IL MOSCONE 

Disegno dell'Autore

IL MOSCONE 

Di Guglielmo Corduas

Il cigolio della persiana riaccendeva il giorno e con sé una mente intrisa d’idee germogliate (sbocciate) nel cuscino. Scappavano via sogni d’amore, di vita e di futuro e nel dissiparsi lasciavano il posto al pensiero più importante (prepotente),il compito di biologia. La fretta spalancò il sonno, non poteva arrivare in ritardo, non oggi. Ad aspettarlo c’era la cartella da riempire, il letto da rifare, i vestiti da indossare e ci riusciva bene, a vestirsi, a sistemare la stanza, mentre con le dita ripuliva la faccia dai sogni ancora incrostati sotto gli occhi. In equilibrio su quel mare di faccende a un tratto si fermò, teso, ricordando un dovere ancora più importante. (impellente)

Nell’ingresso, dietro l’unico (grosso) il comò è grosso per sua natura) comò che lo arredava, pendeva impolverata una ragnatela. Al centro un piccolo ragno nero che da mesi se ne stava lì, tra muro e legno, in attesa di cibo. Non fosse stato per il suo giovane custode umano, sarebbe morto di fame come tutti i ragni randagi della casa, un altro scheletro di vetro accartocciato. Invece, quel ragnetto, ogni mattina era viziato da colazioni sempre diverse: mosche, formiche, insetti d’ogni sorta imprigionati dalle finestre. Nonostante il compito in classe fosse alla prima ora, anche oggi il rito andava rispettato e comunque, di tutte le faccende a cui era costretto, questa era la più amata.

Sul balcone, intorno alla ringhiera, si avvitava una formica dalla testa rossa. La luce opaca del sole si rifletteva sul suo corpicino lucido che presto fu preda di due morbide dita, la testa e la mascella bloccati leggermente tra il pollice e l’indice – un’altra cattura ben riuscita – pensò. Nell’ingresso, ben nascoste dietro al mobile, quelle dita lasciarono cadere la formica nella ragnatela e al vibrare dei filamenti il ragno si svegliò. Puntava attento lo spuntino del giorno che invece, tranquillo, camminava deciso alla ricerca di un’uscita. Il temibile predatore fece qualche salto, marcia indietro, poi uno slancio e le fu era vicinissimo. Si fermò, sembrava intimidito da quel pasto – strano – pensò. La formica continuò ad arrampicarsi fino all’ultimo filamento della tela e lanciandosi a terra si salvò. Fu riacciuffata subito, inerme di fronte a quel destino troppo potente da sconfiggere. Stavolta però le dita non proseguirono, ma si arrestarono colte da un dubbio. Forse non era giusto insistere, in fondo quella creatura si era meritata il diritto alla vita, aveva sconfitto il mostro, era un piccolo eroe! Convinte da quel nobile pensiero, le dita la riportarono sulla ringhiera dove era stata catturata. Ignara d’essere stata parte di un processo morale che non le apparteneva, la formica tornò libera con il suo rinnovato destino. Occhi rapidi guidavano ora la stessa delicata presa su una mosca quasi morta che si contorceva come una trottola per terra. Un’altra presa impeccabile, era un professionista. Stavolta il ragno non esitò e tutti gli eleganti passi della sua splendida manovra mortale si manifestarono precisi davanti al suo custode. Era tremendamente interessante, vedere quella mosca sparire senza scampo in un vestito di seta. Com’era macabra, vivace e fantasiosa l’arte della sopravvivenza, com’era vera, onesta e fonte naturale di ogni significato.

Una porta si aprì sbattendo sul muro e il rimbombo squarciò l’atmosfera segreta di quel momento. Trafiggeva il corridoio una voce alta, seguita dalla risposta metallica di un cellulare. Passi così pesanti da far tremare il custode, il mobile e la ragnatela. Spaventato il ragno scappò nel suo buco di filo, lasciando la sua opera in sospeso. Rannicchiato nella polvere, con il respiro sigillato, era indeciso se palesarsi nel mondo o rimanere nascosto lì per tutta la vita. Quanti guai gli aveva provocato quella stramba curiosità. Per anni aveva fatto violenti esperimenti sulla morte. Aveva bruciato vive lucertole lucertole vive, affogato vespe, perfino di un pulcino era stato carnefice e per quello si era tirato addosso tante adulte sentenze: “è evidente che il ragazzo ha dei problemi”, parole che non avrebbe dimenticato per il resto della vita. Con il tempo però, era diventato più bravo a non farsi scoprire, valutando comunque l’ipotesi d’essere malato, ma poco importava, rinunciare a quella curiosità non era possibile. E comunque, ancora una volta, era stato scoperto. Maledizione – Esci da lì sotto! – Fu la prima frase che sentì quel giorno.

