RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 30 MARZO 2020

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RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 30 MARZO 2020

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

La comunicazione è l’opposto della conoscenza. E’ nemica delle idee perché le è essenziale dissolvere tutti i contenuti.

MARIO PERNIOLA, Contro la comunicazione, Einaudi, 2004, Prima di copertina

 

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SOMMARIO

Coronavirus: lo spettacolo di un’epidemia che non ha avuto luogo
Psycocorona!
Preavviso di default a reti unificate?
Shock in Germania, suicida ministro Finanze Assia Presidente Land
Coronavirus, eurodeputati tedeschi cercano di lanciare campagna contro aiuti russi all’Italia
Apuleio – Psiche «scopre» Amore
Il virus dell’autolesionismo
Coronavirus, Garante scioperi proroga stop astensioni fino al 30 aprile
LA “COLPA” DELLE PRIVATIZZAZIONI (VISTO QUANTO CI HANNO FATTO BENE?)
Vi racconto la folle guerra tra Aeronautica e Marina per gli F-35
LA FIDUCIA ARRIVA A SODOMA
LE FORZE POTENTI CONTRO L’INFORMAZIONE DEL POPOLO 
PAN-ico, PAN-demonio e…. PAN-demia.
IL ‘CHI’ DEL NUOVO RISORGIMENTO ECONOMICO
Draghi e il Grande Travaso di debito
Eurobond vs MES, lo scontro fra due visioni del futuro
E’ una crisi diversa dalle altre. Keynes non basta, serve una logica di piano
L’ITALIA IN GUERRA E LE CONTRAEREE ECONOMICHE
Mercati oggi: ancora coronavirus a dominare la scena
Csm, le intercettazioni tra Fuzio e Palamara e l’audio mancante. L’ex pg a verbale: “Non sapevo degli incontri notturni per le nomine”
MIGRANTI, 44 SBARCANO A BRINDISI: TUTTI INDOSSAVANO LA MASCHERINA
Il sociologo De Masi accusa: “Erano i capi a impedire smart working”
Surreale
“I nuovi Unni”. Intervista a Gianfranco Amato
Bifarini: cari italiani, siamo finiti. Subiremo una catastrofe
Le nuove facce degli umani
Lavori da casa? Sarà meglio spegnere Alexa
CHURCHILL NEL 1952: “I TEDESCHI SONO SEMPRE STATI IL PROBLEMA DELL’EUROPA”
MERKEL DIMENTICA CHE L’EUROPA DIMEZZÒ I DEBITI DI GUERRA (50%) ALLA GERMANIA

 

 

IN EVIDENZA

Coronavirus: lo spettacolo di un’epidemia che non ha avuto luogo

di Gianpaolo Cherchi

Angela Loveday 1200x803

Quando l’emergenza Coronavirus sarà cessata (si spera, ovviamente, molto presto) e le nostre vite verranno restituite alla loro normalità, la domanda che dovremo farci dovrà essere la seguente: ha avuto veramente luogo un’epidemia di Coronavirus?

Ciò che abbiamo vissuto è stata una reale situazione di emergenza sanitaria o abbiamo piuttosto assistito ad uno spettacolo in cui fatti, numeri, statistiche, opinioni contrastanti e informazioni contraddittorie si sono accavallati con una velocità impressionante, dando luogo ad una situazione irreale? Che ruolo ha giocato, nelle misure estreme varate dal governo, l’informazione?

La velocità con cui hanno circolato le notizie in continuo aggiornamento sul contagio, la viralità con cui sono proliferate le opinioni contrastanti dei tecnici e degli esperti, l’eccezionalità delle soluzioni politiche adottate, sono tutti elementi che non possono esimerci da una riflessione sul ruolo tutt’altro che secondario che è stato giocato dalla percezione del fenomeno, o meglio sarebbe dire dalla sua spettacolarizzazione. Un punto soltanto sfiorato nel dibattito, spesso appena accennato quando non clamorosamente mancato o imperdonabilmente taciuto, mai approfondito a sufficienza. È quanto ci si propone di fare, invece, in questo articolo.

Percezione

È in relazione ai suoi studi sul rapporto tra velocità e politica che Paul Virilio introduce il concetto di logistica della percezione, pilastro fondamentale nella sua dromologia, o “scienza della velocità”. Il termine logistica non è casuale: oggetto di indagine del teorico francese è l’insieme delle operazioni di reperimento, catalogazione e distribuzione applicabili non alle persone e alle cose che fanno parte della realtà (si potrebbe dire alle merci, ma non lo diremo), quanto alle percezioni della realtà stessa, alle sue immagini (anch’esse, appunto, merci).

Grazie all’utilizzo di un qualsiasi medium tecnologico (dal cannocchiale al telescopio, dal televisore a internet) l’immagine di un mondo lontano dalla nostra portata – in termini di spazio, dimensioni, distanze – può essere proiettata nella nostra esperienza quotidiana. Si tratta di una rivoluzione radicale che implica una accelerazione nell’ambito della percezione sociale dei fenomeni: quel che avviene è una sorta di collisione, un vero e proprio abbattimento di ogni barriera tra il vicino e il lontano, e che dà luogo ad una vera e propria epidemia dell’immaginario, per dirla con Zizek. Una circolazione incontrollata dell’immaginario all’interno della realtà, nella quale il senso del reale inizia a vacillare, e dove la possibilità di distinzione fra questi due ambiti – fra ciò che, appunto, è reale e ciò che, invece, è immaginario – si fa sempre più difficile.

Turbolenza

Baudrillard adopera un altro termine per definire questo fenomeno: turbolenza, ovvero una situazione percettiva in cui a sfumare e a svanire è l’effetto di realtà. La linearità fra cause ed effetti – per mezzo di cui si genera e si produce quel che chiamiamo comunemente realtà – finisce per distorcersi, subisce urti, e provoca turbolenze percettive dei fenomeni sociali. La domanda è: chi è che genera questa turbolenza? La percezione è un fatto storicamente e tecnologicamente determinato: qualsiasi mutazione storica è in primis una mutazione tecnologica. La stessa periodizzazione storica procede secondo classificazioni basate sulle tecnologie adottate nelle varie epoche (età della pietra, del bronzo, del ferro, etc). Al mutare delle condizioni tecnologiche mutano perciò anche le condizioni storiche della percezione del reale. Stando così le cose il responsabile di tale turbolenza va cercato nella tecnologia, giunta oggi alla sua espressione più elevata: l’informatica, vale a dire la scienza dell’informazione.

Realtà

Che ne è del reale nell’epoca dell’informatica? È diventato il prodotto di processi computazionali, ovvero può essere elaborato e rielaborato, prodotto e riprodotto, costruito, decostruito e ricostruito in maniera illimitata e indefinita. Detto in altre parole: l’effetto di realtà, quella linearità dei rapporti tra cause ed effetti che produce l’esperienza di ciò che comunemente chiamiamo reale, nell’ambito della scienza dell’informazione si rivela essere non un qualcosa di razionale (come un lineare concatenamento di cause ed effetti farebbe presupporre), quanto di operazionale: esso è propriamente il prodotto di determinati processi e operazioni tecnologiche. La conseguenza di ciò non consiste solamente nel fatto che gli individui diventano dei semplici operatori in grado di instaurare rapporti di ibridazione e di innervazione con gli strumenti tecnologici che li circondano (dal telecomando, al touch-screen fino ai più sofisticati sistemi di riconoscimento vocale). La vera conseguenza – per lo meno quella che più ci riguarda in questa sede – è che l’esperienza che gli individui fanno del reale avviene dentro questi stessi strumenti tecnologici. Se oggi, in ambito informatico (e non), si parla tanto di user experience è perché ciò che la rende possibile è una più ampia experience design, una ingegneria tecnologica dell’esperienza, in cui la vita quotidiana viene disegnata, progettata e costruita mediante precisi processi operazionali che avvengono all’interno di precisi strumenti tecnologici. È all’interno di essi che oggi, principalmente, si dà la possibilità stessa di un’esperienza di ciò che continuiamo a chiamare realtà.

Simulazione

Si tratta, tuttavia, di un’esperienza che si rivela priva di contenuto. Quel che conta ai fini della experience design non è il contenuto concreto dell’esperienza quanto la capacità di una sua simulazione: la pura e semplice emissione di una realtà (virtuale) percepibile come reale.

Relativamente alla percezione del fenomeno Coronavirus, l’unico dato di cui si ha certezza è l’esistenza di quello che Baudrillard chiama il regime di simulazione, ovvero l’assoluta trasparenza della realtà percepita indipendentemente dalla sua concreta ed effettiva realizzazione. Mediante l’esibizione continua della realtà da parte dei media, ecco che al suo posto compare un simulacro di realtà generato dall’informazione: la realtà raccontata dal punto di vista delle telecamere, dei titoli in sovraimpressione, degli appelli terroristici al non lasciarsi prendere dal terrore; la realtà dei pareri discordanti degli esperti e dei tecnici invitati a dare costantemente la loro opinione; la realtà dei numeri e dei dati in costante aggiornamento sui contagi, non importa se certi o solamente presunti, purché i numeri e i dati siano aggiornati. La scienza dell’informazione deve informare e comunicare, qualsiasi cosa succeda. Anche a costo di informare e comunicare il niente. È il regime di simulazione, bellezza! L’unica realtà di cui possiamo dire di avere esperienza certa.

Sparizione

Quel che in questo modo si produce, però, è un effetto paradossale: la sparizione del reale. Il reale scompare proprio laddove esso diviene più trasparente, proprio laddove la scienza dell’informazione riesce a presentare ed esibire ogni suo aspetto, ogni suo dato, ogni suo minimo dettaglio. L’informazione punta all’occupazione totale della vita sociale. Nel momento in cui l’onnipervasività dei sistemi di informazione consente di cogliere qualsiasi realtà individuale nella sua assoluta trasparenza per presentarla come realtà sociale, l’individualità scompare: cede il suo posto ad una esistenza sociale che tuttavia ha luogo solo e unicamente all’interno dei media, all’interno degli stessi sistemi di informazione. Ogni singola esistenza viene perciò modellata dalla potenza sociale che lo spettacolo è in grado di conferirgli. Solo per il fatto che non è, le è permesso di apparire. In questo modo l’insieme delle informazioni che circolano nel regime di simulazione non si rivela nient’altro che un insieme di giustificazioni per una forma di organizzazione sociale priva di giustificazione. L’assalto ingiustificato ai centri commerciali per fare incetta di beni di prima necessità, la ressa ingiustificata nelle farmacie per fare scorte di amuchina e di mascherine, l’ingiustificato aumento dei prezzi di questi beni; e di seguito, specularmente, le ingiustificate e autocontraddittorie misure di sicurezza e prevenzione adottate dal governo; l’ingiustificata sospensione di qualsiasi attività sociale (lavorativa, ludica, sportiva, educativa, religiosa, ecc…), l’incomprensibile sperpero di soldi pubblici in attività di sorveglianza, in presidi militari, in posti di blocco (piuttosto che il loro utilizzo per un ampliamento delle strutture della sanità pubblica). Tutto diventa condizionato dallo spettacolo, da un sistema di potere che per reggersi non ha più bisogno di pensare la propria base materiale, la realtà, ma deve al contrario occultarla, farla scomparire.

