RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 7 MAGGIO 2021

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RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI

7 MAGGIO 2021

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

La pace e la serenità, cioè il possesso del presente,

non sono stati d’animo naturali o gratuiti,

ma conquiste eroiche, esperienze abissali.

ANDREA EMO, Aforismi per vivere, Mimesis, 2007, pag. 75

 

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SOMMARIO

The Story of Regeni
Cosa c’è dietro l’ennesima sparatoria contro pescherecci italiani in Libia
BEN ARRIVATA LIBERTA’ (CONDIZIONALE)
IL NUOVO ORDINE DIGITALE
Arriva il Green Pass. Ma il coprifuoco resta.
IL MINISTERO SPERANZA NON SA NULLA!
Una potente esplosione scuote una fabbrica di missili israeliana
I generali degli Stati Uniti chiedono all’intelligence di smettere di mentire
Ancora irrisolto il grande crimine che innescò il genocidio ruandese del 1994
GIU’ LE MANI DAI BAMBINI!
«IL DEBITO, DISPOSITIVO DI POTERE»
“CONNESSIONI” di Francesca Sifola 
Carlo Nordio terremota la magistratura: “Palamara?
La frammentazione degli Stati Europei è una necessità storica
I generali avvertono Macron: “Vicini alla guerra civile”
La Murder Inc: la battaglia di Kennedy col Leviatano

 

 

 

 

 

IN EVIDENZA

The Story of Regeni

 

VIDEO QUI: https://youtu.be/OtAwTigXxEc

 

FONTE: http://aurorasito.altervista.org/

 

 

Cosa c’è dietro l’ennesima sparatoria contro pescherecci italiani in Libia

Due episodi ravvicinati in grado di far ritornare repentinamente con la mente a quanto accaduto tra settembre e dicembre, quando cioè gli equipaggi di due pescherecci italiani sono stati sequestrati dalle milizie di Khalifa Haftar in Libia. Tra il 2 e il 3 maggio, sempre nella zona controllata dal generale della Cirenaica, altre motonavi con a bordo nostri pescatori hanno rischiato di essere abbordate. Infine il 6 maggio ad essere nel mirino dei libici è stato il peschereccio Aliseo. I due episodi però hanno presentato distinte peculiarità. A partire dai luoghi in cui si sono sviluppati gli eventi.

Questa volta a sparare è stata Misurata

L’incidente o, per meglio dire, il tentativo di sequestro è avvenuto a circa 30 miglia dalla costa di Misurata. Si è quindi in acque internazionali. Ma per i libici, i quali hanno dato sempre un’interpretazione molto larga del trattato di Montego Bay e del concetto di “Baia Storica”, quelle sono acque soggette alla propria sovranità. C’è un dettaglio però da non trascurare e che è stato sottolineato, poche ore dopo gli spari, dal sindaco di Mazara del Vallo, Salvatore Quinci: “È una novità che episodi del genere accadano al largo di Misurata”. Non era mai successo che un peschereccio venisse coinvolto in situazioni simili di fronte la costa della parte ovest della Libia. Il dettaglio non è solo geografico, ma anche politico. Se in Cirenaica è infatti presente Haftar, con le sue forze non riconosciute dalla comunità internazionale, a Misurata ad operare è la Guardia Costiera facente capo al nuovo governo insediatosi a Tripoli nello scorso mese di marzo. Esecutivo riconosciuto dall’Italia e con il quale Roma nelle ultime settimane ha avviato intensi colloqui.

Lo dimostra la visita del presidente del consiglio Mario Draghi nella capitale libica del 6 aprile scorso dove, tra le altre cose, ha evidenziato il ruolo importante della marina tripolina nel contrasto all’immigrazione. Dunque a sparare questa volta sono state forze vicine all’Italia. Anzi, i colpi sono partiti, come dimostrato dalle foto pubblicate nelle scorse ore su Twitter, da una motovedetta italiana girata ai libici nel novembre 2018. Si tratta della “Ubari“, contrassegnata dal numero 660 scritto nelle fiancate. Il mezzo è stato fabbricato nel nostro Paese ed era in uso alla nostra Guardia di Finanza prima di prendere la via verso la sponda opposta del Mediterraneo. L’atto ostile contro il peschereccio di Mazara del Vallo dunque è paragonabile alla stregua di un vero e proprio “fuoco amico”.

Prove di forza tra est ed ovest

Perché quindi da Misurata (o da Tripoli) è partito l’ordine di sparare contro i pescatori italiani? Una domanda la cui risposta potrebbe celare non pochi segnali negativi per Roma. Sulla Guardia Costiera libica infatti si è addensata già da mesi l’ombra della Turchia. Ankara dal novembre 2019 è principale partner militare della Libia, almeno di quella occidentale. Sulla motovedetta Ubari nello scorso ottobre sono saliti anche ufficiali turchi, i quali hanno addestrato i “colleghi” libici. Segno dunque di come non è remota l’ipotesi di un ordine di sparare al peschereccio italiano impartito sì dalla Libia, ma con possibili collegamenti con Ankara. Anche perché da settimane Italia e Turchia sono ai ferri corti dopo che Mario Draghi ha definito Erdogan un dittatore e quest’ultimo gli ha risposto dandogli del maleducato.

C’è poi anche una questione interna alla Libia. L’impressione è che tra est ed ovest sia partita una vera e propria gara a chi spara per primo agli italiani. Se Haftar ha dimostrato, tra settembre e dicembre 2020, di poter fare la voce grossa e trattenere pescatori siciliani a Bengasi, in Tripolitania non vogliono essere da meno. E dopo l’ultimo episodio del 3 maggio, in cui motovedette delle forze del generale hanno provato a sequestrare altri pescherecci italiani, Misurata tre giorni dopo ha risposto. L’Aliseo a breve tornerà a Mazara del Vallo, ma nelle acque del Mediterraneo la situazione è tutt’altro che calma.

FONTE: https://it.insideover.com/guerra/cosa-c-e-dietro-l-ennesima-sparatoria-contro-pescherecci-italiani-in-libia.html

 

 

 

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

BEN ARRIVATA LIBERTA’ (CONDIZIONALE)

 

Dal 26 aprile abbiamo ottenuto una libertà che per gentile concessione ci ha alleggeriti e reso più propositivi…Per grazia ricevuta possiamo ora condividere con amici, con congiunti e familiari un momento di ristorazione serale oppure possiamo assaporare un caffè seduti al tavolino di un bar all’aperto. Piccole libertà che ci riportano lontano nel tempo e che sembravano ormai estinte e non più riesumabili. Certo che la libertà è però ben altra cosa e questa è solo una copia sbiadita di quella reale che riguarda sino inizi del 2020. Il Covid è realmente un virus e le limitazioni sono ovviamente state prese per far sì che non ci fosse un contagio maggiore tra gli individui ma se ben ci guardiamo intorno in particolare per chi vive in una città grande come Roma, le limitazioni e le chiusure sono state totali per alcuni e assolutamente assenti per altri. Se il virus è così pericoloso e minaccioso come mai si permette ogni giorno a migliaia di persone di viaggiare su bus e metropolitane stracolme senza distanziamento e senza una reale sanificazione? Perché i grandi supermercati hanno sempre potuto lavorare indisturbati mentre piccoli negozi e attività locali sono stati costretti alla chiusura? Piccoli interrogativi che fanno riflettere su questa grande pandemia… C’è chi parla già da tempo di una terza ondata e chi addirittura di una quarta. I virus sono sempre esistiti come del resto altre gravi patologie facilmente trasmissibili ma a tutto è stato trovato un rimedio o una cura o delle misure di contenimento tali da permettere agli individui di condurre una vita “normale”. Con il Covid–19 c’è stato il blocco totale delle vite altrui, dell’economia, dell’esistenza, della progettualità. Ma chi si ferma è perduto. Mai scoraggiarsi, mai arenarsi perché le difficoltà sono prove della vita ed in quanto tali ci aiutano a fortificarci e sono frutto d’insegnamento. Delusioni, fatica, tristezza, intoppi di percorso ci devono far riflettere ed aiutarci per fare introspezione. Se qualcosa accade non è per un caso, doveva accadere e a volte può essere un opportunità per avere qualcosa di migliore dal domani. Dal Covid e dalla pandemia tanto si è perso ma tanto è stato appreso… Non vi è nulla di certo e come enuncia il grande sociologo Zygmunt Bauman la nostra è una vita e una società liquida dove l’esperienza individuale e le relazioni sociali sono segnate da strutture che  si decompongono e ricompongono rapidamente in modo volatile, vacillante ed incerto prima ancora che i nostri modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. Viviamo costantemente sulle sabbie mobili con un punto di partenza preciso ma dove il punto di arrivo è sempre più incerto e fluido. Solo chi dotato di tanta resilienza si salveràperché nulla è facile e di sicuro non vi è nemmeno la nostra ombra.

FONTE: https_www.rivoluzione-liberale.it/?url=https%3A%2F%2Fwww.rivoluzione-liberale.it%2F41168%2Feffetti-collaterali%2Fben-arrivata-liberta-condizionale.html

 

IL NUOVO ORDINE DIGITALE

25 03 2021

Phil osserva la sagoma solitaria sul molo, la sua figura piccolissima e immobile davanti ai volumi di metallo che giganteggiano tutt’attorno, regolati dal nuovo ordine digitale. Francis Fukuyama disse che la Storia era finita e che “l’ultimo uomo” sarebbe stato il prototipo del liberale. Si sbagliava: forse il vero “ultimo uomo” non lo conosciamo ancora, ma sappiamo bene che il suo ha fallito.

pppp

Per il professor Philip Wade, personaggio de I diavoli (di nuovo in libreria nella nuova edizione Rizzoli in occasione dell’uscita dell’omonima serie tv) e malinconico protagonista de La fine del tempo (La Nave di Teseo) di Guido Maria Brera, l’alba del nuovo ordine digitale sancisce anche il ritorno di un nuovo ineludibile scontro tra capitale e lavoro.
 
 
Seafort Dock, Liverpool, England. Oggi.
 
Ogni ritorno mescola il tempo come acqua in un mulinello. Philip Wade è di nuovo a casa. Liverpool, il Seafort Dock. L’estremità settentrionale del fronte del porto, a nord dell’estuario della Mersey. Il vecchio cuore della working class, dove pulsava la forza dei dockers. Dove lo spazio si accartoccia, dove il passato abbranca il futuro. Il porto di Liverpool, le rotte dello shipping. L’epica antica dei portuali e le applicazioni della tecnica. Macchine ed esseri umani. Tecnologia e lavoro. Ieri e domani, in una sospensione dell’oggi tra ciò che non è più e ciò che ancora deve essere. Nulla è mai finito davvero e il capitalismo è un buco nero in cui temporalità diverse collassano oltre l’orizzonte degli eventi.
Ieri e domani, in una sospensione tra ciò che non è più e ciò che ancora deve essere.
È di nuovo a casa, Phil il Rosso. Ha usato la scusa di una ricerca sulle rotte degli scambi globali al tempo della pandemia, per procurarsi un lasciapassare dai compagni delle Unions e accedere all’area portuale. Il professor Wade, l’appassionato docente di Storia del Birkbeck College. Phil, il figlio della classe operaia cresciuto a pane e labour. L’uomo di un’epoca lontana, deluso e mai sconfitto. Si aggira appesantito dagli anni, con un caschetto di protezione e un giubbotto fosforescente, a ridosso dei cancelli. Osserva quello che ha attorno come si osserva un mondo insieme familiare e diverso.
 
Il governo Johnson ha trasformato il porto in una zona franca, con regimi fiscali agevolati, pochi controlli e nessun onere doganale. Davanti a lui si muovono i tir, frenetici e organizzati. Ha l’impressione dell’attività di un formicaio, costruito con l’acciaio rilucente e la gomma di pneumatici. Ha l’impressione che le manovre degli autisti e i gesti dei foreman che ne dirigono l’azione siano automatici ed eterni.
 
È un osservatorio privilegiato questo nodo dei flussi delle merci, questo tempio della logistica. Da qui Philip non vede il cielo color piombo né il mare che si agita. Da qui scorge la filigrana segreta delle reti planetarie del capitale. Non sembra essere cambiato niente, anche se la pandemia ha sconvolto tutto. Gli ingranaggi dei congegni meccanici appaiono identici a sempre, l’inorganico delle merci si direbbe immune al virus.
Il nuovo ordine digitale non ha nemmeno scalfito la pandemia.
E invece Philip ha la sensazione che questi mesi abbiano dimostrato che il libero commercio globale non ha eliminato il pericolo. Che il sistema immunitario collettivo non sia mai stato così debole e privo di anticorpi contro la catastrofe. Il nuovo ordine digitale, secondo il professor Wade, non ha nemmeno scalfito la pandemia. Contro il virus, il mondo occidentale non è stato in grado di usare la tanto decantata tecnologia, smarrito nelle polemiche sulla pervasività del capitalismo della sorveglianza. Mentre i regimi autoritari in Asia hanno applicato pesanti misure disciplinari per limitarne l’impatto.
 
I tecnoentusiasti, riflette il professor Wade, si mantengono comunque devoti ad algoritmi che promettono di migliorare la vita, solo per rendere i comportamenti umani sempre più prevedibili e influenzabili. Candidamente, milioni di persone sintetizzano la propria esistenza in una stringa di big data, nella speranza di ricevere dividendi: di migliorare le proprie condizioni materiali. Purtroppo non c’è una correlazione tra benessere e tecnologia.
 
 
Quindici minuti più tardi
 
Ruote che girano trascinando imponenti tir. Rimorchi che scivolano oltre stanghe automatizzate. Mezzi parcheggiati al centimetro e agganciati da strutture di metallo, che li scaricano delle merci trasportate fin lì. E in cima a tutto, le gru si levano simili alle giraffe meccaniche di Filippo Tommaso Marinetti. Il professor Wade si è interessato al futurismo, come a qualcosa di esotico e distante, quand’era un giovane studente che a Roma seguiva le lezioni di Federico Caffè. Un camion dopo l’altro, su ognuno viene eseguita la stessa operazione. Nel terminal i container finiscono ordinati a terra, in file lunghe e torreggianti.
Ecco “il sogno di una cosa” nella versione del capitale: quel miraggio che rende possibile al capitale stesso di esistere senza forza lavoro. Ecco il container, che cancellò l’antica sapienza dei portuali di occupare lo spazio a disposizione nelle stive – lo stivaggio dei carichi. Il processo prevedeva tecnica e creatività, l’esperienza di mille albe contro il vento salmastro. Tolti l’autista di tir e il portuale che aiuta la manovra, ora l’organico sembra espulso dal processo, i corpi svaniti. Cancellati. Il mondo non odora più del sangue al tempo delle battaglie sociali: il presente è neutro all’olfatto, anestetico.
Eppure, l’unica grande certezza è che lo scontro tra capitale e lavoro sta tornando.
Una volta in ogni innovazione del capitale si intravedeva una lotta operaia che dettava alla controparte uno scarto, un salto di paradigma. Oggi il modello liberista converge verso quello autoritario in nome del progresso tecnologico libero dalle pressioni dei cicli di conflitto. Le bolle militanti dei social network scoppiano nell’impotenza, nell’incapacità di incidere sul serio. Ciò che funziona è la costruzione del consenso, la formattazione di un’ideologia che elimina alterità e contrapposizione. Chi si è prostrato al nuovo ordine digitale si ritrova senza punti di riferimento, stringendo una bussola impazzita che non segna alcuna direzione.
 
L’unica grande certezza è che lo scontro tra capitale e lavoro sta tornando. Insieme alla carne, e ai corpi. Uno scontro di cui Philip Wade ha memoria. E davanti ai container colorati e ai bracci meccanici che li sollevano, si dice che forse i ricordi delle lotte sono rimasti nell’inorganico del metallo e della pietra. Nelle forme non-umane che animano il porto della sua città. Si dice che nel regno dei congegni e della meccanica, anche qui, possono resistere le tracce di un tempo lontano. Pulsano ricordi di corpi di dockers in movimento, bicipiti sotto sforzo, schiene bagnate dal sudore. Sopravvivono come frammenti nell’aria i discorsi, i comizi, le discussioni sulla politica di quella working class che – dieci anni dopo la sconfitta dei miners – provò a tenere.
Phil il Rosso non può dimenticarli, i ventotto mesi di lotta che iniziarono nel 1995. Gli scontri, la serrata, l’anima viva dei portuali inglesi. Gli pare impossibile sia trascorso un quarto di secolo. Impossibile che quella schiera compatta di lavoratori sia così remota. Una comunità che presidiava il cuore della working class e dava battaglia per non farsi strappare diritti. Non può immaginare logori i giacconi che proteggevano quei corpi dal vento. Incurvate quelle spalle grosse, invecchiati quei volti seri che fronteggiavano la polizia.
 