Prese con cura una tazza dalla credenza, l’ultima, la sua. Seduto, braccia e mani gli danzavano tutt’intorno, gesti pieni di confidenza e autorità. Sotto quella pelle al sapor di candeggina e quelle mani rovinate dallo Svelto, c’era sua madre, un’anima forte, la dolcezza e l’eleganza di un passato di sogni soffocati da altre scelte. Dov’era quel mondo dimenticato? Sorrisi, danze e canti ai quali lui non aveva mai assistito, spenti dal tempo e ormai troppo lontani. Tutto questo dietro quella meccanica casalinga, dietro lo scorrere del lavandino, dietro il crepitio dei cereali, dietro un accendino dimenticato sul tavolo. Lui amava il fuoco, tanto che qualche anno prima aveva quasi appiccato un incendio nel giardino dietro casa e per questo furono convocati vari giudici a casa sua. Da allora accendini e fiammiferi gli furono vietati. Finì rapidamente di fare colazione e si alzò per andare in bagno. Mentre si lavava i denti, gli cresceva dentro un timore da ladro, solo una tasca nascondeva al mondo il suo reato. A spaccare ogni preoccupazione fu il frastuono della porta d’ingresso, suo fratello era appena uscito. Tornò di fretta in camera, caricò la cartella e uscì di corsa. Appena chiuse la porta dietro di sé, sentì lo scatto del portone al piano terra, suo fratello usciva dal palazzo. Cominciò a saltare i gradini due alla volta, tanti piani e il ritmo regolare di un atleta. I libri nello zaino sbattevano violenti sul coccige, ma sopportava bene il dolore e piano dopo piano, senza cambiare andatura, si agganciava alla balaustra per sterzare, finché non fu nell’atrio e già fuori, mentre l’eco della sua corsa rimbalzava ancora nel palazzo. Il sole gli si piantò in faccia, c’era già luce dappertutto, chiuse gli occhi e quando li riaprì suo fratello non c’era più, inghiottito da una macchina piena di fumo. Con l’asma in gola mollò in terra la cartella e una raffica di vento s’infilò sotto la maglietta, baciandogli fresca la schiena umida di sudore. Camminò verso la fermata e si sedette sotto la pensilina, era solo. Il freddo metallo della panchina si aggrappava alle sue cosce lasciate mezze nude dai pantaloni corti. Pensò a come quella stessa panchina d’acciaio era sgradevole d’inverno al contrario dell’estate, dove fungeva da piacevole rinfresco. Passavano i minuti e la noia dell’attesa, per quanto insopportabile, non batteva mai il senso di annientamento per l’ennesimo giorno di scuola. C’era un’ancestrale tristezza incollata a quelle pareti alte e sporche dal colore indefinito, a quei banchi imbrattati, al pavimento scheggiato, ad una lavagna più fatale del boia e a quelle finestre strette e orizzontali, messe talmente in alto da non poter essere mai raggiunte, come i buchi che si fanno per far passare l’aria nella scatola dove si alloggia mette un animaletto ferito. Di tutti i dettagli di questo suo deprimente pensiero furono appunto le bestie ferite a prevalere. Gli animali erano un luogo sicuro, nutrivano in lui una curiosità incandescente, pura, libera. Il mondo degli insetti, dei rettili, i pesci e le meduse, le tecniche di cattura, la foresta, la caccia, i funghi e il sapore del fumo, immaginava tutto davanti agli occhi, dove alloggiava se stesso in ogni realtà purché dentro ci fosse un albero, un ruscello, uno scoglio. Lo sguardo perso dietro il tempo scorreva all’ombra della fermata.

