RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 5 NOVEMBRE 2020

https://it.wikipedia.org/wiki/Drago

RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI

5 NOVEMBRE 2020

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

La felicità non esiste. Non ci resta che essere felici senza.

ROLAND JACCARD, Dizionario del perfetto cinico, Excelsior1881, 2009, pag. 64

 

http://www.dettiescritti.com/

https://www.facebook.com/manlio.presti

https://www.facebook.com/dettiescritti

Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna. 

Tutti i numeri della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com

 

 Precisazioni

 www.dettiescritti.com è un blog intestato a Manlio Lo Presti, e-mail: redazionedettiescritti@gmail.com 

 Il blog non effettua alcun controllo preventivo in relazione al contenuto, alla natura, alla veridicità e alla correttezza di materiali, dati e informazioni pubblicati, né delle opinioni che in essi vengono espresse.

Nulla su questo blog è pensato e pubblicato per essere creduto acriticamente o essere accettato senza farsi domande e fare valutazioni personali. 

 Le immagini e le foto presenti nel Notiziario, pubblicati con cadenza pressoché giornaliera, sono raccolte dalla rete internet e quindi di pubblico dominio. Le persone interessate o gli autori che dovessero avere qualcosa in contrario alla pubblicazione delle immagini e delle foto, possono segnalarlo alla redazione scrivendo alla e-mail redazionedettiescritti@gmail.com 

La redazione provvederà doverosamente ed immediatamente alla loro rimozione dal blog.

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

SOMMARIO

E se un magistrato volesse imputare i firmatari delle autodichiarazioni?
Pazienti prigionieri, la telefonata: «Tutto ciò che vi dicono fuori non è vero»
Dottor Citro: «O sono ignoranti o ordini superiori volevano i morti» – Video
Non si suicidano. Sono ammazzati.
PANDEMIA E CACCIA ALLE STREGHE, ORIZZONTI FUTURIBILI
Manzotti «E se la coscienza non fosse dentro di noi»
IL DRAGO: MITO E SIMBOLO
COLLOQUIO EINSTEIN – TAGORE
Due Portland, stessa visione. No al riconoscimento facciale
Alunni interrogati con una benda sugli occhi, scoppia il caso a Scafati.
SEZIONI UNITE, DISCRIMEN TRA ESTORSIONE ED ESERCIZIO ARBITRARIO DELLE PROPRIE RAGIONI
Germania, egemone delirante.
LOCKDOWN SELETTIVO E L’IMMOBILISMO TATTICO DI CONTE
QUALI SACRIFICI?
Il gioco del poliziotto buono e cattivo, tattica per imporre la decisione gradualmente
L’uomo artificiale
ANTONINO PIO E MARCO AURELIO

 

 

 

EDITORIALE

E se un magistrato volesse imputare i firmatari delle autodichiarazioni?

Manlio Lo Presti – 5 novembre 2020

http://cristianesimo.it/inquisizione.htm

Anche in questo modulo, che la popolazione deve firmare in forza di un ATTO AMMINISTRATIVO DI TERZO LIVELLO (dpcm) E NON IN FORZA DI LEGGE, abbiamo il solito giochino delle citazioni di normative con il rimbalzo delle scatole cinesi per rendere difficile capirci qualcosa.

MODELLO DI AUTODICHIARAZIONE QUI: https://www.interno.gov.it/sites/default/files/2020-10/modello_autodichiarazione_editabile_ottobre_2020.pdf

Da notare che il modello cita gli artt. 46 e 47 della legge 445 del 2000, omettendo deliberatamente l’art. 49 dove è indicato il secco divieto di fare autodichiarazioni sul proprio stato di salute!!! (1)

Sarà pertanto necessario analizzare i contenuti nei rimandi elencati sul modulo perché firmare la autodichiarazione sul proprio stato di salute è vietato dal DPR 445 del 2000, art 49 che, appunto, proibisce seccamente la autodichiarazione sul proprio stato di salute.

TUTTO CIÒ PREMESSO

Firmare di fronte a un pubblico ufficiale significa commettere un falso, come paradossalmente esplicitato, a titolo di minaccia, sul modello stesso!!!!! (Art. 495 C.P.) e come previsto dall’ultimo dpcm (2)

Da quando è iniziata questa sarabanda, non ho incontrato un solo legale sottolineare questa problematica   … NESSUNO!!!

Mi chiedo perché, ma forse ne conosco i motivi.

Nessuno mi proibisce di pensare che, ORDINANDO LA RACCOLTA DI TUTTE LE AUTODICHIARAZIONI FIRMATE DALLA POPOLAZIONE, potrebbe attivarsi, motu proprio, l’azione giurisdizionale di uno o più giudici per incriminare di violazione del sopracitato art. 495 C. P.  COLPENDO TUTTI COLORO CHE HANNO FIRMATO TEMPO PER TEMPO LA CRIMINOGENA AUTODICHIARAZIONE AL PUNTO RIGUARDANTE IL PROPRIO STATO DI SALUTE!

Vediamo cosa accadrà, ma questo scenario non è del tutto “peregrino”…

Nessun avvocato né l’Ordine degli Avvocati stanno preparando linee difensive a tutela dei cittadini???

NON ACCETTO DI CREDERE AD UNA TALE OMISSIONE PROFESSIONALE

Aspettiamoci che qualche magistrato si alzi una mattina

– sempre e comunque dietro ordine di settori dissidenti degli ALTI COMANDI –

e proceda alla denuncia di tutti i firmatari…

P. Q. M.

TUTTI I CITTADINI POTRANNO ESSERE IMPUTATI E SANZIONATI FEROCEMENTE EX ART. 495 CODICE PENALE ITALIANO per mendacio di fronte ad un pubblico ufficiale!

Siamo tutti sotto questa spada di Damocle.

L’ORDINE E’ QUELLO DI METTERE SOTTO SCACCO LA POPOLAZIONE PER LA SUA SOTTOMISSIONE CON QUESTA CACCIA ALLE STREGHE GIURIDICA

Uno scenario da incubo, ma utile per spingere la ex-italia al collasso definitivo, come da copione scritto SEMPRE DA “ALTRI”

 

NE RIPARLEREMO

 

 

NOTE

 

 

 

 

IN EVIDENZA

Pazienti prigionieri, la telefonata: «Tutto ciò che vi dicono fuori non è vero»

 

pazienti prigionieri ospedali

Pazienti prigionieri negli ospedali? Telejato, un’emittente siciliana, ha raccolto la testimonianza di un paziente ricoverato nel nosocomio di Partinico (Palermo).

“Gli infermieri mi stanno trattando per quello che possono ma c’è mancanza anche della terapia. La terapia di questa mattina ce l’hanno fatta alle 13:50, quando dovevamo fare la seconda”. Sono le parole di un paziente covid – raggiunto telefonicamente dalla redazione di Telejato – ricoverato all’Ospedale Partinico, in provincia di Palermo.

L’uomo ha raccontato di vivere una situazione assurda e fuori da ogni logica. “Al mio compagno di stanza manca un lenzuolo. Un infermiere per provare le flebo ha spruzzato l’acqua sui nostri cuscini e abbiamo dormito bagnati”.

Quando il giornalista gli ha chiesto se era in contatto con i parenti e perché questi non fossero andati a denunciare l’accaduto ai carabinieri, ha risposto che la famiglia era tutta in quarantena.

Pazienti prigionieri negli ospedali

“Siamo abbandonati a noi stessi. C’è carenza di tutto, ci attaccano delle flebo e ci dicono che sono degli antibiotici ma non conosciamo il motivo per cui ce li fanno. Ci sono pazienti con lenzuola sporche di sangue già da 4/5 giorni e nessuno le cambia”.

Nel continuare a descrivere la situazione racconta che nel loro reparto ci sono state anche persone che avrebbero dovuto essere in psichiatria.

“La prima notte ci hanno dato una persona mentalmente instabile. Io e il mio compagno di stanza abbiamo vegliato tutta la notte perché voleva buttarsi giù dalla finestra. Lui apriva la finestra e noi la chiudevamo”.

“Mi sembra di essere entrato in un film dove non c’è nessuno che mi dà uno sguardo. Non c’è una parola di conforto, un dottore che mi abbia detto «C’è questo problema». Non so niente, la mia fortuna è parlare con lei. Sono 5 giorni che non vedo nessuno, che mi hanno buttato qui”.

“Mi moglie mi chiama ma non sa niente, mi chiede come sto e io le dico che sto bene. Ho due figli minori a casa che ancora aspettano di poter fare il tampone per tornare a scuola. Sono incarcerati in casa e io sono incarcerato in ospedale”.

Quando il giornalista ha detto che quella situazione era a dir poco incredibile, il paziente ha risposto che se non la si vive non ci si può credere.

“Tutto quello che vi dicono all’esterno non è vero, tutto quello che stiamo vivendo qui è surreale. Non so come andrà a finire. Non so se è un cartone animato o se siamo su Scherzi a parte”.

L’uomo ha raccontato di essere stato inizialmente ricoverato a Palermo per una broncopolmonite ma che, al momento, non aveva né febbre né difficoltà respiratorie.

VIDEO QUI: https://www.facebook.com/141124fc-38a8-4ab1-bfe4-ed2d269c07da

FONTE: https://www.oltre.tv/pazienti-prigionieri-telefonata-dicono-fuori-vero/

 

 

 

Dottor Citro: «O sono ignoranti o ordini superiori volevano i morti» – Video

Il dottor Massimo Citro ha rilasciato un’intervista in cui elenca tutte le informazioni che le istituzioni hanno nascosto ai cittadini. 

Massimo Citro è un medico chirurgo e ricercatore scientifico. Ha una specializzazione in Psicoterapia ed è il direttore dell’istituto di ricerca IDRAS.

Tra le sue ricerche più significative troviamo il Trasferimento Farmacologico Frequenziale (TFF). È una metodica che permette di somministrare le proprietà farmacologiche di molte sostanze attraverso un circuito elettronico.

In una sua recente intervista, il dottor Citro non ha edulcorato i termini e ha iniziato il suo intervento dichiarando: «Questo secondo me è un colpo di Stato mondiale».

Il dottore ha affermato che l’infezione da SARS-CoV-2 è stata completamente stravolta dalla propaganda continua di istituzioni e giornali.

Per lo psicoterapeuta le informazioni che il Ministero avrebbe dovuto passare agli italiani sono del tutto diverse da quelle che hanno generato paura, come i bollettini giornalieri della Protezione Civile.

Il dottor Citro ha spiegato che in realtà avrebbero dovuto dire che questo virus, quasi 90 volte su 100, genera una banalissima sindrome influenzale o addirittura dei casi asintomatici.

Affermazione sostenuta anche dal candidato Nobel Stefano Scoglio che, già ad aprile, affermava che fosse una banale influenza.

Dottor Citro: «Hanno fatto credere che fosse peggio delle peste»

La problematica si estendeva quindi solo al 10% dei contagiati in cui l’infezione produceva una reazione immunologica che poteva portare a complicanze estremamente gravi se non mortali.

Tra le complicanze il medico elenca: la polmonite interstiziale bilaterale, l’attacco del virus al sistema immunitario, ai reni e al sistema cardiovascolare e soprattutto la CID (coagulazione intravasale disseminata). In un terzo dei casi ha colpito l’apparato digerente con sintomi non gravi e solo raramente ha avuto effetti a livello neurologico.

«Il punto è che lo Stato ha fatto credere alla gente che fosse qualcosa peggio della peste del Manzoni. Quello che ha vissuto la gente è il terrore che li ha portati a pensare che infettarsi fosse sempre rischioso o mortale», ha affermato il dottor Citro.

Secondo il medico avrebbero dovuto semplicemente allertare dell’esistenza di questo virus, spiegando che nella maggior parte dei casi sarebbe risultata come una semplice influenza, mentre in percentuali minori potevano verificarsi complicanze.

«Quello che il ministero della Salute avrebbe dovuto fare è insegnare ai cittadini come evitare le complicanze. Invece sono riusciti solo a dire di lavarsi le mani».

Ha lanciato una frecciatina al presidente del Consiglio Conte e al suo Comitato tecnico scientifico che dovrebbe essere composto dai migliori scienziati e medici. Allora perché non hanno mai detto niente su come prevenire questa infezione?

Quello che avrebbero dovuto spiegare le istituzioni

Il dottor Citro ha spiegato che le complicanze si manifestano a causa di un organismo intossicato e che quindi era fondamentale suggerire una dieta equilibrata e l’assunzione di vitamina C, vitamina D3 e zinco.

FONTE: https://www.oltre.tv/dottor-citro-ordini-superiori-morti-video/amp/

 

 

 

Non si suicidano. Sono ammazzati.

Maurizio Blondet  28 Ottobre 2020

Mi rimbalzano questo:

RIEPILOGO DEGLI EVENTI SUICIDARI AVVENUTI A PARTIRE DAL 01 GENNAIO 2020, DISTINTI PER DATA, LUOGO E CORPO/ARMA DI APPARTENENZA

Anche per quest’anno ho scelto di tenere aggiornata questa lista, so bene che non è piacevole ricordare questi eventi, ma è necessario per tenere sempre alta l’attenzione su queste tantissime morti per male oscuro  che purtroppo vedono protagonisti gli uomini e le donne in divisa.

App. sc. q. s. Felice D’Auria
Delegato Cobar GdF Lombardia e Coir Italia nord occidentale.

  1. 2 gennaio Roma Guardia di Finanza;
    2. 6 gennaio Tolmezzo (UD) Carabinieri;
    3. 11 gennaio Pescara Carabinieri;
    4.  18 gennaio Mineo (CT) Carabinieri;
    5. 23 gennaio LaSpezia Polizia;
    6. 26 gennaio Roma Polizia;
    7. 29 gennaio Torino Polizia;
    8. 4 febbraio Palazzolo (BS) Polizia Locale;
    9. 14 febbraio La Spezia Marina Militare;
    10. 24 febbraio Reggio Emilia Carabinieri;
    11. 10 marzo Silandro (BZ) Carabinieri;
    12. 2 aprile Como Polizia Penitenziaria;
    13. 13 aprile Napoli Carabinieri;
    14. 23 aprile Fasano fraz. Montalbano (BR) Aeronautica;
    15. 4 maggio Forlì Carabinieri;
    16. 11 maggio Trapani Polizia locale;
    17. 12 maggio Firenze Guardia di Finanza;
    18. 14 maggio Licata (AG) Carabinieri;
    19. 19 maggio Padova Polizia Penitenziaria;
    20. 20 maggio Portici (NA) Polizia Locale;
    21. 23 maggio Bari Guarda di Finanza;
    22. 28 maggio Fossano(CN) Carabinieri;
    23. 30 maggio Bassano del Grappa (VI) Polizia;
    24. 7 giugno Ravenna Capitaneria di Porto;
    25. 8 giugno Cursi (LE) Polizia Penitenziaria;
    26. 27 giugno Val di Cembra (TN) Polizia;
    27. 30 giugno San Marzano di S. Giuseppe (TA) Guardia di Finanza;
    28. 7 luglio Calitri (AV) Carabinieri;
    29. 11 luglio Foligno (PG) Polizia,
    30. 4 agosto Latina Polizia Penitenziaria;
    31. 17 agosto Latina Polizia Penitenziaria;
    32. 22 agosto Palermo, Polizia Penitenziaria;
    33. 28 agosto Mesagne (BR), Marina Militare;
    34. 11 settembre Desenzano del Garda (BS), Polizia di Stato;
    35. 18 settembre Vercelli, Guardia di Finanza;
    36. 19 settembre Roma, Guardia di Finanza;
    37. 2 ottobre Milano, Polizia;
    38. 8 ottobre Palermo, Carabinieri;
    39. 8 ottobre Riva del Garda (TN), Carabinieri;
    40. 9 ottobre Salerno, Polizia Locale;
    41. 24 ottobre Mercato S. Severino (SA), Carabinieri.

STATISTICHE 2020

per territorio:
– 19 al nord
– 7 al centro
– 15 al sud

Per appartenenza:
6 Guardia di Finanza;
13 Carabinieri;
8 Polizia;
4 Polizia Locale;
4 Forze Armate;
6 Polizia Penitenziaria.

——————————————————
STATISTICHE Anno 2019

per territorio:
– 33 al Nord;
– 14 al centro;
– 13 al sud;
– 7 sulle isole.

Per appartenenza:
– 17 Carabinieri;
– 18 Polizia di Stato;
– 9 Forze Armate;
– 11 Polizia Penitenziaria;
– 6 Guardia di Finanza;
– 5 Polizia Locale;
– 1 vigile del fuoco.

Segui il canale telegram: https://t.me/notiziedallarappresentanza

In Francia è ancora peggio;  ma è un fatto che al suicidio, così tragicamente frequente  nel personale addetto all’ordine pubblico,  non corrisponda alcuna volontà di domandarsi quale sia l’origine del “male oscuro”, e come eventualmente curarlo.  Se  sia curabile.