Spettacolo

Se l’unica realtà esistente è il regime di simulazione, ovvero la spettacolarizzazione della realtà, risulta chiaro a questo punto che i media non sono un semplice strumento di comunicazione, un qualcosa che può essere adoperato per veicolare e diffondere determinati contenuti più o meno corrispondenti alla realtà. Essi sono molto di più. A nulla servono, ad esempio, gli appelli continui per una gestione consapevole dell’informazione, le rassicurazioni costanti di tranquillità e le mobilitazioni anti-panico cui abbiamo assistito in queste settimane, se non ad alimentare esattamente l’effetto opposto. È come attivare un allarme facendo suonare la sirena per segnalare costantemente e ripetutamente che non vi è alcun rischio.
I media, come diceva Pasolini, non veicolano contenuti reali, ma sono al contrario operatori ideologici, e in quanto tali manifestano in concreto lo spirito del nuovo potere. Baudrillard avrebbe detto che sono il luogo in cui il reale viene disattivato mediante la proliferazione virale della sua assoluta trasparenza o, detto con le parole di Debord, attraverso il suo spettacolo: lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale tra individui, mediato dalle immagini. Ed è questo rapporto sociale che si impone alla nostra percezione e che si tratta di definire: un rapporto sociale che è sempre, in ultima istanza, un rapporto di potere.

Potere

Si deve certamente a Foucault l’abbandono di una concezione obsoleta del potere come un qualcosa di concentrato e individuabile, e la sua ridefinizione e riconfigurazione nel senso di un qualcosa che si esercita. Ma se Baudrillard afferma che è giunta l’ora di dimenticare Foucault, non è certo per una mancanza di stima e di rispetto nei suoi confronti (non si spreca mai tempo a discutere con chi non si rispetta, in genere lo si ignora). Afferma questo, piuttosto, per la pienezza semantica e l’onnipervasività ormai raggiunte dal concetto di dispositivo, e per una concezione generale e generalista del potere che egli reputa limitata e speculativamente sterile, nient’altro che l’ulteriore volteggio di una critica tutta interna al movimento del potere stesso. Dal punto di vista di Baudrillard infatti, il discorso foucaultiano sul potere, proprio in quanto discorso, contribuisce ad esibire il potere, ad alimentarne la spettacolarizzazione, instaurando così un legame di connivenza proprio con quello stesso potere che intende criticare.

In soldoni: se il potere è un discorso che si fa, se è un insieme di pratiche e di azioni che si esercitano, sarà sempre e comunque necessaria la presenza di un oggetto reale su cui esercitare tali pratiche e tali discorsi, ovvero quelle che per Foucault erano il sesso, il desiderio, l’inconscio, e così via. Ma nel momento in cui, a causa del regime di simulazione, il reale sparisce nella sua trasparenza, nella sua spettacolarizzazione mediatizzata, su cosa potrà mai esercitarsi il potere? Senza reale, che ne è del potere?

Vuoto

Ecco così apparire un vuoto. Il vuoto del reale che scompare nello spettacolo è, allo stesso tempo, il vuoto di un potere che nella sua sovranità soltanto apparente opera come se fosse realmente esistente. Un potere, insomma, che al suo interno è vuoto. Vuoto nella misura in cui è incapace di valutare ciò che sta accadendo e che potrebbe succedere, e che tuttavia non può esimersi dal prendere decisioni, dal produrre provvedimenti, dall’agire, dall’esercitare sé stesso. Il potere deve essere esercitato, deve agire, non ci sono alternative; anche nella situazione eccezionale in cui non vi sia la possibilità di valutare con certezza come e in che maniera, secondo quali criteri, si debba agire. Un potere che, vittima dello stesso copione imposto dallo spettacolo, deve continuare a recitare la sua parte. The show must go on!

Ecco allora sorgere, da questo vuoto, quella che Debord chiama volontà astratta dell’efficacia immediata. Ecco lo stato di eccezione, vero e proprio paradigma di governo in tutte quelle situazioni in cui il vuoto di potere (che, in un mondo ormai esistente soltanto nella sua dimensione spettacolare, è anche allo stesso tempo un vuoto di realtà) genera un bisogno autoindotto di attualità da soddisfare in ogni modo. The show must go on!

Agire, sempre e comunque, per coprire ed occultare la sua realtà, il suo vuoto: ecco l’essenza del potere. Ed ecco lo spettacolo a cui abbiamo assistito. Ma come dice Debord, una critica che voglia andare al di là dello spettacolo, che non voglia cadere vittima della sua stessa spettacolarizzazione, deve saper attendere.


Gianpaolo Cherchi ha conseguito il Dottorato di Ricerca in filosofia presso l’Università San Raffaele di Milano. Si occupa di storia critica delle idee, di teorie del soggetto e di filosofia della storia. Collabora con il quotidiano “il manifesto”. Ha curato il volume “Dell’Uomo e dei Diritti/On Human and Rights” (Mimesis, 2018), e la nuova edizione critica de “L’educazione del genere umano” di G. E. Lessing (Mimesis 2018). Di prossima pubblicazione “Logica della disgregazione e storia critica delle idee. Uno studio a partire da Adorno” (Il Mulino, 2020).

FONTE:https://www.sinistrainrete.info/societa/17202-gianpaolo-cherchi-coronavirus-lo-spettacolo-di-un-epidemia-che-non-ha-avuto-luogo.html

 

 

 

Psycocorona!

STANNO PRENDENDO TUTTI PER IL CULO?

Dovremo prendere decisioni forti?

Dovremo andare casa per casa di ogni parlamentare?

E’ solo questo il modo?

Di Franco Remondina (Dodicesima.com)

FONTE:https://far-falla.com/psycocorona/

 

 

 

Preavviso di default a reti unificate?
Davide 30 Marzo 2020 DI MAURO BOTTARELLI

ilsussidiario.net

Durissima botta dell’Ue a Conte: no ai coronabond. Adesso il presidente del Consiglio è bruciato. Per l’Italia, un preavviso di default

Il combinato congiunto degli interventi di Giuseppe Conte e Ursula Von der Leyen parlano una sola lingua per il nostro Paese: game over. Di fatto, un preavviso di default. Nulla è stato lasciato al caso: le parole della numero uno della Commissione Ue, infatti, erano contenute in un’intervista. Si poteva attendere la tarda sera per farle uscire sulle agenzie sotto forma di anticipazione: sono arrivate invece come una doccia fredda, mentre un imbarazzato e visibilmente preoccupato primo ministro annunciava al Paese lo sblocco di fondi per l’emergenza alimentare.

Un impatto combinato devastante: l’Europa stronca le tue richieste, definendole “slogan” proprio nel giorno in cui i giornali facevano la conta dei Paesi “ribelli” pronti a schierarsi con Roma e negli stessi istanti il tuo governo è costretto ad ammettere la necessità di risorse extra da girare ai Comuni per sedare sul nascere potenziali rivolte per il pane.

Sembra la sceneggiatura di un film. È stata la realtà. Qualcuno in Europa sta giocando sporco? Sicuramente. L’Ue è un club in cui ognuno tutela e preserva i suoi interessi, millantando obiettivi comuni. Tutti, però, alla fine ne traggono un qualche beneficio, in primis gli amichetti di Visegrád di chi già è tornato a sventolare la bandiera impolverata dell’Italexit e si erge a Silvio Pellico in sedicesimi. Chi più, chi meno, mangiano tutti. È la logica de La fattoria degli animali, prendere o lasciare. Tertium non datur, soprattutto gli infantilismi su presunte logiche da “uno vale uno”. La Germania non vale la Grecia, la Francia non vale il Portogallo.

Occorre però avere il coraggio di dire le cose come stanno: Giuseppe Conte, nella migliore delle ipotesi, si è suicidato politicamente. Trascinando con sé il Paese, ancorché il destino fosse segnato già dal 2011 e da allora rimandato unicamente in ossequio alla falsa ripresa generale garantita dal Whatever it takes, dal Qe e da Mario Draghi, l’italiano che fece saltare il banco e che oggi tutti invocano come il “cavaliere bianco” che salva dal precipizio. Guardate questa immagine:

l’ho già pubblicata giovedì ma vale la pena ripubblicarla: fa parte del documento con cui la Bce ha presentato, il 24 marzo, l’ultima versione del Qe, il cosiddetto PEPP, focalizzata appunto sulla risposta alla pandemia da coronavirus.

Il messaggio era chiaro: via il limite della capital key rispetto agli acquisti pro quota per Stato emittente, il 33% va in cantina per tutta questa fase emergenziale. Quindi, almeno per tutto il 2020. Per l’Italia, un bel sospiro di sollievo rispetto ai costi di finanziamento e servizio del debito, visto il controvalore di Btp (e non solo, stante il contestuale abbassamento delle maturazioni accettate come collaterale) che vedrà assorbito in automatico dal backstop dell’Eurotower.

Di più, poco prima era stato sospeso senza colpo ferire anche il Patto di stabilità; altra aria che entrava a garantire ossigeno. E infine, atto di fondamentale importanza, il premier in pectore, Mario Draghi, dettava la linea in un’intervista al Financial Times: gli Stati – e non l’Ue mutualmente, badate bene – si indebitino, poiché in questo momento è fondamentale per evitare disastri non risolvibili a emergenza finita.

Chiunque, quantomeno se chiamato a ricoprire il ruolo di premier, avrebbe capito il messaggio: sforate pure, Bce e Commissione non hanno nulla da ridire. Anche perché chi gestirà la fase post-emergenziale è uomo di cui ci fidiamo (e contro cui è meglio non mettersi, Wolfgang Schäuble ne sa qualcosa). E che, ovviamente, ribalterà questo Paese e le sue incrostazioni stataliste-consociative-assistenzialiste come un calzino, ma che non intende certo passare alla storia come curatore fallimentare o spalatore di macerie.

Ovviamente, il prezzo a questa apertura era il mandare in cantina l’ipotesi di mutualizzazione del debito attraverso i cosiddetti “coronabonds”. E invece, Giuseppe Conte al Consiglio europeo ha ribaltato il tavolo quando ancora le trattative erano in corso, fidandosi dell’appoggio di una Spagna politicamente ed economicamente inconsistente come neve al sole e di una Francia che nel Dna non ha certo l’approccio solidaristico verso il nostro Paese. E che, soprattutto, ha un problema molto, molto serio con le sue banche e il loro fondi allegri.

Chi pensate che abbia scaricato debito italiano con il badile all’inizio della scorsa settimana, spedendo lo spread oltre 230 punti base e rendendo plateale – quindi, mediaticamente spendibile ed eclatante – l’intervento salva-Italia della stessa Bce con i suoi acquisti, tanto da riabilitare Christine Lagarde dopo la gaffe sullo spread? Chi ha in pancia 285 miliardi di Btp e una gran mole di problemi con leveraged loans e autocallables nei portfolio di investimento?

Tutto inutile. Abbiamo voluto giocare la carta dell’orgoglio italico, dando all’Europa i dieci giorni come alle colf quando le si licenzia. Detto fatto, l’Ue ha deciso di rispondere subito e in maniera netta, devastante. E con gli interessi. Non si spiegano altrimenti le parole di Ursula Von der Leyen e il loro timing chirurgicamente assassino. O Giuseppe Conte è caduto nel tranello oppure ha voluto giocare la carta disperata e populista dell’ego ferito, vendendosi come martire italiano contro il Leviatano europeo nella speranza di salvarsi politicamente, dopo il de profundis alla sua carriera a Palazzo Chigi pubblicato in prima pagina dal Financial Times solo 24 ore prima.

