto, che il pargolo possa crescere male se tirato su da “un papà becero”. La lettera non è stata cestinata. Non solo è stata pubblicata, ma il direttore di Internazionale ha pure dato corda alle “paure” della donna. “Seminare l’odio e la discordia è, da sempre, uno dei modi per mantenere il potere e per controllare popoli e paesi – scrive De Mauro – divide et impera: politici come Matteo Salvini devono il loro successo a questa strategia. Le divisioni attraversano tutta una società, gli spazi pubblici, i luoghi di lavoro, sono spaccature che arrivano fin dentro le case, e spezzano – o rischiano di spezzare – legami anche forti”. Quindi, apre a tutti i lettori della rivista il dibattito spiegando che la questione

 

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Riconoscere

Giovanni De Mauro, direttore di Internazionale

7 marzo 2019

 “Sono una vostra lettrice e trovo i vostri articoli sempre molto illuminanti. Pertanto, vi chiedo un’illuminazione! Il mio compagno e io stiamo insieme da sei anni. È raro che parliamo di attualità ma quando capita insorgono terribili discussioni, sul tema dei migranti poi è come parlare con Salvini! Il suo pensiero è povero, pieno di luoghi comuni e disinformazione. Sono terrorizzata. Non si informa, non legge i giornali, ma pretende di giudicare! Aspettiamo un figlio e sono preoccupata all’idea di doverlo crescere con un papà becero”. –M. S.

 

Seminare l’odio e la discordia è, da sempre, uno dei modi per mantenere il potere e per controllare popoli e paesi. Divide et impera: politici come Matteo Salvini devono il loro successo a questa strategia. Le divisioni attraversano tutta una società, gli spazi pubblici, i luoghi di lavoro, sono spaccature che arrivano fin dentro le case, e spezzano – o rischiano di spezzare – legami anche forti.

La questione che lei pone è importante e la risposta non è semplice. Se la spinta che avvertiamo è alla discordia, forse dovremmo rispondere cercando la concordia. Ma fin dove si può arrivare per ricomporre una frattura? Lei dovrebbe accettare il suo

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ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

Vaticano: sì al farmaco per cambiare sesso

Riccardo Cascioli – 10/03/2019

Anche dal Vaticano arriva la benedizione per il farmaco blocca-pubertà, e nella Chiesa si grida allo scandalo. Il placet è arrivato sotto forma di una intervista compiacente che il portale ufficiale vaticano Vatican News ha fatto alla filosofa del diritto Laura Palazzani, membro della Pontificia Accademia per la Vita e del Comitato Nazionale di Bioetica (Cnb).

La Palazzani ha difeso la recente decisione dell’Agenzia del farmaco (Aifa) di inserire fra i medicinali erogabili a carico del Servizio sanitario nazionale la molecola Trp triptorelina, detta anche farmaco blocca-pubertà. In pratica, agli adolescenti ritenuti affetti da disforia di genere, ovvero che hanno difficoltà a identificarsi con il proprio sesso, sarà possibile somministrare a spese del contribuente questo farmaco che bloccherà per qualche anno un evento fisiologico fondamentale, la pubertà, in attesa che l’adolescente decida di che «genere» voglia essere.

Il caso riguarda l’Italia, ma la posizione sposata dal portale vaticano ha immediate ripercussioni a livello globale per la Chiesa, è in qualche modo un avallo dell’ideologia gender che a parole si dice di combattere. Certo, la Palazzani vuole mostrarsi prudente e moderata («il farmaco va usato solo in casi molto circoscritti, con prudenza, con una valutazione caso per caso»), ma la vera svolta è nell’accettare l’uso di un farmaco figlio di una ideologia che ribalta l’antropologia cattolica, la concezione dell’uomo che la Chiesa testimonia da duemila anni. È la solita strategia delle eccezioni che poi rapidamente diventeranno la regola.

C’è da dire che la posizione della Palazzani non è una novità e non è neanche da sola: come membro del Comitato Nazionale di Bioetica lei aveva già sottoscritto il parere favorevole pubblicato il 23 luglio 2018, che poi è servito all’Aifa per quest’ultima decisione. Già allora fu clamoroso che a dare parere favorevole furono anche i cattolici presenti nel Cnb: Bruno Dallapiccola del Bambin Gesù di Roma, Francesco D’Agostino, presidente dei Giuristi Cattolici, Lucio Romano, ex presidente di Scienza & Vita, Lucetta Scaraffia, editorialista dell’Osservatore Romano, Mariapia Garavaglia, ex ministro della Sanità, il filosofo Antonio Da Re e l’economista Massimo Sargiacomo. Unico voto contrario fu quello di Assuntina Morresi, docente di Chimica-Fisica da molti anni impegnata sul fronte della bioetica.

Già allora ci fu una dura reazione da parte di altri esperti cattolici: Scienza & Vita e il Centro Studi Rosario Livatino (formato da giuristi e magistrati) hanno presentato in novembre una serie di documenti e lo hanno ribadito in questi giorni – per dimostrare la pericolosità di questo farmaco per la salute mentale e fisica degli adolescenti.

Ma ora l’avallo che arriva da una fonte tanto autorevole del Vaticano cambia completamente la partita. Né si può ritenere che quella intervista compiacente sia uscita per una svista. Con l’arrivo di Andrea Tornielli a capo di tutti i media del Vaticano, l’informazione si è fortemente accentrata e non è pensabile che su un tema così delicato non si sia fatta una valutazione. Piuttosto l’uscita pare perfettamente in linea con la svolta impressa alla Pontificia Accademia per la Vita da monsignor Vincenzo Paglia. Non più uno strumento di ricerca e approfondimento per offrire tutte le ragioni possibili alla difesa della vita, come l’aveva pensata san Giovanni Paolo II, ma una sorta di forum in cui cattolici e no possano trovare punti d’incontro.

In realtà si è già dimostrato, e la vicenda della triptorelina lo conferma, che si tratta di una resa totale al mondo, alle ideologie dominanti. Lo ha spiegato molto bene lo psicologo Roberto Marchesini in un durissimo articolo pubblicato ieri da La Nuova Bussola Quotidiana.

Prima questione è già nella terminologia usata: «Leggo, ad esempio – dice Marchesini – che la somministrazione di questo farmaco riguarderà bambini che intendono cambiare sesso, e mi chiedo: come è possibile cambiare sesso? È possibile scrivere maschio anziché femmina sui documenti, e viceversa; è possibile somministrare ormoni sessuali; è possibile inserire protesi e asportare chirurgicamente organi sessuali a persone sane… ma ripeto – come è possibile cambiare sesso? Non abbiamo forse dei cromosomi sessuati in ogni cellula del nostro corpo? Come li cambiamo, con un virus? L’antropologia cattolica dice che l’uomo è sinolo (unione inscindibile) di anima e corpo; è possibile anche cambiare il sesso dell’anima?».

La Palazzani parla di uso del farmaco «in presenza di una profonda sofferenza dei ragazzi con psicopatologie psichiatriche». Risponde Marchesini: «E un farmaco è la soluzione? Nessuna domanda sul motivo di tali sofferenze, sul perché vivono forti disagi circa la loro corporeità maschile o femminile (…)? Nemmeno un dubbio sull’ambiente sociale nel quale crescono i nostri figli,

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OGGI I GRANDI EVASORI NON SONO CONDANNATI AL CARCERE E I PAPÀ SI! 

Gerolamo Cardano – 11 03 2019

Adesso che la commissione giustizia prepara il testo unificato, diventa importante la depenalizzazione del mancato versamento dell’assegno di mantenimento (pena prevista: sino a un anno di prigione), e la sua riduzione ad illecito amministrativo (multa, pignoramento del conto corrente).

 

Il carcere per i papà deve limitarsi ai casi di danno al minore.

 

Il DDL 735 abrogherebbe, infatti, solo l’art. 570 bis c.p., entrato in vigore recentemente, nell’aprile 2018, che specifica in senso restrittivo il precedente art. 570, prevedendo la pena detentiva in caso di mancato pagamento dell’assegno di mantenimento per QUALSIASI MOTIVO, anche se non si hanno risorse (indigenza, disoccupazione), anche se si dimostra che è stata una dimenticanza, MA NON TOCCA l’art. 570 c.p. il quale veniva applicato comunque in modo estensivo, infliggendo pene severe per il mancato versamento dell’assegno. Di fatto il 570 bis ha fotografato la prassi in uso nei tribunali. Ciò è stato possibile perché è una sua specificazione del precedente art. 570.

Dunque abrogando la specificazione, si torna a prima, ossia alla più ampia discrezionalità del giudice. Non cambierebbe niente. Andrebbe invece introdotta una nuova specificazione in senso opposto, ossia: sarà reato solo se c’è danno al minore. A essere sanzionato penalmente dev’essere il causare effettivo danno al minore, non il mancato versamento.

Il mancato versamento dev’essere invece illecito amministrativo (giustizia civile) come

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Pedofilia: È il Vaticano a “gonfiare” il fenomeno?

Mauro Mellini – 25 febbraio 2019

 

Non sono credente. Sono, da lungo tempo, convinto anticlericale. Non ho mai concepito atteggiamenti persecutori o discriminatori nei confronti dei Cattolici ed ho sempre cercato di essere tollerante nei confronti, se non dell’intolleranza in sé, dei Cattolici intolleranti. Sono cresciuto in una Famiglia di non certo qualificabile come “bacchettona” o “baciapile”, nettamente avversa politicamente “al governo dei preti”.

Ho vissuto in un paesino, in una cittadina e in una città, tra gente di ceti diversi.

Non sono stato mai portato, né ho mai ritenuto vi fosse motivo di farlo, a difendere preti, frati, monache, vescovi e Papi da dicerie e luoghi comuni diffamanti, ma non ho mai ritenuto di dovermi fare di tali diffamazioni diffusore e sostenitore.