Non si sono uccisi, questi agenti. Sono stati ammazzati : dalla mancanza di legittimità del sistema, patologia politica acutissima ormai  in Italia, e in Europa.

Cito il mio Ortega:

La funzione di comandare e ubbidire è quella decisiva in ogni società.  Appena in essa si intorbida la questione di chi comanda e chi obbedisce, tutto il resto risulterà adulterato e senza ordine. Perfino la più segreta intimità di ciascun individuo rimarrà perturbata e falsificata”.

Ora, è evidente che sono proprio gli agenti dell’ordine quelli che ogni giorno, nelle loro funzioni, si scontrano con la percezione che “chi comanda non dovrebbe comandare”, che coloro che emanano leggi,  leggine e decreti, non dovrebbero essere lì, che i padroni della “legalità”  sono radicalmente disonesti ed occupano  il potere senza autorità.  Sono loro che constatano che quelle leggi, leggine, dcpm,  violano un principio più fondamentale della vita della società, che non sanno definire (sono gente rozza),  ma  che scontra con   categorie elementari del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto; ed è tuttavia nello steso tempo “legale”, e  loro devono far rispettare quelle leggi  e leggine  insensate, cangianti, che dichiarano legale ciò che nel fondo delle coscienza anche ottenebrate, continua ad essere sentito come a-normale, invertito.

Noi cittadini consapevoli (pochi) vediamo con rabbia  che in Italia “il potere di comando è per costituzione fraudolento”; che Mattarella non convoca il Consiglio Superiore della Magistratura nemmeno dopo lo scandalo Palamara  e la sua anche più scandalosa troncatura da parte di un ordine giudiziario che si è comportato come  una cosca, anzi setta e cosca insieme perché   esercita i suoi arbitri in base a una ideologia, pregiudizialmente  concretata  nelle sentenze.

Ma i poliziotti,  di questi magistrati sono dipendenti;  hanno provato giorno dopo giorno l’arbitrio dei loro giudizi, quando fermano un clandestino violento e spacciatore, e il giudice lo rilascia regolarmente.  Agli occhi dei giudici prevenuti, loro – gli agenti  – sono sospetti da controllare; loro sanno di essere trattati da potenziali delinquenti, al punto che nei loro uffici preferiscono vivere  continuamente sotto le telecamere di sorveglianza perché, quando la zingarella li accuserà presso il sostituto procuratore di averla palpata, o lo spacciatore di essere stato pestato, possono dimostrare di non essere colpevoli. Ma ciò significa che sotto sorveglianza permanente non sono  quelli che dovrebbero  esserci sottoposti, i delinquenti, bensì loro: rovesciamento, inversione di quell’ordine fondamentale che, loro, dovrebbero far rispettare nella società. Loro vivono la frustrazione di perseguire i reati e vedere chi li commette, immediatamente rilasciato,  e il delinquente già arrestato più volte  che li deride perché si sa protetto e immune  dalla “giustizia” dell’ideologo-procuratore. Loro devono trattenersi dall’usare la violenza – legittima , ma ormai illegale –  mentre lo spacciatore extracomunitario la usa come e quanto vuole,  anche contro innocui passanti.

Ancora peggiore la posizione degli agenti di custodia, col loro misero stipendio da servitori essenziali dello Stato:

“Io sono della penitenziaria, vi assicuro che è meglio andare in guerra che in sezione. Aggressioni, insulti, minacce, offese sono all’ordine del giorno. Se denunciamo noi finisce tutto a tarallucci e vino; ad una piccola accusa di un utente scattano indagini che neanche al pool antimafia fanno. Per non parlare della processione di politici finti buonisti”.

La frustrazione usura. Peggio: abbrutisce.

L’abbrutimento – scrive Ortega y Gasset – non è altro che l’accettazione, come stato abituale e costituito, di una anormalità, di qualcosa che, mentre si accetta, continua a sembrare irregolare, indebita. E siccome non è possibile trasformare in normalità ciò che nella sua essenza è anormale e fraudolento, l’individuo finisce per adattarsi lui all’irregolare, rendendosi omogeneo alla anormalità o fraudolenza” fondamentale che è lo stato italiano, e da decenni.

Gli agenti “dell’ordine”  troppo spesso escono  individualmente dalla contraddizione insostenibile,  primaria ed elementare di dover obbedire al “disordine” decretato da giudici ingiusti e leggi sovvertitrici  dell’ordine delle cose, sparandosi un colpo.  Non essendo nemmeno più vagamente cristiani, perché anche la Chiesa ha disertato dal suo compito vitale essenziale, vi comanda chi non deve comandare.

Ma attenzione: la questione di chi comanda e chi ubbidisce divenuta –  e  mantenuta –  torbida,   sta deformando nella più segreta intimità anche ciascuno di noi, ci falsifica dentro, tutti  senza eccezione, come popolo   – a tal punto l’uomo è “sociale” e “storico” prodotto della  storia-cultura-diritto nazionale e della società deformata che accettiamo.  Senza la forza (morale) di ribellarci, di sacrificare anche la vita per  espellere chi comanda senza legittimità, anche noi  collettivamente ci suicidiamo. Cosa sono  le torme dei  nostri giovani che consumano la vita   senza un progetto, nelle discoteche, droga e sesso, senza futuro; quei giovani che non sanno nulla del passato, che non studiano né lavorano e si coprono di tatuaggi di cui i Maori si vergognerebbero,  non fanno che incarnare “la falsificazione più completa del proprio essere per accomodarlo a quella frode iniziale. Non può sostenersi con decoro nella Storia una società il cui Stato, il ci potere di comando, è per costituzione doloso  e sleale”. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse-

FONTE: https://www.maurizioblondet.it/non-si-suicidano-sono-ammazzati/

 

 

 

 

ATTUALITÁ SOCIETÀ COSTUME

PANDEMIA E CACCIA ALLE STREGHE, ORIZZONTI FUTURIBILI

Pandemia e caccia alle streghe, orizzonti futuribiliBrian Levack, in un pregevole saggio del 1987, esaminava il fenomeno della caccia alle streghe in Europa, una mattanza che raggiunse l’acme nei secoli XVI e XVII. Questo evento, che si protrasse per oltre trecento anni, fu dovuto, per l’illustre docente di Austin, a vari fattori di carattere culturale, sociale e giuridico. L’idea del maleficium era antica quanto l’uomo e le “insane arti” erano temute soprattutto dal popolo, mentre erano considerate con scetticismo dalle classi elevate. A partire dall’autunno del Medioevo, tuttavia, s’impose, in quest’ultime, la concezione che vi fosse un’organizzazione clandestina di streghe e stregoni, unita da uno scellerato patto col diavolo. Essa avrebbe costituito un’anti-società che minacciava la sopravvivenza della “stessa civiltà cristiana”.

Teologi, pensatori, giuristi, ecclesiastici, in altre parole, facendo proprie alcune credenze del volgo, elaborano in un teorema che prevedeva l’esistenza di una frangia eversiva, di una forma particolare di eresia, che sfidava trono e altare, voluti e benedetti da Dio. Siffatta idea, condivisa da cattolici e protestanti, grazie a ulteriori contributi, giunse a enucleare un “concetto cumulativo” di stregoneria che partorì opere come il “Formicarius” (1437), il “Malleus maleficarum” (1486), il “Compendium maleficarum” (1608) e altri scritti simili, divenuti le fondamenta dottrinali della caccia alle streghe. Fra gli ulteriori contributi, poco prima richiamati, vi era la misoginia, le frequenti epidemie di peste, la paura per l’ordine pubblico. Le jacqueries contadine e le rivolte erano, in vero, molto diffuse e “i disordini terrorizzavano le classi dominanti”, timorose di perdere il potere. A ciò si aggiunga una riforma di carattere giuridico, che pesò notevolmente sull’evolversi degli eventi: il passaggio da un sistema di procedura penale accusatorio a uno inquisitorio. Tutto questo generò una psicosi collettiva e una dinamica del sospetto, per cui qualsiasi comportamento non conforme agli stereotipi sociali, ogni atteggiamento considerato deviante, poteva essere “unto” di stregoneria. Non solo, l’accusa di esercitare la magia nera poteva essere un’utile arma per eliminare avversari di qualsiasi genere, dal fastidioso vicino di casa, al concorrente agguerrito, fino al contendente politico.

Mi sembra che taluni argomenti dello studio di Brian Levack siano attinenti alla situazione attuale. Prima di tutto la pandemia è, per sua natura, un ritorno al passato e richiama scenari che pensavamo fossero relegati in pagine di storia e di letteratura. La solitudine e il senso di precarietà imposto dal lockdown evocano le pagine di Albert Camus con quell’accettazione di vivere giorno per giorno, e soli di fronte al cielo”. Anche la premessa di Giovanni Boccaccio al “Decameron” pare avere passaggi profetici. “La mortifera pestilenza” ha, infatti, avuto inizio “nelle parti orientali”, e la scienza si è rivelata impotente ad arginarla dato che “né consiglio di medico, né virtù di medicina alcuna pareva che valesse”, mentre sono, apparsi in “numero…grandissimo” sul palcoscenico dei media, soloni “senza alcuna dottrina” che pontificavano su tutto e su tutti. Inoltre, il contagio ha avuto un effetto deleterio sulla ragione, spesso ritiratasi di fronte all’avanzare di un’istintualità illogica, dettata dal panico.

La psicosi collettiva delle età passate sembra, dunque, essere di nuovo alle porte e, ammantata di disagio sociale, di crisi economica, d’incertezza, comporta, a sua volta, nuove dinamiche del sospetto e un acuirsi del confronto, degenerato di frequente in scontro, in ostilità ad personam, verso chi la pensa in modo diverso. In una situazione siffatta, vi è il rischio di una nuova barbarie ideologica, che soffochi tolleranza e convivenza con la cappa di una partecipazione faziosa e viscerale a un contesto di idee, spesso confuso ma oltremodo definito nella propria indeterminatezza. Dietro questo rischio ve ne è un altro, ancor più grave, il timore di una “verità” dogmatica, imposta per legge e il riaffacciarsi del reato di opinione col quale colpire e azzittire chi esprime una diversità di pensiero. Tutto questo bolle nel calderone del Covid-19 e, mentre la tensione sociale sale di giorno in giorno, il fantasma di una nuova caccia alle streghe si affaccia sul mondo globalizzato dalla paura.

FONTE: http://opinione.it/societa/2020/11/05/luigi-pruneti_brian-levack-caccia-alle-streghe-civilt%C3%A0-cristiana-teorema-eresia-disordini-stregoneria-lockdown-panico-psicosi-collettiva-paura/

 

 

 

CULTURA

Manzotti «E se la coscienza non fosse dentro di noi»

Andrea Lavazza martedì 4 febbraio 2020

La nuova ipotesi dello studioso dello Iulm: «L’esperienza cosciente è al di fuori di noi, nel mondo, non nel nostro corpo»

La coscienza è quella cosa che scompare quando ci addormentiamo e ritroviamo al risveglio, e che può subire modificazioni di diverso grado quando assumiamo sostanze come alcol o droghe oppure quando entriamo in coma. Questa definizione vaga e imprecisa ci fa intuire piuttosto bene di che cosa stiamo parlando, ma la scienza che vuole spiegare un fenomeno naturale ha bisogno di specificare meglio e di mettere confini chiari. Forse è per questo che la coscienza (intesa non in senso morale) resiste agli innumerevoli tentativi di spiegazione. Che sia prodotta dal cervello è una convinzione condivisa dalla maggior parte degli studiosi (non sono però scomparsi i dualisti alla Cartesio), eppure questo dato non è sufficiente per capire come sorga. Riccardo Manzotti, uno studioso italiano dalle competenze a largo spettro (è ingegnere e psicologo, ora insegna filosofia teoretica allo Iulm di Milano), da molti anni si occupa di coscienza cercando un approccio nuovo, che possa superare l’impasse in cui sembra trovarsi la ricerca. La sua posizione innovativa e certamente controversa è presentata in dettaglio nel volume La mente allargata. Perché la coscienza e il mondo sono la stessa cosa, appena pubblicato in italiano (Il Saggiatore, pagine 340, euro 25). La versione originale è uscita in inglese, frutto di un lungo soggiorno di studio al Mit di Boston. La mossa che può cambiare il gioco, secondo l’espressione anglosassone, è eliminare la concezione classica di coscienza su cui si arrovellano pensatori e neuroscienziati per fare posto all’idea che gli esseri umani siano identici agli oggetti esterni che esistono relativamente al loro corpo. Della mela che sta di fronte non c’è una copia di qualche tipo dentro la nostra testa, bensì siamo noi, con il sistema nervoso specifico di cui siamo dotati, a dare efficacia causale agli oggetti complessi che incontriamo con tutte le loro caratteristiche (cioè a fare sì che essi producano un effetto). L’assunzione (ontologica) che sta alla base della teoria è che enti e proprietà siano relative, cioè legate tra loro: la facciata di un palazzo dipende dal corpo che ha di fronte, le immagini dalla riflettanza della luce, il peso dalla gravità della terra. Ma questo non significa per Manzotti che sia la mente a creare il mondo, come ritiene l’idealismo; di per sé la mente non esiste, esistono corpi e oggetti secondo quanto spiega la fisica, anche se cade l’oggettività assoluta. E nel libro l’autore cerca di mostrare come la sua teoria possa essere sottoposta a una verifica empirica, rispondendo anche a molte possibili obiezioni, in un linguaggio chiaro e diretto, che forse non soddisferà tutti gli addetti ai lavori, ma ha certamente il merito di aprire il dibattito a un pubblico più ampio.

Professor Manzotti, perché la coscienza è uno degli ultimi grandi misteri della scienza?

«Finora la coscienza ha completamente eluso il metodo scientifico. Nessuno ha mai ‘fotografato’ un’esperienza cosciente. Le neuroscienze hanno raccolto molti dati sull’attività neurale, ma niente di diretto. Tutto quello che sappiamo sui neuroni e il cervello non richiede la coscienza. Eppure, ciascuno di noi fa continuamente esperienza del mondo, delle emozioni, di sé stesso. Se non lo sapessimo per esperienza diretta, la scienza non avrebbe alcun motivo di sospettare che in parallelo al funzionamento delle sinapsi accade qualcosa come la nostra esperienza cosciente. Questo fallimento ripetuto ha tutte le caratteristiche del fatto irriducibile su cui si infrange il modello dominante di ricerca scientifica e che porta a una rivoluzione nel senso di Thomas Kuhn. È il fatto, appunto, scandaloso che richiede di rivedere il metodo».

La sua proposta della ‘mente allargata’ si presenta come ‘rivoluzionaria’. Che cosa significa che coscienza e mondo sono la stessa cosa?

«Gran parte della ricerca sulla coscienza, sia in filosofia sia nelle neuroscienze, si basa su un luogo comune: il soggetto e l’oggetto sono separati. Come nel famoso quadro di Magritte, La condizione umana, il soggetto è visto come una camera che guarda al mondo esterno attraverso le porte dei sensi. Questo modello non ha mai funzionato. Ci sono due termini, il nostro corpo e l’oggetto esterno. Quando facciamo esperienza dell’oggetto esterno, nessuno capisce come sia possibile che il nostro corpo, che è quello che è – cioè cellule, sangue, neuroni – diventi l’esperienza di una mela rossa, per esempio. Nel nostro cervello non ci sono schermi su cui si proietta il mondo esterno. La mia ipotesi è radicale e anche molto semplice. L’idea è che ci siamo sempre sbagliati nel cercare noi stessi nel corpo. Il nostro corpo è una condizione necessaria per farci esistere, ma noi non siamo dentro il corpo. L’ipotesi radicale è che noi siamo tutt’uno con il mondo esterno. Non siamo un cervello, abbiamo un cervello».

Perché sarebbero insoddisfacenti tutte le altre teorie sulla coscienza?

«Perché le altre teorie muovono dalla contrapposizione tra soggetto e oggetto e quindi si trovano a dover giustificare l’impossibile, ovvero come può il soggetto uscire da sé stesso (sia esso una mente immateriale come voleva Cartesio o un cervello come propongono le neuroscienze) e raggiungere un mondo esterno che gli è estraneo. Per riuscire in questa impresa impossibile, molti autori sono costretti a ricorrere a ipotesi insostenibili che vorrebbero dare al nostro cervello ‘strani’ poteri che dovrebbe permettere ai nostri neuroni di fare cose impossibili, come vedere il mondo esterno o avere proprietà invisibili. Le altre teorie presuppongono che il nostro cervello sia in qualche modo speciale e in questo modo cadono in quel narcisismo cosmologico già denunciato da Freud. Il nostro cervello non è speciale, così come il nostro Dna e la posizione della Terra nell’universo. Le neuroscienze sono antropocentriche nella loro ingenuità nel credere che siamo dentro la nostra testa».