Comunque sia andata, ha sbagliato. O, magari, mi sbaglio io e il suo è stato un capolavoro di diplomazia. Me lo auguro e sono pronto a un pubblico mea culpa. Nel frattempo, penso che la priorità ora sia decidere se sia più conveniente tenere aperta o chiusa la Borsa domani mattina: l’annuncio di un caso di positività al coronavirus a Palazzo Mezzanotte potrebbe essere un’idea da non scartare a priori. Quantomeno, al netto dell’implicito messaggio da bandiera bianca insito in una mossa simile, se si ritenesse più conveniente salvare la faccia e un po’ di capitalizzazione. Visto che la sostanza, purtroppo, è ormai nota a tutti.

Mauro Bottarelli

Fonte: www.ilsussidiario.net

Link: https://www.ilsussidiario.net/news/spy-finanza-preavviso-di-default-a-reti-unificate/2002879/

FONTE:https://comedonchisciotte.org/preavviso-di-default-a-reti-unificate/

 

 

 

Shock in Germania, suicida ministro Finanze Assia Presidente Land

era assillato da effetti Coronavirus sulla popolazione

Tweet 29 marzo 2020

È shock in Assia, il Land tedesco di Francoforte sul Meno, dove il ministro delle Finanze del Land, Thomas Schaefer, è stato trovato morto ieri a 54 anni. Il politico della Cdu, figura centrale del gabinetto locale, dato come possibile successore dell’attuale presidente Volker Bouffier, si è tolto la vita. “Siamo tutti scioccati dalla morte inattesa di Schaefer e dobbiamo adesso elaborare questo lutto”, ha detto Bouffier, il quale ha anche affermato che proprio l’emergenza del coronavirus aveva sconvolto l’assessore.

“Si preoccupava moltissimo che non si sarebbe riusciti a venire incontro alle enormi aspettative di aiuto della popolazione”, ha spiegato,”era assillato da questa angoscia”.

In Assia c’è la capitale finanziaria tedesca, Francoforte, dove hanno sede i principali istituti di credito, come Deutsche Bank e Commerzbank, e anche la Banca centrale europea.

Schaefer ne guidava le finanze da 10 anni e, secondo Bouffier, che è apparso visibilmente scosso, negli ultimi giorni aveva lavorato “giorno e notte” per aiutare le aziende e i lavoratori a gestire l’impatto economico della pandemia.

L’uomo, secondo Bild, ha lasciato una lettera d’addio in cui spiega le motivazioni del gesto.

http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Germania-assessore-delle-finanze-suicida-schock-in-Assia-cfe8a56d-27b7-4cf0-b5ba-3df0b69f9818.html

 

 

 

 

La petizione sarebbe stata firmata da alcuni europarlamentari, tra cui il ministro francese agli Affari europei Nathalie Loiseau.

Alcuni eurodeputati tedeschi del gruppo Verdi Europei-Alleanza Libera Europea hanno chiesto a Bruxelles di rispondere alla presunta campagna di disinformazione messa in atto dalla Russia sullo sfondo della crisi legata alla diffusione del Covid-19, ha appreso Sputnik da una communicazione interna Ue.

Stando a quanto dichiarato dai diretti interessati, gli aiuti inviati da Mosca, ma anche da Pechino, all’Italia, sarebbero un chiaro esempio di propaganda volto a minare l’integrità dell’UE:

“Vorremmo porre alla vostra attenzione e chiedere di intervenire in maniera urgente alla luce della strumentalizzazione della crisi attuale da parte di Paesi con ambizioni geopolitiche ostili. Siamo seriamente preoccupati dalle campagne di propaganda e disinformazioni provenienti in particolar modo dalla Cina e dalla Russia. E’ chiaro per la maggior parte di noi che sia in atto uno sforzo per creare diffidenza nella popolazione e nei Paesi vicini nei confronti dell’Unione Europea, dei suoi valori democratici e delle sue istituzioni”, si legge in un’email diffusa dai deputati nella giornata di mercoledì, la quale però non è stata accompagnata da nessun esempio concreto di tale propaganda.

Come fonte i deputati hanno citato unicamente delle “scoperte recenti” che sarebbero state fatte dalla East StratCom, sottolineando che l’UE dovrebbe “continuare ad affidarsi alla loro esperienza di lunga data per smascherare miti legati alla propaganda e strategie di disinformazione” ed esprimendo preoccupazione circa il fatto che i “tentativi odierni mettono a serio rischio la nostra unità e stabilità nel lungo termine oltre che la possibilità di superare la crisi, le sue conseguenze e di affrontare insieme le sfide future”.

La petizione, a quanto si apprende, sarebbe stata firmata da alcuni parlamentari europei, tra cui la francese Nathalie Loiseau del partito République en Marche di Emmanuel Macron.

Il 18 marzo il Servizio europeo per l’azione esterna ha pubblicato una serie di documenti, diffusi dai principali media del Vecchio Continente, denunciando la Russia di aver lanciato una imponente campagna di disinformazione ai danni dei Paesi occidentali atta ad aggravare ulteriormente la situazione legata alla diffusione del nuovo coronavirus.

FONTE:https://it.sputniknews.com/mondo/202003308917346-coronavirus-eurodeputati-tedeschi-cercano-di-lanciare-campagna-contro-aiuti-russi-all-italia/?utm_source=push&utm_medium=browser_notification&utm_campaign=sputnik_it

 

 

 

 

ARTE MUSICA TEATRO CINEMA

Apuleio – Psiche «scopre» Amore

Psiche lasciata sola, ma non del tutto sola (agitata qual era dalle Furie ostili), ondeggia in un tumulto simile a quello del mare e, benché abbia preso una decisione e sia risoluta nell’animo, tuttavia sul punto di porre mano al delitto ancora esita, incerta e combattuta dai molti sentimenti in lei suscitati dalla sua calamità. Ha fretta e insieme rinvia, osa e teme, si scoraggia e si adira: insomma, in una stessa persona, odia la bestia e insieme ama lo sposo.
Quando però la sera sta ormai per cedere alla notte, si precipita a preparare in fretta e furia il necessario per il nefando delitto. La notte era ormai calata e lo sposo aveva fatto ritorno e, dopo le scaramucce amorose, era caduto in un sonno profondo.

Allora Psiche, fiaccata ormai nel corpo e nell’animo, e tuttavia costretta dal suo crudele destino, si fa forza e, tratta fuori la lucerna e brandito il pugnale, trova un coraggio, più che di donna, avresti detto di maschio. Ma nel buio, appena la prima luce rischiarò il talamo segreto, vide la belva più mite e la più dolce delle bestie: era Cupido in persona, il bello tra gli dèi, bellamente addormentato. La stessa luce che lo illuminava, per la gioia, nel vederlo fremette e il suo brivido illuminò la punta del sacrilego pugnale.

Joshua-Reynolds-Amore-Psiche
Joshua Reynolds – Amore e Psiche

A tal vista atterrita, Psiche fuori di sé, impallidì. E trepidante la sposina cadde seduta sui calcagni e voleva sì affondare il ferro, ma nel suo petto. E l’avrebbe fatto, se il ferro restio a tale scempio non le fosse sfuggito dalla mano temeraria, schizzando lontano.
Era abbattuta ormai, disperata, ma ecco il prodigio: la vista del bel volto divino la risuscitava. E più le tornavano le forze, più osava guardare quel volto. Ed ecco, Psiche vide i capelli d’oro, vide la chioma di stille d’ambrosia. E vide il collo bianco come latte, vide la via da cui discende la luce delle stelle, fin giù sulle guance di porpora vide, la rianimata Psiche vide gli anelli che annodavano le trecce disciolte, alcune cadenti sul petto, altre sulle spalle, vide la simmetria dei colori dell’arcobaleno, per un momento, vide il capo del gomitolo della luce stessa. E impallidì pure la luce della lucerna.

Sugli omeri del dio alato, ecco apparire nel loro fulgore due candide ali gocciolanti di rugiada. Erano immobili, e tuttavia sulle loro punte danzavano inquiete un instancabile giro di danza piume tenere e delicate. Il resto del corpo senza peli e luminoso era di un tale splendore che Venere non si sarebbe pentita d’averlo generato.
Ai piedi del letto giacevano arco, faretra e frecce, le benevole armi del grande dio. Psiche che sazia ancora non era, e che anzi era ancor più curiosa, guardava e toccava le armi dello sposo. Guardava e dalla faretra tirò fuori una freccia e, premendovi il dito sulla punta affilata, finì che, facendo un movimento brusco, si punse e a fior di pelle sbocciarono come rugiada goccioline di rosso sangue.

Fu così che Psiche, ignara, con le sue proprie mani cadde nell’amore di Amore. Psiche cadde e, più giù cadeva, più si chinava – che stranezza! – a cercare laggiù le labbra socchiuse di Cupido per stamparvi un bacio e poi un altro, un altro ancora, ancor più dolce, ma sempre attenta a non farlo svegliare.
Era così presa da sì grande piacere che, mentre si travagliava nella mente sua ferita, quella lanterna, sì quella perfida lanterna invidiosa che non vedeva eppure smaniava di vedere, quasi anch’essa desiderasse toccare e perfino baciare un corpo così bello, dalla punta della sua fiamma vomitò una stilla d’olio bollente e la fece cadere sulla spalla del dio.

Jacopo-Zucchi-Psiche-scopre-Amore
Jacopo Zucchi – Psiche scopre Amore

O audace, o temeraria lucerna, o cattiva serva d’Amore, tu bruci nientemeno il dio di tutti i fuochi. Tu che di certo fu un amante a fabbricarti, per allungare fino a notte inoltrata la vista dei suoi oggetti di desiderio!
Ed ecco, da te scottato, sobbalzò il dio e, visto il rovinoso risultato del giuramento tradito, in un istante, volò via in silenzio, via dai baci e dalle carezze della sua infelicissima sposa.

E Psiche, pur avendo prontamente afferrato con tutt’e due le mani il piede destro del dio che si alzava dal letto, misero appiglio per restare aggrappata a quello che stava per spiccare il volo, ultima propaggine del compagno sospeso tra le nuvole, alla fine stanca si abbatté al suolo.

Il suo divino amante, non volendo abbandonarla che giaceva così a terra, in volo raggiunse un vicino cipresso e dall’alto dei suoi rami, profondamente commosso, così le parlò: «Io, ingenua Psiche, proprio io, immemore delle istruzioni di mia madre Venere che ti voleva asservita alle brame di un misero e abietto uomo e mi aveva ordinato di spingerti a infime nozze, proprio io volai verso di te da amante. Ma con troppa leggerezza ho agito, lo so; io, quel famoso sagittario, me stesso finii per colpire con la mia freccia e ti feci mia compagna, perché tu dovessi poi prendermi per una bestia e con la spada mi tagliassi il capo – questo capo i cui occhi sono di te innamorati! Io pensavo che non saresti mai giunta a tanto, e di ciò spesso benevolmente ti ammonivo. Ma quelle tue egregie consigliere mi pagheranno subito il fio di questo loro pernicioso magistero; in quanto a te, ti punirò soltanto fuggendo via».