 
Trenta minuti più tardi
 
Philip studia le operazioni che imbarcano i container sul cargo attraccato. Ha le mani in tasca, nell’ombra profonda che dalla nave copre la banchina. Nessuna tecnologia, pensa, sarà in grado di riequilibrare le componenti. D’altronde la gig economy non ha nulla di tecnologico: è il più elementare sfruttamento del lavoro old style. L’algoritmo che dirige i rider nasconde un cartello di aziende che derubano i lavoratori e ne fanno schiavi. Non è il Terzo millennio, sono i campi di cotone della Virginia d’inizio Ottocento.
Dunque la gig economy viene prima del fordismo, anche se è regolata da un algoritmo.
A coprire il cielo, le gru meccaniche che gli ricordano il Mafarka di Marinetti. L’organizzazione di questo porto all’avanguardia della modernità ha radici antichissime, nutrite dal sangue degli schiavi imprigionati nelle stive. Il professor Wade scuote la testa, osservando l’esattezza delle dinamiche che animano la banchina. La logistica al tempo dei viaggi su Marte si fonda sulla barbarie della tratta degli schiavi. L’uomo-merce.
 
Dunque la gig economy viene prima del fordismo, anche se è regolata da un algoritmo. È antica quanto la schiavitù. E fiorisce in Paesi che sfruttano il lavoro come avveniva nell’Ottocento. Attraversano le ombre delle metropoli d’Occidente, i nuovi schiavi, e al contempo lavorano nelle filiere di produzione delle grandi aziende manifatturiere.
 
Su un molo in lontananza un lavoratore, l’unico visibile nella vasta area, esamina i movimenti meccanici intorno al cargo. Phil era un ragazzo quando il sistema computerizzato del Seafort Dock iniziò a controllare ogni passaggio del carico-e scarico al terminal container. Sposta lo sguardo sui parallelepipedi colorati come giocattoli. Il capitale è in cerca di una nuova verginità, dice tra sé. E così in Europa si parla di Recovery Plan. E così nel mondo della finanza tutto deve diventare ESG, per intercettare i nuovi flussi di capitale.
 
Environmental, social and corporate governance: nient’altro che una grande lavatrice della corporate culture degli ultimi cento anni. Una centrifuga che pretende di smacchiare ciò che le grandi aziende hanno generato: distruzione dell’ambiente, discriminazione di genere, disuguaglianza sociale. Quindi le rotte del capitale vengono dirottate per placare la rabbia popolare. Ma perché la trasformazione abbia un minimo di credibilità, manca un elemento fondamentale: il legislatore che globalmente sia in grado di intervenire sulle leggi locali in tema di lavoro e immigrazione. Finché non si avrà quella trasformazione, l’ordine digitale continuerà a fondarsi su norme antiche, su retaggi disumani e presenti di un tempo remoto.
 
Le operazioni si concludono, Philip lo capisce. I mezzi si allontanano dalla banchina senza più container, improvvisamente nuda. Lassù nel cargo, le merci imbarcate si apprestano al loro viaggio sulle onde. Ogni cosa è al suo posto ma il professor Wade non riesce certo ad allontanarsi sereno.
Una centrifuga che pretende di smacchiare ciò che le grandi aziende hanno generato: distruzione dell’ambiente, discriminazione di genere, disuguaglianza sociale.
Rimugina sulla modalità con cui il nuovo ordine digitale prevede la distribuzione di stock options ai dipendenti, che diventano shareholders felici, ma distrugge la città. Esclude milioni di persone dalle vecchie realtà urbane, perché cannibalizza tutto. Muove i prezzi delle case, stravolge le vite dei loro abitanti, in funzione dell’andamento in borsa delle aziende.
 
Il nuovo ordine digitale, però, dovrà fare i conti col ritorno dei corpi all’alba di un mondo post-pandemico, che già si intravede nel grande rialzo delle materie prime e dell’acciaio, e nella ripresa dello shipping. I porti come il Seafort Dock torneranno a essere snodi decisivi, mentre le nuove generazioni iniziano a ragionare di sindacati e di nuove forme d’organizzazione: reali e non più virtuali. E la sanità dovrà essere il pilastro di un altro welfare, e la formazione un investimento strategico per il futuro.
 
Phil osserva l’uomo solitario sul molo, la sua figura piccolissima e immobile davanti ai volumi di metallo che giganteggiano tutt’attorno. Francis Fukuyama disse che la Storia era finita e che “l’ultimo uomo” sarebbe stato il prototipo del liberale. Si sbagliava: forse il vero “ultimo uomo” non lo conosciamo ancora, ma sappiamo bene che il suo ha fallito.

FONTE: https://www.idiavoli.com/it/article/il-nuovo-ordine-digitale

 

 

 

BELPAESE DA SALVARE

Arriva il Green Pass. Ma il coprifuoco resta.

Dalla meta’ di giugno i turisti che sono stati vaccinati potranno circolare liberamente in Europa, “il green passa sara’ pienamente operativo” ma nell’attesa “il governo italiano ha introdotto un pass verde nazionale che entrera’ in vigore a partire dalla seconda meta’ di maggio”. Mario Draghi presenzia la conferenza stampa al termine del vertice ministeriale del G20 e accelera sul via libera agli spostamenti tra turisti: “Grazie al pass – osserva – saranno in grado di spostarsi da un paese all’altro senza quarantena, a patto che possano dimostrare di essere guariti dal Covid, vaccinati o negativi a un tampone”. Il turismo – premette il premier alla presenza del ministro Garavaglia – e’ un settore essenziale per l’Italia, “l’economia dopo la pandemia sara’ diversa ma non ho dubbi che il turismo si riprendera’ e sara’ piu’ forte di prima, anche migliore”.

Intanto però il coprifuoco resta e le prenotazioni in regioni come il Veneto o la Liguria sono in calo. I turisti preferiscono la vicina Croazia da una parte, e la Costa azzurra dall’altra.

Il presidente del Consiglio non lo ricorda forse e afferma che “la pandemia ci ha costretti a chiudere temporaneamente, il mondo vuole viaggiare in Italia e l’Italia e’ pronta a dare il benvenuto al mondo”. Il Capo dell’esecutivo annuncia anche che sul fronte delle riaperture l’obiettivo e’ procedere speditamente nei prossimi giorni. E per le aziende senza ristori che hanno chiuso quali sono le risposye?

“Le nostre montagne, le nostre spiagge, le citta’ e le nostre campagne stanno riaprendo e questo processo accelerera’ nelle prossime settimane e nei prossimi mesi”. Ma nel frattempo occorre intanto sostenere il settore in difficolta’: “Il governo intende offrire un aiuto all’industria turistica che ha avuto tanto danno da questa chiusura cosi’ prolungata”, sottolinea Draghi che ricorda come nel Pnrr saranno destinati fondi ad hoc. Inoltre occorre lavorare per regole chiare e semplici per fare in modo che “i turisti possano tornare in Italia e viaggiare in sicurezza”. L’appello ai ministri del G20 e’ dunque quello di prenotare le vostre vacanze in Italia: “Naturalmente non vediamo l’ora di riaccogliervi di nuovo”. Ma il presidente del Consiglio fissa anche dei paletti: “Il G20 e le direttive per il futuro del Turismo sono – rimarca – una base per una ripresa del turismo a livello globale e affermano il bisogno di renderlo piu’ sostenibile e inclusivo, per proteggere anche l’ambiente e fare in modo che ci sia un’inclusione delle comunita’ locali”.

 

FONTE: https://www.lindipendenzanuova.com/arriva-il-green-pass-ma-il-coprifuoco-resta/

 

IL MINISTERO SPERANZA NON SA NULLA!

6 05 2021

 

Istanza   di   accesso  generalizzato ai sensi del Decreto Legislativo 33/2013 – presso il cosiddetto Ministero della Salute  – ai  dati epidemiologici  anonimizzati  dei  vaccinati per il Covid-19, risultati sintomatici successivamente al trattamento vaccinale.

Nell’Italietta prigioniera di mister Draghi, addirittura il Ministero dell’Insanità targato Speranza, non sa o forse non vuol dire quanti siano attualmente, effettivamente ed esattamente i “vaccinati” colpiti dal nuovo coronavirus e gioca a scaricabile con l’Istituto Superiore di Sanità. Dopo 15 giorni nessuna istituzione o autorità risponde, in barba alla trasparenza amministrativa. Ecco la documentazione richiesta invano a chi ha posto gli italiani agli arresti domiciliari da più di un anno e ha decretato il fallimento economico dell’Italia! Incompetenti, inetti o menzogneri? C’è un giudice almeno a Norimberga?

a)  copia  della  documentazione  attestante  gli  esiti  anonimizzati

dell’ultimo  rilievo  disponibile  effettuato  da codesto Ministero (o

dagli   Enti   preposti,   che   al  Ministero  della  Salute  abbiano

relazionato),   con  l’indicazione  esatta  del  numero  dei  soggetti

rivelatisi sintomatici al Covid-19 dopo le dosi vaccinali;

b) copia della documentazione attestante gli esiti dell’ultimo rilievo

disponibile  relativo  al numero di operatori sanitari ed appartenenti

alle Forze dell’Ordine e militari, sottoposti al trattamento vaccinale

per  il  Covid  19  e  risultati  positivi  all’infezione  pur dopo il

trattamento;

c)  copia della documentazione riportante le percentuali ed i tassi di

efficacia  dei  sieri  somministrati  contro il Covid 19, nonché copia

della  documentazione  da  cui sia evincibile quale specifico criterio

venga utilizzato per tale rilevazione.

Si  fa  presente  che,  per  le richieste di cui sopra, non sussistono

ragioni  ostative  per le quali – ai sensi dell’Art. 5 bis del D. Lgs.

n° 33/2013 – l’istanza debba essere limitata o respinta.

Riferimenti:

https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=coronavirus

https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=vaccini

https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=draghi

https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=speranza

FONTE: http://sulatestagiannilannes.blogspot.com/2021/05/il-ministero-speranza-non-sa-nulla.html#more

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

Una potente esplosione scuote una fabbrica di missili israeliana

Tehran Times, 21 aprile 2021
Una potente esplosione è avvenuta in una fabbrica di armi durante un test, nel centro di Israele, riferiva Haaretz. Finora non ci sono notizie di vittime. L’esplosione è avvenuta durante un “test di routine” della fabbrica Tomer per armi avanzate, che sviluppa motori a razzo e ospita vari tipi di missili. La gente del posto dice di aver sentito un’esplosione e di aver visto un fungo, filmato da alcuni. I funzionari avrebbero sottostimaato i danni collaterali del test, che portava all’esplosione. In risposta all’esplosione, Tomer aveva detto: “Questo era un test controllato senza circostanze eccezionali”. Gli uffici di Tomer si trovano nel centro di Israele e in prossimità di aree residenziali. L’azienda produce missili per le ‘IDF ed altri sistemi d’arma israeliani. Sono i produttori del sistema antimissile israeliano Arrow 4.
Gli alti funzionari del ministero della difesa ora indagano su cosa sia andato storto.
VIDEO QUI: https://youtu.be/A_4K6QGhGrE
FONTE: http://aurorasito.altervista.org/?p=16674

 

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

I generali degli Stati Uniti chiedono all’intelligence di smettere di mentire

Moon of Alabama 28 aprile 2021
Queste persone ne hanno abbastanza del flusso continuo di propaganda infondata dell’intelligence statunitense, che dilaga nel mondo:
Gentile Direttore dell’intelligence nazionale,
noi, generali a 4 stelle che guidano i comandi regionali degli Stati Uniti in tutto il mondo, siamo sempre più preoccupati della mancanza di prove delle affermazioni che fate sui nostri avversari.
Noi, come veri credenti, non dubitiamo del giudizio che date sulle attività dannose di Russia, Iran e Cina. Tuttavia, i nostri alleati e partner non aderiscono ancora alla beatitudine dell’ignoranza. Continuano a chiederci fatti che supportano tali giudizi. Sfortunatamente, non nulla da poter dare.
Dici che la Russia pensava di manipolare gli alleati di Trump e di diffamare Biden, che Russia e Iran miravano a influenzare le elezioni del 2020 con campagne segrete e che la Cina gestisce operazioni segrete per influenzare il Congresso. Sono apparsi resoconti dei media in cui “fonti di intelligence” affermano che Russia, Cina e Iran pagano i taliban per uccidere soldati statunitensi. Fortunatamente nessun soldato è stato ferito da tali voci.
I nostri alleati e partner leggono questi e altri rapporti e ci chiedono prove. Vogliono sapere esattamente come fanno ciò Russia, Iran e Cina. Naturalmente sperano di imparare dalla nostra esperienza per proteggere i propri Paesi. Al momento non possiamo fornirgli tali informazioni. La tua gente continua a dirci che è tutto SEGRETO.
Vi chiediamo quindi di declassificare i fatti che supportano i tuoi giudizi.*
Cordiali saluti
I generali

PS: *O quello o chiudi quella cazzo di bocca.

Quanto sopra potrebbe essere stato una bozza per la lettera di questo rapporto:
Le principali spie nordamericane affermano di essere alla ricerca di modi per declassificare e rilasciare più informazioni sul cattivo comportamento degli avversari, dopo che un gruppo di comandanti militari a quattro stelle inviava un raro e urgente appello chiedendo aiuto nella guerra dell’informazione contro Russia e Cina. Il promemoria interno di nove comandanti militari regionali lo scorso anno, esaminato da POLITICO e non reso pubblico, implorava le agenzie di spionaggio di fornirei prove per combattere la “condotta perniciosa”.
Solo “dichiarando la verità di pubblico dominio contro gli sfidanti nordamericani del 21° secolo” può Washington ottenere il sostegno degli alleati, dicevano. Ma gli sforzi per competere nella battaglia delle idee, aggiunsero, sono ostacolati da pratiche di segretezza troppo rigorose.
“Chiediamo questo aiuto per consentire agli Stati Uniti, e per estensione ai loro alleati e partner, di vincere senza combattere, di combattere ora nelle cosiddette zone grigie e di fornire munizioni nella guerra delle narrazioni in corso”, i comandanti che sovrintendono le forze militari statunitensi in Asia, Europa, Africa, America Latina, così come le truppe per le operazioni speciali, scrissero lo scorso gennaio all’allora direttore dell’intelligence nazionale Joseph Maguire. “Sfortunatamente, continuiamo a perdere opportunità per chiarire la verità, contrastare le distorsioni, violare false narrazioni e influenzare gli eventi in tempo per fare la differenza”, aggiunsero.
I generali saranno stati seriamente seccati per scrivere una lettera del genere. Furono pubblicate numerose decisioni dell’intelligence in cui la NSA espresse scarsa fiducia nelle conclusioni tratte principalmente dalla CIA. La NSA fa parte dei militari. Tra due burocrazie una simile lettera d’accusa o promemoria interno equivale a dichiarazione di guerra. È dubbio che la gente dell’intelligence vinca tale battaglia.
Ciò fa sperare che l’Ufficio del DNI e le agenzie sottostanti ridurranno la produzione di affermazioni prive di senso.