Ma se il nostro cervello non è l’autore della coscienza dove trovare il materiale di cui è fatta la nostra esperienza?

«La risposta, nella mia prospettiva, è di una semplicità disarmante: è il mondo stesso. Quando vedo una mela rossa, di che cosa è fatta la mia esperienza se non della mela rossa stessa? Fare esperienza di una mela, vuol dire solo che quella mela è parte di ciò che noi siamo. L’esperienza è un caso di esistenza. Percepire qualcosa è essere quella cosa. Noi siamo fatti dagli oggetti che esistono relativamente al nostro corpo, e non dalle relazioni. I sensi sono quelle strutture relativamente alle quali esistono gli oggetti esterni. In una frase, i sensi (e il nostro corpo più il cervello), sono il sistema di riferimento rispetto al quale esiste un mondo di oggetti relativi. Questi oggetti relativi, ma assolutamente fisici, sono la nostra esperienza cosciente. Noi siamo là, nel mondo, non qui, nel corpo».

 

FONTE: https://www.avvenire.it/agora/pagine/manzotti-la-scienza-che-cerca-la-coscienza

 

 

 

IL DRAGO: MITO E SIMBOLO

di Carla Amirante

 

Relazione al Convegno internazionale Il simbolo nel mito attraverso gli studi del Novecento, Recanati – Ancona ottobre 2006 – Pubblicata nell’omonimo volume di Atti del Convegno, Ancona 2008

 

Abstract

Il saggio prende in esame la figura del Drago sottolineando la sua origine antichissima – addirittura preistorica – e la sua longevità, che gli ha permesso di giungere fino ai nostri giorni come personaggio mitico simbolo di forza e potenza.

La sua presenza nel passato, anche come divinità, presso tutte le genti del globo è stata caratterizzata in maniera differente, nelle varie epoche storiche e diverse aree

geografiche, per quanto riguarda sia il suo aspetto fisico, sia i suoi tratti psicologici ed intellettuali. Questa varietà di significati di cui è stato caricato, ora come immagine negativa di violenza bruta, primordiale e distruttiva, ora come personificazione di qualità positive, ha permesso a questo animale mitico di nascere con certezza più di seimila anni fa, di giungere vitale ai nostri giorni e di entrare nell‟epoca del futuro in ottima forma come protagonista di storie fantastiche.

Il suo percorso storico, dopo una prima apparizione in epoca preistorica, incomincia con le prime civiltà mesopotamiche ed egizia e prosegue con i Greci, gli Ebrei e le popolazioni del Nord-Europa. Ovviamente si è posta un’attenzione particolare alla cultura dell’Estremo-Oriente, Cina e Giappone, dove il Drago è stato venerato e profondamente sentito, entrando addirittura nel vissuto quotidiano. Infine non si sono volute trascurare le credenze dei popoli ancora primitivi alla fine dell‟800.

La ricerca termina con un rapido excursus sul drago nell’arte, incluso il settore cinematografico.

 

Generalità

Il Drago è un animale decisamente fuori dal comune, è l’essere favoloso e grandioso per eccellenza, che raccoglie in sé elementi sia positivi che negativi a seconda delle epoche storiche o dei luoghi geografici presi in esame. Esso, nelle molte storie in cui è presente, non figura come il primo attore ma sicuramente come un comprimario molto importante, ed è sempre una figura di grande prestigio ed autorevolezza che non va sottovalutato mai, sia che agisca a fin di bene sia che procuri devastazioni e morti.

Il termine drago deriva dalla parola greca drákōn, che a sua volta prende origine dal verbo dérkesthai che significa “guardare”, e dalla parola latina drăco (nom.), dracōnen (acc.): entrambi i termini si pongono in relazione con la vista, infatti una delle caratteristiche più importanti del Drago è quella di possedere uno sguardo acutissimo e paralizzante.

La sua vita è lunghissima perché inizia in tempi lontanissimi e giunge fino ai tempi nostri rinverdita dal cinema, dalla televisione e dalla narrativa Fantasy. La sua nascita si perde nella notte dei tempi ed è coeva a quella delle divinità più antiche con le quali spesso si trova in lotta per il dominio del mondo. Il suo aspetto del resto, a testimonianza della sua antichità, è molto simile agli unici draghi veramente esistiti, che sono stati i dinosauri, vissuti nel mesozoico, circa cento milioni di anni prima dell’uomo ed estintisi alla fine del cretaceo (65 milioni di anni fa). La credenza della loro reale esistenza si può spiegare, secondo la teoria di F. Dacque, in una memoria originaria di essi che si sia fissata nel DNA dell‟uomo anche se quest’ultimo è venuto al mondo molto tempo dopo.

Vi può essere anche un’altra teoria che spieghi simile credenza, basata sul fatto che in vari luoghi della terra sono state rinvenute ossa e carcasse di giganteschi animali preistorici. Questi ritrovamenti, inspiegabili per gli uomini del tempo antico hanno creato la leggenda dell‟esistenza del Drago.

Possiamo anche pensare ad una visione della natura fantasiosa e poetica, doti che certo non mancavano negli uomini primitivi, che hanno voluto vedere nelle forme particolari delle montagne, dei fiumi od anche delle nuvole delle figure straordinarie e favolose simili a persone o animali fantastici, tra cui il Drago.

Il Drago ha caratteristiche fisiche multiformi: infatti, benché sia in origine nato con sembianze di gigantesco rettile, con il trascorrere dei secoli ha assunto forme più complesse, frutto della fantasia dei vari popoli: converrà quindi prendere in esame tutte le sue diverse manifestazioni.

La sua prima apparizione sulla scena dell’immaginario umano è quella di enorme serpente, ed infatti la costellazione, che da lui prende il nome di Drago, ha proprio la forma di un lungo rettile ed occupa un posto astronomico di vitale importanza, perché, a causa della precessione degli equinozi, il polo celeste compie ogni 25765 anni il giro completo di una circonferenza il cui centro si trova sul dorso di questa costellazione. Inoltre i due nodi, quello ascendente e quello discendente, i punti degli equinozi, erano visti come la testa e la coda del Drago: il primo è il punto in cui il Sole, all‟inizio della primavera, interseca l’equatore celeste ed il secondo, quello in

cui sempre questo astro lo incrocia di nuovo in autunno, ed inoltre in questi punti le orbite dei pianeti e della Luna si incontrano con l’eclittica dando luogo alle eclissi di Sole. Sappiamo quanto gli uomini antichi fossero superstiziosi e dessero grande importanza ai fenomeni astronomici, per cui nelle eclissi di Sole immaginavano che il Drago divorasse la Luna. Sempre legati all‟immagine del serpente furono i nomi scelti per indicare le stelle più brillanti della costellazione: Eltanin, dall’arabo al-tinnin, “il serpente”, e  Thuban, “la testa del serpente”.

In seguito da enorme serpente primordiale, esso divenne prima mostro marino od altro animale mostruoso, poi, con le civiltà che si evolvevano e tendevano ad antropomorfizzare la natura ed i suoi fenomeni, un essere metà uomo e metà bestia, fino a nascondersi sotto sembianze umane; perciò il suo percorso evolutivo è stato molto eterogeneo: in principio serpente, poi animale di enormi dimensioni e di fattezze mostruose tali da incutere grande terrore, in seguito coccodrillo alato che sputava lingue di fuoco, ed infine uomo o donna nell‟aspetto esteriore.

Ci sono stati Draghi che, oltre ad avere il corpo di grosso e lungo serpente, hanno avuto le fauci di un coccodrillo, con le corna sulla testa, ma senza zampe ed ali. Altri invece sono completi di tutto, possiedono da due a quattro zampe, due ali, un corpo ricoperto da una corazza di squame che li protegge dai colpi dei nemici rendendoli invincibili, molte teste, che una volta tagliate ricrescono, una cresta dentellata lungo il dorso, lingua e coda biforcute ed inoltre sputano fuoco e fiamme dalla bocca e dalle narici.

I Draghi celesti, soprattutto di origine cinese, sono provvisti di grandi ali che permettono loro di volare molto in alto e velocemente sino al sole.

Ci sono inoltre varie suddivisioni tra i draghi in base al loro colore, bianco, nero, rosso ecc. oppure in base alle loro scaglie d’oro, d’argento, di bronzo ecc. ed ancora suddivisioni a seconda che le scaglie siano formate da pietre preziose come lo smeraldo, il rubino, l’ametista ecc. . La dimora del Drago può essere, in relazione alla sua struttura fisica, il cielo come l‟abisso dei mari, una profonda caverna, una pianura desolata, un vulcano in piena attività, un bosco, perché egli è, a seconda dei casi, un animale celeste, terrestre o acquatico.

Queste caratteristiche fisiche hanno un significato ben preciso: in base ai colori ed alla materia di cui sono fatti, i draghi hanno infatti doti diverse, poteri particolari.

Se le differenze in base all’aspetto esteriore possono essere molte, in comune hanno la vista acutissima, lo sguardo paralizzante, l‟udito molto fine ed un olfatto eccezionale, gli artigli e zanne capaci di sgretolare torri, mura e rocce. Altra caratteristica molto importante di questo animale è la sua capacità di nascondersi sotto diverse sembianze comprese quelle umane, come quelle di un bel giovane o di una graziosa vergine, per meglio raggiungere i suoi scopi non sempre encomiabili; ma per poter usare il suo soffio pestifero e mortale deve riacquistare il suo vero aspetto.

Abbiamo visto sia gli aspetti esteriori diversi che quelli comuni e questa varietà di caratteri riaffiora anche nella personalità del Drago, che in Cina ed in estremo Oriente in genere è un‟entità positiva e si presenta come un essere saggio e sapiente, mentre mano a mano che ci si sposta verso l’Occidente e l’Europa esso perde gli aspetti buoni e diviene addirittura simbolo del male, sotto le cui sembianze si può nascondere il diavolo stesso.

Si può dire che il Drago incarna negli aspetti positivi i simboli della forza, della sapienza nel dare saggi consigli e giuste risposte, oppure il ruolo di attento custode del tesoro perché protegge ricchezze e cose sacre contro intromissioni non degne, può addirittura svolgere una funzione apotropaica capace di scongiurare sciagure varie come catastrofi, alluvioni, incendi e malanni; invece se visto in senso negativo, esso incarna vari vizi: l’avidità, perché nasconde e custodisce i tesori utili all’uomo, come l’immortalità o la scienza universale; la voracità, perché divora vitelli, pecore ed esseri umani; la concupiscenza, perché gli vengono offerte le fanciulle vergini; ed ancora il male assoluto, perché in lui si cela il diavolo.

Descritte in grandi linee le caratteristiche fisiche e morali, può affermarsi che il Drago come immagine risponde pienamente al concetto di simbolo perché, analizzando il termine, si evidenziano gli stretti legami che intercorrono con esso.

Brevemente dirò ciò che già sappiamo del termine simbolo: esso è una parola di origine greca formata dalla preposizione syn e dal verbo ballo, che uniti significano “metto insieme”. In origine con questa parola si designavano le due unità di un oggetto spezzato che poteva essere ricomposto in seguito, così ogni singola parte era riconoscimento dell‟altra. Con il tempo questo termine ha acquistato il significato di “stare in luogo” e perciò di funzione rappresentativa di qualcos‟altro, con forte somiglianza od analogia tra termine ed oggetto simboleggiato.

Analizzando la figura del nostro Drago, la prima impressione che ricaviamo è che la sua persona è fortemente legata alla natura per il fatto stesso di essere un animale. Egli è una grossa bestia primordiale che con la sua forza e la sua mole possente evoca la grandiosità della natura, della terra ai suoi albori gestativi durante le ere preistoriche. Il drago come animale del sottosuolo provoca le eruzioni dei vulcani ed i terremoti, come animale degli abissi marini genera i maremoti e come animale celeste dà luogo a temporali, tuoni ed uragani; il più delle volte egli unisce in sé tutte

queste potenzialità in quanto possiede le tre caratteristiche naturali, di essere marino o lacustre, terrestre e celeste.

Fermo restando lo stretto legame tra il Drago, elemento visibile del simbolo e l‟entità astratta rappresentata, andremo a ricavare altre impressioni e simbologie frutto del pensiero degli uomini, che evolvendosi hanno voluto attribuirgli caratteristiche sempre più complesse.

Spiegare la sua lunga vita è difficile sia per l’estensione del territorio in cui si è mosso, in pratica tutto il pianeta ed anche il cielo sovrastante, sia per la nascita, avvenuta chissà quando, forse in epoca preistorica, e spiegata in maniera diversa dalle religioni antiche, sia infine per le azioni compiute da lui fino ai giorni nostri, tante e multiformi.

 

Il Medio-Oriente.  Rispettando l‟ordine cronologico ufficiale del sorgere delle civiltà, inizieremo dal Medio-Oriente, e precisamente dalla Mezzaluna fertile con la divinità del Caos acquatico Tiamat e il suo sposo, la divinità dell’abisso Apsu, le più antiche divinità del pantheon religioso babilonese, che rappresentavano l’oscurità, la pericolosità ed il mistero di una natura impossibile da dominare.

L’articolo continua qui:

FONTE: https://www.academia.edu/39642169/Il_Drago_mito_e_simbolo

 

 

 

 

COLLOQUIO EINSTEIN – TAGORE

 

14 luglio del 1930, Caputh, periferia di Berlino. Un uomo si avvicina a una casa in legno. Ha una veste molto particolare, soprattutto per i tedeschi dell’epoca, che lo guardano incuriositi. L’uomo è indiano, ha una barba lunga, bianca. Sembra un santone, un mistico dalla fronte ampia. Al di sotto di questa, due occhi vivaci, che osservano, scrutano. Lo accompagna un altro uomo, in abiti più tradizionali, almeno per gli occidentali: è il dottor Mendel, l’amico comune, l’anello di congiunzione che sta per unire due delle più grandi menti al mondo. Lui, “l’asceta”, è Rabindranath Tagore, poeta e filosofo indiano – nonché premio Nobel nel 1913 – nato in una famiglia di bramini, la casta sacerdotale induista. La casa a cui ha appena bussato è il “buen retiro” di Albert Einstein, scienziato geniale che ha teorizzato la Relatività Ristretta e Generale, e che qui ama passare il suo tempo libero, lontano dal caos della città.

Due figure così lontane, almeno in apparenza. Due uomini che hanno dedicato la loro vita ad aspetti così lontani tra loro: la spiritualità e la scienza. Due uomini che vivono agli antipodi, uno in Germania e l’altro in India. Ed è proprio questo che ha stuzzicato la curiosità del dottor Mendel, che tanto ha insisto affinché i due s’incontrassero. “Cosa mai potrebbe nascere dall’incontro di queste due figure?”, si chiede da qualche giorno il dottore, che però ha colto una sottigliezza. Nonostante la palese diversità, pensa Mendel, i loro pensieri hanno molti punti in comune, a partire dall’amore per la conoscenza.

E il pensiero di Mendel trova riscontro nella lunga chiacchierata che i due tengono nel salotto della casa in legno, opportunamente registrata e poi trascritta in un articolo che apparirà l’anno successivo nella rivista Modern Review.

Le due menti ci mettono poco a carburare, evitando qualsiasi tipo di convenevoli. Lo scienziato tedesco domanda a bruciapelo: “Credi che il divino sia isolato dal mondo?“. La risposta di Tagore è immediata: “Non è isolato. L’infinita personalità dell’uomo comprende l’universo. Non c’è nulla che non possa essere compreso dalla personalità umana, e questo prova che la verità dell’universo è una verità umana“. Ma Einstein ribatte prontamente: “Ci sono due diverse concezioni sulla natura dell’universo: il mondo come unità dipendente dall’umanità, e il mondo come realtà indipendente dal fattore umano“. Tagore prende una manciata di secondi, e con calma risponde: “Quando l’universo è in armonia con l’uomo, conosciamo l’eterno come Reale e ne sentiamo la bellezza”. “Ma questa è una concezione puramente umana dell’universo”, la pronta battuta di Einstein, che però non riesce a proseguire, interrotto immediatamente dal poeta: “Il mondo è un mondo umano – afferma piantando gli occhi vivaci in quelli del tedesco – la sua visione scientifica è anch’essa quella di un uomo scientifico. Pertanto il mondo senza di noi non esiste; è un mondo relativo, la cui realtà dipende dalla nostra coscienza. C’è una qualche misura di ragione e di piacere che gli conferisce verità ed è la misura dell’uomo eterno le cui esperienze sono rese possibili attraverso le nostre esperienze”. Lo scienziato tenta di mettere all’angolo il mistico: “Questa è una realizzazione dell’entità umana”. “Sì certamente, un’entità umana che noi dobbiamo comprendere per mezzo delle nostre emozioni e attività. Noi comprendiamo l’uomo supremo, che non ha limitazioni individuali, per mezzo delle nostre limitazioni”.