E dette queste parole, con le ali in alto subito si levò.
E Psiche prostrata al suolo, seguendo con lo sguardo fin dove poté il volo dello sposo, si affliggeva e si torturava in disperati lamenti. Ma poi, quando lo sposo fu portato via dal remeggio delle sue piume e sparì alla sua vista, si gettò giù a capofitto dalla riva di un fiume vicino.
Il fiume tuttavia, in onore certo del dio che è solito infiammare anche le acque, e temendo anche per sé, subito gentile con un flutto benigno la depose sulla sua riva erbosa e fiorita.

Per caso, su quella riva del fiume era seduto il rustico dio Pan, e stava stringendo tra le braccia la dea dei monti Eco e le insegnava a modulare ogni sorta di voci; lì, presso la riva, libere al pascolo, lascive vagavano qua e là delle caprette, brucando la chioma del fiume.

Pan-Psiche-statuaIl dio caprino, chiamata a sé la ferita e disfatta Psiche, di cui non ignorava la vicenda, così con dolci parole la confortava: «Graziosa fanciulla, sono sì, è vero, un rustico e pecoraio, ma grazie alla mia avanzata vecchiaia sono stato istruito da molte esperienze. Ma se il fiuto non mi tradisce (ché è quello che gli uomini chiamano divinazione), da codesto tuo passo titubante e più volte vacillante, dall’eccessivo pallore del tuo corpo e dai frequenti sospiri, e soprattutto dai tuoi occhi sofferenti, vedo che patisci le pene di un amore troppo grande. Ascolta me, dunque: non porre fine ai tuoi giorni, non precipitare ancora più giù! Smettila di piangere e deponi il tuo cruccio, e piuttosto pregando elevati e adora Cupido, il più potente degli dèi, e – delicato e lussurioso giovinetto qual è – con blandi voti renditelo propizio».

Poi che il dio pastore ebbe così parlato, senza rispondergli nulla, ma limitandosi a riverire il nume con un saluto, Psiche seguitò per la sua strada. Ma, quando ebbe percorso un buon tratto di via, verso sera, non so per quali cammini, giunse in una città, nella quale regnava il marito di una delle sue sorelle.

Essendo venuta a saperlo, Psiche fece annunziare alla sorella la sua presenza in città; subito introdotta, dopo gli abbracci e i saluti di rito, richiesta del motivo della sua venuta, così prese a dirle: «Tu ben ricordi il vostro consiglio, quello cioè di uccidere con un pugnale a doppio taglio la bestia che, col mentito nome di marito, giaceva con me, prima che essa inghiottisse me misera nella sua vorace gola. Ma, appena con la mia complice lucerna (come avevamo concordato) gli illuminai il volto, fu un meraviglioso e divino spettacolo che ammirai: il figlio in persona della dea Venere, dico Cupido in persona, immerso in soave sopore! Ma, mentre colpita dalla vista d’una tale bellezza e turbata da un assalto di voluttà mi tormentavo per l’impossibilità di goderne, per un perfido caso la lucerna schizzò olio bollente sulla sua spalla. E quello per il dolore, balzato su dal sonno, vedendomi armata di ferro e di fuoco, “tu – esclamò – per codesto tuo terribile misfatto vattene subito dal mio letto e portati via le tue cose; sarà tua sorella (e qui fece il tuo nome) quella che io sposerò in legittime nozze”. E subito ordinò allo Zefiro di soffiarmi via dalla sua casa».

Non aveva ancora Psiche finito di parlare, che quella, agitata dai pungoli di un’insana libidine e di una perversa invidia, con una ben macchinata bugia ingannando il marito, dicendo d’aver avuto notizia della morte dei genitori, subito s’imbarcò su una nave e andò dritto alla solita rupe e, sebbene spirasse tutt’altro vento, preda ormai di una cieca illusione e gridando «prendimi, Cupido, sono la tua degna sposa! e tu, Zefiro, prendi la tua signora!», con un grandissimo salto si precipitò nel vuoto.
Ma neanche morta ci giunse, nel posto che sperava. Infatti, sbalzata con le membra qua e là sulle punte delle rocce e, come si meritava, con le viscere dilaniate morì, offrendo un facile pasto agli uccelli e alle belve.

E non tardò il castigo anche della seconda vendetta. Infatti Psiche, rimessasi in cammino, errando giunse in un’altra città, dove similmente abitava l’altra sorella. E anche questa, allo stesso modo indotta in inganno dalla sorella più piccola, ed emula della sorella maggiore nella scellerata illusione di andare a nozze, si affrettò alla rupe e precipitò nello stesso esito mortale.

(Apuleio, Metamorfosi, 5: 21-27)

FONTE:https://lartedeipazzi.blog/2017/07/26/apuleio-psiche-scopre-amore/

 

 

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

Il virus dell’autolesionismo

AVEVAMO IN CASA I RESPIRATORI. MA GLI ESPERTI DEL GOVERNO LO HANNO SCOPERTO SOLO IL 4 MARZO – UN’AZIENDA ITALIANA, SIARE ENGINEERING, PRODUCE MACCHINARI POLMONARI PER MEZZO MONDO. SCOVATA DA CONSIP, LA SOCIETA’ E’ STATA CONTATTATA PER UNA FORNITURA DI 2000 PEZZI – LA TELEFONATA DI CONTE…

29.03.2020 – Carlo Tecce per il Fatto Quotidiano

Soltanto ai primi giorni di marzo in Italia si è scoperto che esiste un’ azienda italiana, la Siare Engineering, che produce ventilatori polmonari, i macchinari necessari per ampliare le terapie intensive e curare i malati più gravi.

È accaduto un mese dopo il decreto legge per proclamare lo stato di emergenza per il coronavirus, il mandato a coordinare i lavori alla Protezione Civile di Angelo Borrelli, elaborati scientifici, oculate pianificazioni, ospedali lombardi intasati, già migliaia di contagi, decine di morti.

Il 2 marzo la società statale Consip viene indicata “soggetto attuatore” per gli acquisti per fronteggiare il Covid-19; il 4 marzo la Protezione civile comunica il fabbisogno ospedaliero. In poche ore, scorrendo l’ elenco dei fornitori della Pubblica amministrazione, Consip individua la Siare Engineering, sede a Valsamoggia in provincia di Bologna, fondata nel 1974, un’ azienda con una trentina di dipendenti che vende all’ estero il 90 per cento della propria produzione, in tempi ordinari non supera i 40 respiratori alla settimana. Consip avverte la Protezione civile, il capo Borrelli allerta Palazzo Chigi.

Il 6 marzo a mezzogiorno, il premier Giuseppe Conte, con accanto Borrelli e Domenico Arcuri (non ancora nominato commissario), chiama in videoconferenza Gianluca Preziosa, direttore generale di Siare Engineering.

siare engineering
SIARE ENGINEERING

In più di un mese della laboriosa gestione dell’ emergenza, questo è il dato che segna il ritardo e l’ errore, nessuno ha chiamato Preziosa, neanche per una semplice informazione, non la Protezione civile, non il ministero della Salute. Conte si scusa con Preziosa del mancato preavviso e gli chiede uno sforzo per fornire al suo Paese almeno 2.000 ventilatori polmonari e la risposta deve arrivare entro le 16: “Mi dispiace – dice Preziosa – della situazione drammatica dell’ Italia e per le occasioni perdute.

A dicembre dal mercato asiatico hanno aumentato le commesse proprio per il coronavirus, non volevano farsi trovare impreparati, sprovvisti dei mezzi più utili”. Preziosa accetta la proposta di Conte, il ministero della Difesa manda nei capannoni di Valsamoggia i militari dell’ esercito, il gruppo Fca e la Ferrari forniscono del materiale, i turni non finiscono mai e si spera di sfondare il limite di 500 ventilatori polmonari al mese. Anche Preziosa è rammaricato:

siare engineering
SIARE ENGINEERING

“Si poteva fare meglio con un po’ di anticipo. Dopo il contatto con Conte ho subito bloccato i respiratori già imballati nei cartoni per partire verso l’ Asia, così ne abbiamo recuperati più di trecento per gli ospedali italiani. Ho vuotato il magazzino. Adesso dal Sudamerica mi domandano 3.500 pezzi, ma ho rifiutato perché la mia fabbrica è a totale disposizione del governo”.

Gennaio e febbraio sono il prologo della catastrofe, la lunga pausa che non tempera il disastro sanitario di marzo.

Al ministero per la Salute studiano il fenomeno, l’ Organizzazione mondiale della sanità alla vigilia dell’ Epifania lancia l’ allarme sul coronavirus che aggredisce i polmoni e richiede l’ utilizzo della terapia intensiva. Nella sede della Protezione civile si riunisce spesso il comitato operativo, in forma plenaria il 31 gennaio, come scritto nei giorni scorsi, non si fa un minimo accenno alle condizioni degli ospedali, ai posti letto per il ricovero col Covid-19, alla capienza per i reparti di rianimazione, alla ricerca di tamponi, mascherine, strumenti medici. Il 17 febbraio, ancora al ministero per la Salute, viene compresa l’ urgenza di comprare i respiratori, però non si procede. Finché il governo non cala la serranda sull’ Italia e negli ospedali non si muore a decine al giorno, non succede niente. Con la disperazione addosso, a marzo ci si affanna a cercare i ventilatori polmonari, senza sapere neppure da dove cominciare, a chi rivolgersi. Per caso Consip pesca la Siare Engineering dall’ archivio e si tenta l’ ennesimo miracolo italiano dopo la solita approssimazione.

https://m.dagospia.com/avevamo-in-casa-i-respiratori-ma-gli-esperti-del-governo-lo-hanno-scoperto-solo-il-4-marzo-231617

 

 

Coronavirus, Garante scioperi proroga stop astensioni fino al 30 aprile
LETIZIA DE SANTIS 26 MARZO 2020

La proroga dello stop agli scioperi — in una prima fase richiesto fino al 31 marzo 2020 — è spostata al 30 aprile

La Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali — preso atto del perdurare dello stato di emergenza epidemiologica sull’intero territorio e considerato quanto previsto dai provvedimenti normativi adottati dal Governo per contrastare il diffondersi della pandemia da coronavirus — rinnova il fermo invito a tutte le Organizzazioni sindacali ed alle Associazioni professionali a non effettuare astensioni collettive fino alla data del 30 aprile 2020.

STOP DEGLI SCIOPERI PRIMA FINO AL 31 MARZO 2020
La proroga dello stop agli scioperi — in una prima fase richiesto fino al 31 marzo 2020 – si rende necessaria sempre al fine di evitare ulteriore aggravio alle Istituzioni coinvolte nell’attività di prevenzione e contenimento della diffusione del virus Covid-19.

La Commissione monitorerà lo sviluppo di tale emergenza, riservandosi eventuali e successivi interventi in merito.

COS’È SUCCESSO NEI GIORNI SCORSI
Due giorni fa la Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali era già intervenuta in seguito all’astensione proclamata dalle Segreterie nazionali delle Organizzazioni sindacali Faib (Confesercenti), Fegica (Cisl), Figisc/Anisa (Confcommercio), per la chiusura degli impianti di distribuzione carburante a decorrere dal 25 marzo 2020 invitandole alla revoca immediata.