FONTE: http://aurorasito.altervista.org/?p=16841

 

 

 

Ancora irrisolto il grande crimine che innescò il genocidio ruandese del 1994

Dopo 27 anni, prove evidenti implicano il dittatore ruandese Paul Kagame e la CIA nell’abbattimento dell’aereo del presidente hutu Juvénal Habyarimana
Jeremy Kuzmarov,

CAQ 6 aprile 2021

Poco dopo le 20:00 della notte del 6 aprile 1994, due missili terra-aria, lanciati da una posizione vicino l’aeroporto di Kigali, colpirono il jet privato Dassault Falcon 50 del presidente hutu del Ruanda Juvénal Habyarimana. Dopo l’esplosione, l’aereo si schiantò a pochi metri dalla casa di Habyarimana, coi suoi figli che guardavano con orrore dal giardino. Habyarimana stava tornando da una conferenza ad Arusha, in Tanzania, dove un anno prima fu firmato un accordo di condivisione del potere tra hutu e tutsi. Habyarimana morì nello schianto insieme al presidente del Burundi Cyprien Ntaryamira, al Maggior-Generale Déogratias Nsabimana, capo di Stato Maggiore dell’esercito ruandese, altri sei funzionari governativi e un equipaggio francese di tre uomini. Poche ore dopo l’assassinio, il genocidio ruandese inizià quando le milizie hutu (Interhamwe) iniziarono a massacrare tutsi e hutu, mentre il Fronte patriottico ruandese (RPF) guidato dai tutsi del maggior-generale Paul Kagame, avanzava per prendere il potere. L’amministrazione Clinton e i media dell’epoca incolpavano gli estremisti hutu guidati dal colonnello Théoneste Bagosora per aver abbattuto l’aereo di Habyarimana, che il giornalista della BBC Mark Doyle definì “uno dei grandi misteri del 20° secolo”.
Il Ruanda era in guerra civile dall’ottobre 1990, quando l’RPF invase il Ruanda dall’Uganda nel tentativo di spodestare il governo dominato dagli hutu, che espulse i tutsi che si erano alleati coi colonialisti belgi prima dell’indipendenza del Ruanda nel 1962. Un problema della versione ufficiale era che i tutsi rappresentavano una minoranza in Ruanda e l’accordo di condivisione del potere concluso ad Arusha avrebbe lasciato alla maggioranza hutu il potere. La figlia di Habyarimana, Marie-Rose, che lavora come traduttrice a Gatineau, Quebec, disse che “le persone chiusero gli occhi… Due presidenti hutu e un capo dell’esercito hutu furono uccisi in un attacco aereo, e noi dovevamo credere che gli hutu vi fossero dietro, come se si sabotassero facilmente. Chi voleva davvero vedere la verità, avrebbero potuto studiare, scovare ti tentativi di mentire e deformare la storia”. Il filosofo romano Seneca affermò che “chi trae vantaggio da un crimine è quello che più probabilmente l’ha commesso”. Il principale beneficiario in questo caso fu l’RPF guidato dai tutsi e dal maggiore Kagame, che prese il potere dopo la morte di Habyarimana e da allora lo detiene. [1] Alla domanda sulla morte di Habyarimana nel 2006, Kagame rispose: “Non mi interessa”, sottolineando che Habyarimana l’aveva reso un rifugiato e che era giusto combatterne il governo. [2] Jim Lyons, un agente speciale dell’FBI a cui fu assegnato il compito di indagare sull’incidente con una squadra delle Nazioni Unite, dichiarò “quale modo migliore per Kagame di diventare un eroe che iniziare il genocidio da abbattendo l’aereo e poi marciando su Kigali col suo esercito e salvando tutti”. [3]

Tutte le prove indicano Kagame
Un’indagine di otto anni del magistrato francese Jean-Louise Bruguière, insieme ad altre indagini indipendenti tra cui una di una squadra nominata dalle Nazioni Unite, concluse che Kagame e RPF abbatterono l’aereo di Habyarimana e successivamente lanciarono un assalto pianificato e coordinato al governo ruandese. [4] Si scoprì che l’esercito ruandese intercettò il segnale radio che registrava un comandante dell’RPF affermare che “il bersaglio è stato colpito” dopo lo schianto. Nell’ottobre 2011, l’ex.aiutante di Kagame, Theogene Rudasingwa, dichiarò che Kagame gli disse “con caratteristica insensibilità e molta gioia” ordinò l’abbattimento dell’aereo di Habyarimana. [5] L’ex-capo di Stato Maggiore di Kagame, Faustin Nyamwasa, uno dei nove incriminati dalle indagini di Bruguière, e altri sei alti ufficiali dell’RPF, testimoniò che Kagame ordinò l’abbattimento dell’aereo di Habyarimana. [6] Dichiarò: “È solo Kagame che aveva interesse nella morte di Habyarimana. La sua motivazione era prendere il potere e usò le proprie guardie del corpo per raggiungere i suoi obiettivi. Non ha mai creduto nei negoziati e nemmeno adesso crede negli accordi politici”. ra loro c’è l’ex capitano dell’RPF Frank Tega, che affermò che fu con Kagame e altri a Kanombe alla fine di luglio 1994, quando bevevano e si vantavano dell’uccisione di Habyarimana da parte dell’RPF. [7] L’ex guardia del corpo di Kagame James Munyandinda, incaricato di sorvegliare i missili, disse che due commando dell’RPF, Eric Hakizimana e Frank Nziza, nel luglio 1994 ammisero di aver portato i missili a Masaka e di averli sparati contro il jet di Habyarimana.
L’agente speciale dell’FBI Jim Lyons disse che gli informatori dell’RPF gli dissero durante la sua indagine che una rete di agenti creata da Kagame complottò per abbattere l’aereo presidenziale e che non c’erano prove che il governo hutu ci fosse dietro. Il governo ruandese, guidato da Kagame, affermò, in parte sulla base di un’indagine condotta dai ricercatori dell’Accademia della Difesa del Regno Unito, che i missili dovettero essere stati lanciati vicino al campo militare di Kanombe, casa del presidente e aeroporto principale di Kigali, e l’area era completamente controllata dall’esercito ruandese. Tuttavia, l’RPF avrebbe potuto facilmente infiltrati nella zona, come l’indagine Bruguière concluse, e aveva esperienza nell’abbattimento di aerei (almeno quattro durante la guerra civile in Ruanda). I missili recuperati poco dopo l’incidente erano missili SA-16 di fabbricazione russa, che l’RPF, e non l’esercito ruandese, possedeva. [8] Successivamente le armi – che secondo Nyamwasa furono introdotte di nascosto in Ruanda con un carico di legna da ardere, scomparvero ma alla fine furono sequestrate dalle forze ribelli in Congo e consegnate all’ONU. [9] Lo storico belga Filip Reyntjens scoprì che il numero di serie era identico a un missile che lanciato dall’RPF nel maggio 1991 ma che non era esploso. Circa tre settimane dopo l’incidente, gli agricoltori locali trovarono due lanciamissili SA-16 in una valle vicina Masaka Hill nel raggio dell’aeroporto accessibile all’RPF. Secondo l’ufficio del procuratore militare russo, i lanciatori furono venduti all’Uganda dall’URSS nel 1987. [10] Il capitano dell’esercito francese Paul Barril, che fu consigliere di Habyarimana, affermò che i SA-16 avevano contrassegni numerici iracheni e che dopo l’operazione Desert Storm, la CIA trasferì i missili all’RPF dai depositi di armi iracheni sequestrati. Il magazzino dove furono immagazzinati, e poi riassemblati a Kigali, fu affittato da una società di copertura svizzera legata alla CIA , secondo un rapporto di un informatore pubblicato sul sito intabaza.com.
Il ministro degli Esteri francese Alain Juppé e il ministro della Difesa François Leotard affermarono che i membri dell’RPF furono addestrati ai missili vicino Phoenix, in Arizona, il che indica una diretta complicità nordamericana. [11] Jean-Louise Bruguière disse a Boutros Boutros-Ghali, all’epoca Segretario generale delle Nazioni Unite, che la CIA “era coinvolta nell’abbattimento”, aggiungendo forza alla precedente dichiarazione di Boutros-Ghali secondo cui i nordamericani erano “responsabili al 100% del genocidio ruandese”. Christopher Black, l’avvocato di Augustin Ndindiliyimana, capo di gabinetto della gendarmeria sotto Habyarimana, assolto dalle accuse di crimini di guerra, affermò che il generale canadese Romeo Dallaire, comandante della Missione di assistenza delle Nazioni Unite per il Ruanda (UNAMIR), chiuse una pista dell’aeroporto su richiesta dell’RPF, rendendo più facile abbattere l’aereo mentre cercava di atterrare. [12] Secondo il capo dell’UNAMIR Jacques-Roger Booh-Booh, Dallaire aveva ormai “abbandonato il ruolo di capo dell’esercito per svolgere un ruolo politico. Violaò il principio di neutralità dell’UNAMIR divenedo un alleato obiettivo di una delle parti in conflitto”.
È significativo che, dopo l’incidente aereo, le forze dell’RPF di Kagame circondassero Kigali piuttosto che dirigersi a sud dove si svolse la maggior parte degli omicidi dell’Interhamwe. [13] L’RPF compì stragi, con Kagame e i suoi scagnozzi che piazzarono crematori per smaltire i corpi in modo efficiente. Secondo Luc Marchal dell’UNAMIR, le manovre militari dell’RPF saranno state pianificate da settimane o mesi, e non potevano essere semplicemente una reazione al primo massacro di tutsi, come sosteneva l’RPF. [14]

Molte altre morti
Nel 2007, un disertore dell’RPF scrivendo sull’Uganda Free Press affermò che i membri della squadra dell’RPF che abbatté l’aereo del presidente Habyarimana furono tutti uccisi per cancellare le prove del crimine. Due membri dell’equipaggio, i soldati Joseph Nyamtale e Bosco Rumenera, furono uccisi a colpi di arma da fuoco a un posto di blocco subito dopo essere fuggiti dalla scena. Il disertore disse di essere sopravvissuto per fortuna dopo essere fuggito dalla detenzione grazie a una guardia distratta e fuggì in Uganda. La giornalista Judi Rever riferì dell’uccisione di Christophe Kayitare, presumibilmente di stanza alla torre di controllo dell’aeroporto per segnalare l’arrivo dell’aereo di Habyarimana e comunicò con la squadra missilistica a Masaka, e Eric Leandre Ndayire, la cui casa della sorella fu usata per nascondere i missili utilizzato nell’attacco. [15] Il 7 aprile 1994, il primo ministro hutu Agathe Uwilingiyimana fu ucciso a casa in un omicidio che non fu mai adeguatamente indagato. Il 1° luglio 1996, l’ex-direttore dell’intelligence per la sicurezza della Tanzania, Maggior-Generale Imran Kombe, fu ucciso da poliziotti a Noshi, nel nord della Tanzania, dopo essere sceso dall’auto e aver mostrato alla polizia che era disarmato. Prima dell’abbattimento del 6 aprile dell’aereo di Habyarimana, a Kombe fu fatta una soffiata su un possibile attentato contro tre leader che avrebbero dovuto partecipare alla conferenza di Arusha. Habyarimana, il capo keniano Daniel Arap Moi, e il capo congolese Joseph Mobutu. Si pensa che Kombe abbia avvertito Moi, che poi avvertì Mobutu. Fonti d’intelligence suggerirono che Kagame fosse il mandante dell’uccisione di Kombe. [16]
Nel 2010, l’ex-capo dell’esercito ruandese Faustin Nyamwasa, che implicò Kagame nell’uccisione di Habyarimana, sopravvisse a un tentato omicidio quando gli spararono sull’auto nel vialetto di casa di Johannesburg. Mentre si riprendeva in ospedale, un altro gruppo di aggressori cercò dì intrufolarsi nella sua stanza e strangolarlo. Nel 2014 la sua casa fu scassinata, portando il Sud Africa ad espellere diplomatici ruandesi dopo aver collegato i loro agenti dell’intelligence al raid. Nyamwasa disse all’Associated Press che Kagame dava la caccia a lui e ad altri dissidenti in tutto il mondo, “usando squadre di assassini prezzolati”. Una delle vittime di queste squadre fu il colonnello Theoneste Lizinde, disertore dell’RPF [17] che disse di aver partecipato a una riunione di pianificazione dell’abbattimento dell’aereo presidenziale e di aver implicato Kagame come mandante del crimine. Lizinde fu assassinato nel 1998 a Nairobi da agenti dell’intelligence del Ruanda, comandata all’epoca da Patrick Karegeya, che fu poi strangolato dalla squadra di Kagame in un hotel a Johannesburg il 31 dicembre 2013. [18] Dopo la morte di Karegeya, il ministro della Difesa di Kagame disse che “quando scegli di essere un cane, muori come un cane, e gli addetti alle pulizie spazzeranno via la spazzatura in modo che non puzzi”.
Nel documentario della BBC del 2014 “Rwanda’s Untold Story”, Nyamwasa definì Kagame, che Bill Clinton elogiò come “uno dei più grandi leader del nostro tempo”, un “serial killer”, mentre un ex-addetto allo sviluppo definò Kagame un “diavolo” e il suo regime “puro male”. Le vittime della squadra di Kagame inclusero il suo medico personale, Gustave Makanon, l’autista e un famoso cantante gospel, Kizito Mihigo. Un alto funzionario del regime disse di aver visto una volta Kagame picchiare personalmente un collega con dei bastoni per aver acquistato tende da un negozio non di proprietà del partito al potere, che ha enormi risorse ed è controllato da Kagame. La vittima fu poi mandata in prigione dove rimase per quasi un decennio. Nel novembre 2014, Emile Gafirita (alias Emmanuel Migisha), fu rapito a Nairobi e “scomparve” poco prima che potesse recarsi in Francia per comparire davanti ai giudici Marc Trévidic e Nathalie Poux per testimoniare sull’omicidio di Habyarimana. Gafirita fu un soldato-bambino dell’RPF e pretendeva di sapere molto dell’abbattimento dell’aereo. Ancora un’altra vittima degli eventi del 6 aprile 1994, il cui bilancio di vittime è sbalorditivo.

Il tizio biondo del governo degli Stati Uniti
Nonostante il suo lungo record di brutalità, Kagame è da anni celebrato dai media occidentali, ricevendo lauree honoris causa in prestigiose università tra cui Harvard, festeggiato da celebrità di Hollywood, e nel 2009 entrò nella lista ” Time 100″ delle persone più influenti del mondo. [19] Tutto questo faceva parte di una campagna pubblicitaria orchestrata dalle agenzie di intelligence statunitensi. Jim Lyons, l’ex-agente dell’FBI, testimoniò che Kagame era il “tizio biondo del governo degli Stati Uniti e dei britannici, addestrato da CIA e MI6″. [20] Dopo che l’RPF invase illegalmente il Ruanda nell’ottobre 1990, gli aiuti nordamericani furono incanalati dallo sponsor dell’RPF in Uganda, che acquistò dieci volte più armi nel 1991 che nei 40 anni precedenti messi insieme. Roger Winter, capo del Comitato statunitense per i rifugiati (USCR) e sospetto agente della CIA, fu decorato da Kagame il 4 luglio 2012, celebrando il 16° anniversario della vittoria dell’RPF in Ruanda. All’inizio degli anni ’80, Winter sostenne il Movimento di resistenza nazionale (NRM) in Uganda guidato da Yoweri Museveni, l’attuale leader dell’Uganda, Kagame e l’élite Hemi Tutsi, che combatteva contro l’allora presidente dell’Uganda Milton Obote, ex-socialista. Per il resto del decennio, Winter lavorò per far avanzare i piani dell’élite tutsi ruandese, espulsa dal Ruanda quando gli hutu presero il potere negli anni ’60. Winter contribuì ai finanziamenti dell’USCR per i volantini di propaganda e il giornale dell’RPF, Impuruza, dal 1982 al 1994, che disumanizzò il popolo hutu ed organizzò un’importante conferenza di esiliati tutsi a Washington DC, nel 1988, dove la soluzione militare al problema tutsi fu decisa. Nel 1992, Winter mise Kagame in contatto coi vertici burocratici del dipartimento di Stato degli Stati Uniti e presumibilmente informò i funzionari dell’amministrazione Clinton dei risultati militari dell’RPF quando era sul fronte di guerra.
Secondo Bernard Lugan, storico francese ed editore della rivista online L’Afrique Réelle, Winter era presente al quartier generale di Kagame a Mulundi [in Ruanda] la notte del 6 aprile 1994, quando si verificò l’incidente aereo. Kagame aveva imparato molti trucchi combattendo come mercenario nella guerra nella foresta dell’Uganda degli anni ’80, dove si guadagnò la reputazione di torturatore quale ufficiale dell’intelligence dell’Esercito di resistenza nazionale (NRA). [21] Roger Winter in quel momento promuoveva la guerra a bassa intensità, come operazioni psicologiche in cui i guerriglieri dell’NRA travestiti da forze governative commisero atrocità ed Obote fu accusato di genocidio. Kagame non dimenticò mai come cambiò l’andazzo della guerra quando uno dei comandanti più importanti di Obote, David Oyite-Ojok, abbattè il suo elicottero. Kagame prese il controllo dell’RPF dopo l’assassinio del 2 ottobre 1990 del suo comandante Fred Rwigyema, di cui Kagame è sospettato essere il mandante. Centinaia di guerriglieri dell’RPF furono successivamente giustiziati in scontri etnici interni, coi corpi delle vittime scaricati nel fiume Akagera. Abdul Ruzibiza, veterano dell’RPF, dichiarò che “Kagame si trovò a capo di un esercito che non l’accettava. Mantenne il dominio con terrore, assassinio, prigione ed esecuzioni”. [22]
Quando Rwigyema fu scelto da Museveni per un corso per ufficiali a Fort Leavenworth, Kansas, Kagame andò al suo posto e fu addestrato nella guerra psicologica e in altre tattiche di controinsurrezione, inclusa l’arte dell’inganno. [23] Da allora Kagame affinò tali tattiche alla perfezione, inscenando ripetutamente atrocità e incolpandone gli hutu mentre calunniava chiunque sfidasse la sua narrativa degli eventi, incluso l’assassinio di Habyarimana, per negare il genocidio. [24] Secondo J. E. Murphy, ex-ufficiale dell’intelligence dell’RPF che scriveva sotto pseudonimo, l’assassinio [di Habyarimana] portava la firma di Bill Clinton, presidente degli Stati Uniti. “Clinton voleva che Habyarimana venisse ucciso perché Kagame prendesse il controllo del paese [Ruanda], a qualunque costo. Importante per Clinton era scacciare Mobutu dal Congo usando Kagame e Museveni. Diverse aziende nordamericane erano interessate ai minerali congolesi, e il presidente doveva permettergli di avere la loro fetta di torta, e l’unico ostacolo era Mobutu, il dittatore di Kinshasa che una volta era il tesoruccio degli Stati Uniti”. [25] Kagame fu all’altezza quando invase due volte il Congo ed impose un sovrano quisling (Hyppolite Kanambe alias Joseph Kabila), che aprì il Congo allo sfruttamento straniero. Milioni di congolesi furono uccisi mentre le aziende occidentali come American Mineral Fields (AMF), di Hope, Arkansas (città natale di Bill Clinton), e Barrick Gold, nel cui consiglio sedeva George HW Bush e l’ex-primo ministro canadese Brian Mulroney, ricevettero concessioni per l’estrazione di risorse minerarie per un valore di oltre 157 miliardi di dollari. [26]