Il vento impugnava un filo d’acciaio che pendeva da un palo della luce e frustando il metallo cavo, invase con un suono distinto tutta la sua attenzione. Era lo stesso suono delle sartie delle barche a vela, nei piccoli porti, dove fischiano i gabbiani. Il vento, il sale, le onde, infiniti colori e sensazioni giganti. Il mare, lo spettacolo più bello di tutti. Poi di nuovo solo un cavo appeso e quel sogno che tornava solo rumore.

Sui fili camminano i topi, funamboli notturni e fedeli solo alle proprie fameliche missioni – Pensò al ruolo di un topo, la sua vita così essenziale eppure tanto indaffarata, mentre lui, ora, per esempio, si affogava nei pensieri aspettando il bus. D’un colpo gli tornò in mente la formica dalla testa rossa. Con più freddezza ripercorse i suoi ragionamenti e capì che quella razza dalla testa rossa, velenosa, non doveva essere un avversario facile per un ragno così piccolo. La formica non era stata fortunata, né eroica, era solo ben equipaggiata e il ragno, conoscendo bene il rischio, si era tirato indietro. Non c’era coraggio, onore o poesia, ma solo armi pari e così, la formica non fu più leggenda e del ragno pensò: “che fifone”.

L’umidità della collina di Posillipo, espirata dalla terra, incollava all’aria una leggera foschia. Dall’orizzonte sbiadito della strada, iniziarono a spuntare delle sagome scure, tese, cariche d’impegni, proprio come i topi e con loro il rumore del brecciame pestato dalle crepe dei marciapiedi. Attenti a non inciampare, le sagome raggiungevano disilluse la fermata, mantenendosi a distanza l’una dall’altra. Passato il tempo necessario al sole per seccare ogni nebbia, quelle sagome, fantasmi del mattino, erano diventate variopinte, definite, piene di carattere e di storie. Sembravano anche loro rassegnate, come il ragazzino che deve andare a scuola, con lo sguardo in fuga, ma maledettamente consapevole degli interminabili ritardi pubblici. Alcuni avevano il viso rivolto verso l’alto, tentavano di captare il più possibile le rinfrescanti raffiche che ogni tanto sfilavano tra i palazzi. A volte si rilassavano tanto da lasciare che la bocca gli cadesse e quando se ne accorgevano, si ricomponevano rapidi, improvvisando un’impacciata compostezza. Iniziò a ragionare su come nasce il bello. – Come fanno tante cose brutte a diventare belle tutte insieme? – La vita gli sembrò più misteriosa.

Abitava lontano dalla scuola, in una zona considerata ancora vivibile. Era fortunato. La sua era l’ultima casa al confine tra Posillipo e Bagnoli, in alto, sulla lunga collina che divide i due golfi. Quella notte era piovuto e l’aria aveva un odore che conosceva bene, pioggia e terra, il dono di piccoli e solitari stracci di boscaglia imprigionata; sopraffatta e inascoltata natura, chi sa quanto vecchia, sbuffava i timidi umori di una antica foresta. La sua mente volava tra un mondo e l’altro, finché una stridula clacsonata non spense tutto d’acchito. Era suo padre, in sella alla Vespa. Iniziò a parlargli ancora prima di spegnere il motore. Lui non rispondeva, non aveva nessuna intenzione di discutere con quel volto incastonato in un enorme casco arancione. Mentre tastava con la punta del piede l’asfalto, in cerca di una pietrina instabile o di un pezzetto di vetro, gli fu detto di alzare la testa e così fece, facendo finta di accettare le conseguenze di una serie di problemi che non conosceva. Si scusò e restituì l’accendino che aveva rubato in cucina. La Vespa partì, lasciando dietro una fumosa scia di olio bruciato.