Una breve pausa, poi prosegue, evidenziando le differenze delle loro materie: “La scienza si occupa di ciò che non è confinato nell’individuale; è il mondo impersonale e umano delle Verità. La religione realizza quelle Verità e le unisce con i nostri bisogni più profondi. La nostra coscienza individuale della Verità guadagna così un significato universale. La religione conferisce valore alla Verità, e noi conosciamo la Verità così bene attraverso la nostra armonia con essa”. Incalzato dalla risposta di Tagore, Einstein controbatte, chiedendogli se la verità, allora, o la bellezza, non sia indipendente dall’uomo. “No”, afferma l’indiano.”E se gli esseri umani non ci fossero più, l’Apollo del Belvedere non sarebbe più bello?”. La risposta di Tagore è sempre negativa, “No!”.

Un sospiro, Einstein riflette su quanto detto dal suo ospite: “Concordo con questa concezione della bellezza, ma non con quella della verità”. “Perché no? – chiede Tagore – La verità è realizzata attraverso gli uomini“. “Non posso provare che la mia concezione sia giusta – afferma socraticamente lo scienziato – ma questa è la mia religione”. Tagore avanza, quindi, la sua spiegazione: “La bellezza è insita nell’idea di perfetta armonia, cioè nell’essere universale; la Verità è la perfetta comprensione della mente universale. Noi individui ci avviciniamo a queste attraverso i nostri errori e sviste, con il sommarsi delle nostre esperienze, attraverso l’illuminazione delle nostre coscienze. Come potremmo altrimenti conoscere la verità?”. “Non posso provarlo – ripete Einstein – ma io credo nell’argomento pitagorico che la verità sia indipendente dagli esseri umani“.

“L’intera mente umana comprende la verità; le menti indiane e quelle europee si incontrano in una comprensione comune”, ribadisce il poeta indiano, a cui, però, Einstein risponde con un dubbio: “Il problema è se la verità sia indipendente dalla nostra coscienza”. Dubbio prontamente fugato da Tagore: “Ciò che noi chiamiamo Verità giace nell’armonia tra l’aspetto soggettivo e quello oggettivo della realtà, i quali appartengono entrambi all’uomo super-personale”. Il tedesco, non trovandosi d’accordo, afferma: “Noi facciamo cose con le nostre menti, anche nella nostra vita quotidiana, per le quali non siamo responsabili. La mente riconosce delle realtà esterne a essa, indipendenti da essa. Per esempio – indicando il tavolino in legno vicino a loro – se nessuno fosse in questa casa, il tavolo resterebbe dov’è”. “Certo, rimane fuori dalla mente individuale, ma non dalla mente universale. Il tavolo è ciò che è percepibile da qualche tipo di coscienza che possediamo”.

Sul viso di Einstein spunta un sorriso, quasi si aspettasse quella risposta: “Ma se nessuno fosse in casa, il tavolo continuerebbe a esistere, e questo è già scorretto dal suo punto di vista, perché noi non possiamo spiegare cosa significa dire che ‘il tavolo’ è lì, indipendentemente da noi. Il nostro punto di vista naturale sull’esistenza della verità separata dall’umanità non può essere spiegata o provata, ma è una credenza che non può mancare a nessuno, neanche a esseri primitivi. Noi attribuiamo alla verità un’oggettività superumana. Ci è indispensabile – questa realtà che è indipendente dalla nostra esistenza e dalla nostra esperienza e dalla nostra mente – anche se non possiamo spiegare cosa significa”.

Piccato dalla risposta dello scienziato, Tagore risponde: “La scienza ha provato che il tavolo come oggetto solido è un’apparenza e perciò quella cosa che la mente umana percepisce come tavolo non esisterebbe senza la mente. Allo stesso tempo si deve ammettere il fatto che la realtà fisica definitiva non è altro che una moltitudine di centri di forze elettriche in movimento, che appartiene anch’essa alla mente umana. Nell’apprendimento della verità c’è un conflitto esterno tra la mente umana universale e la stessa mente confinata nell’individuo. Il processo continuo di riconciliazione prosegue nella scienza, nella filosofia, e nell’etica. In ogni caso, se ci fosse una qualsiasi verità assoluta staccata dall’umanità, per noi sarebbe assolutamente non esistente.

Il sorriso di Einstein diventa una risata, e divertito esclama: “Mi permetta, ma allora io sono più religioso di voi!”. A questa affermazione, Tagore replica: “La mia religione è nella riconciliazione dell’uomo super-personale, dello spirito universale, nel mio essere individuale”.

Da questo incontro nacque una sincera amicizia, e tante altre chiacchierate. Tagore tornò a visitare lo scienziato. Il loro incontro dovrebbe essere ricordato come un chiaro segno di vicinanza tra scienza e religione, due mondi che possono coesistere nel mondo e nell’uomo, a dispetto dei guelfi e ghibellini che ancora oggi si fanno la guerra senza rendersi conto che, in effetti, sono due facce, due realtà, appartenenti alla stessa medaglia.

FONTE: https://www.academia.edu/29725961/Colloquio_fra_Einstein_e_Tagore_la_verit%C3%A0_%C3%A8_dentro_o_fuori_di_noi

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

Due Portland, stessa visione. No al riconoscimento facciale

Negli USA durante il weekend e fino a martedì la popolazione è stata impegnata non solo con le elezioni presidenziali ma anche con il rinnovo di tutti i 435 seggi della Camera, un terzo di quelli del Senato, l’elezione dei governatori locali e con ben 129 referendum in 35 Stati.

Nel weekend a Portland, nel Maine, si sono svolti ben cinque referendum popolari, in parte osteggiati dai membri dell’esecutivo locale e da alcuni lobbisti che hanno speso milioni di dollari nel vano tentativo di screditare mediaticamente le proposte, specialmente quelle riguardanti le politiche abitative e quelle salariali.

Ma con il secondo dei cinque referendum i cittadini di Portland si sono opposti all’utilizzo del facial recognition da parte degli agenti di polizia.

Avevamo già parlato degli studi che hanno scoperto come le tecnologie possono promuovere la profilazione razziale e le disparità nella giustizia penale, tendendo ad identificare erroneamente le donne e le persone di colore, causando migliaia di arresti ingiustificati, ma l’esito del referendum rappresenta una vittoria per la tutela dei diritti di tutti i cittadini nei confronti delle condotte delle forze dell’ordine, facendo di Portland l’ultima di una lunga lista di città degli Stati Uniti a vietare le tecnologie di riconoscimento facciale.

In particolare si prevede che verrà rafforzato il divieto dell’uso della tecnologia di sorveglianza del riconoscimento facciale da parte della polizia e di altri funzionari pubblici.Il governo locale già lo scorso agosto aveva concordato una sospensione dall’utilizzo dei software di riconoscimento facciale nell’attività di polizia criminale, con l’intesa che l’eventuale esito positivo del referendum avrebbe sostituito la loro ordinanza.
Ora che è stato approvato, il provvedimento non potrà essere toccato per almeno cinque anni.

La nuova misura permetterà ai cittadini-vittime di citare in giudizio la municipalità di Portland per sorveglianza illegale chiedendo un risarcimento tra 100 dollari a 1.000 dollari per ciascuna violazione. Non potranno essere utilizzate le prove acquisite attraverso tali tecniche poiché ottenute illegalmente e la violazione dell’ordinanza sarà d’ora in poi motivo di sospensione o di licenziamento, qualora reiterata, per i funzionari della città.

A settembre invece nell’omonima e ben più nota città, la capitale dell’Oregon, era stato approvato, dopo un lungo iter iniziato a novembre 2019, quello che è stato definito come “il più severo divieto municipale di riconoscimento facciale del paese”, che colpisce non solo i soggetti pubblici ma anche le imprese private, mettendo al bando le tecnologie di riconoscimento facciale da alberghi, ristoranti e negozi a partire dal 2021, prevedendo multe di 1000 dollari al giorno per ciascuna infrazione.
L’ordinanza in questo caso è stata adottata perché secondo il consiglio comunale “le comunità nere, indigene e di colore sono state sottoposte a una sorveglianza eccessiva e all’impatto disparato e dannoso derivato dall’uso improprio della sorveglianza“. Aggiungendo che è stato documentato come le tecnologie per il riconoscimento dei volti “danno vita ad un’inaccettabile discriminazione razziale e di genere” motivo per cui la città “deve adottare ogni misura precauzionale fino a quando queste tecnologie non saranno certificate e sicure da usare e le questioni relative alle libertà civili non saranno risolte”.

FONTE: https://www.infosec.news/2020/11/05/news/videosorveglianza-intercettazione/due-portland-stessa-visione-no-al-riconoscimento-facciale/

 

 

 

DIRITTI UMANI

Alunni interrogati con una benda sugli occhi, scoppia il caso a Scafati.

Il “nuovo metodo educativo” ideato da una professoressa di latino e greco, irrispettoso nei confronti dei ragazzi e contrario a ogni indicazione ministeriale.

La didattica a distanza (dad) sta mettendo a dura prova la metodologia tradizionale di insegnamento e di apprendimento. C’è chi, come una zelante professoressa di latino e greco del liceo Caccioppoli di Scafati (NA), sta mettendo a punto un metodo innovativo per garantire il corretto svolgimento delle lezioni: l’interrogazione degli studenti bendati.

Un tempo lontano nei licei non c’erano classi, ma giardini o viali in cui il maestro e i discepoli camminavano discutendo delle più nobili arti e discipline. Questo presupponeva interesse e grande considerazione da parte degli uditori e, allo stesso tempo, serietà da parte di chi parlava. In una parola ciò che rendeva possibile il trasferimento della conoscenza era il rispetto reciproco tra le parti, proprio quello che sembra venuto meno a Scafati.

Non si faccia l’errore di ascrivere il problema alla dad. Un liceale dedito all’inganno non ha bisogno di essere bendato, la vita ben presto gli insegnerà che ha ingannato sé stesso. D’altro canto, un professore di liceo che ha bisogno di bendare i suoi alunni vuol nascondere le sue carenze in materia di indagine valutativa e soprattutto in rapporto al rispetto e all’importanza della ricchezza delle relazioni umane.

Per un docente ci sono tanti modi per fare prove incrociate che consentano di verificare se le conoscenze di uno studente siano tali da essere traducibili in competenze e abilità da applicare nelle diverse situazioni problematiche che gli si presentano. Si consideri ad esempio che esistono applicazioni in grado di svelare in pochi secondi se una traduzione è plagiata e questo i nativi digitali, millenials o generazione Z lo sanno bene.

L’episodio è ancor più grave se si guarda alla recente raccomandazione del Ministero, in applicazione della legge 20 agosto 2019 n. 92, di promuovere l’insegnamento trasversale dell’Educazione Civica. Essa mira non solo a conoscere ed apprezzare il sistema che regola la nostra convivenza civile, ma a formare anche una certa Cittadinanza Digitale.

Cittadinanza digitale, questa sconosciuta, è l’arma fondamentale per educare all’uso consapevole, leale e rispettoso i mezzi di comunicazione virtuali partendo dalla scuola dell’infanzia fino alla scuola Secondaria di Secondo Grado.

Sorprende che una professoressa di latino e greco, edotta nella nobile arte dell’educazione così come attuata dagli antichi, abbia completamente perso il contatto non solo con i riferimenti culturali che dovrebbe ogni giorno essere in grado di illustrare ai suoi allievi ma anche con le più recenti direttive nell’ambito dell’insegnamento.

FONTE: https://www.infosec.news/2020/10/30/wiki-wiki-news/alunni-interrogati-con-una-benda-sugli-occhi-scoppia-il-caso-a-scafati/

 

 

 

GIUSTIZIA E NORME

SEZIONI UNITE, DISCRIMEN TRA ESTORSIONE ED ESERCIZIO ARBITRARIO DELLE PROPRIE RAGIONI

Ilenia Vitobello – 5 NOVEMBRE 2020

Le Sezioni Unite sono recentemente intervenute con la sentenza n. 29541 del 2020, a seguito dell’ordinanza di remissione n. 50696 del 2019, per dirimere i contrasti ermeneutici sorti in giurisprudenza in merito ai criteri distintivi tra il reato di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

È opportuno analizzare, in via preliminare, i due reati al fine di comprendere le ragioni che hanno determinato le diverse interpretazioni giurisprudenziali.

Il reato di estorsione, disciplinato dall’art. 629 c.p., si configura nel caso in cui un soggetto, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualcosa, procuri a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno.

In primo luogo, emerge come si tratti di un reato comune, ove la qualità di pubblico ufficiale del soggetto attivo consentirebbe l’inquadramento del fatto, in presenta di tutti gli elementi costitutivi, nella fattispecie di concussione.

La condotta antigiuridica si sostanzia nell’uso di violenza o minaccia volti a creare un doppio evento: uno stato di costrizione psichica e coartazione della volontà, da un lato, e la disposizione patrimoniale lesiva della sfera giuridica del soggetto passivo, dall’altro.

Si ritiene che la violenza possa manifestarsi non solo verso le persone ma anche sulle cose (c.d. violenza reale) ingenerando il metus che contraddistingue il reato in esame, sebbene tale situazione non debba annullare completamente la libertà di autodeterminazione della persona offesa, venendosi, altrimenti, a configurare il reato di rapina.

Quanto alla minaccia, si tratta della prospettazione di un male futuro, non necessariamente ingiusto, purché idonea a condizionare la volontà della vittima e a garantire il perseguimento del fine della condotta posta in essere, ovvero il profitto.

È necessario, dunque, che sussista un nesso causale tra l’azione e la situazione di soggezione psicologica, che costituisce l’evento intermedio rispetto all’atto di disposizione patrimoniale del soggetto passivo che si realizza mediante un’azione o un’omissione dello stesso.

Può trattarsi dell’alienazione di un bene, piuttosto che dell’estinzione di un’obbligazione o, ancora, della rinuncia ad un’azione giudiziaria o della rinuncia all’eredità.

In simili ipotesi si sostanzia un’ulteriore differenza rispetto al delitto di rapina che ha per oggetto esclusivamente cose mobili, dove l’estorsione, invece, può causare l’aggressione a qualsiasi parte del patrimonio della vittima.

Quanto all’ultimo elemento, ovvero al fine che muove la condotta dell’estorsore, è necessario che il profitto procurato sia ingiusto e, dunque, fondato su una pretesa non tutelata dall’ordinamento e idoneo a cagionare un ingiusto danno, qualificato come qualsiasi deminutio patrimonii che incida sulla sfera patrimoniale del soggetto passivo.

La liceità o l’illiceità della pretesa che l’agente intende far valere si pone come elemento discriminante tra il reato di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni di cui all’art. 393 c.p., ove commesso con violenza sulle persone.

Da qui si sviluppa uno dei nodi controversi del rapporto tra i reati in esame che ha determinato l’intervento delle Sezioni Unite, funzionale a fornire una risposta a due interrogativi fondamentali: se la differenza tra il reato di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni consista nell’elemento materiale o nell’elemento psicologico; se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni sia qualificabile come reato proprio esclusivo e in quali termini si possa configurare il concorso del terzo non titolare della pretesa giuridica azionabile.

Il caso di specie aveva ad oggetto una condanna, in capo a tre soggetti, per il reato di tentata estorsione aggravato dall’utilizzo del metodo mafioso e commesso in concorso.

Era emerso che uno degli imputati aveva stipulato un contratto con una società in base al quale si impegnava a trasferire in permuta un terreno di sua proprietà, con l’accordo che la società avrebbe trasferito una parte degli immobili costruiti sul quel terreno.

Successivamente la sorella dell’imputato in questione, avviando un contenzioso civile nei confronti della società, al fine di rivendicare dei diritti sul terreno trasferito, impediva l’esecuzione di una parte dell’accordo.

Incurante della pendenza della causa, l’imputato si recava presso il cantiere della società in compagnia di altri due imputati, intimando agli imprenditori di trasferire gli immobili costruiti sul terreno ed ostentando collegamenti con la criminalità organizzata.

Gli imputati contestavano, mediante ricorso in Cassazione, la qualificazione giuridica del fatto in termini di tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso ex art. 416-bis, sostenendo che il caso dovesse inquadrarsi nell’ipotesi di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza sulle persone ex art. 393 c.p., in quanto l’imputato vantava nei confronti della società una pretesa giuridicamente tutelabile in giudizio ai sensi dell’art. 2932 c.c.