Ostacoli all’azione penale
Lo sfondo geopolitico e enormi profitti spiegano l’immunità giudiziaria di Kagame, nonostante le prove l’implichino in uno dei maggiori crimini della fine del 20° secolo. Un articolo del gennaio 2000 sul Canadian National Post riportava che Louise Arbor , il procuratore capo del Tribunale penale internazionale per il Ruanda (ICTR), chiuse l’indagine sull’abbattimento dell’aereo di Habyarimana dopo che tre informatori tutsi si erano fatti avanti nel 1997 con accuse dettagliate contro Kagame e l’RPF. Affermarono di essere stati membri di una “squadra d’élite d’attacco” responsabile dell’abbattimento. In seguito all’articolo del National Post, un memorandum di tre pagine scritto dall’investigatore Michael Hourigan fu inviato all’ICTR dove gli avvocati della difesa l’avevano richiesto. Hourigan dichiarò che l’indagine sull’abbattimento dell’aereo di Habyarimana rientrava chiaramente nel suo mandato e che fu “sbalordito” quando Arbor fece dietrofront e gli disse di smetterla. Tale sequenza di eventi fu confermata dal capo di Hourigan, Jim Lyons, l’ex-agente dell’FBI a capo della cosiddetta squadra investigativa nazionale. Lyons credeva che Arbor agisse su ordine chiudendo le indagini. La predecessore di Arbour, Carla Del Ponte, fu licenziata quando anche lei aveva insistito a seguire. Nell’aprile 2010, quando Kagame fu denunciato in una causa per morte ingiusta da 350 milioni di dollari dalle vedove di Habyarimana e Cyprien Ntariman, mentre si trovava in Oklahoma per un discorso di apertura, l’amministrazione Obama presentò una richiesta di immunità per conto di Kagame, rendendo difficile perseguirlo. [27]
In Francia, l’indagine di Bruguière su Kagame per l’assassinio di Habyarimana fu soffocata dal riallineamento politico francese indotto dall’elezione nel 2007 di Nicholas Sarkozy, che cercava migliori relazioni cogli Stati Uniti, e dalla nomina di Bernard Kouchner a ministro degli Esteri francese. Anche François Hollande perseguì la stessa politica, così come Emmanuel Macron che doveva visitare Kigali per la commemorazione del genocidio quest’anno [28] Paul Rusesabagina, ruandese di origini hutu e tutsi i cui sforzi per salvarsi la vita furono la base del film del 2004 Hotel Rwanda ed è ora incarcerato dal regime di Kagame, accusò Kagame e RPF dell’abbattimento dell’aereo. Nel novembre 2006 scrisse che “sfida la logica” il fatto che il Consiglio di sicurezza dell’ONU non avesse ordinato un’indagine, come fece dopo l’assassinio, con assai meno conseguenze, di Rafiq Hariri in Libano nel 2005.
L’anniversario del 27 marzo era il momento opportuno per seguire il consiglio di Rusesabagina e, infine, svolgere un’indagine definitiva su uno dei grandi crimini di fine 20° secolo. Questa indagine dovrebbe concentrarsi su Kagame e RPF insieme ai loro sostenitori negli Stati Uniti, Regno Unito e ONU.

Note
[1] Vedi Judi Rever, In Praise of Blood: The Crimes of the Rwandan Patriotic Front (Toronto: Random House Canada, 2018).
[2] Rever, In Praise of Blood , 178.
[3] Rever, In Praise of Blood , 178.
[4] Edward S. Herman e David Peterson, The Politics of Genocide (New York: Monthly Review Press, 2010), 56, 60; Carla de Ponte, Madame Prosecutor: Confrontations with Humanity’s peggiori criminali e la cultura dell’impunità (New York: The Other Press, 2009); John Conroy, Rwanda’s Untold Story (BBC, 2014).
[5] Michael Deibert, La Repubblica Democratica del Congo: Between Hope and Despair (London: Zed Books, 2013), 213; Barrie Collins, Ruanda 1994: The Myth of the Akazu Genocide Conspiracy and Its Consequences (New York: Palgrave Macmillan, 2014), 25.
[6] Conroy, Rwanda’s Untold Story; JE Murphy, prodotto negli Stati Uniti (Meadville, PA: Christian Faith Publishing, 2015), 50, 51; Peter Erlinder, The Accidental Genocide (International Humanitarian Law Review, 2013), 25. Murphy, ex-ufficiale dell’intelligence dell’RPF che scriveva sotto pseudonimo, sostiene che i due missili usati per abbattere l’aereo presidenziale furono caricati a Mulundi dal sergenti Moses Nsenga e Tumushukuru, dai caporali Stanley Rwamapasi e Seromba. Questi soldati erano nella stessa unità del sergente Aloys Ruyenzi, agente dei servizi segreti, e l’unità era comandata personalmente da Kagame. Il caporale Eric Hakizimana e il sottotenente Frank Nziza lanciarono i missili da Masaka intorno alle 20:08. Quando Kagame fu informato dell’incidente mentre guardava una partita di calcio della Coppa d’Africa, era felice e ordinò alle sue truppe di effettuare operazioni immediate per conquistare il Paese.
[7] Collins, Ruanda 1994, 25.
[8] Helen C. Epstein, Another Fine Mess: America, Uganda, and the War on Terror (New York: Columbia Global Reports, 2017), 111, 112; Collins, Ruanda 1994 , 25. Poiché l’RPF non aveva aerei, l’esercito ruandese non aveva bisogno di armi antiaeree.
[9] Judi Rever e Geoffrey York, “Seized Weapon Sheds Light on Mystery of Rwandan Genocide”, Globe & Mail , 24 febbraio 2017.
[10] Epstein, Another Fine Mess , 111, 112. L’RPF, va notato, aveva esperienza nell’abbattimento di aerei, avendone abbattuti almeno quattro nella guerra civile in Ruanda dal 1990 al 1994 .
[11] Wayne Madsen, Genocide and Covert Operations in Africa, 1993-1999 (New York: Edwin Mellen, 1999), 113, 125; Collins, Ruanda 1994 , 67.
[12] Christopher Black, “Top Secret: Rwanda War Crimes Cover-Up“, New Eastern Outlook , 22 ottobre 2018. Secondo Gilbert Ngjo, assistente politico del comandante civile di UNAMIR. Dallaire prese ordini dagli ambasciatori nordamericano e belga e mentì al suo capo, Jacques-Roger Booh-Booh, dicendo di ignorare i preparativi dell’offensiva finale dell’esercito ugandese-RPF. Dallaire chiuse un occhio sull’infiltrazione a Kigali di 13000 combattenti dell’RPF quando ne furono autorizzati solo 600 secondo gli accordi di pace di Arusha firmati nell’ottobre 1993, ed ignorò le continue violazioni dei diritti umani. Vedasi Yves Engler, Sinistra, Destra: Marcia al ritmo del Canada imperiale (Montreal: Black Rose Books, 2019), 166, 167.
[13] Epstein, Another Fine Mess; Collins, Ruanda 1994 .
[14] Marc de Miramon, “Brutal from the Beginning: The Truth About Everyone’s Favorite Strongman“, Harper’s Magazine, agosto 2019
[15] Rever, In Praise of Blood , 188, 189.
[16] Murphy, US Mad e, 48, 49; Madsen, Genocide and Covert Operations in Africa, 1993-1999 .
[17] Lizinde fu incarcerata dal regime di Habyarimana dal 1980 al 1992 per aver complottato un golpe.
[18] Karegeya disse che Kagame fece schiantare l’aereo di Habyarimana.
[19] Paul Street, “Kagame Goes to Harvard“, CounterPunch , 22 aprile 2016. Rever, In Praise of Blood ; Keith Harmon Snow, “Ben Affleck, Rwanda and Corporate Sustained Catastrophe”, Dissident Voice, 23 gennaio 2009; Marc de Miramon, “Brutal from the Beginning: The truth about everyone’s favorite strongman”, Harper’s Magazine, agosto 2019
[20] Rever, I n Praise of Blood , 178.
[21] Uno dei compiti del giovane Kagame era giustiziare sospetti doppi agenti che lavoravano per Milton Obote, cosa che fece fracassando crani con la zappa. Kagame presumibilmente chiuse i prigionieri di guerra nei rimorchi, i cui corpi decomposti venivano scoperti giorni dopo, la spietatezza di Kagame gli valse il soprannome di “Platone”. Nel 1985 fu coinvolto nel dirottamento di un aereo dell’Uganda Airlines.
[22] Va notato che Kagame non aveva nient’altro che un’istruzione da scuola superiore e un anno di college in Germania. Dopo essersi diplomato a metà degli anni ’70, fu un cambiavalute prima di entrare nella polizia e nell’intelligence ugandesi dove fecev parte del Movimento di resistenza nazionale (NRM) guidato da Museveni. Kagame era nato a Gitarama e proveniva da una famiglia ben inserita nell’élite tutsi del Ruanda, guidata dal clan Abaganda. Crebbe nei campi profughi dell’Uganda occidentale dopo che la sua famiglia fuggì dal Ruanda nel 1962.
[23] Un aiutante di Kagame, Frank Rusagara, fu inviato dal Pentagono per addestrarsi alla US Naval Postgraduate School di Monterey, in California.
[24] Vedi Rever, In Praise of Blood .
[25] Murphy, prodotto negli Stati Uniti , 52, 53.
[26] Dena Montague e Frida Berrigan “Gli affari di guerra nella Repubblica Democratica del Congo: a chi giova?” Dollars and Sense , luglio/agosto 2001; Keith Harmon Snow e David Barouski, “Behind the Numbers: Untold Suffering in the Congo“, Third World Traveller; Madsen, Genocide and Covert Operations in Africa 1993-1999 , 69-74; e Peter Eichstadt, Consuming the Congo: War and Conflict Minerals in the World’s Deadliest Place (New York: Lawrence Hill Books, 2011).
[27] Jeremy Kuzmarov, Obama’s Unending Wars: Fronting the Foreign Policy of the Permanent Warfare State (Atlanta: Clarity Press Inc., 2019), 100.
[28] Robin Philpot, Rwanda and the New Scramble for Africa: From Tragedy to useful Imperial Fiction (Montreal: Baraka Books, 2013), 115.

FONTE: http://aurorasito.altervista.org/?p=16334

 

 

 

DIRITTI UMANI

GIU’ LE MANI DAI BAMBINI!

30 04 2021

Medici (in particolare pediatri) e associazioni mediche sul libro paga delle multinazionali del crimine che incassano mazzette dai produttori vaccinali e pretendono addirittura di marchiare bestialmente i bambini trasformandoli in cavie.

Il paradosso del XXI secolo: la salute è diventata una patologia per chi fabbrica malattie.

Gianni Lannes

Riferimenti:

https://www.agi.it/cronaca/news/2021-04-30/covid-pediatri-vaccino-bimbi-contro-altre-malattie-12364520/

https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=pediatri

https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=vaccini

Gianni Lannes, VACCINI DOMINIO ASSOLUTO, Nexus edizioni, Battaglia Terme, 2017.

Gianni Lannes, VACCINI CAVIE CIVILI E MILITARI, Nexus edizioni, Battaglia Terme, 2018.

FONTE: http://sulatestagiannilannes.blogspot.com/2021/04/giu-le-mani-dai-bambini.html

 

 

 

ECONOMIA

«IL DEBITO, DISPOSITIVO DI POTERE».

DAL DIARIO DI PHILIP WADE

24 11 2020

Il diritto al fallimento non esiste più, perché l’indebitamento è l’architrave di questo sistema. E la finanza “del Covid” va nella stessa direzione: erogare sussidi per tenere in vita il ciclo del debito. Nel frattempo l’equity è detenuta dall’1% della popolazione mentre ciò che c’è da saldare è ben spalmato sul restante 99%.

Per il professor Philip Wade, personaggio de I diavoli (di nuovo in libreria nella nuova edizione Rizzoli in occasione dell’uscita dell’omonima serie tv) e malinconico protagonista de La fine del tempo (La Nave di Teseo) di Guido Maria Brera, il debito è e rimarrà un dispositivo di potere e controllo. Almeno fin quando un granello non sarà gettato nell’ingranaggio, per incepparlo.
 
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Non riesco a smettere di pensare a David Graeber, anche se intorno succede di tutto. La guerra delle monete ha avuto inizio. Le banche centrali si giocano la carta della svalutazione, per stimolare la propria economia di riferimento.
 
L’inflazione è ormai un ricordo: la Fed dichiara di non tenerne più conto nella politica monetaria. È una mossa che in buona sostanza lascia mano libera alla Banca Centrale sulla politica monetaria e al tempo stesso rassicura i mercati. L’Europa ha approntato uno stimolo fiscale senza precedenti tramite il recovery fund sulla cui scia i singoli membri hanno approntato politiche fiscali espansive, supportati dalla Bce.
 
La curva di Phillips è passato remoto, proprio come me.
 
Ovunque nel mondo, politica fiscale e politica monetaria stringono un’alleanza, si uniscono per scopi elettorali. La curva di Phillips è passato remoto, proprio come me. La nuova teoria macroeconomica prevede solo una risposta veloce alla massa di dati in possesso: l’economia real time è questo, ormai. Mi pare fosse Chris Anderson a dirlo, diversi anni fa: la teoria è inutile, bisogna reagire ai dati e niente più, senza preclusioni ideologiche.
 
Non riesco a smettere di pensare a David Graeber. Ho letto tante cose in ricordo della sua recente scomparsa, e tutte mi sono sembrate troppo sintetiche. Antropologo, autore di Debito. I primi 5000 anni, promotore di Occupy Wall Street. Eppure non basta, forse niente basta per spiegare quanto ci mancherà la sua intelligenza. Le sue intuizioni.
 
Il debito è un dispositivo di potere.
 
Ad esempio: che il debito dev’essere cancellato quando non può essere pagato e diventa endemico. Il debito nella governance neoliberista è un dispositivo di potere: un modo di manovrare le masse, costrette a sacrifici più o meno intensi – a seconda della contingenza politica – per ripagarlo. È una specie di guinzaglio che si allunga e si accorcia in base alle esigenze, e quindi non viene cancellato mai. Piuttosto vengono erogati sussidi per ripagarlo in condizioni estreme. Il tutto mentre i debiti pubblici statali sono ormai carta straccia e vengono comprati dalle banche centrali stesse.
 
Il convitato di ferro al banchetto è il lavoro, e il suo rapporto col capitale. Il costo deve restare basso, per consentire la monetizzazione del debito ed evitare di ritrovarsi di colpo a Weimar. L’inflazione ambita dalle banche centrali è da domanda, legata a una ripresa dei consumi globali e non di certo un meccanismo inflattivo da offerta, ossia indotto da un aumento del costo del lavoro.
 
La spinta alle criptovalute, del resto, può essere considerata anche creazione di base monetaria, così come i sistemi di pagamento alternativi embedded nelle piattaforme tecnologiche sono tutti stimoli al consumo tramite la digitalizzazione della valuta e la sua facilità d’utilizzo.
 