Accostati, finalmente vicini, una serie di pezzetti di vetro che cercava di muovere con il piede per creare combinazioni diverse, finché non giunse un fragore metallico, forte, come mille aste di ferro sbattute in un container, a scuotere l’intera collina. Era il risveglio del 140: lo sbuffo dei compressori, il fischio dei freni, le porte a fisarmonica e il suo posto preferito, quello vicino l’obliteratrice. La scelta di quel sedile univa grazia e astuzia. Non solo era il posto con la miglior visuale e un certo distacco dal resto dei passeggeri, ma, in caso fossero saliti i controllori, era anche utile per un’immediata convalidazione del biglietto che da settimane aveva pronto in tasca. Ancora una volta gli sarebbero scorsi davanti immagini e colori al ritmo irregolare di quel carrozzone sconquassato: (due punti) pregustava quel momento. All’improvviso ripensò al compito di biologia e iniziò a cercare furiosamente il suo quaderno degli appunti, lo aveva lasciato a casa ed era troppo tardi per tornare a prenderlo, il prossimo autobus sarebbe passato dopo almeno tre quarti d’ora. Si rassegnò all’idea di non prendere un buon voto, la parte cruciale della sua preparazione pre-compito la svolgeva sempre nel pullman – Amen – pensò. Durante il viaggio forse avrebbe avuto tempo di ripassare almeno qualche schema del libro. Le porte si aprirono, si sedette e come sempre a inizio corsa, era quasi solo. La vista dal finestrino era forse tra le più belle al mondo. A destra il mare azzurro, le soffitte dei pini, i pescatori, le barche rovesciate, i muretti e il tufo disgregato; a sinistra merci, mercanti, serrande, spazzatura, portoni, frutta e verdura sotto le ville, i palazzi antichi, i balconi fioriti, i campanili, le scalette, l’intonaco scrostato, i vecchi signori dalla chioma d’argento, le sedie in strada, le finestre aperte con dentro le tende, gli angoli dei letti, le cucine, l’odore di soffritto e le urla della gente.

All’altezza di Mergellina, per la prima volta dall’inizio del suo viaggio, staccò la fronte dal vetro. Il pullman si era riempito di persone appese alle sbarre di sostegno, sembravano lancette rotte, dondolanti, con i piedi fermi a terra. Tra quell’umanità inscatolata c’era una grossa signora ricoperta di stoffe a fiori che sudava sotto il naso e ostentava sofferenza. Assomigliava ad un Carlino, quei cani storti e arrotolati che ansimano continuamente perché del tutto inefficaci nella forma. Provava pena per quelle bestie, si chiedeva come l’uomo potesse modellare talmente l’evoluzione degli animali creando delle evidenti mostruosità, creature disfunzionali, mortificate nella loro biomeccanica da impossibili velleità estetiche. Poteva capire un pastore tedesco, un setter irlandese, ma un carlino? – Un carlino non ha senso. La risposta arrivò osservando quella signora. Era schiacciata fra tre ragazzi alti, magri, con il volto abbronzato e le unghie lunghe. Probabilmente aspettavano una distrazione, una frenata brusca per far lavorare le mani agili o almeno questo era quello che sembrava pensare la signora.  Agitava a pochi centimetri dal naso un ventaglio dai mille colori, mentre grosse gocce di sudore scivolavano implacabili sulla sua pelle impermeabile. La temperatura, lo spazio stretto, l’aria viziata, quella signora stava letteralmente collassando e rendeva evidente la sua disperazione. Iniziò con dei respiri profondi che poi ufficializzò in chiari sbuffi. Quei versi diventarono presto parole di disappunto, ma la mancanza di sostegno la costrinse ad assumere una strategia più pragmatica. Si spostò, passando accanto ad un vecchio signore con l’inimitabile volto di chi aveva avuto a che fare con il mare. Sbiadito dal sale delle sue fatiche, si presentava distinto, perfino elegante e come un felino evitò che i fianchi foderati della signora lo urtassero. In quel rapido movimento i suoi capelli d’avorio rifletterono il sole e i suoi occhi chiari, avvolti da una pelle di carta bruciata, si trasformarono in un’epica storia marinaresca mai raccontata. Dopo quel sorpasso, la signora si trovava quasi al termine della sua impresa, tra la mano paffuta e l’unico finestrino del bus ancora chiuso c’era solo una ragazza, seduta e con lo sguardo fisso sul cellulare, totalmente indifferente al dramma umano che le si svolgeva accanto. Dopo qualche secondo, necessario ad impostare la traiettoria, la signora si lanciò in avanti, per lei aprire quel finestrino era un contributo essenziale all’abbassamento della temperatura, fenomeno che non si era manifestato nemmeno quando il conducente aveva deciso di lasciare l’intera porta del retro aperta. La sua pancia fiorata sommerse quasi completamente la ragazza che continuava a far saltellare i pollici sui tasti del telefono come se niente fosse. La signora si agitava e fu presto chiaro che non avrebbe mai raggiunto il suo scopo. Silenziosamente attento a quella commozione, il capitano di vascello dai capelli luccicanti allungò un braccio che sembrava decisamente troppo corto per lo scopo e fece scattare il blocco del finestrino al primo tentativo. Ci furono ringraziamenti ruffiani e qualche battuta, l’opulenta dama di fiori sembrava attratta dal suo aiutante pelagico e chi non lo sarebbe stato. Soddisfatta per il compiuto intervento si accomodò su un posto libero che qualcuno le aveva ceduto. Il Capitano scese alla fermata successiva, sparendo tra il vento e il tufo e lasciando tutti al proprio destino. Rimanevano solo una ventina di persone di almeno quattro diverse razze e altrettante infinite differenze. Era estate piena, l’odore, il rumore e il comportamento della gente, tutti i versi del grande caldo.