Le Sezioni Unite, ripercorrendo i diversi orientamenti esistenti in materia, hanno evidenziato come si rinvenisse il discrimine tra i due reati nell’elemento intenzionale, consistente nel procurarsi un ingiusto profitto, in caso di estorsione, e nell’agire per conseguire un’utilità alla quale si ritiene di avere diritto, nel caso di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

In epoca successiva è stato posto l’accento sull’elemento psicologico, per cui, nell’ipotesi dell’art. 393 c.p. l’autore perseguirebbe il conseguimento di un profitto nella convinzione di esercitare un diritto azionabile giudizialmente, mentre nell’ipotesi di estorsione sussisterebbe nell’agente la consapevolezza di non avere diritto al conseguimento del profitto.

Un diverso orientamento ha valorizzato la materialità del fatto, con riguardo alla gravità della violenza o delle minacce esercitate, evidenziando come nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la condotta violenta o minacciosa, persuasiva e non strettamente costrittiva, sia strumentale al conseguimento del preteso diritto, mentre nel reato di estorsione la minaccia o la violenza si estrinsecano in forza intimidatoria idonea ad annullare la capacità volitiva della vittima.

Pertanto, ogni forma di intimidazione sproporzionata ed eccessiva rispetto al fine di far valere un preteso diritto si tradurrebbe in un’ipotesi inquadrabile nel reato di estorsione.

Le Sezioni Unite hanno sanato il contrasto asserendo che, sebbene l’intensità della violenza o della minaccia possano costituire un utile indizio, la differenza tra i due reati si fonda sull’elemento psicologico.

Il riferimento alla gravità delle violenze e delle minacce e, dunque, all’effetto costrittivo che ne deriva, parrebbe idoneo a distinguere il reato di estorsione da quello di rapina, in cui la condotta dell’agente determina l’annullamento delle capacità volitive della vittima.

Quanto alla seconda questione sottoposta alle Sezioni Unite, si fa riferimento alla qualificazione del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni come reato comune o reato proprio, ed eventualmente, reato esclusivo o di mano propria.

Occorre precisare che i reati propri esclusivi o di mano propria si contraddistinguono in quanto la condotta tipica deve essere posta in essere esclusivamente da un soggetto qualificato, che in caso di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, corrisponde al titolare della posizione tutelabile in giudizio.

Di conseguenza, qualsiasi condotta violenta o minacciosa posta in essere da un terzo determinerebbe l’applicazione della fattispecie estorsiva, potendo il terzo eventualmente concorrere ex art. 110 c.p.

Le Sezioni Unite, ripercorrendo anche in questo caso le diverse linee interpretative, hanno affermato la natura di reato proprio non esclusivo, sebbene la condotta del reato ex art. 393 c.p. possa essere posta in essere da un terzo a tutela di un diritto altrui, purché il terzo non sia mosso dall’interesse per un profitto proprio; in tal caso la condotta sarebbe configurabile come ipotesi di concorso nel reato di estorsione ex artt. 110 e 629 c.p.

La dottrina risulta divisa con riguardo all’individuazione del soggetto attivo del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

La dottrina tradizionale qualificava il reato ex art. 393 c.p. come reato comune alla luce dell’argomento letterale tratto dal testo della norma che riporta il termine «chiunque», ammettendo la responsabilità a titolo di concorso per chiunque agisca insieme al soggetto che ritiene di esercitare un preteso diritto, pur non potendo far valere alcuna situazione giuridica.

Inoltre, sulla base dell’argomento sistematico, traendo spunto dal bene giuridicamente tutelato, ovvero il monopolio giurisdizionale dello Stato nella risoluzione delle controversie, si riteneva inammissibile l’intromissione di terzi, in quanto il legislatore ha consentito limitate deroghe esclusivamente nei casi di procedibilità a querela.

L’orientamento dominante, confermato dalle Sezioni Unite, riteneva che si dovesse parlare di reato proprio, in quanto possono qualificarsi autori del reato non solo i soggetti che vantano un preteso diritto ma anche colui che eserciti in sua vece il preteso diritto e anche il negotiorum gestor.

L’orientamento che considerava il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni come reato proprio esclusivo non risultava condivisibile, in quanto fondato esclusivamente sul fatto che l’agente, pur potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione «da sé medesimo».

L’espressione, in realtà, era già presente nel codice Zanardelli, ove i lavori preparatori attribuivano un significato diverso, nel senso di mera «surrogazione dell’arbitrio individuale al potere della pubblica Autorità».

Alla luce delle considerazioni esposte, le Sezioni Unite hanno, dunque, affermato due principi di diritto:

– «il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie»;

– «il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è configurabile nei soli casi in cui questi si limiti ad offrire un contributo alla pretesa del creditore, senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità».

Ilenia Vitobello

Ilenia Vitobello, nata a Trani (BT) il 18 maggio 1997. Ha conseguito il diploma di maturità classica presso il Liceo Classico “A. Casardi” di Barletta con votazione 100/100 e Lode. Termina il corso di laurea magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza presso l’Università LUISS Guido Carli il 6 luglio 2020, con votazione 110/110 e Lode, discutendo una tesi in diritto penale dal titolo “Il trattamento punitivo dei sex offender”. Attualmente svolge la pratica forense presso uno Studio Legale di Roma.
FONTE: http://www.salvisjuribus.it/sezioni-unite-discrimen-tra-estorsione-ed-esercizio-arbitrario-delle-proprie-ragioni/

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

Germania, egemone delirante.

Mentre tutti gli occhi sono rivolti alle elezioni Usa, Alastair Crooke si domanda inquieto: che cosa vuole la Merkel? Perché  corteggia una rivoluzione?  Crooke è un ex diplomatico britannico, ex dirigente dell’intelligence, che ha voltato le spalle quel mondo dei conflitti senza fine (non a caso abita a Beirut, dove ha fondato il Conflict Forum) e distilla analisi geopolitiche di rara acutezza.
Nell’imminenza dei risultati che devono decidere chi sarà alla Casa Bianca, la Germania ha offerto agli Usa un “New Deal” millitare, nell’apparente intento di rimettersi in buona con The Donald. Lo ha notato solo MittDolcino, apponendo la parola “Clamoroso” al fatto: “Il ministro della difesa tedesco, Annegret Kramp-Karrenbauer (AKK) (che poi sarà il successore di A. Merkel in caso di vittoria trumpiana, ndr), di un New Deal con gli USA di Trump, un armistizio insomma”. Un piano alla pari: la Germania si propone come egemone su tutta Europa, unico vero sovrano, (Macron che ha vere forze armate è buttato da parte da questa proposta di accordo diretto Berlino-Washington).

Articolo da leggere:

Ed ecco come la vede Crooke: “La Germania ha appena offerto a Washington “ un dolce affare ” in cui l’Europa – con la Germania in testa – accetta in pieno  la strategia a tutto campo dell’America di isolare e indebolire la Russia e Cina. E in cambio sta chiedendo agli Stati Uniti di accettare la leadership tedesca di un’entità europea “ politica di potenza ” che viene portata alla pari con gli Stati Uniti. Senza mezzi termini,  la Germania punta allo status di “ superpotenza ”,   al vertice di  un “Impero” dell’UE per la nuova era. Putin ha  preso atto di  tale  metamorfosi (la Germania aspira a essere una superpotenza) durante il suo recente discorso a Valdai .

Ma questa offerta agli Usa  arriva quando ci sono troppi “pezzi in movimento” , dice Crooke, che qui si distanzia da Mitt: ” in primo luogo, lo stratagemma della Germania è subordinato alle speranze di una vittoria di Biden, che può non accadere. E poi, anche il presidente Macron cerca per se stesso, e per la Francia, la leadership dell’Europa – con quest’ultima   in qualche modo subordinata a una Brexit senza accordo in corso alla fine dell’anno, che indebolirebbe ulteriormente una Merkel disanimata e in dissolvenza. La Francia, vuole organizzare  lei  il “grand reset” dell’Europa: uno “spazio” regolamentare e imposto dai valori [laicità, lgbt, eccetera], sostenuto da un regime fiscale e di debito comune che ricostruirebbe l’infrastruttura economica della Francia.
E se invece vince Trump? “Ci si può aspettare che punga e sgonfi ogni aspirazione tedesca (o francese) di prosciugare parte del potere americano, per quanto il ministro degli esteri tedesco lo abbia avvolto nella carta-regalo più scintillante,  dicendo che gli Stati Uniti non tanto perdono potere, ma acquisiscono “un partner forte a parità di condizioni”. (Pensate come sarà contento Trump di questa degnazione).

L’idea che l’Europa possa attuare questa partnership attraverso la proposta dell’adesione della Germania “verso l’Occidente come sistema di valori“,  sistema  che è “a rischio nella sua interezza“, e che dunque solo la Germania e gli Stati Uniti insieme possono mantenere forte – sembra un po ‘ un sogno ad occhi aperti. Anche quando parla di “difendersi contro l’inequivocabile sete di potere russa e le ambizioni cinesi per la supremazia globale”, che secondo la AKK dovrebbe attirare Trump come il miele il calabrone.

Perché non dimentichiamo che oltre a Trump, ci sono “Cina e Russia, che stanno vedendo il gioco . Berlino sembra aspettarsi che il primo, la Russia, continui come se nulla fosse storto [per esempio fornendo come sempre il gas]. Annegret Kramp-Karrenbauer sembra pensarla così (è sia ministro della Difesa, sia presidente della CDU, il partito della Merkel).

E ha parlato di contenere del “capitalismo cinese controllato in modo aggressivo dallo stato”, creando una sfera commerciale europea aperta solo a coloro che vogliono rafforzare e sostenere l’ordine liberale basato su regole – e al quale gli altri stati devono ‘sottomettersi’ (in questo caso la parola è di Macron). Questo, lo scheletrico progetto di come Bruxelles si propone di raggiungere l’ ‘“autonomia strategica” (il termine è di Charles Michel, il belga presidente del consiglio europeo).

Ecco alcuni estratti dell’“accordo ” di Annegret Kramp-Karrenbauer nel discorso del 23 ottobre:
“… Soprattutto, l’America ci ha dato ciò che chiamiamo ‘Westbindung’… Westbindung, per me, è e rimane un chiaro rifiuto della storica tentazione dell’equidistanza. Westbindung ci lega saldamente alla NATO e all’UE e ci lega strettamente a Washington, Bruxelles, Parigi e Londra. Ci posiziona chiaramente e giustamente contro una fissazione romantica sulla Russia – e anche contro uno stato corporativo illiberale che rifiuta partiti e parlamenti [cioè la Cina] … Westbindung è la risposta alla famosa “questione tedesca”, la domanda su cosa rappresenta la Germania … Solo l’America e l’Europa insieme possono mantenere forte l’Occidente, difendendolo dall’inconfondibile sete di potere russa e dalle ambizioni cinesi di supremazia globale …
Essere il donatore [in un processo di ‘dare e avere con gli Stati Uniti] ci richiederebbe di prendere un ferma posizione politica di potere. Giocare ambiziosamente il gioco geopolitico. Ma anche guardando tutto questo, ci sono ancora alcuni americani che non sono convinti di aver bisogno della NATO. Lo capisco. Perché manca ancora una cosa: che gli europei agiscano con la forza [militare] da soli, quando arriva il momento critico. In modo che gli Stati Uniti possano vedere l’Europa come un partner forte a parità di condizioni, non come una damigella in pericolo.
Come si può vedere, il dilemma tedesco è anche un dilemma europeo. Restiamo dipendenti [dagli Stati Uniti], ma allo stesso tempo dobbiamo fare da noi . Nel rafforzare l’Europa in questo modo, la Germania deve svolgere un ruolo chiave … consentendole di operare in modo più indipendente e allo stesso tempo più stretto con gli Stati Uniti … ”. ”.
Tre grandi questioni geopolitiche qui si intersecano, chiosa il britannico : in primo luogo, la Germania si sta trasformando politicamente, in un modo ha inquietanti paralleli con la sua trasformazione nel quadro europeo quale era prima della Prima Guerra Mondiale [la potenza del Kaiser: qui è palesemente l’inglese che si allarma]. Quindi è vero, la “ questione tedesca ” sta riaffiorando (ma non nel modo che lo intende AKK): quando è caduto il muro di Berlino, la Russia ha sostenuto la riunificazione della Germania perché ha riposto le sue speranze sulla Germania come partner per il più ampio progetto di unificazione: la costruzione di un ‘ Grande Europa ‘.

Speranza che si è rivelata una chimera: la Germania, lungi dal sostenere l’inclusione della Russia, ha invece favorito l’espansione dell’Europa e della NATO ai confini della Russia. L’UE – sotto la pressione degli Stati Uniti – stava formando una Grande Europa che alla fine avrebbe incluso tutti gli stati d’Europa, tranne la Russia .

“Ma così facendo, l’Europa occidentale ha assorbito nell’UE il tumore della neuro-ostilità dell’Europa dell’Est per la Russia. Berlino, nel frattempo, ha giocato sull’ostilità viscerale dell’America verso la Russia, più come uno strumento per costruire il suo spazio europeo fino al confine russo. La Germania quindi ha dato la priorità ad alleviare le antiche antipatie dell’Europa orientale, al di sopra di qualsiasi tentativo reale di un rapporto con la Russia. Ora la Germania vuole ‘ripetere il gioco’: in un’intervista di luglio, Annegret Kramp-Karrenbauer ha detto che la leadership russa deve “confrontarsi con una posizione chiara: siamo ben fortificati e, in caso di dubbio, pronti a difenderci. Noi vediamo cosa sta facendo la Russia e non permetteremo che la leadership russa la faccia franca ”  [sic].

Ebbene: mi hai ingannato una volta … ma due ..? L’episodio di Navalny è stata l’ultima goccia. Era una palese menzogna . Merkel e Macron sapevano che era una bugia. E sapevano che lo sapeva anche Mosca. Eppure entrambi hanno preferito lanciare ai russofobi di casa un altro “osso”.

“Adesso, Mosca ha chiuso con loro”, conferma Crooke . ” Il vero enigma è perché Mosca ha sopportato questa commedia così a lungo. La risposta forse sta nell’aquila russa a due teste, le cui teste sono rivolte in direzioni opposte: una verso l’Europa e l’altra verso l’Asia. L’ovvia impostura della Merkel ha messo alla prova  la fiducia della Russia, una volta di troppo, definitivamente. Le élite russe possono protendersi verso l’Europa, ma la loro base guarda ad Est. Navalny è stata la goccia di umiliazione che ha fatto traboccare il vaso.

“Ora Macron – ancora energico, ma anche lui politicamente indebolito – spera di indebolire ulteriormente la forza della Merkel (in termini mercantili), attraverso la messa a punto di una Brexit senza accordo nel Regno Unito che colpirebbe l’enorme surplus commerciale della Germania verso la Gran Bretagna, proprio nel momento in cui la Germania sta perdendo mercati: in Russia (e ora forse in Cina); e l’America, se Trump fosse rieletto, probabilmente sferrerà una guerra commerciale con l’Europa.

“Il piano di Bruxelles per un ‘grande ripristino’ – trasformare l’economia europea e la sfera sociale – attraverso l’automazione e la tecnologia il “verde” è, come ha notato Tom Luongo, delirante: “L’illusione dell’Europa di poter soggiogare il mondo sotto i suoi valori [lgbt, apertura frontiere, anti-sovranismo eccetera], imponendo le sue regole e standard a  tutti noialtri,  Cina  inclusa, mentre ancora una volta  agiscono verso l’Est come  delegati degli Stati Uniti – e nello stesso tempo l’Europa pretende di mantenere  il suo rango  ideale –   è delirante”.

“Delirante”, perché la Cina sarà pure un “capitalismo di stato controllato in modo aggressivo” in neuro-lingua  di AKK, però  è anche un grande “Stato-civiltà”, con i suoi valori distinti . Bruxelles ha un bel definire il suo spazio di regole e direttive come  “aperto”, ma è chiaramente escludente e non multilaterale. L’attuazione di questa politica finisce solo per portare il mondo verso lo stabilirsi di sfere normative distinte e separate – e verso una recessione più profonda”.

Poi Croocke affonda il coltello:
“Sul piano pratico, al contrario della prima fase Covid i governi in carica in Europa avevano più o meno l’appoggio dei loro cittadini, questo picco di infezione attuale lo sta distruggendo. Proteste e rivolte si accendono sempre più in tutta Europa. Episodi di violenza sono stati accolti con rabbia e orrore dalle autorità, che dichiarano di credere  che la criminalità organizzata e i gruppi estremisti siano all’opera  per innescare un incendio politico”, criminalizzando il dissenso [vedi Lamorgese]

“Alla disoccupazione strutturale – già molto alta nella prima fase – va ora aggiunta un’altra ondata di disoccupazione  irreversibile, e di nuovo nel settore dei servizi. Per le piccole imprese e i lavoratori autonomi è un incubo. La rabbia cresce man mano che chi perde i mezzi di sussistenza osserva che i dipendenti pubblici  stanno attraversando questo episodio, praticamente indenni.
“C’è una confusione assoluta mentre i governi cercano di quadrare il mantenimento dell’economia, con il contenimento degli infetti da ospedali, senza ottenere nessuno dei due.