FONTE:https://www.policymakermag.it/italia/coronavirus-garante-scioperi-proroga-stop-astensioni-fino-al-30-aprile/

 

 

BELPAESE DA SALVARE

LA “COLPA” DELLE PRIVATIZZAZIONI (VISTO QUANTO CI HANNO FATTO BENE?)

26 MARZO 2020

Prima che “manu militari” oscurino Byoblu – del che speriamo proprio di no – forse la pena fissare questo video del 2016 che Claudio Messora mi chiese di fare proprio sul tema delle privatizzazioni.

Ci sono date, nomi e cognomi. Insomma c’è la storia certificata del perché sono state fatte e di chi le ha fatte.

Così, per non dimenticare. Soprattutto oggi che abbiamo carenze… ospedaliere.

VIDEO QUI: https://youtu.be/JYnvFbkt8hg

FONTE:https://www.valeriolomonaco.it/giornale-di-steppenwolf/2020/3/26/la-colpa-delle-privatizzazioni-visto-quanto-ci-hanno-fatto-bene

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

Vi racconto la folle guerra tra Aeronautica e Marina per gli F-35
di Aurelio Giansiracusa

La guerra tra Aeronautica e Marina per gli F-35B approfondita da Aurelio Giansiracusa, analista militare e animatore di Ares-Osservatorio Difesa

Scoppia la guerra tra AM e MM per gli F-35B, a seguito della pubblicazione da parte della RID diretta da Pietro Batacchi della notizia che il terzo F-35B ha ricevuto le insegne dell’AM. Questo terzo esemplare, prodotto l’anno passato dalla FACO di Cameri, per lunghi mesi è stato “messo in quarantena” per i problemi insorti tra AM e MM per la relativa assegnazione.

Già l’assegnazione del secondo esemplare, il B-02, sempre assemblato a Cameri, aveva suscitato polemiche a non finire, con uno scontro arrivato a coinvolgere l’allora Ministro della Difesa Elisabetta Trenta e l’attuale Capo di Stato Maggiore della Difesa Enzo Vecciarelli. Tale esemplare, alla fine, è stato assegnato, come il primo, alla Marina Militare. Ma, evidentemente, la questione era solo rimandata.

Non passano 24 ore dall’emergere della notizia che sul quotidiano a tiratura nazionale La Stampa è pubblicata la lettera aperta del Ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, inviata al Ministro della Difesa Lorenzo Guerini.

Un vero e proprio “J’accuse” con il quale l’ex Capo di Stato Maggiore della Marina, nonché ex Capo di Stato Maggiore ad interim della Difesa, attacca apertamente la decisione di assegnare l’esemplare B-03 all’Aeronautica.

La tesi sostenuta dall’Ammiraglio Luigi Binelli Mantelli è che questa decisione punti a ritardare, oltremodo, il raggiungimento della IOC o capacità operativa iniziale degli F-35B della Marina che dovranno operare dai ponti di volo del Cavour e, prossimamente, dal Trieste, nonché che l’acquisto dei B da parte dell’Aeronautica sia uno spreco di risorse, spingendosi ad affermare che l’acquisto della versione a decollo corto dovrebbe essere esclusiva della MM, riservando la versione A all’Aeronautica.

L’Ammiraglio, infatti, sostiene che l’acquisto della variante B sia un errore perché questa versione sarebbe costosa come prezzo d’acquisto, di manutenzione complessa e con diverse limitazioni operative rispetto alla versione “legacy” A acquistata dall’Arma Azzurra. Di contro, l’Ammiraglio sostiene l’indispensabilità per la Marina degli F-35B che deve operare con portaerei “leggere” con ponti di volo ridotti e senza l’ausilio di catapulte, consigliando tra le righe l’aumento degli aerei in carico alla Marina.

I prodromi dell’Aviazione imbarcata
Pertanto, sembra che, improvvisamente, l’orologio della Storia sia stato portato indietro alla fine degli anni settanta nonché agli anni ottanta quando si infiammò il dibattito sull’opportunità o meno di creare un’Aviazione imbarcata per la Marina, la quale, peraltro, aveva dotato di un trampolino, lo ski jump, la nuova nave ammiraglia impostata nel 1978 e consegnata nel 1985, l’Incrociatore Lanciamissili Portaelicotteri Giuseppe Garibaldi. La fantasia per le denominazioni di sicuro a Palazzo Marina non è mai mancata. La nave nasceva come evoluzione del concetto iniziato con i primi due incrociatori classe Duilio e portato avanti con il Vittorio Veneto dove le capacità missilistiche, allora prettamente antiaeree e solo secondariamente antinave, erano state fuse su un’unica nave con la capacità di trasportare, hangarare e far operare elicotteri antisommergibili, unitamente, alle cospicue dotazioni antisom di cui erano dotate le unità navali del tempo.

Infatti, sino all’avvenuto collasso del Patto di Varsavia e dell’URSS, la MM operava a fianco della 6a Flotta dell’US Navy per fronteggiare, principalmente, la minaccia aerea portata da bombardieri e pattugliatori a lungo raggio nonché gli insidiosi sottomarini convenzionali sovietici che “infestavano” il Mediterraneo. Nel corso degli anni settanta si rese disponibile il potente missile antinave italo-francese OTOMAT, in Italia adottato prima nella versione Teseo Mk 1 e, successivamente, nella versione migliorata Mk 2 che consentiva agli elicotteri imbarcati SH-3D/H ed AB-212 ASW/ASV mediante apposito sistema di controllo, di guidare il missile lanciato dalla nave “madre” sul bersaglio ben oltre la linea dell’orizzonte, esaltando le notevoli doti di autonomia e di potenza della testata impiegata.

Pertanto, la MM avendo messo a frutto l’esperienza dei tre incrociatori lanciamissili portaelicotteri degli anni sessanta, decise che la nuova unità avrebbe avuto come dotazione elicotteri i pesanti Sea King che, a differenza del Vittorio Veneto, avrebbero avuto la possibilità di essere hangarati con tutti i benefici portati da questa soluzione.

Del resto il concetto era stato già sperimentato e posto in essere dalle US Navy, Royal Navy e dalla Marina Canadese che con l’apparire di aerei imbarcati sempre più pesanti, impossibilitate ad impiegare le catapulte su navi portaerei datate ma ancora impiegabili, rispolverarono il concetto operativo messo a punto nel corso della Seconda Guerra Mondiale della portaerei di scorta, aggiornandolo con l’impiego degli elicotteri medio-pesanti per impieghi antisom, e, successivamente, come unità portaelicotteri per operazioni anfibie.

L’esperienza britannica
Nel frattempo in Gran Bretagna, la Royal Navy alle prese con la dismissione dell’ultima grande portaerei di squadra disponibile, l’Ark Royal, individuava nel Hawker Harrier il successore dello sperimentale Kestrel, l’aereo necessario per mantenere in vita la componente aerea imbarcata della Fleet Air Army. Ma questo velivolo aveva grosse limitazioni operative tra cui il forte consumo di carburante sopratutto se si impiegava la modalità del decollo verticale e capacità di carico utile assai scarse. All’Ammiragliato di Londra iniziarono gli studi per limitare, quantomeno, tali problematiche che sfociarono in una campagna con un trampolino posto a terra nel corso degli anni settanta e con la modifica della residuale Hermes con un primo ski jump per l’impiego dei Sea Harrier Frs 1. Da notare che anche la Hermes nelle intenzioni del governo laburista dell’epoca avrebbe dovuto uscire di scena, ma il cambio di governo con l’ascesa dei conservatori guidati dalla Tachter e lo scoppio delle ostilità con l’Argentina per la riconquista delle isole Falkland salvarono l’unità dal ritiro che, alla fine, fu raggiunta dalle tre nuove portaerei stolv Invicible nelle fila della Royal Navy.

Come è noto, il Sea Harrier si comportò estremamente bene nella difesa della flotta con numerosi abbattimenti ottenute e perdite pressoché nulle a differenza dei cugini Harrier Gr.2 imbarcati che subirono perdite, sia pure contenute, durante le operazioni.

La guerra per l’aviazione imbarcata
Tutto questo convinse la MM a dotarsi di una componente imbarcata ad ala fissa basata sugli Harrier andandosi a scontrare con le resistenze dell’Aeronautica da sempre contraria ad un’Aviazione autonoma. Neppure le dolorose lezioni impartite dall’aviazione imbarcata della Royal Navy durante la II GM che avevano ampiamente dimostrato il valore strategico e tattico di possedere e saper impiegare l’aviazione imbarcata erano servite a chiarire ai decisori della Difesa dell’epoca (ma a quanto pare non solo..) che possedere le navi portaerei (e gli aerei) aumenta le capacità di difesa della flotta, permette la cd. proiezione di potenza al Paese senza essere costretti a trovare accordi con le altre Nazioni per ottenere basi ed aeroporti da cui far operare i nostri velivoli, nonché permette più in generale di assicurare il quadro di sicurezza ogni qualvolta sia reso necessario intervenire oltremare.

Le esperienze operative e belliche del Grupaer
Pertanto, la MM iniziò la battaglia parlamentare che alla fine degli anni ottanta vide l’approvazione della legge che ha istituto l’aviazione ad ala fissa imbarcata. Le prove dell’efficacia dell’aviazione imbarcata che optò per il ben più efficiente AV-8B Plus dotato di nuovo motore, radar APG-65 lo stesso del F/A-18 Hornet, il flir, missili aria-aria Sidewinder ed AMRAAM, missili Maverick nonché varie tipologie di armamento aria-suolo, si ebbero quasi immediatamente con il rischieramento operativo dei primi velivoli a bordo del Garibaldi nelle acque somale.

Pochi anni dopo il Grupaer fu chiamato a combattere, partendo sempre dal Garibaldi, sui cieli del Kosovo; in quella circostanza l’AV-8B Plus sicuramente era il velivolo più moderno nonché veramente multiruolo a nostra disposizione, considerato che l’AM operava ancora con i preistorici F-104ASA, gli AMX che potevano essere impiegati, allora, solo nelle ore diurne, i Tornado IDS che avevano finalmente ricevuto una prima dotazione di armi all’altezza dei tempi e con i Tornado ADV, potenti intercettori studiati dalla RAF per una minaccia ormai estinta, quella dei bombardieri sovietici a lungo raggio.

Ulteriori prove di affidabilità furono date nel 2003 quando il Garibaldi venne inviato nell’Oceano Indiano a supportare la coalizione internazionale che operava in Afghanistan, nel 2008 dinanzi alle coste libanesi a protezione delle operazioni di sbarco del ns. contingente nell’ambito dell’operazione Leonte e nel 2011 nel golfo della Sirte allorquando operò contro la Libia di Gheddafi accumulando circa 1600 ore di volo in operazioni reali.

Gli impegni operativi dell’AM
Ma anche l’Aeronautica dal 1990 in poi ha avuto esperienze operative e di combattimento a partire dall’operazione Locusta, nell’ambito della Desert Storm che culminò con l’invio di una squadriglia di Tornado IDS nell’ambito delle operazioni per la liberazione del Kuwait invaso dall’Iraq di Saddam Hussein. L’operazione ebbe un inizio a dir poco traumatico con l’avvenuto abbattimento nel corso della prima missione operativa del Tornado di Bellini e Cocciolone, poi presi prigionieri dagli Iracheni. Ma, superato questo scoglio emotivo, continuò lo sforzo dell’Aeronautica che concluse il ciclo di operazioni consumando, praticamente la dotazione di bombe MK83 in dotazione.