La fila di platani di via Caracciolo stava iniziando. La fermata vicino alla sua scuola era vicina. Raffiche violente si schiantavano sulla fiancata dell’autobus e proprio da quel finestrino aperto da poco, un grosso insetto nero fu scaraventato in quello che sarebbe stato il suo peggiore incubo. Fu la signora ad inaugurare le urla e chi sa come mai lui se l’aspettava. Sbraitava inarrestabile contro quello che secondo lei era un calabrone – “Mio Dio! Fatelo uscire!”. I tre ragazzi alti che finora avevano solo bisbigliato, cominciarono a inveire in una lingua strana, liscia e ovattata che disegnava sul volto di ciascuno la stessa identica espressione. “La paura rende tutti uguali” – pensò. Dietro di loro un signore a forma di barattolo trasformava un giornale in un’arma di ordinanza. La ragazza con il cellulare sembrava aver ritrovato un’energia lasciata chi sa dove e nascondendo il viso nelle mani, lanciava urla costrette miste a piccoli e acuti principi di pianto. Come se non avesse fatto altro nella vita, il signor barattolo aveva iniziato a dare colpi secchi in punti che decideva sapientemente, fallendo ogni volta. La frustrazione lo spinse ad un ultimo atletico attacco, decisamente troppo azzardato per quel fisico. Cadde sui gradini che precedono l’uscita, sbattendo contro la porta che per poco non si apriva rischiando la tragedia. Vedere la sconfitta brutale di quel goffo gladiatore creò lo sconforto generale, tutti si arresero cominciando a muoversi in branco e come si muove l’acqua in una bottiglia semivuota, il bus si svuotava in fondo o davanti a seconda di dove il confuso insetto svolazzava. Tutti i finestrini erano aperti, inghiottendo correnti che gli impedivano di volare via facilmente. Le urla crescevano in quell’onda umana che sbatteva di qua e di là. Rimasto seduto, assisteva divertito allo spettacolo. Aveva subito riconosciuto l’insetto, il corpo nero e le ali violacee la rendevano inconfondibile, era un’ape legnaiola che tutti chiamano “moscone”. Nonostante la differenza abissale di colori rispetto a vespe, api e calabroni, era considerata una bestia pericolosissima. Quell’ingiusta condannata aveva solo il torto di essere nera e lui lo sapeva bene, era un animale calmo, innocuo, tante volte le aveva catturate a mani nude. Tentò di chiudere qualche finestrino sopra di lui in modo da canalizzare il vento e aiutare l’ape ad uscire. Non funzionò. Il baccano era diventato così forte che il conducente decise di accostare. In quel momento, con il rallentare della velocità, la forza delle raffiche si placò e il calabrone/moscone/in-realtà-ape-legnaiola si posò sul poggia schiena del sedile di fronte al suo. Il mostro nero era nel suo miglior momento di vulnerabilità. Fu un attimo. Nemmeno si spiegò come fosse possibile che il suo istinto lo avesse portato a intervenire in modo così rivoluzionario, era come se il suo corpo avesse agito automaticamente, posseduto da un antico e preciso riflesso. Il movimento era stato perfetto, l’ape ora era nella sua mano destra, chiusa delicatamente tra le morbide dita. Non si agitava e quando sbatteva le ali era come un leggero, piacevole solletico. Il conducente interruppe quel momento di stupore generale chiedendo ad alta voce e con tono quasi militare dove fosse il calabrone. La grassa signora, con la voce spezzata, indicò sbraitando il sedile vicino l’obliteratrice. Lui percepì un brivido dietro la schiena, si sentì di nuovo un ladro, peggio, un criminale pluriricercato. Rimase immobile, con tutti gli occhi fissi su di lui. Nel frattempo una fila di macchine si era accumulata in coda al pullman, martellandolo con clacsonate, urla e parolacce. I tre ragazzi alti gli intimavano a gesti di schiacciare l’insetto più forte che poteva, la signora, invece, parlava agitatissima con il conducente. Fu strattonato e tirato via dal sedile, giusto il tempo di prendere lo zaino e si trovò davanti alla porta aperta. – Buttalo via! – Non mosse un muscolo. Nel panico generale fu spinto fuori e lasciato in strada, per poco non cadeva. Dai finestrini sporchi di pennarello i volti sfocati di quei passeggeri si allontanavano traumatizzati. Era stordito, quasi sotto shock, poi si accorse che qualcosa non andava, la sua mano stretta e umida. Quando l’aprì vide che nella foga dell’aggressione, l’ape era rimasta schiacciata da una contrazione involontaria. Ancora si muoveva, l’ala destra ogni tanto vibrava e la testa sembrava voler spingere verso l’alto un corpo per metà paralizzato. Si arrabbiò con se stesso per non essere riuscito a controllare la sua mano. Mancava circa un chilometro alla scuola e iniziò a incamminarsi alla ricerca di un albero, un arbusto o un qualunque sputo di natura dove lasciare l’insetto, ma ovunque guardasse c’era solo cemento Non sapeva che fare. Dopo quello che era successo, lasciarlo morire per strada, su una centralina dell’Enel o nel buco di un muro gli sembrò inaccettabile. Guardò l’orologio, era tardi, iniziò a correre con in gola la paura di rimanere chiuso fuori la scuola. Trafelato si presentò per ultimo all’entrata, accompagnato dalla ramanzina del bidello. Mentre saliva le scale, iniziò a fare mente locale su tutte le possibili domande del compito di biologia. Raggiunto il quarto piano, percorse il lungo corridoio e aprì la porta della sua classe. Tutti erano già seduti, sulla lavagna erano disegnati gli stadi evolutivi di una locusta, il compito era già cominciato.