“In questa rabbia crescente fermenta un oscuro sospetto: c’è chi vede il Covid come una pura cospirazione. Ci si può non credere, ma non è certo da cospirazionisti vedere che i governi europei hanno consapevolmente utilizzato la pandemia per aumentare i loro strumenti di controllo sociale. “Questo è stato concordato in previsione dei cambiamenti impliciti nel “Grande Reset”? E’ un fatto che, fin dall’inizio, i governi occidentali hanno chiamato le loro misure come “di guerra” – e come guerra che richiedeva un’economia diretta dallo stato –  ed obbedienza da tempo di guerra.
“Stiamo vedendo accendersi una guerra culturale. Toni di rabbia acutissimi  nelle strade degli Stati Uniti. Qui, in Europa, sospetti che la vita culturale venga chiusa per preparare gli europei all’annegamento delle loro identità culturali nel grande melting-pot deciso da Bruxelles. Queste paure possono essere fuori luogo, ma esistono e sono virali.
“Quello che è in gioco è il tessuto politico e la coesione sociale dell’Europa, e i suoi leader non sono solo confusi: hanno paura”.

Insomma, dice Crroke:
Ridotti come sono i governi europei, come pensa la Merkel di gestire insieme la disoccupazione d massa e le rivolte, la perdita di industrie e di sbocchi commerciali, con la grandiosa offerta di alleanza militare alla pari fatta agli Stati Uniti? Come si può sognare di ampliare la forza militare al punto da far paura alla Russia e ottenga il rispetto di Trump e di Xi, e contemporaneamente applicare il Grand Reset di Davos, che prescrive la trasformazione “verde e sostenibile” dell’economia europea e la robotizzazione a tappeto, che significherà disoccupazione strutturale aggiuntiva per milioni di europei? E perché ha scelto proprio questo momento,  Merkel, per offendere in modo irreversibile la Russia con la menzogna Navalny e voltare le spalle persino al Nord Stream 2 nel mentre le proteste di massa dei senza-lavoro stanno diventando rivolta? I leader europei “vogliono la rivoluzione”?
Ecco illustrato il carattere delirante dell’egemonia tedesca, fuori tempo massimo sulla storia.
(Noi che ricordiamo il caro Irlmaier, vediamo in questo delirio egemonico merkeliano la preparazione incosciente della messa della Russia con le spalle al muro, con quel che seguirà. Che Dio abbrevi questo tempo. )

FONTE: https://www.maurizioblondet.it/germania-egemone-delirante/

 

 

 

POLITICA

LOCKDOWN SELETTIVO E L’IMMOBILISMO TATTICO DI CONTE

Lockdown selettivo e l’immobilismo tattico di ConteLo scorso 30 ottobre il quotidiano “La Repubblica” ha pubblicato un interessante articolo in cui ha anticipato ampi stralci di uno studio compiuto dai ricercatori del prestigioso Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), presieduto da un servitore dello Stato di alto livello come Giampiero Massolo ed il cui direttore generale, Paolo Magri, è un altro vanto di questo Paese, per la sua chiara fama a livello internazionale. Secondo le anticipazioni giornalistiche, lo studio avrebbe esaminato la possibilità di adottare una diversa strategia per arginare il Coronavirus e le importanti conclusioni indicherebbero che “isolare le persone anziane può salvare migliaia di vite; tenere a casa gli anziani ridurrebbe le vittime ed allontanerebbe la chiusura indifferenziata”. In altre parole, una strategia mai presa in considerazione dal Governo italiano, cioè, un lockdown selettivo, per classi d’età, applicato in modo non generalizzato, come è stato fatto finora, ma limitando la quarantena solo alle persone più anziane e con pregresse patologie, avrebbe il vantaggio di evitare migliaia di morti tra le persone più fragili, consentendo, al contempo, la possibilità di tornare ad una vita simil normale per le persone meno fragili, a cui verrebbero imposte meno restrizioni fino al termine dell’emergenza sanitaria.

È evidente che si tratta di una questione molto delicata che va affrontata nel massimo rispetto della dignità della persona, garantendo la massima assistenza e tenendo presente che, alle persone più adulte e, in generale, ai più fragili, sia il buon senso che la buona educazione, oltre che la Costituzione della Repubblica, impongono che debba essere loro riconosciuto, semmai, qualche diritto in più rispetto agli altri e giammai qualche diritto in meno. Tuttavia, in una situazione come quella che stiamo vivendo ormai da molti mesi in balia di questo virus, una delle poche cose che abbiamo capito con certezza è che il Covid-19, pur colpendo indistintamente l’intera popolazione senza alcuna differenziazione di età, si sta rivelando letale soprattutto per le persone più anziane e che, in molti casi, sono già affette da altre patologie. Per cui, secondo lo studio dell’Ispi anticipato da “La Repubblica”, si potrebbe aprire “una discussione serena, ma urgente” per impostare una diversa strategia operativa e, cioè, la concreta possibilità di “separare le persone più fragili dai meno fragili”, garantendo a 360 gradi la dovuta assistenza per le loro necessità. Questa linea è anche un cavallo di battaglia di questo giornale che, in diversi articoli, ha ripetutamente sollecitato l’opportunità di un cambio di strategia in questa direzione per fronteggiare meglio l’emergenza sanitaria, senza subirla passivamente, ma andando alla ricerca di percorsi alternativi per non lasciare il virus padrone della partita. In proposito, va ricordato che questa strategia è stata suggerita dal Governo israeliano che, all’inizio della fase pandemica dello scorso febbraio, attraverso il ministro della Difesa, Naftali Bennett, conscio delle subdole modalità di trasmissione del virus, mise in guardia il suo popolo ammonendo che “nulla è più letale di un abbraccio tra nonno e nipote”. Tale strategia di isolamento mirato è stata recentemente adottata anche dal governo degli Stati Uniti che sta evidentemente seguendo il consiglio del saggio popolo, notoriamente molto amico di quello americano.

Tornando al pregevole articolo de “La Repubblica” contenente le anticipazioni dello studio dell’Ispi, va segnalato che è molto preciso anche sulle percentuali numeriche che comporterebbe questa delicatissima decisione. Infatti, attingendo direttamente alla fonte giornalistica, segnala che “l’82 per cento dei deceduti per Covid ha più di 70 anni ed il 94 per cento ne ha più di 60. La letalità del virus cresce in modo esponenziale con l’età, uccidendo meno di 5 persone su 10mila nella fascia d’età compresa tra i 30 ed i 39 anni, ma oltre 7 persone ogni 100 tra gli ultraottantenni”. Quindi, secondo il citato studio, “sarebbe sufficiente isolare gli ultra ottantenni per dimezzare la mortalità diretta del virus e se venissero isolati efficacemente gli ultrasessantenni, la mortalità sarebbe dieci volte inferiore”.

Sempre “La Repubblica”, in un altro passaggio dell’articolo, fa riferimento anche alle conseguenze sul piano economico che il lockdown mirato comporterebbe e, sempre attingendo al citato studio, rappresenta che “dal punto di vista economico e lavorativo, un lockdown selettivo per fasce d’età permetterebbe di evitare i contraccolpi più severi. In Italia, l’anno scorso 2,3 milioni di persone (il 9 per cento della forza lavoro) erano ultrasessantenni, i lavoratori over 65 si riducono a 600mila (il 2,4 per cento del totale), mentre gli over 70 sono circa 130mila (lo 0,5 per cento del totale)”. Quanto all’ipotetica riduzione della pressione sugli ospedali, sempre secondo lo studio consultato da “La Repubblica”, “tra coloro che, a causa del Covid-19, necessitano di ricovero in terapia intensiva, una persona su due ha più di 63 anni, 3 persone su quattro hanno più di 56 anni” e, quindi, anche da questo punto di vista, i vantaggi sarebbero evidenti, perché, secondo l’Ispi “isolando in maniera efficace gli ultra sessantenni si potrebbe ridurre di quasi i tre quarti la pressione sul sistema sanitario”.

L’articolo de “La Repubblica” offre importanti spunti di riflessione e discussione e permette di ricordare che, già in un nostro articolo del 20 aprile, si era accennato a perplessità per il fatto che, a distanza di quasi 50 giorni dalla chiusura totale del Paese, il Governo non avesse fatto un solo passo in avanti verso un lockdown selettivo poiché era già palese che l’alta letalità interessava soprattutto i più fragili. Ma anche in un articolo dello scorso 29 ottobre si era indicato che uno dei motivi che ha reso inadeguata la risposta sanitaria alla seconda ondata è dipeso anche dal fatto che il Governo non ha preso in considerazione la possibilità di isolare le persone più fragili, allestendo apposite strutture e con personale dedicato ed il cambio di strategia poteva essere comodamente esaminato proprio a cavallo tra la fine della prima ondata, coincisa con i primi di maggio, quando le terapie intensive si sono svuotate, e l’inizio della seconda ondata, coincisa con l’inizio di ottobre, quando la curva epidemiologica ha ripreso a crescere, guarda caso, a distanza di due-tre settimane dalla riapertura delle scuole fortemente voluta dal ministro della Scuola, Lucia Azzolina e che, invece, andava rinviata di qualche mese perché la scienza aveva ampiamente previsto il rischio di una seconda ondata.

Lo studio dell’Ispi dà un contributo importante perché va nella direzione di non subire passivamente il virus fornendo soluzioni alternative all’immobilismo tattico, anche se non è di semplice applicazione e non va scambiato per una sorta di “Bibbia”, ma è auspicabile che funga da input per il Governo e per i suoi tecnici, per procedere, in modo razionale e con le dovuta assistenza medica, umana e psicologica, a separare le persone più fragili fino al termine dell’emergenza sanitaria, perché questa difficile scelta consentirebbe al paese di andare avanti con minor danno per la salute delle persone a rischio, ma con evidenti vantaggi per la tenuta del sistema economico visto che i soggetti “non isolati” tornerebbero ad una vita più o meno normale.

Inoltre, sulla possibilità che, nei prossimi giorni, il governo possa dichiarare un nuovo lockdown, la partita è delicata, si presenta incerta e si gioca sulla tenuta del sistema sanitario e, soprattutto, sull’analisi quotidiana dell’aumento delle terapie intensive, che, almeno fino a questo momento, sta indubbiamente reggendo, perché, ad esempio, il 31 ottobre, anche se è stata registrata la cifra iperbolica di 32mila nuovi positivi, tuttavia, il correlativo l’aumento della pressione sulle terapie intensive è stato pari a sole 95 unità, quindi, il dato è meno impressionante di quanto sembri. Ed è proprio su questo punto che si sta giocando, all’interno del Governo, la partita tra falchi e colombe e, cioè, tra chi, come il Partito Democratico, vorrebbe un lockdown immediato per l’alto numero dei nuovi positivi e chi invece, come Giuseppe Conte ed una parte del M5S, che preferirebbero aspettare che le terapie intensive arrivino a completa saturazione prima di chiudere tutto e ciò potrebbe anche non rendersi necessario, qualora la seconda ondata dovesse ridursi in modo apprezzabile prima che le terapie intensive esauriscano i posti a disposizione. Una rischiosa corsa contro il tempo. Per questo Conte è contrario ad un nuovo costosissimo lockdown dell’intero Paese, anche perché teme rivolte di piazza ed è perfettamente consapevole che se riuscisse a superare la seconda ondata senza chiudere tutto, potrebbe rivenderselo come un successo personale, visto che la sua popolarità, in queste ultime settimane, è ai minimi, come segnalato dal sondaggista Nando Pagnoncelli su “Il Corriere della sera” del 31 ottobre. Ed il premier starebbe pagando proprio l’immobilismo dimostrato per arginare la seconda ondata, sebbene fosse stata ampiamente preannunciata dai virologi.

Nel frattempo, stanno progressivamente aumentando nel Paese le manifestazioni di protesta dopo il Dpcm del 25 ottobre con cui Conte ha disposto ulteriori restrizioni alle attività commerciali ed è grave che la protesta abbia anche registrato episodi di aggressione alle forze dell’ordine, ma questo significa che la gente è davvero stanca e bisogna tenerne conto, anche se non potrà mai e poi mai aver ragione chi ricorre a metodi violenti. Inoltre, le proteste stanno avvenendo su tutto il territorio nazionale, per cui è quantomeno azzardato sostenere che a Napoli la protesta sarebbe stata agevolata dalla camorra, perché se qualcuno protesta da qualche altra parte è semplicemente “esasperato” mentre se protesta a Napoli lo fa per qualche altra oscura ragione. Non è così, sebbene sia notorio che nell’area metropolitana napoletana prospera la malavita organizzata, ma è comunque grave che altissimi rappresentanti delle istituzioni, locali e nazionali, abbiano contribuito ad alimentare sospetti, danneggiando enormemente l’immagine della città che rappresentano. Meglio prenderla a ridere ed in proposito non può non venire in mente una strepitosa battuta del grande attore Massimo Troisi che, nel suo film capolavoro “Ricomincio da tre”, disse che “un napoletano non può viaggiare perché, se viaggia, lo scambiano regolarmente per un emigrante”. Quindi, ci piace immaginare che, in questo momento, dopo aver ascoltato, dall’alto, qualche inesattezza sulla sua amata città, con la sua unica ed inimitabile ironia, stia pensando che “un napoletano non può nemmeno scendere in piazza perché, se lo fa, lo prendono per un camorrista”.

Quindi, un lockdown selettivo, per classi di età, potrebbe essere una valida alternativa da vagliare attentamente per provare ad andare oltre l’immobilismo tattico del Governo senza violare la Costituzione e mancare di rispetto agli anziani ed è ragionevole ipotizzare che possa ricevere i favori proprio dell’attuale compagine governativa, visto che è costituita da una base molto giovane; infatti, i ministri Luigi Di Maio ed Azzolina sono poco più che trentenni, i ministri Paola De Micheli, Roberto SperanzaAlfonso Bonafede e Stefano Patuanelli sono quarantenni, il premier Conte è poco più che cinquantenne, come i ministri Roberto Gualtieri e Francesco Boccia, ma tutto questo non può non tenere conto del fatto che, in questo Paese, come in molte altre parti del mondo, il potere decisionale vero non è nelle mani né dei trentenni, né dei quarantenni e nemmeno dei cinquantenni, ma il più delle volte è gestito dai sessantenni, dai settantenni e dagli ottantenni. Sovviene, in proposito, una riflessione di Aristotele, il grandissimo filosofo greco, allievo di Platone e maestro di Alessandro Magno, che, nel secondo libro della “Retorica”, scritta in età matura, traccia un articolato parallelo tra i comportamenti dei giovani e quelli degli anziani, sottolineando, tra numerose altre cose, che “i giovani sono inclini alla pietà e compiono ingiustizie per arroganza, mentre gli anziani sono compassionevoli, diffidenti e compiono ingiustizie per cattiveria”.