Ma il costo del lavoro non può salire per definizione: l’individuo indebitato è costretto a lavorare a qualsiasi condizione, per ripianare i debiti che è costretto a sottoscrivere per sopravvivere. Il guinzaglio si accorcia e si allunga. E quando si rompe, l’uomo indebitato si trasforma in un senzatetto – entra nell’esercito degli inutili, buono solo per vendere i suoi organi all’homo deus in cerca dell’immortalità terrena. In un passaggio aggiornato del grande inquisitore de I fratelli Karamazov, Dostoevskij metterebbe il Debito al posto di Dio. Se non esiste il Debito, allora vale tutto.
 
In un passaggio aggiornato del grande inquisitore de I fratelli Karamazov, Dostoevskij metterebbe il Debito al posto di Dio.
 
Il debito pubblico monetizzato costringe gli investitori a muoversi su asset più rischiosi. Il bond market governativo, di solito parcheggio di risparmi prudenti, è stato spogliato del suo valore reale per spostare enormi quantità di denaro su investimenti in capitali di rischio. Questo cambio di paradigma dovrebbe creare un volano per l’economia reale e stimolare l’occupazione. Ma non è così. I flussi di capitale non fanno che spingere i valori azionari verso terre inesplorate: tengono in vita aziende decotte, bloccano il ciclo di mortalità delle start-up. Di conseguenza abbiamo una realtà totalmente distorta dell’ecosistema finanziario, che ormai è disconnesso dall’economia reale.
 
La frattura tra Wall Street e High Street mi sembra la perfetta metafora dello scollamento tra casinò finanziario e reale circolazione di ricchezza. Li separa una voragine. Negozi deserti da mesi, Borse che macinano nuovi record. Siamo quasi in una correlazione inversa: più la situazione peggiora, più i mercati si gonfiano grazie agli aiuti di Stato. Che finiscono per inflazionare gli asset finanziari, come successe nella Great Financial Crisis del 2008.
 
Nella devastazione dell’economia reale, le piattaforme tecnologiche fanno la parte del leone. Diventano oligopolisti naturali in quasi tutti i gangli economici. La monetizzazione del debito pubblico va a mettere in sicurezza il sistema finanziario, per far sì che il debito privato diventi perpetuo, invece d’essere usata per cancellare i debiti privati che stanno esplodendo. Così, appena qualcuno salta, ecco gli avvoltoi pronti ad assorbire l’attività fallita o la casa messa in ipoteca a prezzi stracciati.
 
Non riesco a smettere di pensare a David Graeber. E tutto quello che succede, probabilmente, invece di distrarmi mi fa tornare alle sue considerazioni.
 
Il diritto al fallimento non esiste più perché il debito è l’architrave del neoliberismo. Anche la bancarotta è stata derubricata a evento quasi impossibile. La Grecia fallita non è stata fatta fallire perché avrebbe dato un brutto segnale all’immaginario: meglio tenerla in vita in modo fittizio, tramite ulteriori debiti altrettanto impagabili. Il diritto al fallimento è stato cancellato, tranne che per i paria della società o per quelle nazioni che falliscono ciclicamente come l’Argentina.
 
Il diritto al fallimento non esiste più perché il debito è l’architrave del neoliberismo.
 
Il diritto al fallimento viene negato anche a livello individuale, ed è questo il realismo capitalista di cui parla Mark Fisher in una dimensione più intima. L’unico fallimento concesso avviene quando c’è un asset legato al debito che può essere reinserito nel circuito finanziario della leva. La casa, per esempio. Ma l’individuo dev’essere sempre in grado di contrarre nuovi debiti: altrimenti la società dei consumi crollerebbe all’istante, la sovrapproduzione costante di merci non troverebbe sbocco. Anche la spinta alle criptovalute è creazione monetaria, e lo stesso vale per i sistemi di pagamento alternativo all’interno delle piattaforme.
 
La finanza del Covid va nella stessa direzione. Tenere in vita il ciclo del debito tramite un meccanismo di sussidi che tiene in vita la macchina. Sussidi per pagare i debiti e farne di nuovi, perché l’equity è detenuta dall’1% mentre il debito è ben distribuito nel 99%. E più aumenta il debito più cresce il valore dell’equity. Più si allarga il numero degli indebitati più cresce il patrimonio dell’1%. Sono vasi comunicanti quasi perfetti, i rischi sono asimmetrici. La Shock Doctrine ha eliminato la fragilità del sistema, il banco vince sempre.
 
Il futuro però non è scritto e tutti i sistemi, prima o poi, si sfaldano. Questo lo dice la Storia, non il mio desiderio.
 
L’apice della distorsione del debito sono gli student loans, la cartolarizzazione degli stipendi futuri degli studenti. Questo mi fa particolarmente male. Perché i ragazzi vengono gettati nel mondo del lavoro con uno spettro di scelte limitato, le spalle al muro: accettare lavori che pagano subito e non rincorrere nulla che abbia bisogno di un respiro più lungo. I prestiti chiudono i giovani laureati in una modalità predefinita dal mercato, dalla quale non usciranno mai. E limita il progresso, perché molto spesso l’innovazione nasce da uno scarto – fuori dai binari. Non mi consola dirmi che è una prassi del sistema statunitense, poco diffusa qui: come per la sanità e la previdenza, temo che sarà l’Europa ad andare verso l’America.
 
Mai come in questo 2020 è esistita una distanza così siderale tra il 99% della popolazione e l’1% che continua ad arricchirsi. La Shock Economy di Naomi Klein cambia pelle ma continua la sua corsa verso una polarizzazione che è diventata paradossale.
 
Come per la sanità e la previdenza, temo che sarà l’Europa ad andare verso l’America.
 
Le strade americane sono infuocate dal conflitto di classe. Il governo della pandemia ha ricalcato la governance della Great Financial Crisis e del post 9/11, che già avevano assestato colpi mortali alla classe media. Il Covid sta colpendo ancora più duro.
 
Resiste un’aria di sospensione del tempo, nella speranza di un vaccino o di una soluzione scientifica. L’attesa messianica di un ritorno a una normalità che è già compromessa. Ma il risveglio sarà peggiore di un incubo: quando la pandemia finirà e la classe media impoverita si troverà sommersa di debiti impagabili.
 
Esploderà, la spinta globale a creare debito e a tenere bassi salari e costo del lavoro. Esploderà come un’immensa bolla.

FONTE: https://www.idiavoli.com/it/article/il-debito-dispositivo-di-potere-dal-diario-di-philip-wade

 

 

 

EVENTO CULTURALE

“CONNESSIONI” di Francesca Sifola 

https://www.facebook.com/FrancescaSifolaScrittrice/posts/2645403605730403

Il libro è reperibile qui:

https://www.ibs.it/connessioni-libro-francesca-sifola/e/9788855088244

https://www.kobo.com/ebook/connessioni

https://www.libreriauniversitaria.it/connessioni-sifola-francesca-europa-edizioni/libro/9788855088244

https://www.hoepli.it/libro/connessioni/9788855088244.html

 

 

 

 

GIUSTIZIA E NORME

Carlo Nordio terremota la magistratura: “Palamara?

È solo l’inizio”. In arrivo un altro scandalo

Pietro Senaldi 

Tanto per cambiare è scoppiato un altro scandalo nella giustizia. L’avvocato Pietro Amara, già indagato per depistaggio e arrestato e condannato per corruzione in atti giudiziari, ha denunciato alla Procura di Milano l’esistenza di una struttura di sottopotere all’interno della magistratura denominata “Ungheria”, la cui ragione sociale sarebbe promuovere le carriere degli adepti e influenzare la politica. Tra le altre cose, Amara è una delle gole profonde dell’inchiesta che ha tenuto alla sbarra per anni l’amministratore dell’Eni Claudio Descalzi e la moglie con l’accusa di loschi affari e corruzione internazionale; un processo che ha minato la credibilità della multinazionale italiana, azienda strategia per il Paese, e che si è poi risolto in nulla. Il procuratore capo di Milano, Francesco Greco, ha ignorato le accuse di Amara. Non così un suo subalterno, il pm Paolo Storari, che ha istruito un fascicolo ma non ha aperto un processo, preferendo girare il malloppo a Piercamillo Davigo, ai tempi membro del Csm. L’ex eroe di Mani Pulite, a sua volta, non ha denunciato alcunché, limitandosi a informare in via ufficiosa il Quirinale e in via più diretta il Consiglio superiore della magistratura. Nel frattempo, la sua ex assistente, Marcella Contrafatto (notare il cognome), ha girato il dossier al Fatto Quotidiano e a Repubblica, che però non lo hanno pubblicato. La notizia è emersa, la signora è stata sospesa e indagata e lo scandalo è esploso. Per districarsi nel ginepraio, Libero ha chiesto un aiuto all’ex procuratore Carlo Nordio, garantista, liberale, innamorato non corrisposto della giustizia, eminenza giuridica al di sopra delle parti. La nostra sensazione è che la Procura abbia ben agito nel non dare credito a un testimone poco affidabile. Resta l’amarezza nel constatare che il garantismo delle toghe nei confronti dei colleghi quando c’è qualcuno che li infanga non venga applicato allorché oggetto delle accuse sono politici, imprenditori, giornalisti, che vengono tenuti per anni senza nessun riguardo ostaggio delle accuse di inaffidabili baldrascani.

Cosa sta succedendo oggi nella magistratura italiana?

«Chiediamoci cosa sta accadendo ai suoi vertici, perché la gran parte dei magistrati continua a fare quello che ha sempre fatto: lavorare sodo e, mediamente, molto bene. I vertici stanno pagando per le piaghe endemiche: la competizione correntizia, la contiguità e la concorrenza con la politica, l’ambizione nelle cariche e, come ora si vede, anche le invidie e le lotte all’interno degli uffici».

Lei ha dichiarato che la vicenda Palamara era solo l’inizio: che altro deve emergere?

«Quello che sta emergendo: il sospetto che alcune inchieste siano state gestite in modo politico, o comunque in modo opaco e ambiguo. Inoltre Palamara ha fatto, pare, molti nomi, ed ha promesso una seconda puntata. Il Csm ha creduto di cavarsela radiandolo e mettendoci una pietra tombale. Ma temo che abbia sepolto delle creature ancora vive che si faranno sentire».

Cambierebbe qualcosa se fosse sciolta l’Anm?

«Sciogliere un’associazione lecita come l’Anm sarebbe impossibile e non avrebbe senso. Il problema non sta nell’Anm, ma nei suoi rapporti con il Csm, che ne rappresenta l’aspetto istituzionale, come il Parlamento rappresenta i partiti. Bisogna interrompere questo vincolo. E come predico da 25 anni l’unico modo è il sorteggio. Al tempo ero considerato un eretico. Ora vedo che molti, anche a sinistra, ci stanno riflettendo seriamente».

È in atto un minimo tentativo di riorganizzare la magistratura secondo criteri più meritocratici e meno politici dopo lo scandalo Palamara?

«No. Qualche tentativo stenterello, ma finché non si passerà alla riforma radicale del Csm non cambierà nulla».

Lei pensa che esista la struttura Ungheria?

«A occhio, non avendo letto gli atti, mi pare una grande bufala. Ma certo ci sono intrecci di potere tra correnti della magistratura, politica e anche mass media che andrebbero chiariti. Per questo serve una commissione parlamentare».

Lei avrebbe fatto come il Procuratore Greco, che non ha dato seguito alle denunce di un testimone già risultato poco affidabile?

«Non conosco gli atti, ma per quanto ho letto sui giornali secondo me ha fatto bene. Ormai le procure sono assediate da mitomani e personaggi strani che cercano di inquinare anche le inchieste fatte bene. Certo mi piacerebbe che questa cautela nel procedere fosse adottata in modo omogeneo, e valesse per tutti».

Se la magistratura (giustamente) si protegge da testimoni inattendibili, perché non ha lo stesso riguardo quando vengono denunciati politici, imprenditori, giornalisti o privati cittadini?

«Appunto. Ogni procura va per conto suo, e alcuni pm si creano inchieste anche sulla base di elementi opinabili. Per questo ripeto da sempre che è interessante vedere non solo come i processi finiscono, ma anche come nascono. Il rimedio sarebbe molto semplice: come nel sistema britannico, il pm dovrebbe procedere solo sulla base di notize di reato qualificate, trasmesse dalla polizia giudiziaria. Invece da noi fa quello che vuole, e in base al principio, male applicato, dell’obbligatorietà dell’azione penale, estrae dal cassetto un fascicolo latente, o ascolta un testimone, diciamo, fantasioso, e sulla base di quello iscrive un cittadino nel registro, chiede e ottiene intercettazioni che poi finiscono sui giornali. È un sistema ormai inadeguato, per usare un eufemismo, che va completamente riveduto».

Non è un comportamento pilatesco quello di Davigo, che informa della denuncia il Csm e il Quirinale, i quali non hanno competenza per agire, anziché sporgere denuncia in Procura?

«Anche qui, non conoscendo le carte, posso esprimermi solo in termini generali. Ebbene, un sostituto non può assolutamente trasmettere atti secretati a un membro del Csm. Se dissente dalla scelta del procuratore capo deve comunicarglielo, e magari chiedere di essere esonerato dall’inchiesta. Se ritiene di assistere alla commissione di un reato deve fare una denuncia formale. Se comunica con il Csm deve farlo attraverso le vie gerarchiche, che investiranno il comitato di presidenza. L’idea che possa trasmettere atti secretati a un membro del Csm «per cautelarsi», come ho letto, è semplicemente ridicola, e stento a credere che questa giustificazione sia stata addotta da un magistrato in servizio».

Abbiamo una funzionaria sospesa e indagata per avere passato delle carte ai giornali, che non le hanno pubblicate; e nessuno indagato quando le carte sono pubblicate: non lo trova curioso?

«Se la divulgazione di atti secretati è reato, anche la loro ricezione lo è. Quindi è inevitabile che ne consegua un’indagine penale a tutto campo, certamente non limitata a un’impiegata subalterna».

Che idea si è fatto della vicenda dei terroristi arrestati in Francia dopo vent’ anni: che cosa è cambiato, dopo tutto questo tempo, che ha reso possibile il loro fermo?

«La Francia si è comportata male nei nostri riguardi, ha trattato l’Italia come se il nostro sistema fosse autoritario, mentre tutti i terroristi hanno goduto, nei rispettivi processi, delle più ampie garanzie. Peggio ancora si sono comportati i cosiddetti intellettuali che hanno avallato questa complicità del governo francese. L’avvio della procedura di estradizione è quindi una buona notizia, anche se dopo 40 anni una giustizia così tardiva è sempre un fallimento. Comunque speriamo che vengano estradati e incarcerati. Se poi si vorrà essere indulgenti, questa è un’altra cosa. Ma ricordo che il perdono, anche per la Chiesa, non è mai gratuito: occorre la confessione, l’espiazione e il ravvedimento».

La ministra Cartabia riuscirà a riformare la giustizia, non essendo un ministro politico ed essendo espressione del governo di tutti?

«La riforma della giustizia può, e deve, avvenire su impulso del governo, ma viene decisa dal Parlamento. Ho dei forti dubbi che questo Parlamento intenda procedere alla necessaria riforma radicale».

Istituire delle commissioni secondo materia per impostare una riforma generale è una buona idea, ma non si rischia poi di non arrivare a nulla, come con la Bicamerale?

«Bisogna intenderci su che riforme. Quella più urgente, perché impatta sull’economia, è quella della giustizia civile, per accelerare i processi. Qui basta copiare dai sistemi che funzionano, a cominciare da quello tedesco, e non dovrebbero esserci elementi divisivi. Per quella penale è un’altra cosa. Bisogna rivedere totalmente il codice Vassalli, che è stato snaturato, e imprimergli un carattere più garantista e pragmatico. Occorre eliminare l’obbligatorietà dell’azione penale, separare le carriere, insomma fare un codice davvero liberale. Quindi un vasto programma, che questo Parlamento non può e non intende fare. Aspettiamo il prossimo».

La sensazione è che si fermerà solo l’abolizione della prescrizione: lei cosa ne pensa?

«Prima si elimina questo mostro voluto dal ministro Bonafede meglio è».

L’avvocato Coppi sostiene che sia la politica in realtà a non voler riformare la magistratura, perché una giustizia alla deriva ormai è funzionale al Palazzo: lei cosa pensa?

«Sono più pessimista del prof Coppi. La politica non fa le riforme perché ha paura delle reazioni della magistratura, e visti i precedenti direi che è un timore fondato. Inoltre spera sempre di servirsene per eliminare l’avversario. I casi di Berlusconi, Salvini e anche di Boschi e Renzi insegnano. Purtroppo Renzi, autorizzando il procedimento a Salvini per i processi in Sicilia, è caduto nella stessa trappola. È stato deludente».

Che idea si è fatto dell’inchiesta su Ciro Grillo: perché è rimasta in sonno per due anni?