–   “Calenda? Ti sembra questa l’ora di arrivare?

–   “Mi scusi professoressa.”

–   “Siediti e non disturbare i tuoi compagni.”

L’unico posto libero era accanto a una ragazza, Giorgia. Italiana di origine venezuelana, aveva un viso esotico e parlava di rado. Sistematosi sulla sedia si girò per prendere i quaderni (nello) dallo zaino e fu lì che si accorse del suo pugno ancora chiuso. Quando lo aprì, l’ape si era del tutto ristabilizzata. La sua compagna di banco sentì una scossa attraversarle tutto il corpo, un semplice accenno di ronzio e il suo portamento imperturbabile si sfaldò in uno scomposto terrore.

  • Professoressa! Calenda ha un insetto in mano!
  • Cosa?!
  • Un insetto!
  • Calenda! Che cos’hai in mano?!

Giorgia iniziò a scalciare e per un attimo lui si chiese se non fosse imparentata con la signora del bus.

  • Ha un insetto! Un insetto enorme!

Alcuni si alzarono, avvicinandosi incuriositi a quel pugno chiuso. Lui sentiva l’ape piena di vita. Gli occhi erano tutti puntati sulla sua mano. Temendo di ferirla ancora non strinse del tutto le dita e tra gli spazi era evidente che una disgustosa e oscura creatura si stava preparando all’attacco.

  • È un moscone!
  • Oddio buttalo! Buttalo via!

La classe esplose. Tutti si lasciarono andare ad un’anarchia finalmente giustificata. I ragazzi iniziarono a urlare scomposti, alcuni battevano le sedie a terra, altri facevano il verso delle scimmie, mentre le ragazze erano tutte schiacciate contro il muro, lamentandosi e proteggendosi a vicenda con i cappotti. La professoressa ancora non capiva bene cosa stesse accadendo:

  • Ragazzi calma! Calenda, vieni subito qua.