Nel 1994 ci fu l’esigenza Bosnia; a quel appuntamento l’AM arrivò con i Boeing 707 ex TAP (Compagnia di bandiera portoghese) trasformati in aviocisterne, ma con i programmi per dotare i Tornado IDS e gli AMX, da poco entrati in linea, di armamento moderno ancora non attuato. Appena cinque anni dopo l’AM fu chiamata a sostenere nell’ambito dell’operazione NATO Allied Force, lo sforzo bellico sui cieli kosovari e serbi ed in questa circostanza riuscì ad impiegare i suoi cacciabombardieri Tornado ed AMX con armamenti all’altezza della situazione come le bombe a guida laser Paveway II, quelle a guida infrarossi e missili anti radiazioni AGM-88 Harm appena entrati in servizio.

Dopo il 2003 l’Aeronautica ha iniziato ad operare sui cieli afgani con assetti Tornado, AMX e prima fra tutte le aeronautiche occidentali dopo l’USAF, con gli UAV MALE Medium Altitude Long Endurance MQ-8A Predator per la ricognizione strategica, tattica e la designazione dei bersagli a favore di aerei dotati di armamento a guida laser. Operazioni del genere si sono successivamente ripetute in Iraq dove si era formato il pericoloso Stato Islamico fortemente anti occidentale e che minacciava l’intera aerea mediorientale.

Nel 2011 fu fortissimo l’impegno dell’AM nelle operazioni contro il regime di Gheddafi dove l’AM schierò tutti gli assetti operativi disponibili con armamento di nuova generazione, JDAM, Enanched Paveway III ed il missile per strike a lungo raggio Storm Shadow.

Tutto questo ha portato l’AM a dotarsi di velivoli avanzati come gli Eurofighter Typhoon, Tornado ECR, Tornado IDS ed AMX profondamente ammodernati, nuovi velivoli da rifornimento in volo e trasporto KC-767A, una minima ma iper tecnologica componente nazionale di scoperta aerea avanzata e controllo basata su una coppia di Gulfstream G550CAEW, nuovi aerei da trasporto tattico Super Hercules e Spartan, nuovi avanzatissimi aerei d’addestramento T-346, senza dimenticare la componente satellitare con i satelliti d’osservazione Cosmo Skymed e OPTSAT 3000 nonché quelli da comunicazione protetta SICRAL.

Il programma F-35
Fatta questa lunga ma necessaria premessa, si può iniziare a parlare con una certa cognizione di causa del programma F-35. Come noto, il programma inizialmente prevedeva circa 130 velivoli ma questi per motivi di budget sono stati ridotti a 90. Particolare non indifferente è l’allestimento dei velivoli italiani (a cui si sono aggiunti anche quelli olandesi in parte) presso la FACO di Cameri, un vero e proprio stabilimento industriale di proprietà del Ministero della Difesa in cui lavorano le principali realtà industriali aerospaziali attive nel programma. Infatti, la FACO non si limita ad allestire i velivoli italiani e quelli olandesi ma produce parti destinate agli aerei allestiti direttamente negli Stati Uniti. Quest’attività genera incassi per il consorzio industriale italiano interessato dal programma (cosa mai messa in luce con chiarezza in questi anni).

Tornando ai 90 F-35, dopo la lunga battaglia che ha visto impegnato parte della ex maggioranza di governo di tentare di rimettere in discussione il programma, ipotesi, peraltro, non verificatasi, questi sono suddivisi in 60 F-35A, la versione convenzionale terrestre, destinati esclusivamente alla Aeronautica Militare e 30 F-35B destinati in parte eguali alla Marina Militare ed alla Aeronautica.

Punti critici della scelta AM
Dal punto di vista quantitativo i 30 F-35B sul totale di 90 F-35 rappresentano ben il 33,3% periodico mentre per l’Aeronautica che avrà un totale di 75 velivoli solo il 20%. Questo 20%, peraltro, rischia di costare salato all’Aeronautica sia in termini operativi perché i B non possono impiegare tutti gli armamenti disponibili e previsti per gli A, sia perché hanno prestazioni inferiori e un raggio di azione limitato sempre in raffronto con gli A e, soprattutto, perché richiedono un’apposita linea logistica in quanto hanno sistemi differenti rispetto la versione A, tipo la ventola di sostentamento, il meccanismo di orientamento del ugello del motore, il carrello diverso che impiega pneumatici differenti ed altri elementi che appesantiscono la linea logistica ALIS e quella destinata a prenderne il posto.

L’Aeronautica, da parte sua, ha sempre sostenuto che la versione B serve per le operazioni expeditionary o in aeree non dotate di particolari basi ed aeroporti avanzati. La critica principale che si può muovere a questa ricostruzione è che l’USAF, la maggior cliente del programma F-35, non sente la necessità di dotarsi della versione B, pur avendo impegni expeditionary enne volte superiori a quelle dell’AM. Altra critica che si può muovere a quest’impostazione è che il numero di velivoli, 15, per impieghi fuori aerea sarà, alla lunga, insufficiente a sostenere gli impegni perché l’unico gruppo dell’AM, in assenza dell’aiuto della Marina, non avrà sostituzioni, dovendo gestire gli apparecchi operativi, quelli in riserva di pronto impiego, quelli usati per abilitare i piloti al particolare velivolo e quelli fermi nei vari stati di manutenzione. In parole povere, un impiego prolungato fuori area rischia di esaurire anzitempo le famose (e un po’ fumose in verità) capacità expeditionary vantato alla base di questa scelta. Praticamente, è sicuro, vista la situazione, che la MM impegnerà buona parte dei suoi F-35B a bordo del Cavour e del Trieste, lasciando a terra, probabilmente a Foggia-Amendola dove dovrebbero essere concentrati tutti gli F-35B italiani solo gli esemplari in manutenzione (non inviati alla FACO) e quelli per uso addestrativo. Con la variabile che potrebbe divenire impazzita del mancato sostegno logistico dell’USAF che non ha in carico questo tipo di velivolo.

Punti critici della scelta della MM
La MM è stata vincolata alla variante B per mancanza di soluzioni alternative. Peraltro, anche per la MM i problemi non mancano perché, pur essendo i 15 F-35B solo un aereo operativo in meno rispetto ai 16 originari AV-8B Plus, diminuiti a causa di incidenti, con i due TAV-8B impiegati solo per addestramento, si tratta di un aereo molto più complesso da mantenere rispetto al Harrier II di suo già più complesso rispetto ad un aereo convenzionale della sua generazione. Probabilmente, l’impatto dei costi è stato sottostimato e di certo nella situazione attuale, ulteriori velivoli rispetto ai 15 programmati non sarebbero gestibili dalla MM per mancanza di risorse, piloti e personale tecnico. Nell’ultimo triennio la componente Harrier della MM per i tagli ai fondi dell’esercizio ha volato il minimo indispensabile per consentire di mantenere le abilitazioni di volo dei piloti e per abilitare i pochi piloti nuovi che sono giunti al Grupaer. Del resto anche la linea AW101 ha conosciuto tempi piuttosto bui, solo di recente parzialmente risolti con un’iniezione di risorse. La situazione per la Marina diventa difficile perché, con le consegne che avvengono con il contagocce e tempi dilazionati, sarà costretta a mantenere due linee, quella Harrier e quella F-35, fin quando quest’ultima non avrà un numero decente di apparecchi messi a disposizione della Forza Armata. Questo si traduce in costi aggiuntivi, perché mantenere due linee, sia pure ai minimi livelli, costa, in termini di addestramento del personale alla nuova macchina, in termini operativi perché gli AV-8B Plus saranno costretti a rimanere in linea più a lungo del previsto e gli F-35B ritarderanno l’entrata in pieno servizio. Le stesse criticità numeriche poste per il singolo gruppo dell’AM valgono anche per la MM che con quindici aerei dovrà fare i salti mortali per le dotazioni aeree del Cavour e del Trieste, senza l’apporto degli aerei dell’Aeronautica Militare.

Quale possibile soluzione?
Chi scrive è da sempre fautore di una vera Italian Lightning Joint Force con i distinguo rispetto a quella britannica in cui confluirono i piloti di Harrier e Sea Harrier. I due gruppi dovrebbero rimanere in carico alle rispettive Forze Armate; quello da mettere in comune sarebbe il sistema di manutenzione logistico che, comunque, la MM deve replicare a bordo di Cavour e Trieste, il sistema addestrativo con i simulatori a terra, quello operativo, con un organo di comando costituito su base paritetica a rotazione che permetta di far dialogare ed operare a meglio le due Forze Armate, individuando le necessità di entrambe, mettendo a disposizione il maggior numero di aeromobili, piloti e tecnici. Ovviamente, una soluzione del genere richiede l’abbandono dei personalismi e della difesa dei rispettivi “interessi di bottega” che ciascuna delle due Forze Armate persiste a coltivare, a tutto detrimento dell’efficienza complessiva dello strumento militare italiano.

Gli altri Paesi che impiegano la versione B
Ma andiamo a vedere chi ha comprato gli F-35B. Allo stato attuale, oltre l’USMC che li impiega a bordo delle LHA e LHD dell’US Navy, il maggior cliente della variante a decollo corto è stata la RAF. In questo caso la scelta della RAF è stata dettata dalla necessità di sostituire gli Harrier II Gr.7/9 che impiegava anche a bordo delle unità portaeromobili della Royal Navy, i vecchi ma utilissimi Jaguar e parte dei Tornado Gr.4 giunti ormai alla fine della vita operativa (tra l’altro la RAF ha perso la capacità di strike nucleare con il ritiro delle bombe impiegate fino agli inizi del secolo a favore della componente Trident imbarcata sugli SSBN della RN). La scelta del B viene fatta passare generalmente come la volontà della RAF di rinvicita sulla FAA della RN ma, a ben vedere, se fosse realmente così, sarebbe rischiosa oltremodo perché le caratteristiche di questi aerei sono inferiori a quelli “convenzionali” e non servirebbe molto la pur ottima rete di basi a disposizione nel Mondo per migliorare la situazione, nonché la trasformazione in cacciabombardieri dei Typhoon. Pertanto, per la RAF rimangono assolutamente indispensabili le due nuove portaerei HMS Queen Elizabeth e Prince of Wales ognuna delle quali in grado di portare e far combattere diverse decine di tali velivoli per le operazioni fuori aerea.

Altro Paese che ha optato recentemente per la doppia versione è il Giappone il quale ha piazzato un ordine per 45 esemplari della versione B, dopo averne ordinato 100 della versione A. Peraltro, a differenza della situazione italiana e britannica, questi velivoli andranno alla Marina che li impiegherà inizialmente a bordo delle JS Izumo, navi d’assalto anfibio, che saranno trasformate in portaerei leggere. Questo passo, per certi versi drammatico, è stato imposto al Governo di Shinto Abe dalla sempre maggiore aggressività cinese, dal continuo lancio di missili nel Mar del Giappone da parte nord coreana che minaccia il ricorso all’arma atomica e dai rapporti bilaterali con la Corea del Sud che negli ultimi tempi sono andati via via peggiorando. Altra profonda differenza con la situazione della MM è che la JMSDF ha un’aviazione terrestre con più di cento velivoli tra P-1, P-3C Orion e Beechcraft 350 nonché centinaia di piloti e tecnici addetti alla manutenzione.