Ho sempre provato per le professioni o le prescrizioni celibatarie e sostanzialmente sessuofobiche della Chiesa Cattolica un senso di diffidenza e non ne ho mai compreso appieno la necessità e l’universale valore, che sembra a tali condizioni attribuire la Chiesa di Roma, tra l’altro come condizione distintiva da altre confessioni Cristiane tra l’altro necessarie per accedere al sacerdozio e nella scala della gerarchia clericale.

Ho sempre sentito, da quando ho l’età della ragione e l’orecchio per cogliere voci altrui, storie, insinuazioni, racconti, giudizi, implicite allusioni alle violazioni di tali precetti da parte del clero Cattolico.

Allusioni a certe tendenze omosessuali del clero, magari proprio di quello più “alto” ne ho sempre intese. Spesso ne ho dovuto constatare la mancanza di prove, tale da farle ritenere più corrivi mezzi di dileggio che non convinzioni circa l’entità del fenomeno.

Del resto, anche tra i meno raffinati esponenti di un anticlericalismo popolare, se la castità degli ecclesiastici era considerata non senza ragione una bugia per i gonzi, le allusioni e, soprattutto, le storie di omosessualità del clero erano assai meno diffuse e condivise. La mia familiarità, da lungo tempo acquisita con quella miniera di antica cultura e subcultura popolare che è G.G. Belli, mi ha confermato il convincimento che monasteri, curie e parrocchie non dovessero essere quei luoghi di elevazione dello spirito che si vuole siano, ma nemmeno suole di “perversione” omosessuale come qualche voce andava asseverando.

Peraltro, non mi sfuggiva che negli ultimi tempi la Chiesa dovesse aver qualche motivo particolare per sbandierare la sua “crociata” contro l’omosessualità al suo interno, probabilmente, uno strumento di “lotta interna”.

Così, quando sono cominciate ad arrivare notizie di campagne anche giudiziarie per casi di pedofilia e di omosessualità verificatesi nelle parrocchie, seminari, congregazioni, scuole e associazioni giovanili italiane e straniere, più che per i fatti denunciati ho provato un certo stupore per la loro denuncia ed il clamore che la stessa Chiesa ha dato ad esse.

Difficoltà di comprendere la reale portata di quegli avvenimenti, opinioni, polemiche è per me e, certo, per molti altri, dipendenti, anche, dalle caratteristiche che il “contesto americano” dei casi più noti, delle richieste di danno e di cifre delle loro entità, rappresentava e rappresenta per chi è abituato ad altri sistemi di giustizia quale quelli nel nostro Paese.

Sono passati gli anni e quello della pedofilia in seno alla Chiesa Cattolica ha continuato ad essere un grosso problema di attualità.

Contrariamente al solito ed alle abitudini della Chiesa, che aveva sempre “minimizzato” ogni altro episodio poco commendevole accaduto nel suo ambito, ben presto si è dovuto prendere atto (così credo) che la Chiesa ha, invece, dato e dà di questo fenomeno al suo interno una immagine ed una valutazione etico-sociale non meno diffusa e grave, ma probabilmente, più vasta di quella esistente nella società in genere e nel mondo “laico”.

Si tratta (questo è il punto) di un errore per eccesso di valutazione dipendente dalle impressioni prodotte oppure di un costume deplorevole che, negli ambienti ecclesiastici (dei quali ho scarsa conoscenza) sia effettivamente assai più diffuso che non in altri?

Perché le denunzie, gli scandali, le condanne, le invocazioni dell’aiuto divino che dai Papi e dalla Chiesa si levano, riguardano sicuramente, prevalentemente, se non esclusivamente, casi in cui sono coinvolti ecclesiastici o, comunque che si verificano in ambienti vicini alle istituzioni ecclesiastiche?

Ed allora è d’obbligo una osservazione. Il fenomeno della pedofilia e quello contiguo dell’omosessualità sono assai più diffusi nell’ambiente ecclesiastico tra chierici, monsignori, seminaristi etc. che non tra i cittadini del laico “comune”, oppure è il clamore che la Chiesa, abbandonato il costume che in passato lo ha portato a coprire siffatti “scandali”, con tali clamorose reazioni porta a far apparire più grave proprio il fenomeno al suo interno che non quello al suo esterno?

Non sono risposte facili a darsi senza studi, esami di statistiche, di atti

 

Continua qui: http://www.lavalledeitempli.net/2019/02/25/pedofilia-vaticano-gonfiare-fenomeno/

 

 

 

BELPAESE DA SALVARE

Palermo, cerca di rapinare un negozio: tunisino ucciso a bastonate

Tentativo di rapina nella notte a Palermo. Il rapinatore tunisino morto dopo una colluttazione. Ferito il titolare e un cliente

Claudio Cartaldo – 12/03/2019

Una rapina, forse. Almeno questo è quello che emerge dalle prime ricostruzioni.

Poi la reazione del commerciante e la morte del presunto bandito. Sono questi i contorni di quello che è successo nel cuore della notte a Palermo, in un negozio del centro. A rimetterci la vita sarebbe uno straniero, probabilmente di origini tunisine.

Tutto sarebbe emerso intorno alle due di notte. Al 113 sarebbe arrivata la segnalazione da minimarket in via Maqueda: a chiamare sarebbe stato lo stesso commerciante che avrebbe riferito di un tentativo di rapina. Secondo quanto sta

 

Continua qui: http://www.ilgiornale.it/news/cronache/palermo-cerca-rapinare-negozio-bandito-ucciso-bastonate-1660806.html

 

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

La “disintegrazione” del capitalismo globale potrebbe scatenare la Terza Guerra Mondiale, avverte un importante economista dell’UE

DI NAFEEZ AHMED – 21.02.2019

Un economista senior della Commissione Europea ha avvertito che una Terza Guerra Mondiale nei prossimi anni è un’”alta probabilità”,accentuata a causa della disintegrazione del capitalismo globale.

In un documento di lavoro pubblicato lo scorso mese, il Professor Gerhard Hanappi ha sostenuto che dal crollo finanziario del 2008, l’economia globale si è spostata dal capitalismo “integrato”, verso a una svolta “disintegrante” segnata dalle stesse tendenze che hanno preceduto le antecedenti guerre mondiali.

Il Professor Hanappi è Presidente [dell’Istituto] Jean Monnet per l’Economia Politica dell’Integrazione Europea – incaricato dalla Commissione Europea – presso l’Istituto per i Modelli Matematici in Economia presso l’Università di Tecnologia di Vienna. È inoltre membro del comitato di gestione del gruppo di esperti sui rischi sistemici nella rete europea di ricerca sulla cooperazione scientifica e tecnologica finanziata dall’UE.

Nel suo nuovo documento, Hanappi conclude che le condizioni globali apportano inquietanti parallelismi con le tendenze, precedenti allo scoppio della Prima e della Seconda Guerra Mondiale.

Egli riscontra che i principali segnali di allarme che il mondo è su una brutta china verso una guerra globale includono:

  • l’inesorabile crescita della spesa militare;
  • le democrazie che passano a Stati di polizia sempre più autoritari;
  • l’accrescersi delle tensioni geopolitiche tra grandi potenze;
  • il risorgere del populismo trasversale alla sinistra e alla destra;
  • il degrado e l’indebolimento delle istituzioni globali consolidate che governano il capitalismo transnazionale;
  • e l’inarrestabile ampliamento delle disuguaglianze globali.

Queste tendenze, alcune delle quali erano visibili prima delle precedenti guerre mondiali, si stanno manifestando ancora con nuove forme. Hanappi sostiene che la caratteristica distintiva del periodo attuale è una transizione da una forma più antica di “capitalismo integrativo”, a una nuova forma di “capitalismo disgregativo”, le cui caratteristiche sono emerse chiaramente dopo la crisi finanziaria del 2008.

Per la maggior parte del ventesimo secolo, afferma, il capitalismo globale era avviato su un percorso “integrativo”, verso maggiori concentrazioni di ricchezza transnazionale. Ciò è stato interrotto dalle ondate di un violento nazionalismo che ha comportato le due guerre mondiali. In seguito, una nuova forma di “capitalismo integrato” è emersa sulla base di un quadro istituzionale che ha permesso, per 70 anni, ai Paesi industrializzati di evitare una guerra mondiale.

Questo sistema sta entrando in un periodo di disintegrazione. In precedenza, le fratture tra ricchi e poveri all’interno del sistema venivano superate “distribuendo un po’dei guadagni dell’eccezionale aumento dei frutti della divisione globale del lavoro, verso le classi lavoratrici più ricche di queste nazioni”. Allo stesso modo, le tensioni internazionali erano diffuse trasversalmente alle strutture di governance transnazionale e agli accordi per la regolamentazione del capitalismo.

Ma dalla crisi finanziaria del 2008, la distribuzione della ricchezza si è aggravata con il declinante potere d’acquisto per il ceto medio e le classi lavoratrici, mentre la ricchezza diventa grandemente concentrata.

La crescita nei centri occidentali del capitale transnazionale ha rallentato, mentre gli accordi commerciali internazionali precedentemente sacrosanti sono stati ridotti a brandelli. Ciò ha alimentato un ritorno al nazionalismo, in cui le strutture globali e transnazionali sono state respinte e gli “stranieri” sono stati demonizzati. Poiché il capitale globale continua quindi a disintegrarsi, queste pressioni si intensificano, in particolare perché la sua motivazione intrinseca dipende sempre più dall’intensificarsi della concorrenza con i rivali esterni.

Mentre il capitalismo integrato dipendeva da un quadro istituzionale transnazionale che permetteva uno “sfruttamento stabile a livello nazionale”, Hanappi sostiene che “il capitalismo disgregativo” considera questa struttura nel suo disaggregarsi tra gli Stati Uniti, l’Europa, la Russia e la Cina, ognuna delle quali persegue nuove forme di gerarchica subordinazione dei lavoratori.