«La sortita di Grillo è un’esaltazione coribantica che ci dovevamo aspettare. Semmai dobbiamo chiederci come mai milioni di italiani si siano lasciati affascinare da un personaggio del genere. Per il resto è una nemesi nei confronti di un giustizialista che ha sempre sputato veleno sugli indagati, ma la sua reazione è così squallida che, di fronte ai gravi problemi di cui stiamo parlando, non merita altri commenti».

La credibilità della magistratura presso gli italiani è crollata al 30%: come si spiega questo e il successo del libro-confessione di Palamara?

«Mi stupisco che sia ancora cosi alta».

FONTE: https://www.liberoquotidiano.it/news/italia/27100242/carlo-nordio-terremota-magistratura-palamara-solo-inizio-in-arrivo-altro-scandalo.html

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

La frammentazione degli Stati Europei è una necessità storica

di JOSEPH HENRIET

E sotto gli occhi di tutti, ed è un fatto innegabile, che la Confederazione Elvetica, una Nazione piccola rispetto agli altri Stati europei vicini, è una fra le prime potenze economiche mondiali. La sua posizione sembra sia stata raggiunta grazie al fatto che non è uno stato centralista. Confederazione di nome, è in pratica è una Federazione di Cantoni, piccoli stati, che conservano un alto grado di sovranità rispetto all’organo federale sovra-cantonale. E’ stato possibile raggiungere questa posizione anche perché in quel paese il popolo è interpellato regolarmente e le sue decisioni sono sempre prese in considerazione: questo fatto crea nella società svizzera un alto grado di coesione sociale che permette di superare anche le situazioni più critiche, quando esse si presentano. In questa nazione vige la democraziadiretta (politeia aristotelica o poliarchia di cui parla il politologo americano, Robert Dahl), forma di governo diversa dall’oligarchia praticata in quasi tutti gli altri Paesi europei. L’oligarchia allontana la gente dalla politica, mentre la poliarchia  sviluppa nella società la coesione sociale; coesione sociale che porta, ad esempio, quando c’è bisogno di aumentare la produzione di un’azienda, gli operai stessi a prendere la decisione di allungare l’orario di lavoro. In clima di poliarchia, la corruzione è quasi del tutto assente e l’onestà, la correttezza, la puntualità e l’efficienza sono solide caratteristiche dell’amministrazione pubblica e privata. Non a caso i capitali di mezzo mondo sono affidati ai banchieri svizzeri.

La Germania attuale sembra avere brillantemente superato la crisi di questo inizio millennio proprio perché è organizzata anch’essa in senso federale, più o meno come la Svizzera. E’ composta da sedici Lander che hanno una propria Costituzione, un’ampia sovranità e molta autonomia che assicura il mantenimento delle diversità regionali. Solo in  uno stato federale, dove il popolo si sente responsabilizzato, è possibile che si formi quello  spirito di sacrificio necessario in certi momenti storici per superare crisi e difficoltà che inaspettatamente o meno  si presentano. In uno stato federale è anche possibile meglio controllare l’operato dei propri governanti sicché questi generalmente sono di etica esemplare. Ciò porta al rigoroso rispetto delle leggi e alla  serietà nell’attuare le decisioni prese, anche se non sempre popolari. In uno stato federale, più che in uno centralizzato, è molto più alta la coesione sociale che porta tutte le classi  sociali  e corporazioni ad accettare, quando necessario, di fare i sacrifici in proporzione alle loro capacità economiche.

Gli Stati Uniti d’America, che insieme alla Svizzera, sono gli stati  in cima alla graduatoria  mondiale per progresso scientifico e tecnologico e per prodotto industriale lordo, è un altro paese a conduzione federalista, dove si dà ampio spazio alla meritocrazia, alla giustizia sociale e alla serietà amministrativa.

Andando a ritroso nella storia, osserviamo la Grecia classica: essa ha prodotto le basi del pensiero scientifico, che poi avrebbe permesso il nostro progresso tecnologico, quando era un paese molto diviso:  le città erano praticamente indipendenti, molto sovente in conflitto fra di loro, ma anche  in sana e proficua competizione e unite nel combattere il nemico straniero.

E’ notorio che il Rinascimento italiano, con il ripescaggio del pensiero greco classico,  ha prodotto il miracolo italiano in campo artistico, culturale ed economico, influenzando in seguito tutta l’Europa occidentale e gettando le basi della sua supremazia tecnologica, con lo sviluppo  industriale, sostituendosi alla Cina. Il Rinascimento è nato  quando l’Italia era frammentata in numerosi stati indipendenti, più o meno la situazione della Grecia antica,  fra di loro in competizione.

In queste cinque nazioni   era, ed è presente, lframmentazione statale, di cui parleremo, che favorisce la crescita culturale, le scoperte, le innovazioni, il benessere economico e la pace sociale.

La frammentazione, risultato della decentralizzazione degli stati,  è dunque  humus necessario per progredire. In questo momento, per le società europee, progredire vuol dire innanzitutto guarire dai mali che l’affliggono: corruzione, mancanza di potere decisionale da parte del popolo, povertà culturale, ricerca frenata e compromessa, asfissiante burocrazia che assorbe gran parte delle risorse provenienti dalle tasse, e altro ancora… Solo la frammentazione  degli stati renderà possibile il percorso di risanamento e di ripartenza.

La frammentazione politica porta però benefici solo in presenza di altre caratteristiche come la diversità culturale e la libera circolazione degli individui. La frammentazione  non deve  essere né troppo piccola né eccessiva. Ci deve essere un grado di frammentazione ottimale: gli stati risultanti dal processo di frammentazione devono essere per così dire a dimensione d’uomo dove si possa sviluppare una economia sufficientemente solida. Fatto che escluderebbe, ad esempio, che  la piccola Valle d’Aosta, o le Langhe, o la Valtellina possano aspirare ad essere stati-membro della Confederazione europea, mentre sarebbe ammissibile la candidatura dell’Arpitania o della Federazione Padana.

A sostegno di quanto affermiamo, analizziamo ancora, con l’aiuto dello storico Jared Diamond, la storia della Cina, dell’Europa occidentale e dell’India. Fino al Cinquecento la Cina era tecnologicamente più avanzata e lo è stata per due millenni. Pensate a tutte le scoperte e invenzioni fatte in quel paese e diffuse nel mondo intero: la polvere da sparo,   la stampa, la bussola, la carta, la porcellana, l’acciaio, la pasta, l’agopuntura e molte altre.

 Sembra però che il suo monolitismo politico, l’organizzazione verticistica dell’impero e la vastità del territorio centralmente controllato dall’imperatore e dalla ridotta cerchia dei suoi consiglieri, abbiano frenato  ad un certo punto la  crescita tecnologica e la capacità d’innovare. Il governo cinese scelse, per esempio, di non sviluppare  la marina, anche se fu la Cina ad inventare la bussola; marina che ha invece fatto la fortuna dell’Europa occidentale; le permise di scoprire le Americhe e poi di occupare l’Oceania. I cinesi si limitarono a conquistare le etnie continentali vicine, ma mai si spinsero lontano sui mari: cosa che avrebbero senz’altro fatto se avessero appunto sviluppato la marina.

A partire dal Cinquecento fu l’Europa a prendere la testa dello sviluppo tecnologico, l’Europa che era divisa in numerosi stati in competizione fra di loro, dove la  disunità politica favoriva la competizione, dava maggiore possibilità agli innovatori di sviluppare le loro idee e dunque consentiva l’avanzamento della scienza e della tecnologia. Se ci fosse stata unità politica europea, probabilmente il rifiuto del Portogallo di finanziare il  progetto di Colombo, sarebbe stato assoluto e definitivo; il navigatore non avrebbe potuto indirizzarsi ad altri, come ha fatto poi con la Spagna, e il suo progetto sarebbe naufragato. Gli europei non avrebbero scoperto l’America e non ci sarebbero stati tutti i benefici derivati. A differenza della Cina e dell’Europa che sono riuscite alternativamente a  primeggiare in ambito tecnologico, l’India, che aveva tutte le possibilità per farlo, non è mai riuscita a distinguersi; da quel grande Paese non è mai uscito alcun apporto significativo per il progresso scientifico. Ciò è dovuto a due principali fattori: l’eccessiva frammentazione del territorio e la divisione della società in classi impermeabili che non favorivano certo la solidarietà sociale che ritroviamo in una società dove vige la democrazia diretta o poliarchia.

La frammentazione ottimale si applica perfino alle semplici aziende allo scopo di favorire la formazione e la nascita di idee innovative. La fortuna di Microsoft è dovuta al fatto che essa è organizzata in tante piccole aziendine semi-indipendenti in competizione tra[j1]  loro a cui si lascia grande libertà  creativa e di gestione del tempo. L’ IBM invece perse competitività rispetto a Microsoft perché era un’azienda a conduzione verticistica,  divisa in gruppi gerarchici isolati. Questo modello di amministrazione si è rivelato inefficiente e ha comportato il declino dell’azienda.  Per risalire la china, ora la IBM sta copiando gli schemi organizzativi della Microsoft.

E’ possibile  stabilire dunque una regola generale valida a tutti i livelli, a cominciare dal livello aziendale per andare fino a quello dell’organizzazione degli stati. Se si vuole essere innovati  e competitivi, a livello organizzativo europeo, non dobbiamo strutturarci in modo troppo monolitico, troppo gerarchico e verticista, né troppo frammentario, ma dividerci in sottogruppi in competizione interna e con alto livello di comunicazione.

L’applicazione del federalismo in Europa, alternativa al tipo di unione centralizzata alla quale molto faticosamente stanno oggigiorno lavorando Germania, Italia, Francia e gli altri Paesi, deve essere assolutamente e seriamente presa in considerazione. L’Europa ridisegnata tenendo conto delle specificità culturali dei popoli che la compongono è una necessità storica che non si deve ignorare. Cancellare gli stati attuali e riarchitetturare politicamente e amministrativamente tutta l’Eurasia occidentale è condizione imprescindibile per un migliore vivere sociale. Il progetto deve essere realizzato  senza cadere più in basso. E’ sufficiente armarsi di saggezza e di buona volontà.

Dice Diamond Jared: ” L’Europa sempre più lanciata sulla strada dell’unità dovrà cercare in tutti i modi di non fare sparire quelle condizioni favorevoli di diversità che ne hanno assicurato il successo negli ultimi cinque secoli”.

FONTE: http://aurorasito.altervista.org/?p=16334

 

I generali avvertono Macron: “Vicini alla guerra civile”

I militari mettono in guardia Emmanuel Macron: la Francia rischia la guerra civile. E questo allarme di decine di generali, contenuto in una lettera pubblicata da Valeurs Actuelles a firma di da Jean-Pierre Fabre-Bernadac, scatena le reazioni di tutta la Francia che si interroga non solo sul ruolo dei militari, ma anche della stessa condizione del paese.

La paura della “disintegrazione”

La lettera ha un titolo molto chiaro: “Per un recupero dell’onore dei nostri governanti: 20 generali chiedono a Macron di difendere il patriottismo”. La richiesta dei generali è principalmente di fermare un fenomeno che terrorizza i militari francesi: la “disintegrazione”. È un fenomeno che gli alti militari d’Oltralpe legano principalmente a fenomeni culturali specifici: l’antirazzismo e l’islamismo. E questi elementi, uniti a una politica che i generali considerano lassista, se non completamente favorevole a certe dinamiche, starebbero favorendo un clima di guerra civile dai contorni inquietanti e poco definibili.

“L’ora è seria, la Francia è in pericolo, diversi pericoli mortali la minacciano” dicono i generali. “Le nostre bandiere tricolori non sono solo un pezzo di stoffa, simboleggiano la tradizione, attraverso i secoli, di coloro che, qualunque sia il loro colore della pelle o la loro fede, hanno servito la Francia e hanno dato la vita per essa. Su queste bandiere, troviamo in lettere d’oro le parole ‘Onore e Patria’. Tuttavia, il nostro onore oggi sta nella denuncia della disgregazione che colpisce la nostra patria”. E la disintegrazione nasce da “un certo antirazzismo” che secondo i militari crea il presupposto per l’odio tra comunità diverse.

Un fenomeno che con islamismo e clan delle periferie degradate “porta al distacco di pezzi di nazione per trasformarli in territori soggetti a dogmi contrari alla nostra costituzione”. La lettera si conclude con la richiesta di intervento immediato da parte del presidente e della politica e con un monito: “Se non si interviene, il lassismo continuerà a diffondersi inesorabilmente nella società, provocando alla fine un’esplosione e l’intervento dei nostri compagni attivi per ​​una pericolosa missione di protezione dei nostri valori di civiltà e salvaguardia dei nostri concittadini su tutto il territorio nazionale”.

La posizione della politica

La lettera non poteva passare inosservata. Il ministro della Difesa, Florence Parly, ha condannato la lettera chiedendo che sia vagliata l’ipotesi di “sanzioni” verso i militari in pensione che hanno firmato l’appello, mentre Jean-Luc Mélenchon di France Insoumise ha annunciato che farà un esposto in procura per accertarsi di cosa ci sia dietro la lettera dei generali. Di diverso tono Marine Le Pen: la leader di Rassemblement National, ai microfoni di “France info”, ha dato il pieno sostegno ai militari dicendo che in quell’appello si chiede solo di “applicare la legge”.

La Francia appare quindi divisa. C’è chi ritiene che questi generali abbiano solo voluto mandare un segnale. Altri pensano che vi sia veramente l’ipotesi di un golpe, dal momento che la missiva è stata pubblicata in occasione del 60esimo anniversario del putsch di Algeri contro Charles de Gaulle. Altri ancora ritengono che sia una lettera che dimostra l’infiltrazione della destra radicale nel mondo militare. Infine c’è chi minimizza il contenuto parlando di generali sostanzialmente ininfluenti, che anche in servizio non hanno mai rappresentato dei pesi massimi delle forze armate.

L’insoddisfazione dei militari

Quello che però è abbastanza chiaro è che questa lettera indica (ancora una volta) che una parte delle forze armate francesi sembra essere sempre meno soddisfatta dell’attuale situazione sociale e politica che vive la Francia. E negli ultimi tempi, questa insoddisfazione appare sempre più in superficie e non solo relegata nei corridoi delle caserme o del ministero della Difesa. Quel sottobosco di malcontento inizia a poco a poco ad affiorare. E i segnali sono molti, specialmente in una fase di avvicinamento a elezioni presidenziali che si preannunciano bollenti.

C’è questa lettera, che, per quanto non necessariamente fondamentale, può certamente essere considerata un momento “clamoroso” nelle logiche del rapporto tra politica e forze armate in Francia. C’è poi il lungo flirt dei gilet gialli con il generale Pierre de Villiers, ex capo di stato maggiore silurato proprio da Emmanuel Macron, e che da tempo è considerato un “populista” che potrebbe creare non pochi problemi ai partiti tradizionali. Anche lui ha spesso parlato del pericolo di un imminente guerra civile, proprio come i firmatari della lettera a Valeurs Actuelles.

E nelle sue interviste e nei suoi testi fa spesso riferimento al pericolo di una Francia disintegrata, senza valori condivisi, senza tradizioni, invasa e incapace di esprimere una propria potenza internazionale. I punti in comune con i contenuti espressi dai generali della lettera sono tanti. E per la Francia, che nella sua storia ha avuto generali considerati gli unici leader in grado di unire il paese, il segnale non va certamente sottovalutato. La presenza di questo sistema parallelo e interno alle forze armate, preoccupato dalla deriva intrapresa dalla società francese, è un sintomo di un male molto radicato.