Altro Paese che ha o meglio avrebbe optato per la versione B è Singapore che ha recentemente richiesto l’autorizzazione ad acquistare fino a 12 esemplari di F-35. In questo caso la versione B sarebbe la prescelta a causa delle ridottissime dimensioni territoriali, poco più di 600 km quadrati, che consigliano di impiegare questa versione dislocando i velivoli in diverse aeree del Paese.

FONTE:https://www.startmag.it/innovazione/vi-racconto-la-folle-guerra-tra-aeronautica-e-marina-per-gli-f-35b/

 

 

 

CULTURA

LA FIDUCIA ARRIVA A SODOMA

Huxley, Orwell, Pasolini

In principio era la fiducia, la fiducia nel progresso, nella giustizia, nella democrazia, nella società liberale aperta, nel benessere garantito, nella crescita illimitata. Col benessere venne la società huxleyana, del piacere, del divertimento, del consumismo, della droga popolare, dei diritti inflazionati, del rilassamento, in cui si assopirono la coscienza di classe, la vigilanza razionale, la partecipazione attiva, perché si evitava tutto ciò che non diverte e che responsabilizza, rendendo così superfluo il controllo dell’informazione; finché le masse persero la loro rilevanza economica, quindi il potere di contrattazione (v. il mio Oligarchia per popoli superflui, Aurora Boreale, 2a ed., 2018). E persero, nell’individualismo edonista atomizzante, pure la capacità etica di esercitarlo. E le loro minoranze leggenti e pensanti persero la capacità psichica di essere un soggetto politico pro-attivo. Crebbe un clero intellettuale prezzolato e organico al sistema.

Allora, il sogno huxleyano, basato sulle gratificazioni rimbecillenti che creano consenso sociale, ha iniziato a offuscarsi e trasformarsi in incubo orwelliano, basato sulla paura e sulla rabbia che fanno accettare tutto: la trasformazione è iniziata con le grandi angosce lanciate dai media su terrorismo globale, disastri finanziari, crolli economici, sovraindebitamente, crisi climatiche, esaurimento delle risorse, precarietà irreversibile; ed è passata per le grandi privatizzazioni di funzioni pubbliche, le cessioni di sovranità statale, l’imposizione di un pensiero unico, fino ad arrivare alla società tecno-controllata e tecno-macellata (cominciando con la Grecia) da un’oligarchia globale che sta dietro le varie Angela, Ursula, Christine, Hillary, Emmanuel[le], tirando le fila. Un’oligarchia che mostra esattamente quei tratti psicologici e comportamentali, fino al nichilismo autodistruttivo, che sono incarnati dai signori della villa nel film Salò, o le centoventi giornate di Sodoma, ultima opera di Pierpaolo Pasolini. In essa, il geniale poeta e regista non descriveva le gesta trascorse di alcuni perversi gerarchi fascisti (gesta invero mai avvenute), ma ci preavvertiva del tipo di sistema politico a cui eravamo portati e in cui adesso siamo arrivati.

Gli studi sociologici e psicologici hanno ben analizzato il progressivo scadimento delle facoltà psichiche prodotto dalla fase huxleyana anche sulla minoranza leggente-pensante (ossia su quel 3 o 4% della società che si informa e riflette sul ‘mondo’ studiando e discutendo la saggistica, anziché recepire passivamente quel che passano i mass media), cioè su quell’aliquota del corpo sociale che genera i mutamenti culturali. Marshall McLuhan giustamente osservava “il mezzo è il messaggio”, ossia che ciò che il mezzo di comunicazione trasmette è innanzitutto le sue proprie caratteristiche comunicative (e poi il contenuto): così la televisione trasmette innanzitutto il suo modo di comunicare, che è diverso da quello del libro e dell’oratore. Ossia, comunicando in un certo modo, impianta nel ricevente un corrispondente modo di ricevere. Il motto “il mezzo è il messaggio” è però riduttivo: il mezzo è, ancor più profondamente, lo stampo, in cui versa e riconfigura la psiche del ricevente: la psiche del soggetto avvezzo a informarsi e divertirsi via televisione o simile (video, play station) funziona diversamente, sia in quanto alla cognizione che in quanto alla emozione, da quella del soggetto che non lo è; e queste diversità si traducono in diversità del comportamento anche relazionale e politico. Il mezzo, dunque, è, letteralmente, in-formazione, con-formazione, nel senso che non si limita a consegnare un messaggio, ma (ri)forma la psiche, la informa a sé. I modi in cui ciò avviene e gli esiti che ha prodotto, sono descritti dalla ricerca scientifica. Per una esposizione ordinata, rinvio a Neuroschiavi (mio e di Paolo Cioni, Macroedizioni, 4a edizione); a Tecnoschiavi (mio, ed. Arianna, 2019), a Demopatia, di Luigi Di Gregorio (Rubbettino, 2019); e, per gli effetti neurofisiologici del piccolo schermo sullo sviluppo mentale, a The Brain that Changes itself (Norman Doidge, 2008).

Nelle succitate opere troverete spiegazioni analitiche e approfondite, a 360° gradi; qui mi devo limitare a qualche esempio. Per millenni, prima dell’introduzione della scrittura, il sapere e i miti erano tramandati oralmente. Ciò allenava e sviluppava le facoltà mnemoniche da un lato, ma dall’altra impediva l’esegesi dei testi, la verifica dei nessi logici, della coerenza sistemica – tutte cose che richiedono di poter tornare indietro, confrontare diverse pagine, prendere appunti, etc. La Metafisica di Aristotele -osserva Di Gregorio- poteva nascere ed esistere solo come opera scritta, per non parlare del sistema delle norme di un ordinamento giuridico complesso. L’esteso uso della scrittura indusse l’incremento delle facoltà logiche, dello stabilire nessi, del costruire contesti, del formulare critiche, del verificare le prove e le dimostrazioni.

L’avvento della televisione (e poi dei video del web) e la sua massiccia diffusione (a scapito della lettura) come mezzo sia di informazione che di intrattenimento, ha prodotto una situazione in cui il soggetto riceve passivamente, sa del mondo ciò che gli si mostra, e in cui si punta essenzialmente a suscitare emozioni per catturare e mantenere l’attenzione, ricorrendo al sensazionalismo, alla rapida successione, all’estrema semplificazione, ai dibattiti superficiali e contumeliosi; ed evitando ciò che rallenta e rischia di abbassarla, come l’approfondimento, il dibattito serio sul merito, le complessità e le incertezze della realtà, la verifica e la dimostrazione.

Rispetto all’era della lettura, il ricevere passivamente lasciando guidare la propria attenzione ha atrofizzato la capacità di attenzione selettiva, volontaria, autoimposta. E lo spettacolarismo emotigeno ha avvezzato a non usare e non sviluppare la riflessione, il ragionamento, il dubbio critico, la verificazione, la contestualizzazione, il confronto. E il tipo particolare di stimolazione neurofisiologica del monitor ha portato, soprattutto nei fanciulli, a un indebolimento delle facoltà cognitive e mnemoniche, descritto da Doidge. La televisione commerciale ha massimizzato, nella ricerca del profitto pubblicitario via audience, le suddette caratteristiche, e per giunta ha costretto i media stampati ad allinearsi, per mantenere una sufficiente tiratura. Nell’uomo che riceve la ‘realtà’ immediata comodamente cogliendola dallo schermo, col suo contorno emotigeno, si atrofizza l’elaborazione e la concettualizzazione, in favore di un pensiero regressivo, realistico-concreto (in senso piagetiano), mentre i problemi importanti, i nessi causali, i rapporti storici sono comprensibili solo concettualmente, non per immagini. Le immagini emotigene bloccano l’attenzione su ciò che è visualizzabile, e impediscono così di capire il resto. A un livello superiore, si indebolisce la facoltà, esclusiva dell’uomo, di discorrere di se stesso, del proprio pensiero, del proprio dire e rappresentare. Buona parte della minoranza leggente e pensante è finita sotto questi effetti della televisione, assimilando il modo distorto, impoverito e frammentato di percepire il mondo, a cui essa educa; e in tal modo ha perso buona parte del suo potenziale critico-creativo dei modelli socio-culturali. E’ stata politicamente neutralizzata attraverso i suoi canali emotivi.

Detta così, la cosa può sembrare circoscritta al piano teorico, ma il suo impatto sociopolitico è molto pratico, ha cambiato il sistema, ha destrutturato l’opinione pubblica e i comportamenti politici. Ha prodotto il passaggio, nel comportamento d’insieme, dall’uomo-massa di Ortega y Gasset all’uomo-folla di Gustave Le Bon, totalmente emotivo e privo di ragionamento (Di Gregorio, cit., 76 ss.): dalla dissoluzione della sintassi del pensiero alla dissoluzione della sintassi della socialità, dopo decenni di esposizione al mezzo-messaggio psico-riconfiguratore del monitor tv e pc.

Quanto sopra rende semplicemente impossibile l’esistenza di un’opinione pubblica informata e ragionante, quindi di una partecipazione o anche una consapevolezza dal basso rispetto alle policies del potere. E, contrariamente alle ottimistiche previsioni di alcuni, internet non ha affatto prevenuto la disinformazione e il degrado cognitivo di massa. Non ha avuto un effetto ‘democratizzante’ – tutt’altro: fornisce potentissimi strumenti di disinformazione, manipolazione e profilazione, oltre a compromettere ulteriormente le funzioni psichiche, tanto che si configura una sindrome di “demenza digitale”, descritta dallo psichiatra Manfred Spitzer in Demenza digitale (Garzanti 2013), assieme a un ‘inconscio informatico’ costituito da tutti i dati e gli algoritmi con cui le persone interagiscono più o meno attivamente nei rapporti con la rete, e attraverso cui viene studiata, prevista è indirizzata nei suoi comportamenti collettivi e individuali dai padroni della rete stessa mediante tecnologie e codici privati, in totale esenzione da qualsiasi responsabilità, rendicontazione e trasparenza. Si può parlare di un radicale anti -Umanesimo reale. Quanto sopra sembra completamente sfuggire all’attenzione di coloro che propongono azioni dal basso, popolari, di contestazione, resistenza o rivoluzione. E’ come, in mancanza di cemento, voler fare il calcestruzzo solo con sabbia e acqua.

In conclusione: la contemporanea fine della politica pubblica, anzi la fine della possibilità a priori della politica pubblica, più o meno partecipata dal popolo come soggetto (che è già meno di ‘democrazia’, ossia di potere dal basso), non è dovuta soltanto al fatto che la politica privata, ossia il potere effettivo operante in isolamento tecnocratico, non lascia più uno spazio decisionale effettivo a una politica pubblica, a porte aperte; ma anche al fatto che è venuto meno un soggetto pubblico con cui o davanti a cui la si possa fare. Fuori dalle stanze chiuse delle strategie e delle decisioni, restano una audience puntinistica, e una compagnia di teatranti della politica, sostanzialmente uomini di spettacolo, seguiti per le loro capacità comunicative, concentrati sul brevissimo termine, sui sondaggi e sull’immagine, privi di reale competenza, soggetti a rapida obsolescenza. Masse popolari e loro leaders politici, ridotti a loro followers dalla necessità di inseguire giorno per giorno i sondaggi dei loro mutevoli sentiments, sono presi, recintati e neutralizzati in un minuetto politicamente sterile e impotente, che li illude di ‘fare’ politica e democrazia, e fa sì che i pianificatori e manovratori procedano pressoché indisturbati, irresponsabili, invisibili.