FONTE: http://opinione.it/politica/2020/11/03/ferdinando-esposito_coronavirus-lockdown-ispi-giuseppe-conte-roberto-speranza-governo-quarantena-assistenza-anziani-ospedali-partito-democratico-m5s/

 

 

 

QUALI SACRIFICI?
Andrea Zhok – 2 novembre 2020
Il tweet di ieri del governatore della Liguria Toti ha avuto il pregio di mettere in tavola con chiarezza una serie di retropensieri che si agitano da tempo nel discorso politico contemporaneo.
Il tweet recitava:
“Per quanto ci addolori ogni singola vittima del Covid19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i 25 decessi della Liguria, 22 erano pazienti molto anziani. Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate.”
Qui troviamo insieme due punti, uno tecnico, legato ad una proposta di ‘soluzione’, e uno ideologico, legato agli ordini di valore.
Il punto tecnico è, nella sua vaghezza, quello stesso che è stato promosso pochi giorni fa dalla Voce.it, e sostiene che per evitare i problemi del Covid basterebbe ‘proteggere le fasce deboli’.
Ora, come sempre accade, finché si lascia un argomento nella sua indeterminazione e genericità se ne può sempre dare una lettura plausibile.
Ma quando si parla di politica bisogna chiarire la sostanza materiale delle proposte.
Se l’idea è proteggere TUTTI i soggetti potenzialmente a rischio questo appare immediatamente una meta impossibile, per il banale motivo che non sappiamo esattamente quali siano i soggetti a rischio. Per quanto siano una minoranza, c’è un congruo numero di casi gravi o mortali di persone non anziane e senza patologie pregresse (basta ricordare il caso 1 di Codogno).
Ma naturalmente si può avere un obiettivo più modesto, ovvero non quello di proteggere tutti, ma di proteggere il maggior numero. Questo sembra avere senso: visto che il principale problema che ci troviamo ad affrontare è quello di un collasso del sistema ospedaliero, se proteggiamo il maggior numero evitiamo il collasso.
Il problema successivo da affrontare è dunque dove tracciamo la linea di quelli da proteggere.
Se la tracciamo in maniera comprensiva, includendo la stragrande maggioranza dei casi, dovremmo porre la linea intorno ai 50 anni di età. Così proteggiamo il 99% delle persone.
Ma questa linea si presenta immediatamente come catastrofica: in Italia – dove ci hanno spiegato per anni che oramai il sessantenne è nel fior fiore degli anni e ha un’ubertosa vita lavorativa davanti – abbiamo una delle età medie del lavoro più alta al mondo: il 34.1% della popolazione lavorativa ha più di 50 anni. Pensare di mettere dunque la stragrande maggioranza in sicurezza significa bloccare il paese come, se non peggio, di un lockdown.
Si può pensare allora ad un piano più modesto, ovvero incidere sul grosso del gruppo, escludendo le fasce ancora impegnate sul piano lavorativo. Questo piano sembra sostenibile: l’85% dei decessi copre le fasce sopra i 70 anni, che sono anche fasce quasi assenti sul piano lavorativo.
Naturalmente, si deve sempre tener conto che il numero dei decessi non è una fotografia per età degli occupanti di posti letto e terapie intensive: molti pazienti in età più giovane sono comunque presi in carico dal sistema ospedaliero, ma con esiti più positivi. Ad ogni modo proteggere le fasce coinvolte nelle forme più gravi promette di ridurre in modo cospicuo l’impatto sul sistema.
Il problema che si pone a questo punto è: cosa vuol dire ‘proteggere gli ultrasettantenni’? Partiamo di nuovo dai numeri: quanti sono gli ultrasettantenni in Italia? Ad oggi sono circa 10 milioni.
Cosa vorrebbe dire ‘proteggere’ dieci milioni di persone?
E’ subito ovvio che non può significare fornire a ciascuno un ricovero separato da qualche parte (es: una stanza di albergo). Innanzitutto non esistono quelle capienze (il totale di posti letto in strutture alberghiere e paraalberghiere in Italia al 2016 era di 4.942.000 posti letto (non stanze, posti letto).
In ogni caso sarebbe uno sforzo economico ed organizzativo mostruoso.
Dunque che cosa si può intendere per ‘mettere al sicuro’?
Sembra che ciò che molti abbiano in mente sia la chiusura in casa degli ultrasettantenni.
E qui abbiamo i seguenti scenari.
In Italia il 17% degli anziani vive in famiglia, il 3% in case di riposo e l’80% circa vivono autonomamente.
Quelli che vivono in famiglia difficilmente possono essere ritenuti ‘protetti’ se rimangono in casa, visto che naturalmente le altre persone che entrano ed escono li espongono.
Situazione abbastanza simile si è dimostrato avvenire per i residenti in case di riposo, per quanto qui in linea di principio la protezione potrebbe essere più accurata.
Quanto all’80% che vive autonomamente, cosa comporterebbe ‘metterli in sicurezza’? Chiuderli in casa e fargli arrivare i rifornimenti dal supermercato? A otto milioni di persone su tutto il territorio nazionale? Per quanto tempo?
Dovrebbe risultare chiaro che nessuno ha idea di cosa possa significare davvero qui ‘mettere in sicurezza’. E neanche interessa molto chiarirlo, perché il punto non sta nel ‘mettere in sicurezza’, ma nel ‘mettere da parte’.
Mi sono soffermato sulle tecnicalità almeno prima facie coinvolte nel problema di ‘mettere in sicurezza le persone più deboli’ perché questo aiuta a capire meglio il senso profondo del tweet di Toti e di tutta la miriade di pensieri simili che si muovono nelle menti di molti concittadini.
La semplice verità è che di tutte quelle tecnicalità nessuno ha pensato di preoccuparsi perché sono essenzialmente irrilevanti, semplicemente fastidiose.
L’unica immagine attrattiva che hanno davanti agli occhi è quella in cui possiamo mettere fuori scena (ob-scenus) l’imbarazzante problema di tutta questa gentaglia improduttiva che ha bisogno di cure e vuole vivere, mentre io c’ho da andare a lavorare.
Il tweet di Toti si limita ad esplicitare lo spirito profondo del periodo storico in cui viviamo, dove vivere è una funzione accessoria del produrre.
In ciò non c’è niente di strano. Dal punto di vista di ciascun singolo agente economico il messaggio ideologico introiettato è che l’unico senso e dignità di ciò che sei sta nella tua ‘produttività’, la quale si dovrebbe rispecchiare (idealmente) nel tuo reddito.
In questa prospettiva è semplicemente ovvio che ogni discorso che mini questa visione di sé e del proprio ruolo è praticamente una bestemmia, un abominio.
ll problema di questo, come di altri problemi collettivi (ad es. quelli ecologici) è che possono essere affrontati solo secondo due agende di fondo.
Un’agenda concepisce la produzione come fine e la vita come mezzo, l’altra viceversa, la vita come fine e la produzione come mezzo.
Se la produzione è un mero mezzo, allora devi assumere che il ritorno al business as usual non è un fine, e che devi creare le condizioni per mettere la vita al centro della scena. E questo significa accettare sacrifici redistribuendone i carichi secondo giustizia, e significa soprattutto concepire il denaro (il ‘credito’) come un mezzo da mettere a disposizione delle attività umane, e non viceversa.
In quest’ottica tutto il peso della discussione dovrebbe dunque andare in due direzioni: quella della creazione di liquidità necessaria a sostenere i sacrifici, e quella dell’accettazione di sacrifici che reindirizzano la forma di produzione, redistribuendo gli oneri richiesti.
Se invece la produzione è il fine, tutto il resto sono detriti, ingombri, e a qualunque cosa io possa aggrapparmi per ritornare al più presto al business as usual lo farò. In questa prospettiva ciò che fondamentalmente pensi vada sacrificato – anche se magari ti trattieni dal dirlo – sono le vite ‘improduttive’.
Questa visione è quella che crea bizzarre alleanze trasversali che spaziano dai Toti, a Confindustria ai ‘negazionisti’ (sedicenti ‘libertari’). Tutta questa gente, qualunque cosa dica, qualunque cosa creda di pensare, è in effetti semplicemente un ingranaggio del sistema che rende ogni vita spendibile a maggior gloria del capitale

FONTE: https://www.facebook.com/andrea.zhok.5/posts/1690932161088176

 

 

 

Il gioco del poliziotto buono e cattivo, tattica per imporre la decisione gradualmente

Lisa Stanton – 4 novembre 2020

“Il #lockdown generale è già stato deciso da tempo. Tutte le oscillazioni di queste settimane sono soltanto gioco del poliziotto buono e cattivo, tattica per imporre la decisione gradualmente, testando volta a volta le reazioni.
Il progetto è chiaro, non ha niente a che vedere con la situazione sanitaria, che è sotto controllo (salvo le solite inefficienze di certe regioni) e che vede una pressione sugli ospedali inferiore a quella che si verifica abitualmente ogni anno per le epidemie stagionali di influenza.
Morti e terapie intensive sono evidentemente anziani ammalati di altro, spesso già ricoverati – i dati emergono su scala locale anche se il governo si guarda bene dal chiarirlo a livello nazionale. Se si volesse affrontare seriamente la protezione delle fasce di cittadini a rischio (chiaramente individuabili per via statistica) basterebbe monitorare gli anziani con patologie specifiche attraverso #medicina di base e #USCA, somministrare loro terapie ormai note ai primi sospetti di virus, fornire servizi per evitare loro il più possibile di uscire di casa, raccomandare ai loro familiari di adottare con loro il più rigoroso distanziamento.
Ma chiaramente di questo a chi governa non importa nulla. Il progetto già pianificato dalla primavera è un altro, e tutto politico: un esperimento di ri-disciplinamento autoritario della società funzionale ad un modello economico ben preciso.
È un progetto europeo che parte dall’asse franco-tedesco e da #Bruxelles, e di cui il governo italiano è solo uno degli esecutori. Non bisogna essere complottisti per individuarlo: esso è già palese
nella torsione paternalista, eticizzante delle istituzioni U€ di cui Ursula von der Leyen è la garante.
L’obiettivo di queste classi politiche è enfatizzare a dismisura il virus per distruggere quel che resta della piccola e media impresa, del terziario autonomo, degli spazi di formazione, socialità e cultura “fisici”, e sostituirli con consumi, intrattenimento, didattica, socialità integralmente digitalizzati, completamente inglobati dalle grandi corporations Hi-tech globali.
La narrazione terroristica del #Covid e i lockdown sono lo strumento per rimpiazzare del tutto la socializzazione con i social, le comunità di scuola e università con la didattica su piattaforma, l’amore e il sesso col dating virtuale, i ristoranti e i bar con il food delivery, i cinema e i teatri con #Netflix, lo shopping con #Amazon, i concerti con le dirette a distanza, lo sport con il “workout” casalingo gestito da app, il lavoro con sussidi statali di semi-indigenza, il culto religioso comunitario con una spiritualità solitaria senza nessun rilievo sociale. E, soprattutto,
per eliminare ogni forma di associazione culturale, circolo, movimento civico e politico libero, non controllabile, trasformando la società civile in una pluralità di individui isolati che si limitano ad essere followers dei leader politici, in un quotidiano #reality show,
“profilati” e sottoposti al continuo martellamento delle news unanimi di regime, selezionate per loro dai social media depurandole di quelle che loro chiamano #fakenews, cioè di ogni fonte che non sia approvata dal complesso politico-mediatico #mainstream.
L’accelerazione di questa trasformazione permetterebbe, per le élites europee, la saldatura tra il Mega-Tecno-Capitalismo d’oltreoceano, lo statalismo burocratico Ue a economia sussidiata e il modello di #Mercato autoritario cinese.
L’unico ostacolo che può ancora frapporsi tra il progetto e la sua attuazione è la reazione, la resistenza, la mobilitazione delle società civili europee, dei ceti e delle fasce sociali che si è deciso di sacrificare. Dalla loro capacità di ribellione, dalla loro capacità di coordinarsi, dando vita a un blocco sociale e politico coerente in sostituzione di una rappresentanza politica ormai inesistente, dipende se l’esperimento tecno-autoritario riuscirà o sarà dichiarato fallito, o quanto meno dilazionato.”
Eugenio Capozzi
Professore Storia Contemporanea (2)
PS: Il mio consiglio è di diffonderlo al maggior numero di amici e parenti, anche in anonimo. Se vi è possibile, fotocopiatelo
FONTE: https://www.facebook.com/lisa.stanton111/posts/3713607871990795

 

 

 

SCIENZE TECNOLOGIE

L’uomo artificiale

05 gennaio, 2020

Questo articolo è stato pubblicato in versione ridotta su la Verità del 31 gennaio 2020 con il titolo “L’intelligenza artificiale non esiste ma serve a renderci come macchine”.

Non passa giorno senza che ci si imbatta nell’annuncio di nuove e vieppiù audaci applicazioni dell’intelligenza artificiale: quella all’indicativo futuro che guiderà le automobili, diagnosticherà le malattie, gestirà i risparmi, scriverà libri, dirimerà contenziosi, dimostrerà teoremi irrisolti. Che farà di tutto e lo farà meglio, sicché chi ne scrive immagina tempi prossimi in cui l’uomo diventerà «obsoleto» e sarà progressivamente sostituito dalle macchine, fino a proclamare con dissimulato orgasmo l’avvento di un apocalittico «governo dei robot». Questo parlare di cose nuove non è però nuovo. La proiezione fantatecnica incanta il pubblico da circa due secoli, da quando cioè «la religione della tecnicità» ha fatto sì che «ogni progresso tecnico [apparisse alle masse dell’Occidente industrializzato] come un perfezionamento dell’essere umano stesso» (Carl Schmitt, Die Einheit der Welt) e, nell’ancorare questo perfezionamento a ciò che umano non è, gli ha conferito l’illusione di un moto inarrestabile e glorioso. Come tutte le religioni, anche quella della «tecnicità» produce a corollario dei «testi sacri» degli officianti-tecnici un controcanto apocrifo di leggende popolari in cui si trasfigurano le speranze e le paure dell’assemblea dei devoti. Delle leggende non serve indagare la plausibilità, ma il significato.

Per intelligenza artificiale (IA) si intendono le tecnologie in grado di simulare le abilità, il ragionamento e il comportamento degli esseri umani. Risulta dunque difficile capire da che punto in poi l’IA si distingua, ad esempio, da una piccola calcolatrice che svolge un’attività propria della mente umana (il calcolo, appunto), o da un personal computer che già simula molte abilità dell’uomo per via riduzionistica, scomponendole cioè in enti numerabili. Il concetto di IA sembra perciò essere più ottativo che tecnico. Non introduce alcuna rivoluzione ma identifica piuttosto, sotto un’etichetta accattivante e di dubbia solidità epistemica, lo sforzo e l’auspicio di sviluppare tecniche informatiche sempre più sofisticate e potenti. Che poi queste tecniche finiscano sempre per replicare, potenziandole, alcune funzioni della mente umana è ovvio in definizione, essendo state concepite e create proprio da quella mente e proprio con quell’obiettivo, fin dall’inizio.

Ciò che appassiona delle più recenti applicazioni dell’IA (cioè del computer) è la crescente capacità di elaborare input non rigidamente formalizzati, come ad esempio le riprese fotografiche, i tratti somatici, le basi di dati incoerenti e – soprattutto – il linguaggio. Quest’ultimo, espressione libera e creativa che si rigenera in continuazione (Noam Chomsky), rappresenta in effetti il banco di prova più importante. Per essere compiutamente decifrato esige non solo la corretta comprensione delle pur complesse norme sintattiche, ma anche quella dei sottotesti e contesti culturali, simbolici, emotivi (comprensione semantica). Ben più che uno strumento, il linguaggio è l’incarnazione dell’intelligenza che nel linguaggio si (ri)crea, traduce gli infiniti rivoli dell’esperienza individuale e sociale e si comunica agli altri. L’assalto cibernetico a questo impervio monte, che tanto ricorda l’impresa babelica finita proprio nel caos delle lingue, è solo ai suoi timidi inizi e sinora ha prodotto metafore matematiche più o meno promettenti per avvicinarsi ai misteri della mente. Ma per quanta strada si possa percorrere in questa direzione, resteremmo comunque ontologicamente lontani dall’obiettivo.

L’intelligenza non è solo funzionale, non si limita cioè a risolvere i problemi ma li pone, li formula e li dispone secondo gerarchie. In ciò è insieme condizionata e finalizzata dal soggetto che la esprime, ne è definita anche etimologicamente perché espressione indissolubile e diretta dei suoi fines, dei limiti che ne tracciano l’irripetibile e indivisibile identità: desideri, preferenze, paure, affetti, educazione, empatia e relazioni sociali, fede nella trascendenza, corporeità, morte e molto altro. Se la competenza logico-matematica è terreno comune a tutti gli uomini e a tutte le macchine, il suo esercizio è invece asservito alle gradazioni e alla mutevolezza della condizione di ciascuno. Una macchina non può ragionare come un uomo semplicemente perché non è un uomo, proprio come un bambino non ragiona come un adulto, un ricco come un povero, un sano come un ammalato, un ateo come un cristiano, un aborigeno come un europeo ecc. Occorre allora chiedersi il perché di questa finzione, di negare il naturale rapporto di complementarietà tra i due domini con la pretesa che possano, per qualcuno anzi debbano, sovrapporsi fino a confondersi e sostituirsi.

***

Qui azzardo due risposte. Se il soggetto intelligente guarda dentro (intŭs lĕgit) la propria condizione nel mondo per formulare gli obiettivi da sottoporre ai processi logici e computazionali eventualmente delegabili a un algoritmo, se opera cioè una «scelta preanalitica» (Mario Giampietro) che antecede e informa quei processi, resta scoperto il problema di chi detterebbe ex multis gli obiettivi alle macchine affinché le si possa chiamare «intelligenti». Come il «pilota automatico» di Mario Draghi, l’IA guiderà da sola e supererà brillantemente ogni ostacolo, ma verso quale meta? Escludendo l’ipotesi apocalittica (quella in cui se la darebbe da sola), sarà inevitabilmente la meta iscritta nel codice dai suoi committenti, che governando il codice godranno del privilegio di imporre i propri modelli etici, politici ed esistenziali a tutti, ovunque esista un processore e una scheda di rete. Dal groviglio delle sofisticazioni tecniche emergerebbe allora una più lineare dinamica di dominio dell’uomo sull’uomo, dove la citata finzione non sarebbe altro che una variante della pretesa tecnocratica, di incapsulare gli interessi e i moventi di una classe in una procedura sedicente asettica, inalterabile e necessaria, sottraendoli così alle resistenze delle altre forze sociali. Per chi si è lasciato mettere in ceppi dalle «ferree leggi» dell’economia (cioè dalle priorità di qualcuno, secondo le sue premesse e la sua visione del mondo) e da «lo dice la scienza» (idem), non sarà difficile accettare che la soluzione migliore sia quella partorita dai ventriloqui della marionetta cibernetica e «intelligente».