Muovendosi lentamente tra i banchi e le grida, l’incriminato raggiunse la cattedra.

  • Cos’ hai in mano?

Ebbe un sussulto, di solito non era bravo a spiegarsi, a scuola soprattutto, si limitava a dire “si” o “no”, ma di colpo tutta la storia venne fuori, per filo e per segno. Raccontò ogni cosa, il bus, la signora, il conducente. Ci fu un momento di silenzio finché la professoressa, incapace di mettere insieme un giudizio appropriato, all’ennesimo ronzio fu sopraffatta dalla paura.

–   Buttalo via!

Lui si voltò verso le finestre, erano a bocca di lupo e le aperture poste troppo in alto per far volare via l’ape. Rimase in silenzio.

  • Ora vieni con me. Voi rimanete in classe e continuate il compito. In silenzio!

Mantenendosi a distanza di sicurezza la professoressa lo portava verso i bagni. Dietro, la classe li seguiva in un misto di euforia e paura.

  • Vi avevo detto di rimanere in classe! Maledizione Calenda, lo vedi che hai combinato?

Tra quei volti c’era anche il suo migliore amico, in disparte, in silenzio. Quando arrivarono davanti ai bagni, fu portato fino al gabinetto. Si sentì disorientato, quasi perdeva l’equilibrio.

  • Avanti buttalo nel gabinetto! Che stai aspettando?!

Il corridoio ruggiva approvazione e attratti dal baccano, sempre più ragazzi venivano ad assistere.

–   Calenda, apri la mano e butta nel gabinetto! Avanti!

Sentì un bruciore salirgli dai piedi fino alle tempie. Il cuore gli corse in petto. Era incapace di parlare, un impasto di rumori gli rimbombava nella testa. La maestra insisteva, lo scuoteva, aizzata da un coro sempre più alto di urla e battute. Lui allentò la presa, non per scelta, era solo esausto. L’ape cadde e subito qualcuno spinse lo sciacquone. Mentre l’acqua girava, l’insetto si dibatteva, lottava e lui sperò che per un attimo potesse fuggire da quel vortice mortale, finché un ultimo imbattibile spruzzo chiuse definitivamente la partita. Ora era tutto finito e fuori, ad accoglierlo, c’era una folla di appassionati. Arrivarono anche altri professori e in pochi minuti, l’ordine fu ristabilito e tutti furono di nuovo nelle loro classi.

Ricominciava il compito, ma lui si sentiva debole nelle ossa e non riusciva a scrivere nulla. Si girò verso la sua compagna, Giorgia, ora così calma e di nuovo ermetica. Tutto era tornato normale. Prese una penna dall’astuccio. C’era un ragazzo alla sua destra, un metro più lontano che si accostava imitando a bassa voce il ronzio dell’ape, presto tutti lo seguirono. La maestra scriveva al cellulare e la classe continuava indisturbata la sua provocazione. Lui strinse la penna tra le dita, era ben appuntita e il suo nemico molto vicino. Decise di lasciar perdere e concentrarsi sul foglio di fronte a sé. Il silenzio è la miglior difesa.

Lesse la prima domanda:

  • Le locuste sono insetti pericolosi? In che modo minacciano gli esseri umani?

Guglielmo Corduas – Vivo a Berlino da otto anni e sono stato content producer, grafico e musicista. Come “Il moscone“, ho altri racconti brevi che ho scritto negli anni, oltre ad articoli su cinema e musica (quest’ultimo il campo in cui ho più esperienza).

 

TEMI TRATTATI

Il moscone, Guglielmo Corduas, Racconto, Ragno, Lucertole, lucertole vive, Topi, Topi funamboli, Posillipo, Bagnoli,
merci, mercanti, serrande, spazzatura, portoni, frutta e verdura sotto le ville, i palazzi antichi, i balconi fioriti,
campanili, scalette, intonaco scrostato, vecchi signori dalla chioma d’argento, sedie in strada, finestre aperte, tende,
angoli dei letti, cucine, odore di soffritto, le urla della gente