Il capitalismo disgregativo, spiega, ricorrerà sempre più a “poteri di coercizione diretta, integrati da nuove tecnologie dell’informazione” per sopprimere le tensioni interne, nonché a una maggiore propensione alle ostilità internazionali: “I nuovi imperi autoritari devono confrontarsi l’un l’altro per giustificare la propria struttura interna di comando inflessibile.”

 Grande conflitto di potere

Hanappi analizza tre potenziali scenari per come potrebbe svilupparsi un nuovo conflitto globale. Nel suo primo scenario egli analizza la prospettiva di una guerra tra le tre potenze militari più importanti: Stati Uniti, Russia e Cina.

Tutte e tre hanno subito forti aumenti nelle spese militari, dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Nonostante una flessione per gli Stati Uniti dal 2011, il Presidente Trump ha dato inizio a un nuovo picco, mentre la spesa [militare] russa si è stabilizzata e le spese [militari] cinesi stanno aumentando rapidamente.  Tutti e tre i Paesi hanno anche vissuto una svolta autoritaria.

Basandosi sulla teoria dei giochi, Hanappi sostiene che il calcolo, inerente al fatto che nessuno di questi Paesi sarebbe in grado di “vincere” una guerra mondiale, potrebbe cambiare secondo le percezioni dei leader di questi Paesi. Secondo una stima, la Cina ha la più alta probabilità di sopravvivenza per il 52%, seguita dagli Stati Uniti per il 30% e dalla Russia per il 18%. Questo calcolo suggerisce che, tra tutte e tre le potenze, la Cina potrebbe essere la più incline a intensificare le attività di ostilità militare diretta che provocano i suoi rivali, se percepisce una minaccia diretta a ciò che considera suoi legittimi interessi.

Gli Stati Uniti e la Russia, al contrario, potrebbero trasferire l’attenzione delle loro attività militari su meccanismi più segreti, indiretti e di procura. Nel caso degli Stati Uniti, Hanappi sottolinea:

“… la strategia militare di Trump sembra includere la possibilità di delegare parte della responsabilità operativa locale a vassalli amici, che ricevono un massiccio sostegno da parte degli Stati Uniti, ad es. Arabia Saudita e Israele in Medio Oriente. La Turchia, uno dei distaccamenti più forti della NATO nella zona, è un caso speciale. Sembra che sia stato permesso [alla Turchia] di distruggere lo Stato emergente della popolazione curda, che sarebbe stato più intimo allo stile di governance europea”.

Vi sono segni crescenti di forti tensioni di potere che potrebbero esplodere, in modo del tutto accidentale o per provocazione imprevista, in un conflitto globale che nessuno vuole.

La guerra commerciale USA-Cina è in escalation, mentre entrambe le potenze combattono sui segreti della tecnologia e discutono sulla crescente impronta militare della Cina nel Mar Cinese Meridionale. Nel frattempo, la massiccia espansione della US Navy and Air Force di Trump è indice dei preparativi per un importante potenziale conflitto con la Cina o la Russia.

Sia gli Stati Uniti che la Russia hanno gettato a mare un trattato nucleare cruciale, stabilito a partire dalla Guerra fredda, il che apre la strada a una corsa agli armamenti nucleari. La Corea del Nord rimane irriducibile riguardo al suo programma in corso per le armi nucleari, mentre Trump sta distruggendo l’accordo nucleare con l’Iran, disincentivando tale paese dal rispettare il disarmo e le sue condizioni.

All’inizio dell’anno scorso, uno studio statistico sulla frequenza delle guerre più importanti nella storia umana ha rilevato chei cosiddetti 70 anni di “lunga pace” non è davvero un fenomeno insolito, che indica un periodo di pace senza precedenti. Lo studio ha conclusoche non c’era motivo di credere che il periodo di 70 anni, a tutt’oggi, non avrebbe lasciato il posto a un’altra grande guerra.

Piccole guerre, contagio globale

Il secondo scenario di Hanappi analizza la prospettiva di una serie di “piccole guerre civili in molti Paesi”. Gli ingredienti di questo scenario sono radicati nella rinascita del populismo di destra e di sinistra. “Entrambe le varianti – a volte implicitamente, a volte esplicitamente – si riferiscono a una forma di Stato nazionale storico del passato a cui si propongono di tornare”, spiega Hanappi.

Mentre il populismo di destra si rifà ai regimi autoritari e razzisti, stabiliti in Germania e in Italia negli anni ’30, il populismo di sinistra aspira a ritornare al modello del “capitalismo integrato”, in vigore durante i trent’anni che hanno fatto seguito alla Seconda Guerra Mondiale e che ha reagito agli effetti ineguagliabili del capitalismo, attraverso la “rete sociale” del cosiddetto “welfare state” e varie forme di intervento statale nell’economia, accanto all’industria privata.

Ma la ricusazione è che il “capitalismo integrato” è già travolto dalle sue stesse contraddizioni interne, che sospingono il mutamento verso la disintegrazione.

Questo pone il populismo di sinistra in una posizione sistematicamente più debole, dato che il populismo di destra può far supporre i molteplici fallimenti del “capitalismo integrato”: il fallimento di “superare gli antagonismi di classe” e il fallimento di “realizzare la promessa di un sostanziale miglioramento di vita per la maggioranza delle persone”. Secondo Hanappi:

“I rappresentanti del capitalismo integrato sono screditati e non possono agire da leader, pertanto il movimento è costretto a sperimentare nuove forme di organizzazione nazionale. Più forme partecipative di organizzazione democratica richiedono più tempo, e con più gruppi sociali coinvolti ciò indebolisce questa forza di movimenti nei confronti del populismo di destra. Inoltre, la sua visione di un miglioramento del capitalismo integrato nazionale è ostacolata dal fatto che molte persone ricordano ancora i suoi fallimenti, mentre il canto della gloria nazionale che il populismo di destra canta si riferisce a un immaginato passato lontano mai visto da qualcuno.”

In questo contesto, egli sostiene, il potenziale esiste per le ondate di guerra civile nazionale tra i distaccamenti paramilitari emergenti di movimenti populisti di destra e di sinistra, nel contesto di entrambi i movimenti che adottano il potere statale ed entrano in conflitto con l’opposizione.

Hanappi avverte della possibilità di un effetto “contagio” regionale o globale, se questi fallimenti si verificano entro una scala temporale simile. In questo scenario:

“La fluida mobilità degli imprenditori politici ideologici nazionali, i creatori di movimenti populisti, incontra la rigidità dei terribili vincoli economici globali. Questo è lo scontro che provoca guerre locali”.

Questo scenario è anche supportato da dati statistici. Nel 2016, uno studio di Lloyds Insurers ha rilevato che, dal 1960 c’è stata una crescente frequenza di “pandemie” inerenti al “contagio di violenza politica”, che coinvolgono focolai regionali e transnazionali di disordini civili all’interno e tra gli Stati.

Il rapporto afferma che la protesta sociale e il dissenso contro le politiche di governo del militarismo all’estero e l’austerità neoliberista in patria potrebbero agire come potenziali precursori dei “contagi” della violenza, assieme ad altri fattori di rischio, tra cui “un aumento della quota di utenti di Internet”, maggiore concentrazione urbana, aumento della mortalità infantile e una popolazione giovane in crescita.

Insurrezione globale dei poveri

Il terzo scenario di Hanappi è parallelo alla scoperta dello studio Lloyds, secondo cui nei prossimi anni il mondo rischia di affrontare una serie di “pandemie da pressione eccessiva” sotto forma di “anti-imperialismo” e “movimenti indipendentisti”, “proteste di massa pro-riforma contro il governo nazionale” e ”insurrezione armata” o ”insurrezione” associata a due particolari ideologie: ”Marxismo” e ”Islamismo”.

Secondo Hanappi, la plausibilità di questo scenario si può trovare nelle “traiettorie profondamente divergenti, nell’ambito dell’economia mondiale, del benessere delle parti povere e delle parti ricche”.

Mentre il PIL ha continuato a crescere nel complesso, negli ultimi trent’anni si sono ampliate le disparità di reddito e di ricchezza in quasi tutti i Paesi, e ciò sembra destinato ad accentuarsi ulteriormente. Se questo ciclo continua, è plausibile un’aggregazione di lamentele tra i tre miliardi [della popolazione] più povera, stimolata dall’interconnettività delle comunicazioni nell’era dello smartphone.

Hanappi sostiene che, piuttosto che a uno solo di essi, in realtà le condizioni globali rendono più probabile una combinazione di questi tre scenari.

“Il capitalismo disgregativo non è un vaticinio. Ciò è già sopraggiunto e dà forma alla vita di tutti i giorni. Lo svanire del capitalismo integrato non è neanche una previsione. Il capitalismo disgregativo dissolve il capitalismo, ma per farlo deve prima distruggere il capitalismo integrato, il suo immediato predecessore.”

La caratteristica distintiva del capitalismo disgregativo è la sua tendenza a stabilire “restrizioni nazionaliste e razziste” volte a escludere “ciò che i suoi leader definiscono una minoranza inferiore”, al fine di proteggere l’accumulazione di capitale per un’identità nazionale di mentalità ristretta, definita in modo campanilistico. Le vecchie istituzioni capitaliste integrate vengono abbandonate e sono introdotte nuove strutture di governance più coercitive.

In questo contesto, Hanappi conclude che una Terza Guerra Mondiale avrà “non necessariamente” luogo, ma avrà “un’alta probabilità spaventosa”. Per evitare ciò, egli suggerisce, si richiede l’adozione di contro-strategie efficaci, come un movimento per la pace globale.

Oltre la disintegrazione: cosa viene dopo?