La seconda ipotesi chiama in causa il limite dell’uomo, cioè la sua definizione. Numerosi indizi fanno temere che, nel sentire comune, la riduzione del corredo soggettivo e plurale delle intelligenze umane in un sottogruppo acefalo di procedure erga omnes sia intesa non già come un impoverimento, ma come un salutare superamento della brulicante e imprevedibile complessità di pensieri, comportamenti e moventi del formicaio umano, e quindi dei «pericoli» che vi si anniderebbero. La macchina (si pensa) non «tiene famiglia» e non ha nulla da perdere né da guadagnare e quindi (si pensa) non può che fare «la cosa giusta» per tutti. Dalla tentazione così squisitamente adamitica e gnostica di separare anzitempo la zizzania dal grano scaturisce l’illusione di distillare processi cognitivi e decisionali infallibili – o comunque i migliori possibili – disattivando tutto ciò che può generare l’«errore»: fragilità, affetti, inclinazioni, dolo, ma anche e in ultima istanza l’incomputabile libero arbitrio, la libertà di ciascuno. Si è però visto che l’unità indissolubile di intelligenza e soggetto rende vana questa illusione, il cui solo risultato può essere quello di spostare l’arbitrio in poche mani potenti, omologando il resto. Ma poco importa. Più forte è il disgusto e la paura dell’indisciplinabile incognita uomo, il desiderio di spuntarle le armi incatenandola e negandola nella sua essenza distintiva, quella pensante. Questa brama del non vivente, di spegnere il coro dissonante delle intelligenze per ridurli alla monodia degli zombie, non si misura solo dai sogni – assurdi anche tecnicamente – di dare scacco matto a truffa e corruzione grazie alle transazioni elettroniche certificate, di «eliminare (sic) le mafie» con il denaro virtuale o i brogli con le macchinette per votare, ma in modo ancora più diretto dall’eugenetica morale di chi vorrebbe espungere «l’odio», «la paura» e altri sentimenti «cattivi» (partendo, ça va sans dire, dalla più tenerà età, nei casi estremi fino al sequestro ideologico o fisico dell’infanzia), ridurre al silenzio agli specialisti della salute, del clima e dell’economia che non ripetono a pappagallo una tesi o mettere in cima ai valori politici «l’onestà», cioè l’esecuzione demente, sicut ac machina, di una legge scritta, immaginando così di programmare gli umani.

Osserviamo la realtà. Nella pratica, quasi tutto ciò che oggi si fregia sui rotocalchi e nei parlamenti dell’etichetta di IA – cioè la digitalizzazione, in qualunque modo o misura la si applichi – è molto lontano dal requisito di portare la macchina nel modus cogitandi et operandi degli esseri umani per mettersi al loro servizio. All’opposto, le sue applicazioni implicano la necessità o persino l’obbligo che siano invece gli uomini ad adeguarsi alle procedure della macchina e a servirla. Ad esempio, se davvero avessimo a che fare con un’intelligenza umanoide di silicio che si integra con discrezione nella nostra struttura mentale, che bisogno avremmo di lamentarci della mancanza di «cultura digitale»? Non dovrebbe toccare al calcolatore l’onere di assorbire la nostra cultura? E a che pro insegnare il «coding», la lingua dei computer, a tutti i bambini? Di salutarlo (boom!) come «il nuovo latino»? Non dovevano essere i robot a parlare la nostra lingua? E perché addannarci con procedure telematiche, moduli online, assistenti telefonici, PEC, app, PIN, SPID, registri elettronici ecc. e stravolgere il nostro modo di lavorare e di pensare per servire al calcolatore la «pappa pronta» da digerire? Perché faticare il doppio per trasmettergli le nostre fatture nell’unico formato che riesce a comprendere, quando un mediocre studente di ragioneria sarebbe stato in grado di decifrarle in ogni variante formale? E perché spendere tempo, quattrini e salute nervosa per imparare tutte queste cose? Il «deep learning» non doveva essere una prerogativa dei nuovi algoritmi? Insomma, si ha l’impressione che la celebrata umanizzazione della macchina si stia risolvendo proprio nel suo contrario: in una macchinizzazione dell’uomo. Che l’impossibilità – lo ripetiamo: ontologica – di portare i circuiti nei nostri ranghi stia producendo il risultato inverso di fletterci, costi quel che costi, alla rigida cecità della loro legge.

Certo, possiamo raccontarci che questi sono solo paradossi transitori che servono a perfezionare e a istruire l’IA affinché spicchi presto il volo promesso. Ma la verità è un’altra ed è sotto gli occhi di tutti. È che l’IA è la nostra intelligenza, l’IA siamo noi. Non ci parla dei progressi dell’ingegneria e della scienza, ma di un auspicato progresso dell’uomo chiamato a spogliarsi dei suoi difetti – cioè di se stesso – per rivestirsi della stolta obbedienza, della prevedibilità e della governabilità dei dispositivi elettronici. Se nella prima fase questa transizione si è imposta con la seduzione dei suoi vantaggi, dal personal computer in ogni casa ai servizi internet gratuiti fino alla connettività mobile, in quella successiva deve forzare la mano magnificando i suoi benefici e rendendoli in ogni caso obbligatori con qualche pretesto penoso: la semplificazione, il risparmio, il progresso-che-non-si-può-fermare. È la fase in cui ci troviamno oggi: quella del 5G, degli elettrodomestici e delle automobili in rete, dei telefoni che non si spengono mai, della telematizzazione kafkiana dei servizi pubblici e, insieme, dei mal di pancia di chi si preoccupa, resiste e dubita, anche perché le promesse di miglioramento sociale che hanno accompagnato la precedente ondata sono state tutte miseramente disattese (che si parli di crisi proprio da quando si parla di «rivoluzione digitale» è un dettaglio che non tutti hanno trascurato di notare). Nel frattempo qualcuno, reso audace dallo Stato innovatore-coercitore, scopre le carte e prepara la terza e ultima fase in cui gli esseri umani dovranno accogliere le macchine anche nel proprio corpo e non più solo nei pensieri, con l’impianto di circuiti e processori collegati agli organi o direttamente al cervello. Con tanti saluti ai computer che diventano intelligenti, l’intelligenza diventerà un computer e l’uomo «sarà allora bardato di protesi prima di diventare egli stesso un artefatto, venduto in serie a consumatori diventati a loro volta artefatti. Poi, divenuto ormai inutile alle proprie creazioni, scomparirà» (Jacques Attali, Une brève histoire de l’avenir).

***

Questa riflessione non sarebbe completa senza chiedersi: perché? Qual è il senso di questo processo e del suo essere salutato come una mano santa, o almeno come una sfida a cui non ci si deve sottrarre? Indubbiamente a qualcuno non dispiacerà l’idea di tracciare, controllare e condizionare ogni azione o pensiero di ogni singolo individuo, ovunque e in qualunque momento. Né di assoggettare i popoli a processi e processori automatici che non lasciano scampo, privi di riflessione e di empatia e perciò inesorabilmente fedeli al mandato, fosse anche il più atroce. Ma anche questo sogno o incubo non sarebbe nuovo. La psicopatologia dell’onnipotenza e la volontà di dominio sono sempre esistite. Più triste è invece l’assenso delle cavie che si prestano a un siffatto esperimento di subumanesimo: dai politici che assecondano beoti le mode globali e le impongono ai cittadini, ai cittadini stessi che si immaginano pionieri di un’ubertosa età del silicio. C’è, evidentemente, un problema di percezione che non può essere solo effetto della propaganda. Una civiltà che desidera superare l’umano non può che essere profondamente scontenta di sé. È una civiltà delusa e intrappolata, incapace di raggiungere gli obiettivi che si è imposta ma altrettanto incapace di respingerli e di riconoscerli come ostili al proprio bisogno di prosperità e giustizia. Non riesce a immaginare un’alternativa e immagina allora che l’anello marcio della catena siano proprio i suoi membri: gli uomini deboli e irrazionali, indegni della meta. Umso schlimmer für die Menschen! Nasce da qui, dalla percezione strisciante di un fallimento epocale, l’illusione di salvarsi incatenando i passeggeri ai sedili e di sopprimerne le salvaguardie per espiare la «vergogna prometeica» (Günther Anders) di non essere all’altezza delle proprie creature, anche politiche. Per comprendere le radici di questa disperazione è quindi inutile interrogare gli ingegneri. Le tecnologie, intelligenti o meno, sono solo il pretesto di una fuga da sé che andrebbe affrontata almeno abbandonando la tentazione puerile di soluzioni «perfette» e perciò estranee al mistero irriducibile di un’umanità in cui «si mescolano polvere e divinità» (Fritjof Schuon), che vive nella quantità mentre aspira all’innumerabile e dissemina le sue verità provvisorie in miliardi di anime. Rimarrà il compromesso di una vita non certo geometrica e rassicurante come un videogioco, ma proprio per questo possibile, forse anche degna di essere vissuta.

FONTE: http://ilpedante.org/post/l-uomo-artificiale

 

 

STORIA

ANTONINO PIO E MARCO AURELIO

L’APOGEO ROMANO DELL’IMPERO SECONDO ANDREA CARANDINI

Per il lettore è difficile distaccarsi da un libro, come questo intitolato “Antonino Pio e Marco Aurelio. Maestro e allievo all’apice dell’impero”, edito dalla Rizzoli, di cui è autore un esimio e grande studioso del mondo antico, quale è Andrea Carandini. Nel suo libro, Carandini, da grande studioso del mondo antico, citando l’opera fondamentale di cui è autore lo storico Svetonio, “Le vite dei dodici Cesari”, osserva che nel secondo secolo, tra il 96 ed il 180, si succedono al vertice del potere imperiale cinque imperatori considerati degni di stima e ammirazione: Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio, e Marco Aurelio. Altri imperatori, appartenenti alla dinastia Giulia Claudia e ai Flavi, sempre secondo Svetonio, erano stati governanti mediocri e poco avveduti.

Per capire come l’impero con il governo di Antonino Pio e di Marco Aurelio riuscì a raggiungere l’apogeo, Carandini ricorda quanto fosse importante la competenza e la responsabilità nella conduzione di un governo così delicato e complesso, vista la sua vastità territoriale. Infatti, l’imperatore Adriano si preoccupò di assicurare una formazione filosofica, letteraria e giuridica di primordine ai suoi successori, affidando l’educazione di Lucio Vero e di Marco Aurelio ai migliori intellettuali e pensatori greci del suo tempo. L’imperatore Adriano, è stato il fautore di una organizzazione dell’ordine politico che ha reso possibile nel II secolo gli anni aurei dell’impero, di cui si occupa lo storico Carandini attraverso il racconto della vita di Antonino Pio e di quella di Marco Aurelio.

La successione alla guida dell’impero avveniva per merito, nel senso che attraverso la adozione dell’erede designato l’imperatore in carica stabiliva chi dovesse succedergli al momento della morte, scelta che cadeva su chi fosse considerato capace e competente. Soltanto la discendenza femminile da Traiano, ricorda lo studioso, assumeva valore, ovvero quella che passava da Ulpia Marciana, sorella dell’imperatore, e da Salonina Matidia, figlia di Marciana, e le sue figlie Vibia Sabina, moglie di Adriano, e Rupilia Faustina, madre di Faustina Maggiore, che sarà la moglie di Antonino Pio. Sono queste donne della ricca e raffinata aristocrazia romana, che portano in dote l’impero ai loro mariti, destinati ad assurgere al sommo potere romano.

È straordinaria la capacità di Carandini di far comprendere al lettore la differenza esistente tra la corrente filosofica dello Stoicismo, che aveva formato il carattere e la personalità di Antonino Pio e, soprattutto, di Marco Aurelio, e lo stile di vita dovuto alla famosa seconda sofistica, che, invece, esercitò grande potere di seduzione sulla figura di Lucio Vero. A questo proposito, nel libro vi è un capitolo dedicato alla figura di Erode Attico, che agli occhi dei romani incarnava e personificava i vizi e la predilezione per la ostentazione e la vita dissoluta, la cui provenienza era legata al mondo culturale orientale. Ritornato a Roma, dopo essere stato proconsole nelle provincie dell’Impero in Asia, Antonino Pio viene invitato a fare parte del consiglio, una sorta di consiglio di Stato, istituzione che sotto il suo impero assunse un ruolo preminente rispetto al senato, ed in cui erano presenti i vertici del potere imperiale come il prefetto del pretorio ed il prefetto urbano.

Antonino, seguace degli stoici, ha rinunciato al fasto, scegliendo uno stile di vita improntato alla sobrietà e semplicità. Antonino Pio, di cui Marco Aurelio ha delineato un ritratto memorabile nel suo libro immortale “Pensieri”, era molto accorto nella guida dell’impero e non assumeva nessuna decisione rilevante senza prima consultare gli esperti che sedevano nel consiglio, istituzione il cui ruolo era stato accresciuto dal suo predecessore Adriano, che aveva delimitato i confini dell’Impero, pensando e supponendo che dovesse durare per l’eternità. Antonino Pio ci appare come l’imperatore che ha impersonato l’apice dell’Impero, anche se ha accresciuto il carattere monarchico del medesimo. Durante gli anni del suo governo, la frontiera è stata avanzata di trenta chilometri, fino alla Britannia, e questa è stata, storicamente, l’estensione maggiore raggiunta dall’Impero romano.

Marco Aurelio, divenuto imperatore con l’approvazione del senato e dei pretoriani, ha voluto associare nell’esercizio politico del governo dell’Impero romano Lucio Vero, per rispettare la volontà dell’imperatore Adriano, che aveva dato precise disposizione a proposito della terza generazione per la successione alla guida del vasto impero. Scrivendo in greco il suo libro fondamentale intitolato “Pensieri”, Marco Aurelio ricorda i filosofi stoici come Zenone e Epitteto da cui aveva appreso a sopportare la fatica, ad accontentarsi di poco, a sapere fare da sé, a non occuparsi delle cose altrui, ad avere il senso della libertà e responsabilità, a non provare attrazione per l’artificiosa ed esibita eloquenza  dei sofisti, a volgere lo sguardo sempre ed in ogni circostanza alla ragione e a leggere i testi con grande attenzione filologica.

Nel libro vi è un capitolo dedicato alla orazione di Elio Aristide, intellettuale che tenne una orazione pubblica nel 144. In questo testo letterario, l’autore osserva nella sua orazione pubblica che a Roma regna una grande e bella uguaglianza tra l’umile ed il grande, tra il povero ed il ricco, tra l’aristocratico e chi ha umili origini. La costituzione, nota Publio Elio Aristide, che ha dato vita all’ordine politico imperiale, si basa su di un compromesso tra tre forme diverse di governo: la monarchia, la oligarchia e la democrazia. Nel libro il professore Carandini ricorda, da grande intellettuale e studioso, l’indistinzione tra il potere politico e la religione pagana, a capo della quale vi era Giove, fatto che spiega come sovente siano stati divinizzati gli imperatori a cui vennero dedicati alcuni templi.

La decadenza dell’Impero romano iniziò a causa di tre eventi, mentre era guidato l’Impero da Marco Aurelio, descritti e indicati nel libro: la pestilenza proveniente dall’Oriente, la pressione dei barbari che si erano spinti fino alle porte di Ravenna, e la diffusione del Cristianesimo, che metteva in discussione la sacralità dello Stato romano. Alla fine di questo libro bello e colto, il professore Carandini ricorda, citando un giudizio di Isaiah Berlin, che tra i greci e noi nella storia umana si sono avuti tre svolte epocali; la nascita dell’Ellenismo, il Rinascimento in Italia nel Quattrocento, e la formazione della corrente letteraria del Romanticismo in Germania alla fine del Settecento. Un libro che gronda erudizione da ogni pagina. Pregevoli i saggi, a firma di giovani studiosi, che seguono alla dotta esposizione di Andrea Carandini.

Andrea Carandini, “Antonino Pio e Marco Aurelio. Maestro e allievo all’apice dell’impero”, Rizzoli

FONTE: http://opinione.it/cultura/2020/10/28/giuseppe-talarico_andrea-carandini-anonino-pio-marco-aurelio-maestro-e-allievo-all-apice-dell-impero-rizzoli-svetonio-adriano-stoicismo-cristianesimo-rinascimento-romanticismo/

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°