FONTE: https://it.insideover.com/politica/i-generali-avvertono-macron-vicini-alla-guerra-civile.html

 

 

 

 

STORIA

La Murder Inc: la battaglia di Kennedy col Leviatano

Cynthia Chung,

SCF 2 aprile 2021

 

La presidenza di Eisenhowe vide Washington arrivare dirigenti d’azienda, avvocati di Wall Street e banchieri d’investimento e una casta di guerrieri strettamente allineata emersa alla ribalta durante la seconda guerra mondiale. Come discusso nella seconda parte di questa serie, la guerra in Vietnam non fu avviato nella data ufficiale del 1 novembre 1955, ma nel 1945, quando le operazioni clandestine nordamericane furono lanciati in Vietnam per “preparare il terreno”. Fletcher Prouty, che fu capo delle operazioni speciali dei capi di Stato Maggiore congiunti di Kennedy ed era un colonnello dell’aeronautica statunitense, ripercorre nel suo libro “CIA, Vietnam e complotto per assassinare John F. Kennedy“, come la CIA istigò operazioni psicologiche e attività paramilitari (terroristiche) in Vietnam per creare il pretesto per la dichiarazione di guerra aperta e l’ingresso delle forze armate statunitensi nel tritacarne durato vent’anni. Questa era una strategia riservata non solo al Vietnam, ma era la politica estera degli Stati Uniti in tutte le regioni considerate minacce alla Grande Strategia della Guerra Fredda, come si vide sotto la direzione dei fratelli Dulles (vedi Parte 1 e Parte 2 di questo serie).
Qualsiasi Paese che fosse visto avere opinioni non allineate con la politica estera degli Stati Uniti non poteva semplicemente essere invaso nella maggior parte dei casi, ma piuttosto, il terreno avrebbe dovuto essere preparato per creare la giustificazione all’invasione diretta. Questo è uno dei ruoli della CIA che si attiene al motto “ fingi finché non ce la fai”. Non hai un vero “nemico” da combattere e giustificare l’ingerenza negli affari di un altro Paese? Non è un problema. Dividi la tua squadra paramilitare in “bravi ragazzi” e “cattivi” che fingono di combattersi. Andate di villaggio in villaggio a ripetere tale sceneggiata e vedrete con quale rapidità si spargerà la voce che ci sono “pericolosi estremisti” nell’area e in “gran numero”. Prouty descrisse tale attività paramilitare, che si chiama “Fun and Games”, e come tale tattica fu utilizzata anche nelle Filippine, portando all’elezione di Ramon Magsaysay, dichiarato eroe contro un nemico inesistente. In effetti, le unità d’élite filippine addestrate dalla CIA durante questo periodo furono poi portate in Vietnam per mettere in atto la stessa tattica. Prouty scrive: “Ho partecipato a tali programmi di addestramento presso le basi militari statunitensi dove vengono insegnate tattiche identiche sia ai nordamericani che agli stranieri. È lo stesso… queste sono le stesse tattiche sfruttate dal superagente della CIA Edward G. Lansdale [l’uomo a capo della missione militare della CIA a Saigon] e dai suoi nelle Filippine e in Indocina. Questo è un esempio di “Fun and Games” del servizio di intelligence. In realtà, è antico quanto la storia; ma ultimamente fu raffinato, per necessità, in importante strumento di guerra clandestina. Affinché nessuno pensi che sia un caso isolato, stai certo che non lo era. Tali ‘finte battaglie’ e ‘finti attacchi ai villaggi nativi’ furono inscenati innumerevoli volte in Indocina a beneficio di, o a favore di, dignitari in visita, come John McCone quando visitò per la prima volta il Vietnam come direttore dell’intelligence centrale nominato dai Kennedy. [dopo che Kennedy licenziò Allen Dulles]”-
Quello che Prouty affermava, è che le finte battaglie avutesi per tali dignitari erano agenti della CIA che “recitavano” la parte dei vietcong… per far sembrare che fossero non solo numerosi ma estremamente ostili. Se anche i dignitari possono essere ingannati da cose del genere sotto i loro occhi, è davvero sorprendente che un pubblico occidentale che guarda o legge queste cose attraverso l’interpretazione dei media ossa distinguere tra “realtà” e ” realtà inscenata”? Non solo i confini tra operazioni militari e paramilitari sfumarono, ma come afferma Prouty, gli alti ufficiali che supervisionavano la situazione in Vietnam erano tutti agenti della CIA, non solo nelle forze armate statunitensi, ma incluso l’ambasciatore degli Stati Uniti nel Vietnam del Sud, Henry Cabot Lodge. Prouty scrisse: “ L’ambasciatore nordamericano Lodge dal 1945 era uno degli agenti più importanti dell’OSS e poi della CIA in Estremo Oriente. I suoi ordini provenivano da quell’agenzia”. Prouty va oltre dicendo che Lodge fu fatto ambasciatore il 26 agosto 1963 specificamente per rimuovere Ngo Dinh Diem Presidente della Repubblica del Vietnam (Vietnam del Sud), che era alla ricerca di una soluzione pacifica al conflitto. Ngo Dinh Diem fu ucciso due mesi dopo l’arrivo di Lodge in Vietnam, il 1° novembre 1963. Ventuno giorni dopo John F. Kennedy, in procinto di ritirare le truppe nordamericane dal Vietnam, fu assassinato. La guerra del Vietnam continuò per altri 12 anni, coi nordamericani che non avevano nulla. E nel 1976, la città di Saigon, capitale del Vietnam del Sud, fu ribattezzata città di Ho Chi Minh.

Una “eredità di cenere”
La militarizzazione del governo iniziò a rimettere al potere l’élite aziendale, poiché i capitani dell’industria e della finanza si trasferirono nei posti di governo chiave. La presidenza di Eisenhower vide Washington arrivare dirigenti d’azienda, avvocati di Wall Street e banchieri d’investimento e una casta di guerrieri allineati emersa alla ribalta pubblica durante la seconda guerra mondiale. Eisenhower desiderava stabilire la supremazia degli Stati Uniti evitando un’altra guerra e gli oneri imperiali che mandarono in bancarotta la Gran Bretagna (a cui gli Stati Uniti ora fecero la loro offerta col NSC-75). Sfruttando il quasi monopolio delle forze armate statunitensi della potenza nucleare, il presidente sperava di fare della guerra una proposta impensabile per tutti gli avversari dei nordamericani. Il problema della strategia di Eisenhower era che mantenendo Washington in costante stato di allerta, dava potere alle voci estremiste nella sua amministrazione. Eisenhower commise il grave errore di scegliere Foster Dulles come consigliere più intimo, se non più stretti, e quindi, che gli piacesse o no Allen Dulles, dubito che Eisenhower abbia mai avuto un momento sena miele avvelenato costantemente sgocciolatogli nell’orecchio. Il confine tra CIA ed esercito fu sempre più sfumato, poiché gli ufficiali furono assegnati alle missioni delle agenzie d’intelligence e poi rimandati alle loro postazioni militari come “ardenti discepoli di Allen Dulles”, secondo Prouty, che fu ufficiale di collegamento tra Pentagono e CIA dal 1955 al 1963. Verso la fine della presidenza, nel maggio 1960, il presidente Eisenhower programmò una “Crociata per la pace” col vertice finale col Premier dell’URSS Nikita Khrushjov a Parigi. Era il chiaro tentativo di Eisenhower di portare avanti finalmente un’iniziativa che era sua e che non ebbe la “benedizione” da Foster. Se Eisenhower ci riusciva, poteva sciogliere la Grande Strategia della Guerra Fredda e rimuovere la giustificazione al complesso industriale militare.
In preparazione del vertice, la Casa Bianca ordinò di cessare fino a nuovo avviso i sorvoli dei territori comunisti. Eppure, il 1° maggio, 1960, un aereo spia U-2 pilotato da Francis Gary Powers lasciò il Pakistan su una rotta sull’Unione Sovietica per Bodo, Norvegia, contrariamente agli ordini Eisenhower. L’incidente dell’U-2 fu sopra Sverdlovsk. Tra i resti dell’aereo, c’erano soprattutto l’identificazione di Powers come agente della CIA, cosa assai sospetta che un ufficiale dell’intelligence se lo portasse durante una presunta missione segreta. L’incidente bastò ad annullare il vertice di pace e la “Crociata per la pace” fu strangolata nella culla. Le voci abbondarono rapidamente da allora in poi che furono i sovietici ad abbattere l’aereo, tuttavia, fu lo stesso Allen Dulles, che rese testimonianza prima di una sessione a porte chiuse della Commissione per le relazioni estere del Senato che l’aereo spia U-2 non fu abbattuto. ma cadde a causa di “problemi al motore”. (1) Questa importante dichiarazione di Dulles fu ignorata dalla stampa. Più tardi, Eisenhower confermò nelle sue memorie che l’aereo spia non fu abbattuto dai sovietici e che perse potenza del motore atterrando in Russia. Prouty sospettava che il “guasto al motore” potesse essere stato indotto da una pianificata carenza di carburante dell’idrogeno ausiliario e che gli elementi identificativi di Powers furono probabilmente piazzati nel suo paracadute. Con solo una certa quantità di carburante e una rotta dritta, sarebbe stato facile calcolare esattamente dove Powers sarebbero stato costretto ad atterrare. Prouty sospettava che la CIA avesse intenzionalmente provocato l’incidente al fine di rovinare la conferenza di pace e garantire il dominio dogmatico di Dulles. È interessante notare che l’uomo responsabile del programma degli esiliati cubani, Richard Bissell (vicedirettore dei piani per la CIA), era lo stesso che gestiva il programma U-2 e che, secondo Prouty, apparentemente inviò Powers in volo sull’Unione Sovietica il 1° maggio 1960. Richard Bissell, che sicuramente agiva su ordine di Dulles, era tra i tre (Allen Dulles, Direttore della CIA e Charles Cabell, Vicedirettore della CIA) licenziati da Kennedy a seguito del fiasco della Baia dei Porci, o più opportunamente per tradimento.
Il 5 gennaio 1961, nel corso di una riunione del Consiglio di Sicurezza Nazionale, un frustrato e consumato presidente Eisenhower, mise a verbale poche settimane prima che Kennedy assumesse la carica, che la CIA di Dulles gli aveva tolto il posto nella storia come pacificatore e non lasciava altro che “un’eredità in cenere al suo successore”. Eisenhower rilasciò il suo discorso di addio, che deil 17 gennaio 1961, dove avvertì il popolo nordamericano su ciò che infettò il suo mandato presidenziale per otto anni: “Nei consigli del governo, dobbiamo guardarci dall’acquisizione di un’influenza ingiustificata, cercata o meno, dal complesso militare-industrial … Il potenziale per la disastrosa ascesa di un potere deviato esiste e persisterà”.

L’ascesa della Fenice
Eisenhower avrà lasciato un’eredità in cenere al predecessore, ma da quelle ceneri emerse una forza che sfidò direttamente il dominio della “élite del potere”. (2) Nell’aprile 1954, Kennedy si alzò all’aula del Senato per contestare il sostegno dell’amministrazione Eisenhower alla condannata guerra imperiale francese in Vietnam, prevedendo che questa non sarebbe stata una guerra breve. (3) Nel luglio 1957 Kennedy prese ancora una volta posizione ferma contro il colonialismo francese, questa volta sulla sanguinosa guerra della Francia contro il movimento indipendentista algerino, che trovò di nuovo l’amministrazione Eisenhower dalla parte sbagliata della storia. Alzandosi al Senato, due giorni prima del Giorno dell’Indipendenza dell’America, Kennedy dichiarò: “La forza più potente al mondo oggi non è né il comunismo né il capitalismo, né la bomba H né il missile: è l’eterno desiderio dell’uomo di essere libero e indipendente. Il grande nemico di questa tremenda forza di libertà è chiamato, per mancanza di un termine più preciso, imperialismo. e oggi questo significa imperialismo sovietico e, che ci piaccia o no, e sebbene non debbano essere equiparati, l’imperialismo occidentale. Pertanto, la prova più importante della politica estera nordamericana oggi è come affrontiamo la sfida dell’imperialismo, cosa facciamo per promuovere il desiderio dell’uomo di essere libero. In questo test, più che in ogni altro, questa nazione sarà giudicata criticamente da milioni non allineati in Asia e Africa, e guardata con ansia dagli amanti della libertà ancora speranzosi dietro la cortina di ferro. Se non riusciamo a raccogliere la sfida dell’imperialismo sovietico o occidentale, allora nessun aiuto straniero, aumento degli armamenti, nuovo patto o dottrina o conferenza potrà impedire ulteriori battute d’arresto ai nostri corso e sicurezza”. (4)
Nel settembre 1960 si tenne a New York l’annuale Assemblea generale delle Nazioni Unite. Castro e una delegazione di cinquanta componenti erano tra i partecipanti e finirono nei titoli dei giornali quando decisero di soggiornare all’Hotel Theresa di Harlem dopo che lo Shelburne Hotel di Midtown pretese un deposito cauzionale di 20000 dollari. Fece ancor più colpo sui giornali quando tenne un discorso in questo hotel, discutendo dell’uguaglianza negli Stati Uniti mentre si trovava ad Harlem, uno dei quartieri più poveri del Paese. Kennedy visitò lo stesso hotel poco dopo e fece un discorso: “Dietro il fatto che Castro è venuto in questo hotel, [e] Krusciov… c’è un altro grande viaggiatore nel mondo, e questo è il viaggio della rivoluzione mondiale, un mondo in subbuglio… Dovremmo essere contenti [che Castro e Krusciov] siano venuti negli Stati Uniti. Non dovremmo temere il ventesimo secolo, perché la rivoluzione mondiale che vediamo intorno a noi fa parte della Rivoluzione originale”. (5) Cosa intendeva Kennedy? La rivoluzione americana fu combattuta per la libertà, la libertà dalla monarchia e dall’imperialismo a favore della sovranità nazionale. Ciò che Kennedy affermà era che fu proprio l’oppressione che il resto del mondo desiderava scrollarsi di dosso e che gli Stati Uniti avevano l’opportunità di essere a capo della causa dell’indipendenza di tutte le nazioni.
Il 30 giugno 1960, indipendenza della Repubblica del Congo dal dominio coloniale del Belgio, Patrice Lumumba, irimo Primo Ministro congolese tenne un discorso che divenne famoso per la critica aperta al colonialismo. Lumumba parlò della lotta del suo popolo contro “l’umiliante schiavitù che ci è stata imposta… [anni] pieni di lacrime, fuoco e sangue” e concluse giurando “Mostreremo al mondo cosa può fare il nero quando lavora in libertà e faremo del Congo l’orgoglio dell’Africa”. Poco dopo, Lumumba chiarì: “Non vogliamo far parte della Guerra Fredda… Vogliamo che l’Africa rimanga africana con una politica neutralista”. (6) Di conseguenza, Lumumba fu etichettato comunista per il rifiuto di essere un satellite della sfera occidentale. Piuttosto, Lumumba faceva parte del movimento panafricano guidato dal presidente ghanese Kwame Nkrumah (con cui in seguito lavorò anche Kennedy), che cercava la sovranità nazionale e la fine del colonialismo in Africa. Lumumba “rimane un grave pericolo”, disse Dulles in una riunione del NSC il 21 settembre 1960, “fintanto non sarà eliminato”. (7) Tre giorni dopo, Dulles chiarì che voleva che Lumumba fosse rimosso definitivamente, comunicando alla stazione di Leopoldville della CIA, “Vorremmo dare [sic] ogni possibile supporto per eliminare Lumumba da ogni possibilità di riprendere una posizione di governo”. (8) Lumumba fu assassinato il 17 gennaio 1961, appena tre giorni prima della nomina di Kennedy, durante la nebbia del periodo di transizione tra i presidenti, quando la CIA è più libera di legare di agire, sicura che non sarebbe rimproverata dalla nuova amministrazione che vuole evitare scandali nei primi giorni in carica. Kennedy, che chiaramente voleva porre fine alla Murder Inc. che Dulles aveva creato e guidava, dichiarò al mondo nel discorso inaugurale il 20 gennaio 1961, “La torcia è passata a una nuova generazione di nordamericani”. E così iniziò la battaglia di Kennedy col Leviatano.