La diagnosi di Hanappi è acuta, ma alla fine è limitata, a causa della sua esigua attenzione per l’economia. Mancante dalla sua analisi è qualsiasi riconoscimento delle crisi biofisiche che determinano la disintegrazione del capitalismo globale: i flussi ecologici ed energetici, per mezzo dei quali funzionano le economie capitalistiche – e quindi i limiti naturali (o confini planetari) vengono violati.

Tuttavia, il suo concetto di “disintegrazione del capitalismo” – portando con sé una maggiore propensione al conflitto violento – aderisce bene a un più ampio concetto ecologico di declino della civiltà, esplorato in un recente documento della studiosa di geografia americana Stephanie Wakefield, pubblicato su Resilience, rivista sottoposta a revisione paritetica.

Wakefield attinge al lavoro pionieristico dell’ecologo dei sistemi [naturali] CS Holling, secondo il quale gli ecosistemi naturali tendono a seguire un “ciclo adattativo” costituito da due fasi, “un front loop di crescita e stabilità e un back loop di rilascio e riorganizzazione”.

Sottolinea che, mentre il lavoro di Holling si concentrava sullo studio degli ecosistemi locali e regionali, rimaneva la questione se l’idea del “back loop” potesse essere applicata su scala planetaria per comprendere le dinamiche della transizione di civiltà: “Siamo in un “back loop profondo” che presenta le stesse opportunità e crisi, come [quelle] degli studi nazionali sul back-loop che abbiamo descritto? ”ha domandato nel 2004.

Wakefield esplora l’idea del “back loop” dell’Antropocene che segnala uno sfasamento, in cui un particolare ordine, struttura e sistema di valori che comprendono la relazione dell’umanità con la terra, sta vivendo una profonda frattura e declino:

“Le affermazioni inerenti alla supremazia umana sul mondo vengono letteralmente spazzate via dall’innalzamento del [livello del] mare e da potenti tempeste senza precedenti, mentre le diagnosi terminali della civiltà occidentale proliferano così rapidamente come fantasticherie della fine”.

In questa nuova fase, c’è un parallelo tra l’escalation delle crisi ambientali e l’intensificarsi della disgregazione politica.

“Si amplia l’elenco dei punti di svolta, indotti dall’Antropogene, ai quali ci si avvicina o che vengono superati: il crollo della [rendita] pesca; la perdita di biodiversità; lo scioglimento delle calotte polari e l’innalzamento dei mari; [una concentrazione di] 350 ppm [che] ora [ha raggiunto] i 400 ppm di CO2; l’input di azoto antropogenico; l’acidificazione dell’oceano e la decolorazione  della barriera corallina; la deforestazione … Ma questi processi combinati nella stessa misura, dal 2011[ci fanno capire] anche che siamo in un’epoca di rivolte, rivoluzioni, esperimenti locali e movimenti sociali trasversali a sinistra e destra che, per la mentalità del front loop possono apparire follia,

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https://comedonchisciotte.org/la-disintegrazione-del-capitalismo-globale-potrebbe-scatenare-la-terza-guerra-mondiale-avverte-un-importante-economista-dellue/

 

 

 

 

 

CULTURA

Come giungere al “linguaggio superiore”

10 marzo 2019 –  il Professore – Francesco Pesce

 

Ciò che diciamo nel linguaggio superiore non è conoscenza di qualcosa. Non sono segni che si possono interpretare, esprimendo ciò che essi denotano, ma in essi stessi è presente, ciò che in nessun altro modo può essere reso cosciente.

Il linguaggio superiore è l’unica via che va oltre il controllo dei sintomi e del processo patologico, permettendo la comprensione e la modificazione delle vulnerabilità psicologiche che predispongono e perpetuano i disturbi.

Si giunge al linguaggio superiore percorrendo contemporaneamente diverse strade, una delle principali è la VIBRAZIONE

Tutto intorno a noi è vibrazione, anche le cose che apparentemente sono statiche. Gli elettroni degli atomi di cui è composta la materia sono in continuo movimento.

Nei viventi (organici) e nelle situazioni, azioni, impressioni, pulsioni ecc. queste vibrazioni sono più evidenti.

Nella dispensa 14 fornii una chiave di lettura dei 7 stadi evolutivi che consistono una delle strade per giungere al linguaggio superiore. Tale chiave funziona ma non è completa nel cammino evolutivo per raggiungere il linguaggio superiore ove è indispensabile familiarizzare con le vibrazioni. Per convenienza attraversiamo alcuni punti che ci possono aiutare in questo cammino:

1       presa di coscienza che tutto vibra con vibrazioni positive negative o neutre

2       ineluttabilità dell’errore nel linguaggio normale (Gorgia “non essere e della natura”)

3       porsi in stato di predisposizione a sentire.

4       Cercare senza condizionamenti formali di sentire le vibrazioni positive negative o neutre.

5       Allontanarsi da quelle negative (esempio persone, negozi, auto, partner, familiari ecc.)

6       Frequentare e contornarsi di persone positive. La vostra vita migliorerà rapidamente, vi sentirete costantemente felici e in uno stato di benessere.

7      Trovare il tempo per restare in silenzio. Il silenzio è teso alla auscultazione di quella parte del se che non può ancora parlare. E non vuole farsi irretire da loquacissimi involucri del falso se che quasi sempre compongono e scompongono le comunicazioni verbali.

8       Il pericolo di questa operazione evolutiva è quello di riconfluire ai più arcaici livelli di funzionamento quando si perde la maieutica che consente di cogliere nello smascheramento dell’assurdo anche la cifra o l’indicazione di

 

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ANCORA SULLA “FUNZIONE PUBBLICA DELL’INTELLETTUALE”

(Una riflessione autoreferenziale)

Andrea Zhok 10 03 2019

Personalmente ho sempre preferito la forma espressiva del libro, della monografia, alle forme più agili del saggio breve o dell’articolo. Nel caso della scrittura di un libro si esercita uno sforzo di ‘differimento comunicativo’ particolarmente accentuato: si accetta infatti di rinviare a lungo, spesso per anni, la comunicazione di temi che stanno a cuore; questo fino a quando l’argomentazione non abbia raggiunto ciò che si ritiene essere una forma compiuta, solida, capace di reggere e durare nel tempo.

Ma in quest’epoca dove le idee sono ridotte ad oggetti di consumo tra gli altri, parole da far passare rapidamente da un capo all’altro dell’encefalo, per poi sputarle in una disputa passeggera passando oltre, in quest’epoca, dicevo, la scrittura di un libro, e specificamente di un libro con le pretese classiche del testo filosofico (dunque non chiacchiere per épater le bourgeois) è qualcosa di peculiarmente inattuale e immensamente frustrante. Lo è anche la scrittura di un articolo scientifico, ma nel caso del libro la cosa assume tinte quasi patologiche. Se poi, come nel caso di chi scrive, uno intende ciascun libro come il pezzo necessario di un argomento complessivo, percepibile solo a chi ne colga l’insieme, beh, qui siamo con tutta evidenza di fronte a turbe psichiche con seri tratti deliranti.

È in quest’ottica che attività come quelle sui ‘social media’ acquisiscono un ruolo di compensazione terapeutica: qualcosa che dà quantomeno l’illusione di comunicare, e che limita così la crescente sensazione di autismo solipsistico che coglie ogni autore (autori pop esclusi).

In questo quadro la tentazione continua, fortissima, è quella di dismettere del tutto i pretenziosi panni di una riflessione ‘classica’, e di giocare le proprie carte nell’agone eristico, nella polemica, nella diatriba, nella fornitura di artiglieria leggera per questa o quella ‘buona causa’. Dopo tutto, in ciò non c’è niente di male e il bello è che qui i risultati (o la loro mancanza) si vedono subito.

L’impressione di fondo è che, per quasi chiunque, la differenza tra un argomento supportato da una rete di sostegno ampia, plurale e verificata, e un argomento improvvisato ma espresso con prontezza di spirito, sia sostanzialmente

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https://www.facebook.com/andrea.zhok.5?__tn__=%2CdC-R-R&eid=ARBL8rVjCXbmwFZOKPpAfh2zGcR8aDKZY91PGT_sydgi7BvBh–u6lo-Jcz5sHZLdwj8-OEFL_E1M76R&hc_ref=ARTK-APkVPCn8LSRT8GgaTx7frjkqpTL7Wj_9jb4D6Ab9fmUEXufiKAWLUgbAcbxg20&fref=nf 

 

 

FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI

Bassa redditività degli istituti di credito?

Razionalizzare i costi non è l’unica soluzione

Giuseppe De Lucia Lumeno* – 25 FEB 2019

 

Da un po’ di tempo a questa parte una delle preoccupazioni principali che richiama l’attenzione delle banche centrali è quella riguardante la bassa redditività degli istituti di credito e, di conseguenza, la difficoltà nel trovare investitori che possano contribuire al rafforzamento del loro capitale. Ovviamente una, se non quella più immediata, delle soluzioni richieste per far fronte a questa problematica è quella del contenimento e della razionalizzazione dei costi.

Questo approccio non è però affatto risolutivo, come riportato dal mensile “The Banker” del Financial Times. Tanto più nell’attuale fase di ascesa del Fintech in quanto richiede un profondo cambiamento culturale all’interno delle stesse banche che, ancora adesso, sono alla ricerca della strada giusta per incorporare al meglio gli strumenti e le innovazioni sviluppati grazie al continuo progresso della tecnologia digitale, al fine di aumentare le possibilità di usufruire di un numero sempre più ampio di servizi da parte di una platea giustamente più esigente di clienti, e che si ritrovano a gestire situazioni di tasso creditore nullo se non addirittura negativo. Come, poi, sottolineato recentemente da un report dell’agenzia tedesca Scope Ratings, in futuro, sarà sempre più difficile continuare a seguire la strada del contenimento dei costi. Il problema torna così al punto di partenza per quanto riguarda la bassa redditività. Il report pone la domanda se, forse, questa attenzione alla redditività delle banche non sia eccessiva e non abbia condizionato, all’interno dell’unione bancaria europea e con la Banca Centrale Europea dedita alla ricerca di una maggiore stabilità per tutto il sistema, la formazione di processi di fusione tra banche che, oltre al contenimento dei costi, ha determinano una diminuzione del numero delle banche e un aumento della loro dimensione media.

E’ opportuno, allora, rimarcare come, su una questione che resta centrale per le banche europee, e non solo nella fase attuale, la domanda da porre sia un’altra, ossia quali sono le cause che hanno determinato valori così bassi della redditività prima di pensare ai rimedi necessari. Il contesto economico dal 2008, salvo rari momenti, è stato molto complesso: politica monetaria fortemente espansiva con un tasso di riferimento su valori pressoché nulli e con conseguenti margini molto bassi; introduzione delle riforme promosse dal Comitato di Basilea per rafforzare la regolamentazione e la vigilanza degli istituti di credito orientate verso un approccio sempre più prudenziale, ma sbilanciate nei confronti di un modello di banca più finanziario. In questo contesto, le banche più votate all’intermediazione hanno dovuto affrontare difficoltà crescenti per conciliare l’operatività bancaria con il raggiungimento di un utile soddisfacente e le difficoltà maggiori hanno interessato proprio quegli istituti di credito che, in questi anni, si sono maggiormente adoperati per supportare l’economia reale durante la recessione.

Sarebbe, dunque, più opportuno evidenziare come il primo errore di valutazione sia stato a monte, ossia quando alcune banche, in particolare quelle maggiormente dedite ad attività finanziarie e tra le più importanti a

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https://www.loccidentale.it/articoli/146915/bassa-redditivita-degli-istituti-di-credito-razionalizzare-i-costi-non-e-lunica

 

 

 

 

 

 

 

A quanto le banche italiane hanno ceduto gli Npl (Crediti inesigibili)

Solo Unicredit ha venduto i crediti deteriorati al 13% del loro valore nominale. Intesa li ha trasferiti al 28,7, mentre le altre big si attestano tra il 21 e il 23%. 


MASSIMO MORICI – 12 marzo 2019

Il problema per le più grandi banche italiane non è stato solo smaltire le sofferenze, ma anche a che prezzo cederle sul mercato. Il sistema bancario italiano, stando a un recente report di Mediobanca Securities, il braccio d’investimento di Mediobanca, ha in pancia ancora crediti deteriorati netti (non performing loansNpl) per 125 miliardi di euro, per un terzo coperti intorno al 70% e per i restanti due terzi al 30%, che si traduce in «un fardello di circa 18 miliardi di euro per il sistema ogni anno». Il report degli analisti di Piazzetta Cuccia segue la richiesta fatta dalla Bce, che vigila sui principali istituti di credito dell’Eurozona, di completare la copertura sui crediti deteriorati entro il 2026, limite che scende al 2024 per UniCredit. Lo scorso anno si sono contate 398 operazioni (155 in più rispetto al 2017) che hanno alleggerito i bilanci degli istituti di 106 miliardi di euro, stando ai recenti calcoli dell’Osservatorio nazionale Npl Market di Credit Village (compresa la maxicessione di Mps), che dal 2016 censisce tutte le transazioni di crediti Npl sul mercato italiano. Ma a chi hanno venduto i crediti dubbi le cinque principali banche italiane e, soprattutto, a quanto?

UNICREDIT: ESPOSIZIONI DETERIORATE NETTE SCESE A 14,9 MLD

Cominciamo dalle due big. UniCredit ha chiuso il 2018 con le esposizioni deteriorate nette scese a 14,9 miliardi (-6,2 miliardi di euro) con un rapporto di copertura del 61%. La banca guidata da Jean Pierre Mustier ha ridotto il suo portafoglio crediti dubbi di oltre 36 miliardi di euro negli ultimi tre anni, una bella fetta dei 110 miliardi di euro in Npl che il sistema bancario italiano ha smaltito dal 2015 a oggi. Il grosso della pulizia è stato fatto tramite tre grandi operazioni di cartolarizzazione previste dal Progetto Fino, grazie a cui nel 2017 UniCredit ha trasferito sofferenze per 17 miliardi di euro di Npl a veicoli costituiti da Fortress (Fino 1 e Fino 2) e da Pimco (Onif, che ha visto poi la partecipazione di Generali con il 30% dei titoli emessi). Il portafoglio di crediti dubbi è stato ceduto al 13% del valore nominale.

 

INTESA SANPAOLO: CREDITI DETERIORATI NETTI SCESI A 16,5 MLD

Ha fatto meglio Intesa Sanpaolo, che ha ceduto lo scorso aprile al gruppo svedese Intrum il 51% della piattaforma per il recupero credito (2.600 dipendenti per lavorarci) oltre a 10,8 miliardi nominali di sofferenze, per un totale di 3,4 miliardi di euro, una cifra pari al 28,7% del valore nominale degli Npl ceduti. Nel 2018 i crediti deteriorati netti di Ca’ de Sass sono scesi a 16,5 miliardi di euro con un livello di copertura del 54,5%.

 

MPS: ESPOSIZIONE NETTA SCESA A 7,9 MLD

Passando a Mps, anche in questo caso bisogna risalire a fine 2017 con la maxioperazione da 24 miliardi di Npl cedute al 21% del valore nominale. Il portafoglio è stato dato in gestione a quattro società: Credito Fondiario(6,2% del totale), Italfondiario (31,2%), Prelios Credit Servicing (4,5%) e Juliet (58,1%). Quest’ultima è l’ex piattaforma di gestione dei crediti di Mps che è

 

Continua qui: https://www.lettera43.it/it/articoli/economia/2019/03/12/npl-italia-crediti-deteriorati-unicredit/229659/

 

 

 

 

 

 

Quell’ultima chance per salvare Deutsche Bank

ANDREA MURATORE – 12 marzo 2019

Non ha fine la lunga fase di difficoltà per Deutsche Bank. Oggigiorno il nodo principale sembra essere legato al destino finale del principale gruppo bancario tedesco, reduce da anni di criticità nella gestione operativa, da una serie ininterrotta di scandali che hanno avuto il loro coronamento nel caso Danske Bank e da un progressivo deterioramento della sua posizione borsistica.

Il governo di Angela Merkel punta a correre ai ripari per evitare il collasso dell’istituto di Francoforte e, su iniziativa del  Ministro delle Finanza Olof Scholz, sta lavorando per condurre in porto una fusione con Commerzbank, altra importante banca vessata da numerose problematiche strutturali. La giornata dell’11 marzo si è aperta con un brillante rialzo per la prima banca tedesca come assets, che lievita in modo prepotente, con un guadagno del 3,01%, a causa delle notizie sempre più concrete sulla possibilità di una fusione.

Come sottolinea Repubblicainfatti, ” il nuovo ad di Deutsche Bank Chistian Sewing, che ha lanciato in fretta un piano di riassetto interno focalizzato sul segmento commerciale e regionale, avrebbe abbandonato le resistenze all’idea di concludere la fusione già quest’anno, come invece gradirebbe il governo anche per mettere le due banche al riparo da una congiuntura in forte rallentamento, e dagli effetti che potrebbero prodursi sul credito alle piccole e medie imprese esportatrici”.

Scholz è uno sponsor convinto della fusione, che reputa fondamentale per rompere il circolo vizioso di entrate in calo, spese in aumento, rating in diminuzione e costi di finanziamento crescenti in cui Deutsche Bank rischia di rimanere intrappolata, ed è pronto a concretizzarla andando contro le prescrizioni della vigilanza unica della Bce, che nonostante la vicinanza fisica al primo gruppo bancario tedesco (sono entrambe basate a Francoforte) ha più volte ignorato le problematiche strutturali legate, principalmente, alla presenza di enormi quantità di derivati tossici nei suoi portafogli, ma ha fatto sentire la sua voce opponendosi all’idea della fusione con un gruppo tedesco, preferendo un’opzione estera. Del resto, vi è una quota importante di conflitto d’interessi: il governo tedesco è azionista al 15% di Commerzbank, e punta a cogliere due piccioni con una fava costruendo un colosso del credito capace di competere su scala globale.

A tal proposito, però, andrebbero superate importanti criticità. La prima è l’eccessivo ribasso di capitalizzazione dovuta, principalmente, al bagno di sangue borsistico che Deutsche Bank ha dovuto subire, bruciando il 90% della sua quotazione in dieci anni e riducendosi a poter contare su soli 15 miliardi di euro, con una leva di oltre uno a cento rispetto agli asset maneggiati

Continua qui: http://www.occhidellaguerra.it/deutsche-bank-crisi-senza-fine-o-speranze-di-risalita/

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

Non c’è ricerca della Verità senza analisi dei documenti originali

Mentre i giornalisti tendono a interpretare gli avvenimenti internazionali in funzione dei rispettivi governi, Thierry Meyssan si sforza di anticipare i fatti per permettere agli Stati presi di mira di proteggere il più efficacemente possibile le popolazioni. L’interpretazione di Meyssan degli ultimi 18 anni non è affatto “complottista”, come i suoi avversari vorrebbero far credere; si fonda invece sui documenti di lavoro dei Paesi occidentali, alcuni dei quali liberamente consultabili, benché ignorati dai media. Una ricerca sistematica delle fonti e la loro integrazione nel ragionamento è la metodologia che Meyssan applica anche quando riesce a procurarsi i documenti dopo anni dalla loro stesura.