La resistenza

Oltre ad ereditare la responsabilità sul bene del Paese e del suo popolo, Kennedy ereditò la guerra segreta con Cuba comunista gestita dalla CIA. L’organizzazione della Baia dei Porci avvenne tre mesi dopo. Prouty paragona l’incidente della Baia dei Porci a quello della Crociata per la Pace, entrambi orchestrati dalla CIA per impedire al presidente degli Stati Uniti di un dialogo pacifico con Krusciov e ridurre le tensioni della Guerra Fredda. Entrambi i presidenti affrontarono gli eventi, nonostante la responsabilità ricada sulla CIA. Tuttavia, Eisenhower e Kennedy capirono che, se non l’avessero fatto, avrebbero ammesso pubblicamente che non avevano alcun controllo sulle agenzie governative e i militari. Inoltre, l’operazione Baia dei Porci era destinata a fallire. Aveva lo scopo di suscitare una protesta pubblica a favore dell’invasione di Cuba. In pubblico ci fu un incontro (o più appropriatamente descritto come intervento) col vicedirettore della CIA per i piani Richard Bissell, il presidente dei Capi di Stato Maggiore congiunti Lyman Lemnitzer e l’ammiraglio a capo della marina Burke che cercavano di forzare il presidente Kennedy affinché approvasse un attacco militare diretto su Cuba. L’ammiraglio Burke si era già preso la libertà di posizionare due battaglioni di marines sui cacciatorpediniere della Marina al largo di Cuba “prevedendo che le forze statunitensi sarebbero state invitate a Cuba per salvare l’invasione fallita”. (9) (Questo incidente fu ciò che ispirò il film di Frankenheimer “Sette giorni a Maggio”). Kennedy restò fermo nella sua decisione. “Erano sicuri che mi sarei arreso”, disse in seguito Kennedy all’Assistente speciale del presidente Dave Powers. “Non potevano credere che un nuovo presidente come me non fosse nel panico e cercasse di salvare la faccia. Beh, avevano capito che avevano sbagliato tutto”. (10) Incredibilmente, non solo il giovane presidente si oppose ai falchi belluini di Washington a soli tre mesi dall’inizio del mandato presidenziale, ma anche lanciò il Cuba Study Group che riteneva che la CIA fu responsabile del fiasco, portando alle umilianti dimissioni di Allen Dulles, Richard Bissell e Charles Cabell. (Per ulteriori informazioni su questo, fare riferimento al mio articolo). Sfortunatamente, non fu facile detronizzare Dulles, che continuò a fungere da capo della CIA, e membri chiave della comunità dell’intelligence come Helms e Angleton aggiravano regolarmente McCone informando Dulles direttamente. (11) Ma Kennedy era anche intenzionato ad andare fino in fondo, e giurò di “fare la CIA in mille pezzi e disperderla ai venti”.
C’è un altro incidente piuttosto significativo verificatoso pochi giorni dopo la Baia dei Porci, oscurato dal fiasco cubano. Il 21-26 aprile 1961 ad Algeri vi fu il putsch dei generali, fallito colpo di Stato destinato a costringere il Presidente de Gaulle (1959-1969) a non abbandonare l’Algeria il coloniale francese. Gli organizzatori del golpe si opposero ai negoziati segreti che il primo ministro francese Michel Debré avviò col Fronte di liberazione nazionale (FLN) anti-coloniale. Il 26 gennaio 1961, appena tre mesi prima del tentato golpe, Dulles inviò una relazione a Kennedy sulla situazione francese, che sembrava suggerire che attorno de Gaulle, “regna un’atmosfera-prerivoluzionaria… L’esercito e l’aviazione sono fermamente contrari a de Gaulle … Almeno l’80% degli ufficiali è violentemente contro di lui. Non hanno dimenticato che nel 1958 diede la sua parola d’onore che non avrebbe mai abbandonato l’Algeria. Ora rinnega la promessa e lo odiano per questo. de Gaulle sicuramente non durerà se cercherà di lasciare l’Algeria. Probabilmente tutto sarà finito per lui alla fine dell’anno: verrà deposto o assassinato “. (12) Il tentato colpo di Stato fu guidato da Maurice Challe, che de Gaulle aveva motivo di ritenere che operasse col sostegno dell’intelligence statunitense, e funzionari dell’Eliseo iniziarono a dirlo alla stampa, che riferì che la CIA fosse uno “Stato nello Stato reazionario” che operava al di fuori del controllo di Kennedy. (13) Poco prima delle dimissioni di Challe dall’esercito francese, fu comandante in capo della NATO e aveva sviluppato strette relazioni con numerosi alti ufficiali statunitensi nel quartier generale di Fontainebleau dell’alleanza militare. (14) Nell’agosto del 1962, l’OAS (Secret Army Organization) compì un attentato contro de Gaulle, credendo avesse tradito la Francia cedendo l’Algeria ai nazionalisti algerini. Questo fu il più noto tentativo di omicidio di de Gaulle (che sopravvisse ad oltre trenta attentati mentre era presidente della Francia), quando una dozzina di cecchini dell’OAS aprì il fuoco sulla sua auto, riuscendo a sfuggire all’imboscata nonostante i pneumatici fossero stati forati. Dopo il fallito colpo di Stato, de Gaulle epurò le forze di sicurezza e spodestò il generale Paul Grossin, capo dello SDECE (il servizio segreto francese). Grossin era allineato alla CIA e durante un pranzo disse a Frank Wisner che il ritorno al potere di de Gaulle equivaleva alla presa del potere dei comunisti a Parigi. (15) Nel 1967, dopo cinque anni di ricerca i servizi segreti francesi pubblicarono le loro conclusioni sull’attentato del 1962 a de Gaulle. Il rapporto indicò che il complotto per l’assassinio del 1962 risaliva al quartier generale della NATO a Bruxelles e ai resti del vecchio apparato di intelligence nazista. Il rapporto rilevò che la Permindex aveva trasferito 200000 dollari su un conto bancario OAS per finanziare il piano. Come risultato dell’esposizione, Permindex fu costretta a chiudere le sue operazioni pubbliche in Europa occidentale e trasferì la sede da Berna, in Svizzera, a Johannesburg, in Sud Africa, aveva ed ha una base, e a Montreal, in Canada, dove il suo fondatore, maggior-generale Louis M. Bloomfield (ex-OSS) appariva orgogliosamente tra i membri del consiglio, fino al rapporto de Gaulle. La rilevanza di ciò per Kennedy è discussa a breve. A seguito delle indagini della SDECE, de Gaulle denunciò con veemenza la violazione angloamericana della Carta atlantica, seguita dal ritiro della Francia dal comando militare della NATO nel 1966. La Francia non tornò nella NATO che nell’aprile 2009 col summit Strasburgo-Kehl. Inoltre, il 14 gennaio 1963, de Gaulle dichiarò che poneva il veto all’entrata britannica nel mercato comune. Questa fu la prima mossa verso la formazione di Francia e Germania occidentale del Sistema monetario europeo, escludendo la Gran Bretagna, probabilmente a causa delle tendenze imperialiste e della famigerata City di Londra. L’ex-segretario di Stato Dean Acheson telegrafò direttamente il cancelliere della Germania occidentale Konrad Adenauer, invitandolo a cercare di persuadere de Gaulle a fare marcia indietro affermando “se qualcuno può influenzare la decisione del generale de Gaulle, sei sicuramente tu”. Non sapeva Acheson cje Adenauer a pochi giorni di distanza avrebbe firmato il trattato franco-tedesco del 22 gennaio 1963 (noto anche come Trattato dell’Eliseo), che ebbe enormi implicazioni. Le relazioni franco-tedesche, dominate da secoli di rivalità, avevano ora deciso che i loro destini erano legati. (Questa relazione proseguì culminando alla fine degli anni ’70 con la formazione dello SME, e la volontà di Francia e Germania occidentale nel 1977 di lavorare coi Paesi OPEC che scambiavano petrolio con tecnologia nucleare, sabotati dall’alleanza USA-Gran Bretagna . Per ulteriori informazioni su questo, leggasi il mio articolo). Il Trattato dell’Eliseo fu la chiara denuncia della vigorosa supervisione anglo-americana che pervadeva l’Europa occidentale dalla fine della seconda guerra mondiale.
Il 28 giugno 1961, Kennedy scrisse il NSAM # 55. Questo documento passò la responsabilità della difesa durante la Guerra Fredda dalla CIA al Joint Chiefs of Staff e avrebbe (se visto fino in fondo) cambiato drasticamente il corso della guerra in Vietnam. Avrebbe anche rimosso efficacemente la CIA dalle operazioni da Guerra Fredda e limitata alla sola responsabilità legale, il coordinamento dell’intelligence. Lo stesso anno in cui de Gaulle e Adenauer strinsero il patto per escludere la Gran Bretagna dal Mercato Comune, Kennedy firmò l’Executive Order 11110 il 4 giugno 1963, aggirando il monopolio della Federal Reserve sul controllo della valuta statunitense per la prima volta da quando banca centrale privata fu creata nel 1913. Questo ordine esecutivo autorizzava il Tesoro degli Stati Uniti ad emettere banconote basate sull’argento e “a emettere certificati d’argento contro lingotti d’argento, argento o dollari d’argento standard del Tesoro”. L’11 ottobre 1963, il NSAM#263, strettamente supervisionato da Kennedy (16), fu rilasciato delineando la decisione politica “di ritirare 1000 militari [dal Vietnam] entro la fine del 1963”, e inoltre dichiarò che “sarà possibile ritirare la maggior parte del personale statunitense [compresi CIA ed esercito] entro il 1965″. Il quotidiano delle forze armate Stars and Stripes titolò LE TRUPPE DEGLI STATI UNITI FUORI DAL VIETNAM NEL ’65. Coll’assassinio di Ngo Dinh Diem, probabilmente ordinato dalla CIA, il 2 novembre 1963, e di Kennedy solo poche settimane dopo il 22 novembre 1963, il presidente de facto Johnson firmò il NSAM#273 il 26 novembre 1963, ribaltando la politica di Kennedy. E il 17 marzo 1964, Johnson ha firmato il NSAM#288 che avviò la piena escalation della guerra del Vietnam coinvolgendo 2709918 nordamericani direttamente in Vietnam, dei 9087000 al servizio delle Forze Armate degli Stati Uniti durante quel periodo. La guerra del Vietnam continuò per 12 anni dopo la morte di Kennedy, in tutto 20 anni per i nordamericani e 30 anni se si contano le loro azioni segrete in Vietnam.

Gli ultimi giorni di Kennedy
Con la Germania che sosteneva la denuncia di de Gaulle della rete di assassini internazionali e la sua ferma opposizione all’imperialismo occidentale e alla NATO, e un giovane Kennedy che si oppose a Federal Reserve e guerra imperialista del Vietnam, era chiaro che l’élite al potere era in grossi guai. Ci sono molte falsità per cercare di ridicolizzare chiunque contesti il rapporto ufficiale della Commissione Warren come nient’altro che complottista. E che non dovremmo ritenere sospetto che Allen Dulles, tra tutti, fosse membro di tale commissione. Il lettore dovrebbe ricordare che gran parte di questa schiumosa opposizione deriva proprio dall’agenzia che perpetrava un crimine dopo l’altro contro il popolo nordamericano, così come all’estero. Quand’è che la CIA mai ammise colpe, a meno che non venga colta in flagrante? Anche dopo le udienze del comitato Church, quando la CIA fu giudicata colpevole di aver pianificato omicidi all’estero, affermò di aver fallito in ogni complotto o che qualcuno l’aveva battuta sul tempo. Il popolo nordamericano deve capire che la CIA non è un’agenzia rispettabile; non abbiamo a che fare con uomini onorevoli. Sono canaglie che credono che il fine giustifichi i mezzi, che siano gli uomini del re per così dire, al di sopra del governo e della legge. Chi era al vertice, come Allen Dulles, era irremovibile quanto Churchill nel proteggere gli interessi dell’élite al potere, o come diceva, “l’Alta Cabala”. È interessante notare che il 22 dicembre 1963, appena un mese dopo l’assassinio di Kennedy, Harry Truman pubblicò una critica feroce della CIA su The Washington Post, arrivando a dire “C’è qualcosa nel modo in cui la CIA funziona che getta un’ombra sulla nostra posizione storica [come] società libera e aperta, e sento che dobbiamo correggerlo”. (17) Il tempismo qui fu tutto. Come affermò Prouty, chiunque abbia un pomeriggio libero potrà scoprire che la Commissione Warren era un miscuglio imbarazzante e incompetente, che riteneva un fatto dimostrato che Oswald uccise Kennedy e che ignorava qualsiasi cosa contraria a tale narrativa. Non solo il verbale dell’interrogatorio di Oswald al dipartimento di polizia di Dallas fu bruciato, probabilmente perché fece la scomoda affermazione di essere uno “zimbello”, ma il test sui nitrati che dimostrò che non aveva mai sparato quel 22 novembre 1963, fu tenuto segreto per 10 mesi e rivelato solo nel rapporto finale (18), che inspiegabilmente non cambiò la conclusione del rapporto che Oswald sparò a Kennedy.
Durante il processo sull’assassinio di Kennedy (1967-1969) Garrison citò in giudizio il film di Zapruder rinchiuso in un caveau della rivista Life (il cui fondatore Henry Luce era noto collaboratore della CIA (19)). Questa fu la prima volta in più di cinque anni che il film di Zapruder fu reso pubblico. Si scopre che la copia dell’FBI inviata alla Commissione Warren aveva due fotogrammi cruciali invertiti per creare la falsa impressione che il colpo di fucile provenisse da dietro. Quando Garrison ottenne il film originale, si scoprì che il colpo alla testa in realtà proveniva da davanti. In effetti, ciò che il film mostrava era che il presidente fu colpito da più angolazioni, il che significa che c’era più di un tiratore. Questa non era l’unica prova ad essere manomessa, ciò include i rapporti sull’autopsia di Kennedy. C’è anche la questione dei documenti originali dell’autopsia distrutti dal medico a capo dell’autopsia, James Humes, che persino testimoniò alla Commissione Warren, e apparentemente nessuno si preoccupò di chiederne il perché… Inoltre, Jim Garrison, procuratore distrettuale di New Orleans all’epoca che accusò Clay Shaw come membro della cospirazione per uccidere Kennedy, oltre a scoprirne i legami con David Ferrie, trovato morto nel suo appartamento il giorno prima che testimoniasse, affermò che il New Orleans International Trade Mart (di cui Clay Shaw era direttore), sussidiaria di Permindex, era collegato all’omicidio di Kennedy. Garrison fece un lavoro straordinario date le probabilità contro cui andava, e il numero di testimoni morti prima del processo… il collegamento con Permindex non sarebbe così dannoso se non avessimo il rapporto dei servizi segreti francesi, SDECE; ma l’abbiamo. E si ricordo che in quel rapporto Permindex fu sorpreso trasferire 200000 direttamente al contro banvario dell’OAS, che tentò di assassinare de Gaulle. Pertanto, l’implicazione della Permindex in un giro di omicidi internazionale non è discutibile. Inoltre, la CIA fu colta in questi tentativi di assassinio contro de Gaulle, quindi non va scartata la possibilità che la Permindex fosse davvero una facciata della CIA per una squadra internazionale. In effetti, tra i personaggi strani e gli assassini che convergevano a Dallas nel novembre 1963, c’era il famigerato commando francese dell’OAS Jean Souetre, legato ai complotti contro il Presidente de Gaulle. Souetre fu arrestato a Dallas dopo l’assassinio di Kennedy ed espulso in Messico. (20) Il colonnello Clay Shaw era un ufficiale dell’OSS durante la seconda guerra mondiale, il che da collegamento diretto alla consapevolezza di Allen Dulles, tornando al punto di partenza.
Dopo il ritorno dal funerale di Kennedy il 24 novembre, de Gaulle e il suo ministro informazioni Alain Peyrefitte ebbero una discussione candida registrata dalle memorie di Peyrefitte “C’était de Gaulle”, il grande generale fu citato dire: “Quello che è successo a Kennedy è quello che è quasi successo a me… La sua storia è la stessa della mia… Sembra una storia di cowboy, ma è solo una storia dell’OAS [Secret Army Organization]. Le forze di sicurezza erano in combutta cogli estremisti… Le forze di sicurezza sono tutte uguali quando fanno tale lavoro sporco. Non appena riescono a spazzare via il falso assassino, dichiarano che il sistema giudiziario non deve più preoccuparsi, che non è necessaria un’ulteriore azione pubblica ora che il colpevole è morto. Meglio assassinare un innocente che lasciare che scoppi la guerra civile. Meglio un’ingiustizia che un disordine. Gli USA corre il pericolo di sconvolgimenti. Ma vedrai. Tutti osserveranno la legge del silenzio. Stringeranno i ranghi. Faranno di tutto per soffocare qualsiasi scandalo. Getteranno il mantello di Noè su tali azioni vergognose. Per non perdere la faccia davanti al mondo intero. Per non rischiare di scatenare rivolte negli Stati Uniti. Per preservare l’unione ed evitare una nuova guerra civile. Per non porsi domande. Non vogliono sapere. Non vogliono scoprirlo. Non permetteranno a se stessi di scoprirlo”.

Note

1) L. Fletcher Prouty, “The Cia, Vietnam and the Plot to Assassinate John F. Kennedy,” pg 147
2) C. Wright Mills, “The Power Elite”
3) David Talbot, “The Devil’s Chessboard, ”Pg 304
4) Ibid, pg 305
5) Ibid, pg 295
6) Ibid, pg 319
7) Ibid, pg 319
8) Ibid, pg 319
9) Ibid, pg 337
10) Ibid, pg 337
11) Ibid, pg 359
12) Ibid, pg 350
13) Ibid, pg 353
14) Ibid, pg 347
15) Ibid, pg 354
16) L. Fletcher Prouty, “The CIA, Vietnam , e il complotto per assassinare John F. Kennedy, “pg xxxiv
17) David Talbot,” The Devil’s Chessboard “, pg 201
18) Jim Garrison,” On the Trail of the Assassins “, pg 116-117
19) David Talbot, “The Devil’s Chessboard”, pagina 72, 128
20) Ibid, pagina 422

FONTE: http://aurorasito.altervista.org/?p=16343

 

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