RETE VOLTAIRE | 8 MARZO 2019

 

Questo articolo è il seguito di:
1/3 «Cospirazionismo e analisi»
2/3 «La stampa rifiuta gli esiti di una storiografia da sempre condivisa»

Domanda/Edizioni Demi-LunePassiamo ora a Sotto i nostri occhi, un libro fuori dal comune… È scritto molto bene, breve e di facile comprensione; lei possiede un vero talento per spiegare in modo semplice problematiche complesse. L’unico appunto che si potrebbe fare è che il libro è davvero molto denso! Quasi ogni pagina contiene una rivelazione; la maggior parte dei politologi avrebbe certamente diluito queste informazioni in più opere. Si tratta in realtà del lavoro che lei ha svolto nei dieci anni trascorsi dalla pubblicazione dell’Effroyable Imposture 2.

Thierry Meyssan: Quando nel 2002 ho scritto L’incredibile menzogna, è stato in reazione a una contraddizione evidente tra narrazione dominante e quanto chiunque poteva constatare: l’amministrazione Bush mentiva. Le mie argomentazioni erano semplici, comprensibili e facilmente verificabili. Era un libro scritto da un giornalista. Nel 2006 ho scritto l’Effroyable Imposture 2 come si trattasse di una tesi di dottorato, con centinaia di riferimenti bibliografici: un lavoro di ricerca redatto per il grande pubblico. Questo terzo volume, Sotto i nostri occhi, pubblicato nel 2017, è una sintesi destinata a chi deve prendere decisioni, presentata sotto forma di un viaggio personale. È un libro scritto da un analista governativo.

È vero, ci sono davvero troppe informazioni, ma tutte utili. Non volevo presentare in dettaglio un avvenimento o un altro, bensì descrivere il panorama generale dei rapporti di forza mondiali dopo l’11 Settembre ed esporre la mia interpretazione. Nessuno finora ha fatto questo tipo di lavoro ma sicuramente molti lo imiteranno. Sono stati pubblicati innumerevoli libri che s’ispiravano alle mie precedenti opere, accadrà anche con questa.

DomandaCome il libro precedente, Sotto i nostri occhi, è probabilmente in anticipo di dieci anni rispetto al proprio tempo… Potrebbe essere uscito troppo presto e quindi essere comprensibile (ossia accettabile) non prima di un decennio?

La rivolta scoppiata in Francia sta per propagarsi all’intero Occidente

Thierry Meyssan: Ho riletto L’effroyable imposture 2, sulla guerra israeliano-libanese del 2006, quando è stato rieditato da Demi-Lune. Sono rimasto meravigliato della sua attualità, nonostante siano passati 12 anni. Questo significa che i problemi d’Israele e Libano sono tuttora irrisolti.

Sotto i nostri occhi diventerà un classico quando lo scontro che descrivo sarà risolto. Ebbene, la globalizzazione finanziaria sta per finire. La rivolta scoppiata in Francia si propagherà all’intero Occidente. Le persone patiscono senza capire il perché del loro impoverirsi. La rivolta potrebbe accelerare.

DomandaAnche la struttura della sua ultima opera è originale: lei decifra le “Primavere arabe” in tre sezioni, in ciascuna delle quali lei si pone nella prospettiva di un diverso protagonista: la Francia, i Fratelli Mussulmani e l’asse Washington-Londra.

Thierry Meyssan: Per questa ragione parlavo di “viaggio personale”.

Inizialmente ho interpretato gli avvenimenti basandomi sulle informazioni disponibili al grande pubblico, quelle dei media. Sfortunatamente la stessa modalità è stata usata dal governo francese per reagire. A questo stadio ho commesso molti errori, per esempio prendere per buono quel che si raccontava su Muammar Gheddafi.

Poi ho iniziato a esplorare la nebulosa jihadista. Mi sono reso conto che, nonostante le apparenze, era molto strutturata, che tutti i suoi capi (di Al Qaeda, di Daesh ecc.) provenivano dalla stessa organizzazione, la Confraternita dei Fratelli Mussulmani. Sono stato massone per molti anni, ho perciò subito capito come funzionava la Confraternita, i cui riferimenti arrivano direttamente dalla massoneria. Inoltre mio nonno, ufficiale dell’Intelligence, mi ha insegnato la vocazione dell’MI6 per le società segrete. Ho perciò riletto la storia dei Fratelli Mussulmani su scala regionale. Questo ha ribaltato quel che pensavo di aver capito.

Ho in seguito lavorato sui concetti strategici e l’organizzazione amministrativa di Stati Uniti e Regno Unito. Conoscevo alcune grandi linee degli avvenimenti, ho però cercato gli elementi sommersi che consentivano di collegarli tra loro. Ho trovato, per esempio, le mail del Foreign Office, rivelate nel 2004 da Derek Pasquill, un lanceur d’alerte [lett. lanciatore di allerta, ndt] britannico. Esse dimostrano che il Regno Unito ha preparato e organizzato le Primavere Arabe. Ho interpellato diversi protagonisti, per esempio il presidente libanese Emile Lahoud sul ruolo della Lega Araba. Ho analizzato volontariamente per conto della Repubblica Araba Siriana il piano delle Nazioni Unite contro la Siria. In poche parole, ho pazientemente e minuziosamente ricostruito la storia completa degli avvenimenti, il che ha

Continua qui: https://www.voltairenet.org/article205055.html

 

 

 

 

Pence ha proposto di provocare militarmente la Russia

RETE VOLTAIRE | 9 MARZO 2019

 

Secondo l’agenzia Bloomberg, durante la Conferenza per la Sicurezza di Monaco del 16 febbraio 2019, il vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, ha chiesto alla cancelliera Angela Merkel di inviare truppe tedesche nello stretto di Kerch.

La marina tedesca avrebbe dovuto attraversare lo stretto per dimostrare alla Russia che la Germania non abbandona il Mar d’Azov.

La cancelliera avrebbe respinto la proposta, non già perché l’iniziativa avrebbe fatto salire inutilmente la tensione, rischiando così di provocare un nuovo conflitto, ma perché, secondo il presidente ucraino Petro Poroshenko, «non

 

Continua qui: https://www.voltairenet.org/article205561.html

 

 

 

La Cina, Amnesty e i Gilets Jaunes

 

DI BRUNO GUIGUE – 5 febbraio 2019

francais.rt.com

Rivedendo l’ultimo rapporto della organizzazione non governativa Amnesty International sulla Cina, l’analista politico Bruno Guigue ne indica le approssimazioni e sottolinea che per confronto, è allarmante la gestione della crisi dei Gilets Gialli in Francia.

Quando si voglia trattare la questione dei diritti umani in China, il problema che si pone immediatamente è quello delle fonti d’informazione. Se sono governative, i detrattori abituali della Cina comunista mettono in rilievo immediatamente la loro parzialità. Se sono legate agli ambienti di opposizione, un identico rimprovero sarà rivolto a loro. Per evitare questo genere di inconvenienti, adotteremo il metodo che consiste nel leggere l’ultimo rapporto di Amnesty International sulla Cina (2017-2018), e fare come se le informazioni effettive che contiene siano esatte.

Si legga anche:

https://francais.rt.com/france/59668-gilets-jaunes-ecurie-branquignols-chef-service-politique-france-24-donne-ton

(i GJ son diventati un branco di pazzoidi?)

Dato che questa ONG americana non passa per essere una zelante propagandista del potere cinese, sarà difficile incorrere nell’accusa di compiacenza nei confronti di Pechino. Ebbene, che troviamo in questo rapporto? Prima di tutto dedica una lunga disamina a Liu Xiaobo, il cui dramma personale ha fornito all’occidente un argomento pesante contro il governo cinese per un decennio. “Liu Xiaobo insignito del premio Nobel per la pace, è morto in prigione per un cancro al fegato il 13 luglio.

Liu Xiaobo e la sua famiglia avevano chiesto alle autorità di permettergli di andare all’estero per essere curato, ma le autorità hanno rifiutato di prendere in considerazione questa richiesta. Alla fine dell’anno, sua moglie, Liu Xia, era sempre sotto sorveglianza e trattenuta illegalmente a domicilio coatto. Era stata sottoposta a queste misure dopo l’attribuzione del premio Nobel per la pace a suo marito nel 2010. Almeno 10 militanti sono stati arrestati per aver organizzato delle cerimonie in memoria di Liu Xiaobo”.

Quando un intellettuale auspica la colonizzazione del suo paese da parte di potenze straniere, deve aspettarsi di avere delle grane.

Questo dissidente è stato arrestato poi condannato a 9 anni di prigione per “sovversione” nel 2009. Morto di cancro nel luglio 2017 poco dopo la sua scarcerazione, e non in carcere, aveva ottenuto il premio Nobel per la pace nel 2010 con l’appoggio entusiasta dei paesi occidentali. Filosofo iconoclasta, in una intervista accordata alla stampa nel 1988 riassumeva il suo pensiero in questo modo: ” Scegliere di vivere significa scegliere il modello di vita occidentale. La differenza fra i metodi di governo occidentali e quelli cinesi, è la stessa che c’è tra l’umanità e il disumano, non ci sono vie di mezzo. L’occidentalizzazione è una scelta non della nazione ma della razza umana. “ Per capire – senza pertanto giustificarla- la reazione delle autorità cinesi, bisogna procedere a un esercizio di trasposizione. Proviamo a sostituire le parole “occidentale” con la parola “ariano”, e “cinese” con la parola “ebreo”: è chiaro che questo genere di affermazioni, in Francia porterebbero ad azioni legali contro il loro autore.

Ma non è stata questa la sola audacia di Liu Xiaobo. Ammiratore della politica estera degli Stati Uniti, non ha mai perso un’occasione per rallegrarsi retrospettivamente con questo paese per la guerra di Corea – che costò la vita a 600.000 cinesi – la guerra del Vietnam e l’invasione dell’Iraq. Infine ha sostenuto che per conoscere i benefici della civiltà occidentale, “la Cina dovrebbe di nuovo diventare una colonia per 300 anni e dovrebbe essere divisa in 18 stati”.

Ci si può indignare per il trattamento inflitto ad un intellettuale che dice quello che pensa, ma quando auspica la colonizzazione del suo paese da parte di potenze straniere, deve aspettarsi di avere delle grane. L’arresto di Liu Xiaobo dimostra che le autorità cinesi non scherzano sul patriottismo e che vi sono dei limiti alla libertà di espressione quando c’è in gioco l’interesse nazionale. Ma altrove è diverso? Che sorte sarebbe riservata al cittadino francese che dichiarasse che i suoi compatrioti sono dei subumani e richiedesse apertamente l’invasione della Francia da parte della Russia?

Si può vedere il video:

https://francais.rt.com/france/59547-epingle-par-europe-sur-lbd-40-macron-garde-cap-denonce-casseurs-samedi-apres-midi

(Macron non cambia rotta e denuncia i vandali del sabato pomeriggio)

 

Dopo questa prevedibile ode a Liu Xiaobo, la relazione dell’ ONG americana richiama le modifiche legislative giudicate negative per i diritti dell’uomo. “Ancora quest’anno sono stati elaborati regolamenti e leggi repressive da adottare in relazione alla sicurezza nazionale, questi provvedimenti conferiscono alle autorità maggior potere per ridurre l’opposizione al silenzio, censurare le informazioni e reprimere e perseguire penalmente i difensori dei diritti umani.” Come esempio la relazione si dedica a una cronaca che ha il merito di riferirsi a degli avvenimenti precisi. L’avvenimento più importante – l’unico che è oggetto di un resoconto dettagliato all’interno della relazione – ebbe luogo nel luglio 2015.

“Su circa 250 persone che sono state interrogate o imprigionate da agenti della sicurezza nazionale in seguito all’ondata di repressione senza precedenti lanciata dal governo contro gli avvocati specialisti in diritti umani e contro i militanti nel luglio 2015, nove sono stati dichiarati colpevoli di eversione del potere statale, di incitamento alla sovversione del potere dello stato, di aver cercato di provocare degli scontri e turbato l’ordine pubblico. “ Il rapporto precisa che di queste nove persone, 5 sono tutt’ora in prigione, tre sono stati condannati alla prigione con la condizionale e l’ultimo è stato assolto da condanne penali. La relazione aggiunge a questi nove casi altri quattro casi di arresti che si sono conclusi con tre condanne al carcere e con una liberazione dietro cauzione.

Gli altri avvenimenti dello stesso tipo menzionati dal rapporto della ONG riguardano “undici militanti arrestati per aver commemorato la repressione di Tienanmen del 1989, per aver provocato degli scontri e turbato l’ordine pubblico”. Due di questi sono stati tenuti in carcere, e un altro è stato condannato a 3 anni di prigione. La relazione aggiunge tre arresti di “militanti in favore dei diritti del lavoro” che si sono poi risolti con una scarcerazione sotto cauzione e una condanna penale. Per quanto riguarda la repressione delle attività su internet, dodici persone sarebbero ancora in carcere, la maggior parte in attesa di giudizio.

Questa parte del rapporto di Amnesty International ha il vantaggio di essere relativamente preciso: fornisce delle cifre, i nomi delle persone interessate e indica il trattamento che è stato loro riservato. Se mettiamo insieme tutti questi dati, otteniamo in totale 280 arresti o incriminazioni, 22 incarcerazioni e 10 condanne penali, con pene detentive che vanno da 1 a 8 anni. Ci sarebbero anche (la relazione impiega il condizionale) alcuni casi di arresti domiciliari ed un caso di scomparsa senza spiegazioni sulla quale la ONG si mostra prudente.

Nell’insieme è evidente la sproporzione tra i fatti riportati e la descrizione apocalittica che ne costituisce lo sfondo.

La seconda parte della relazione si occupa delle religioni e delle minoranze che sarebbero oggetto di grave discriminazione da parte del potere cinese. “Anche quest’anno, i praticanti di Fa Lun Gong sono stati oggetto di persecuzioni, di detenzioni arbitrarie, e anche di atti di tortura e di altri maltrattamenti.” Ma per illustrare questa repressione generalizzata delle attività religiose Amnesty International non cita che un solo caso: ”Accusata di utilizzare un culto nefasto allo scopo di nuocere al mantenimento dell’ordine, Chen Huixia era in prigione dal 2016. In maggio il suo processo è stato rimandato dopo che il suo avvocato ha chiesto al tribunale di non considerare come prove degli elementi ottenuti sotto tortura.

si legga anche:

Entre Chine et Etats-Unis, la hache de guerre est loin d’être enterrée

(tra Cina e USA l’ascia di guerra non sarà seppellita tanto presto)

Ma è soprattutto la situazione degli Uiguri e dei Tibetani, come si può immaginare, che preoccupa la ONGoccidentale.”Nella relazione riguardante la sua missione del 2016 in Cina, l’inviato speciale delle Nazioni Unite sui diritti dell’uomo e la povertà estrema ha dichiarato che anche se i progressi nella lotta contro la povertà erano in generale impressionanti, la situazione dei tibetani restava molto problematica, e la maggior parte delle minoranze etniche in Cina erano esposte a gravi violazioni dei diritti umani, in particolare a tassi particolarmente elevati di povertà, alla discriminazione etnica e alle deportazioni forzate.

Per avvalorare un quadro così allarmante, avremmo voluto conoscere dei fatti precisi. A titolo di esempio, la ONG menziona due arresti e sei suicidi rituali con il fuoco in Tibet. Le circostanze di questi suicidi non sono affatto spiegate dalla relazione, contrariamente ai due arresti citati. Nell’ insieme, la sproporzione tra i fatti riportati e la descrizione apocalittica che ne costituisce il panorama di fondo è evidente. Si noterà che la relazione non si allarga affatto sulla situazione in Tibet. Da molto tempo il Dalai-Lama non reclama più l’indipendenza della sua provincia natale, uscita un po’ alla volta dagli schermi radar della compassione occidentale.

Sulla stessa falsariga, l’affermazione degli autori del rapporto secondo il quale “la maggior parte delle minoranze etniche in Cina erano soggette a gravi attentati ai diritti umani” è completamente surreale. La Cina riconosce ufficialmente 54 nazionalità minoritarie. Le uniche ad avere storicamente incontrato delle difficoltà col potere sonio i Tibetani e gli Uiguri. La più numerosa minoranza (18 milioni di persone), gli Zuang, sono perfettamente integrati, così come i musulmani Hui. Esentati dalla politica del figlio unico, -il che fu un privilegio enorme- hanno beneficiato di provvedimenti in favore della loro cultura e di investimenti nelle regioni (spesso svantaggiate) che abitano da secoli. L’inviato speciale dell’ONU per i diritti dell’uomo può comunque far polemica, ma niente di concreto viene a supportare le sue affermazioni.

I trenta incarcerati e i venti condannati che ha avuto la Cina nel 2017 si potrebbero paragonare per esempio con la repressione che colpisce i Gilets Jaunes dal novembre 2018.

La causa Uigura ha sostituito la causa tibetana nel cuore degli occidentali, e

 

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POLITICA

BERLUSCONI E I COMUNISTI 

La guerra senza quartiere dei compagni contro Berlusconi

Sisto Ceci – 11 03 2019

Perché i PCIni hanno sempre demonizzato Berlusca non considerandolo mai un avversario politico come gli altri, ma solo un nemico da abbattere senza mezzi termini? Perché Berlusca in 6 mesi , tra la fine del 1993 e la primavera del 1994 ,ha costruito un partito e una macchina elettorale che ha sconfitto un partito, il PCI, radicato in tutta Italia da oltre 70 anni con centinaia di sezioni, circoli, case del popolo, coop, sindacati e tutto il resto, i PCIni avevano già pronti gli organigrammi ministeriali, le elezioni erano solo un noioso passaggio obbligatorio per arrivare a una vittoria senza problemi e senza precedenti ,infatti mentre in tutto il mondo , dopo il crollo del Muro di Berlino, il comunismo si squagliava, in Italia sarebbe andato al potere ,erano già pronti a brindare al successo e manifestare nelle piazze il proprio entusiasmo , ti ricordi la gioiosa macchina da guerra di Occhetto?

Berlusca, in pochi mesi, ha infranto i sogni di milioni di militanti che sentivano a portata di mano e avrebbero voluto festeggiare la prima vittoria alle elezioni politiche per ribaltare una situazione di minorità storico politica che durava ingiustamente, loro erano dalla parte giusta della Storia, da troppo tempo, per la prima volta un partito comunista avrebbe preso il potere in maniera democratico/legalitaria.

Berlusca invece ha evidenziato impietosamente la fragilità del PCI, ha gridato agli

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TEMPO FA IL PCI

Sisto Ceci – 11 03 2019

Risposta assai veloce ad un amico …

Il consociativismo spartitorio del PCI con la DC è nato nel 56 dopo il XX congresso del PCUS, con il Rapporto Kruschev contro Stalin.

Quando venne fuori lo spaventoso costo politico ed umano, milioni di morti ammazzati, dell’edificazione del comunismo in URSS, un costo improponibile per un paese europeo come il nostro, i PCini capirono che non si poteva continuare a dire di fare in Italia come in URSS.  e, non avendo un piano B, diventare socialdemocratici e riformisti.

Non lo sono mai diventati, e non potendo continuare a dire a milioni di militanti ed elettori “Scusate ci siamo sbagliati, rompete le righe torniamo tutti a casa “, è iniziata la fase politica in cui il PCI fingeva di fare opposizione opponendo alle misure del governo le sue proposte mirabolanti.

Il governo prometteva 5 e loro promettevano 50, tanto sapevano che non sarebbero mai stati chiamati a rispondere di quello che proponevano. Comunque, dovevano, per sopravvivere e allargarsi a macchia d’olio nella società italiana, creare le casematte gramsciane, crescere sempre di più come organismo di potere, come fabbrica di consenso.

Non potendo governare (gli accordi di Yalta lo impedivano), capirono che

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SCIENZE TECNOLOGIE

Così l’intelligenza artificiale cambierà il mondo. E l’uomo

Marco Saccone – 7 GEN 2019

 

In un’era in cui “gli scienziati e le multinazionali stanno imparando a violare il nostro cervello”, come possiamo trovare un solido riferimento etico, per affrontare il mondo? La liberal-democrazia è in grado di fronteggiare la duplice rivoluzione informatica e biotecnologica che stravolgerà la società e forse l’intera specie umana?  E’ un libro sul presente quello che Youval Noah Harari titola 21 lezioni per il XXI secolo. Dopo gli straordinari Sapiens e Homus Deus, che raccontavano il passato e il futuro della nostra specie, la volontà di leggere il presente, forse l’esercizio più complesso, è divenuta essenziale per lo storico israeliano.

L’Intelligenza artificiale e la biotecnologia esercitano pressioni “senza precedenti” sui comportamenti e sull’etica individuale degli esseri umani e il liberalismo sta perdendo credibilità, sotto i colpi della globalizzazione.

L’immigrazione mette in crisi le identità, la crisi economica tramortisce il capitalismo, il terrorismo sfida lo stato di diritto, il disastro ecologico mette in pericolo la sopravvivenza del pianeta, la diffusione delle armi nucleari minaccia la sopravvivenza dell’uomo. Tra qualche anno gli algoritmi dell’Intelligenza artificiale saranno in grado di comporre come Mozart, scrivere come Shakespeare, curare come impeccabili dottori e difendere come brillanti avvocati. Le multinazionali saranno in grado di leggere i nostri cervelli, programmare le nostre scelte, orientare i nostri gusti; i microchip installati nei nostri copri saranno in grado di individuare le malattie e curarle istantaneamente e probabilmente riusciranno a “spegnere” chimicamente i nostri cattivi pensieri, le nostre ossessioni, le nostre paure.

E cosa succederà alle narrazioni collettive, come la Nazione o la Religione? Nella democrazia odierna esse svolgono un ruolo fondamentale: aggregano le volontà individuali e consolidano il potere della maggioranza. L ’ascesa dell’Intelligenza artificiale, sostiene Harari, potrebbe annullare il potere politico della maggioranza, portando gli individui “ad una condizione di irrilevanza politica” e perfino “biologica”. Quando le tecnologie applicate alla scienza e alla medicina renderanno possibile intervenire sulla salute e sulla creatività umana, una ricca èlite di privilegiati potrebbe utilizzare queste tecnologie per trasformare sé stessa in una classe di Superuomini, lasciando nell’irrilevanza il resto dei Sapiens. La globalizzazione, afferma l’autore, “potrebbe portare alla speciazione”: un’umanità divisa in caste biologiche.

L’autore conclude che, in effetti, ad essere messa in crisi è l’idea stessa di individuo sulla quale si basa l’intero apparato liberal-democratico: che ruolo ha, nel mondo dei big data, la volontà individuale? Il liberalismo, ma anche le grandi tradizioni religiose considerano l’individuo come un agente autonomo e razionale. Ciò che lo rende autonomo è “il dramma della scelta”: Essere o Non Essere? Scrive Harari: la democrazia si basa sul principio che gli elettori sanno ciò che è meglio per loro, il capitalismo sul concetto che è il cliente ad aver sempre ragione, l’educazione liberale sul concetto del “pensare con la propria testa”.

Domani potrebbero essere Google, Netflix, Amazon o Apple a decidere per noi. E all’uomo cosa rimane? Se non siamo più Amleto, cosa siamo? Senza scelta non c’è “io”, senza io non c’è “noi”, senza noi, non c’è democrazia. Cosa possiamo fare oggi per rispondere alle rivoluzioni tecnologica, ecologica e nucleare? Come possiamo fondare un’etica individuale che sia in grado di sostenere il

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STORIA

Flotta romana e cartaginese

di Matteo Brandi

Il 10 Marzo del 241 a.C. la flotta romana guidata da Gaio Lutazio Catulo sconfigge quella cartaginese nella battaglia navale delle Isole Egadi. Finisce la prima guerra punica, con un trionfo per Roma.

Vi cito questo evento storico per farvi ragionare sull’assurdità della frase “non si può fare”.

Perché?

Perché i Romani, prima dello scontro con Cartagine non avevano una flotta. Non conoscevano il mare. Non sapevano neppure come si costruisse una nave da guerra.

Dall’altra parte c’erano invece i migliori navigatori del Mediterraneo, figli dei Fenici, maestri del mare. I Cartaginesi conoscevano l’universo blu come le loro tasche: le correnti, i venti, le maree, le secche. Muovevano le loro triremi con arte, facendo loro compiere manovre difficilissime, danzando sull’acqua. Non avevano rivali, sulle onde.

Quando iniziarono le ostilità, i Romani trovarono un relitto di una trireme punica sulle coste laziali. Lo presero, lo smontarono e ne studiarono la struttura. Poi ricostruirono l’imbarcazione, con un processo di vera retroingegneria. Così impararono ad assemblare una nave da guerra, per la prima volta.

Il tempo però stringeva. La città rivale non sarebbe certo rimasta ad aspettare che i Romani finissero di costruire la loro neonata flotta. Dunque, i capitolini accorciarono i tempi, addestrando nel frattempo le squadre di rematori. Fecero sedere gli uomini uno di fronte all’altro, in file, sulle sponde del Tevere, e li addestrarono a fare il movimento della vogata al ritmo del tamburo. Senza remi… poiché questi non erano ancora stati costruiti!

In pochi mesi, con uno sforzo incredibile, Roma creò dal nulla una flotta, con tanto di rematori. Ed uscì per mare.

E fu un disastro. Intere flotte andarono perse, inghiottite dalle tempeste, spinte contro gli scogli, abbandonate alla furia di Nettuno. Perché ai comandanti capitolini mancava l’esperienza che invece le loro controparti puniche avevano affinato in secoli di navigazione.

Allora, si chiesero i Romani, come potremmo mai avere la meglio contro i migliori marinai in circolazione? Se li affrontassimo in uno scontro navale, le loro navi giocherebbero con le nostre come fa il gatto col topo, speronandole senza difficoltà. Come fare?

La risposta fu trovata… in un’altra domanda. In che cosa, si chiesero a Roma, noi siamo migliori dei Cartaginesi? Tutti conoscevano la risposta: nel combattimento corpo a corpo, sulla terra ferma.

I capitolini inventarono allora il “corvo”, un ponte mobile dotato di uncino, il quale fu montato sulle loro navi. Quando i Cartaginesi, sicuri di poter irridere l’inesperta flotta romana, si avvicinarono alle navi nemiche, furono accolti

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La Caporetto di Hemingway è una vittoria letteraria

Francesco Borgia- 5 marzo 2019

Chiudendo Addio alle armi di Ernest Hemingway (nell’edizione Oscar Mondadori con la preziosa traduzione di Fernanda Pivano) mi è tornata in mente la figura di Medusa. Impossibile guardare negli occhi il mitologico personaggio. E chi alzava lo sguardo su di lei lo faceva attraverso l’espediente di una superficie riflettente. La guerra, con i suoi orrori e la sua stupida e cieca violenza, non può essere guardata direttamente negli occhi.  Si può soccombere nel tentativo di raccontarla e di spiegarla. Si soccombe per pietà, si soccombe per debolezza o si soccombe sotto il peso di una retorica anestetizzante. Ecco: Hemingway ha guardato gli orrori della guerra, questa Medusa del Novecento, attraverso un espediente letterario non soltanto intelligente e onesto, ma anche appassionato ed efficace. Lo ha fatto prestandoci gli occhi di un barelliere. Anzi di un ufficiale americano “arruolato” dalla Croce Rossa in qualità di autista.  E’ lui, Frederic Henry, a raccontarci com’è la vita al fronte.  Rivediamo le Alpi orientali con i suoi occhi. Così come le colline venete e la Bassa fino a Milano. Non assistiamo mai agli scambi a fuoco dalle trincee. La guerra arriva più efficacemente con i suoi effetti deleteri: i divieti, i feriti, le privazioni, le strade dissestate e i ponti buttati giù. Anche l’unico sparo che va mortalmente a segno è “fuoco amico”, e arriva durante la ritirata seguita alla celeberrima e infausta disfatta di Caporetto. Si capisce, quindi, come mai in Italia questo libro sia stato pubblicato soltanto nel 1948. La descrizione degli effetti della guerra non piaceva al regime mussoliniano. Il libro, pubblicato in America già nel 1929 e da subito acclamato sia in Europa che negli States come un autentico capolavoro, rappresentava una visione poco rispettosa della vulgata ufficiale. Gli sconfitti, secondo Hemingway, sono tutti i soldati, tutti gli arruolati, sia italiani che austriaci. E, di loro, soltanto i contadini sopportano meglio il peso della guerra perché già umiliati dal destino visto che “sono stati battuti quando li hanno presi dalle loro campagne e li hanno messi nell’esercito”. “Per questo – suggerisce lo stesso tenente Henry – il contadino è saggio, perché è sconfitto fin dal principio”. E poi c’è la denuncia degli scarsi rifornimenti, delle avanguardie stremate più dalla fame che dal freddo e dal fuoco nemico. E la storia d’amore con l’infermiera inglese Catherine si intreccia alle vicissitudini belliche del barelliere. I due scappano dalla guerra, approdando a Stresa e da lì, con una fuga rocambolesca sulle acque del lago Maggiore in Svizzera. Rocambolesca e struggente a un tempo. Con una descrizione da maestro che ci fa immediatamente ricordare i migranti in cerca di salvezza sulle acque del mare. Catherine è anche incinta. Ma il finale è tutt’altro che edificante. Un dramma assoluto sigilla il racconto. Un finale che – come ebbe a scrivere un entusiasta Ford Maddox Ford – “resta impresso nella mente

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