19.01.20 Marco Della Luna

FONTE:http://marcodellaluna.info/sito/2020/01/19/la-fiducia-arriva-a-sodoma/

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

LE FORZE POTENTI CONTRO L’INFORMAZIONE DEL POPOLO

Non è una sorpresa che forze molto potenti, guidate da gruppi di Proprietari Universali, stiano cercando di imporre nuove regole collettive al genere umano: quelle che corrispondono ai loro interessi immediati.

Queste forze dispongono di veri e propri eserciti di propagandisti, influencer, giornalisti, intellettuali, scrittori, docenti, tutti a libro paga, diretto o indiretto. E dispongono — essendo proprietari di quasi tutti gli strumenti principali di diffusione della informazione/comunicazione/spettacolo — del monopolio, quasi assoluto, delle idee che raggiungono le grandi masse popolari.

Con l’aggravarsi della crisi mondiale (economica, sociale, politica) — da essi procurata — questi gruppi, sia perché temono di perdere il loro dominio, per ora relativo, sia perché sono incalzati da eventi da loro non più controllabili, stanno affrettando i tempi della loro offensiva.

Un attacco coordinato e sistematico contro il pluralismo delle idee, contro gli interessi dei popoli, è in atto da tempo. Ed è costituito dal tentativo di estendere una vasta area di censura contro tutte le voci dissenzienti, contro tutti gli strumenti di comunicazione. Inclusi quelli che loro stessi hanno messo in funzione alla scopo di manipolare le grandi masse del pianeta, ma che sono diventati, loro malgrado, contemporaneamente sorgenti di pensieri, informazioni esigenze, interessi, che si contrappongono a quelli dei Padroni Universali.

La censura di fine globalizzazione è variegata, complessa, avviene in forma subdola e indiretta, si avvale delle tecnologie più sofisticate, si copre di vesti solo apparentemente legali, agisce subliminalmente, si ammanta di un consenso sociale. Ma sta diventando anche poliziesca e violenta.

È chiaro che il risultato terminale che essi si propongono è la fine dello Stato di Diritto e di tutte le libertà Costituzionali ancora esistenti nei paesi occidentali.

Bisogna difendersi. Una difesa individuale risulterà in una sconfitta collettiva. Dunque occorre, prima di tutto, che tutti coloro che combattono il pensiero unico agiscano collettivamente. Cioè che rispondano insieme e che si dotino di strumenti tecnologici comuni.

In secondo luogo è indispensabile che l’informazione e la comunicazione che essi producono sia solida e esente da punti vulnerabili.

In terzo luogo sarà necessario coinvolgere i più ampi settori di opinione pubblica e renderli consapevoli che una qualunque forma di censura generalizzata sarà la fine di ogni diritto.

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FONTE:https://www.maurizioblondet.it/le-forze-potenti-contro-linformazione-del-popolo-giulietto-chiesa/

 

 

 

PAN-ico, PAN-demonio e…. PAN-demia.
Se ne parla molto in questi giorni, approfondiamo un po le “origini mitologiche” del PAN-ico.

PAN, il Dio del “panico” e del “tutto”…

…Il Dio che porta la pazzia può anche liberarci da essa. Il simile cura il simile. Tuttavia, quanta poca attenzione è stata dedicata a Pan in tutti gli scritti sulla malattia mentale! Pan era una delle poche figure nella mitologia greca alla quale era attribuito il disturbo mentale. […] Pan era responsabile sia della mania che dell’epilessia; nel nostro linguaggio moderno potremmo dire che Pan regna sui nostri stati ipomaniacali, specialmente quelli con coazioni sessuali e attività ipermotoria, e sugli attacchi improvvisi che sconvolgono l’intera persona, si tratti di panico, angosce, incubi o operazioni mantiche (glossolalia). Usando la metafora psicoide, genetica, possiamo dire che Pan domina al livello più profondo della nostra frenesia e della nostra paura. Ma al tempo stesso Pan guarisce a questo livello, e vi sono affinità tra Pan e Asclepio attraverso gli attributi della musica, del fallo, della visione d’incubo e della visione mantica. Sia Pan che Asclepio guariscono per mezzo dei sogni. Per opera delle Ninfe, particolari località risanano e benedicono. Abbiamo visto inoltre che Pan soccorre Psiche [la psiche, l’anima] in preda alla disperazione. E’ soccorrevole e salvifico come accade nel mito a Psiche[…]

La figura di Pan rappresenta la coazione istintuale e nel contempo offre il mezzo mediante il quale la coazione può essere modificata attraverso l’immaginazione.
Agendo sull’immagianzione, partecipiamo alla natura “dentro di noi”.
Dove c’è il panico, lì c’è anche Pan. Quando l’anima è presa da panico, come nella storia del suicidio di Psiche, Pan si rivela con la saggezza della natura. Essere senza paura, privi di angosce, invulnerabile al panico, significherebbe perdita dell’istinto, perdita di connessione con Pan. […]

James Hillman

Le paure esistono per essere affrontate e vinte dagli eroi nel loro cammino verso la virilità, e l’incontro con la paura ha un ruolo preminente nelle cerimonie iniziatiche.

Immagine : Pan soccorre Psiche
Ilaria Seminara 15 03 2020

https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=10157829060211005&id=719151004

 

 

 

ECONOMIA

IL ‘CHI’ DEL NUOVO RISORGIMENTO ECONOMICO

(Articolo scritto da Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno)

A SECONDA DI CHI SCEGLIEREMO CHE DOVRA’ PAGARE I COSTI DI QUESTA CRISI, POTREMO RISORGERE.

Memorie | Il Risorgimento italiano in Calabria - strill.it

Ormai è palese che siamo “come in guerra”, lo stesso ex presidente della BCE, Mario draghi, si esprime in questi termini quando nel suo intervento al “Finacial Times” (il cui contenuto è stato di seguito tradotto dal sottoscritto) ha dipanato ogni dubbio e tolto ogni illusione riconoscendo l’effettiva portata di questa crisi economica mondiale, che ha una natura reale e non finanziaria come invece accadde nel 2008.

Nella suo intervento Draghi afferma che, in modo quasi sorprendente, tenendo conto dei suoi trascorsi da presidente della BCE, in cui sosteneva un rigido controllo del rapporto debit/Pil da parte dei governi dei Paesi membri, la risposta di politica economica a questa crisi “dovrà consistere in un aumento significativo del debito pubblico”.

Secondo Draghi, il debito pubblico dovrà necessariamente crescere e ciò diverrà un modus agendi permanente delle nostre politiche economiche e sarà anche inevitabile la cancellazione del debito privato, perché “la perdita di reddito sostenuta dal settore privato dovrà essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici”.

Per Draghi lo Stato (qui colpisce la sua nuova posizione di matrice keynesiana) dovrà garantire alle banche quel capitale di cui avranno bisogno per coprire i debiti privati divenuti inesigibili.

Il sorprendente “cambio di rotta” di mario Draghi, dovuto all’emergenza Covid-19, omette di chiarire delle questioni di fondamentale importanza, ossia quali classe sociali dovranno pagare i costi di questa epocale crisi economica.

Infatti, qualora l’aumento del debito pubblico riuscisse ad evitare la deflazione dei debiti e la conseguente depressione e assorbisse l’impatto di questa grave crisi, tutto ciò comunque non basterebbe a salvare la nostra economia.

Prima di tutto, pensare, come sostiene Draghi, che l’espansione del debito pubblico potrà essere governata con la speranza che i tassi d’interessi restino bassi in futuro è un grave errore concettuale.

Il tasso d’interesse non è una questione che riguarda la probabilità, bensì riguarda scelte ben definite della politica economica del governo.

Solamente con una politica economica del governo basata sul blocco della speculazione e nel controllo dei movimenti di capitale, ossia con l’applicazione di una politica di controllo dei mercati finanziari definita “repressione finanziaria” si potrà tenere basso il tasso d’interesse.

Questa politica economica potrà tutelare le attività produttive ed i soggetti destinatari dei benefici del welfare e salvaguardare i lavoratori, spostando i costi della crisi sugli speculatori finanziari.

Poi, l’aspetto più aberrante è la proposta di utilizzare la liquidità derivante dall’espansione del debito pubblico per finanziare forme di politica economica come il così detto “helicopter money”, come se la sua applicazione rappresentasse la panacea di tutti i nostri drammatici disagi economici.

Non tutti ricordano o peggio ancora fingono di non ricordare, che la formula di politica economica “helicopter money” trae origine da una concezione della teoria economica e della politica economica di matrice conservatrice, fondata sulla “neutralità degli effetti” della distribuzione delle risorse economiche, ovvero secondo questa concezione l’erogazione di queste risorse non riguarderebbe prima di tutto i redditi delle classi sociali più povere e la solvibilità delle imprese al centro delle catene input-output, essa non avverrebbe in modo selettivo, sostenendo prima di tutto coloro che giacciono in uno stato economico di grande disagio, ma riguarderebbe tutti, anche le classi ricche.

Infine, un altro aspetto vitale riguarda l’esigenza di salvaguardare i salari e le pensioni e tutte quelle forme di sussidio da eventuali e probabili tendenze inflazionistiche e per tutto questo sarà necessario tutelare il potere d’acquisto dei lavoratori e di tutti coloro che sono considerati i soggetti più deboli della società.

Perché una delle più dannose conseguenze di questa crisi economica sarà proprio la riduzione dell’offerta, sarà proprio la caduta della produttività del lavoro, con i relativi aumenti di costi di produzione e distribuzione.

Le scelta strategiche, antitetiche tra loro, che potrà compiere il governo saranno due: una, quella vincente, di mantenere i tassi d’interesse bassi rispetto all’andamento dei redditi nominali, alleggerendo così le attività produttive da carichi fiscali, oppure la seconda, quella esiziale e autodistruttiva, di far ricadere i costi della crisi sui profitti d’impresa e sui salari, anziché sulle rendite.

Inoltre sorgerà l’esigenza di riorganizzare i mercati, con efficaci e moderne forme di pianificazione pubblica, proprio per fronteggiare eventuali speculazioni di coloro, che come “sciacalli”, cercheranno di profittare delle conseguenze di questa crisi, come la riduzione delle catene della produzione e le relative difficoltà di approvvigionamento riguardo a diversi settori merceologici.

In questo frangente storico ed economico sarà fondamentale il coordinamento delle politiche economiche degli stati membri dell’Unione Europea per affrontare questa gigantesca crisi economica, sarà l’occasione, probabilmente l’ultima, per dimostrare la coesione e la solidarietà necessarie per rispettare quei principi fondativi che sono alla base dell’idea di Europa unita, che animarono i padri fondatori, quando fu sottoscritto il Trattato di Roma, prima che i futuri eventi e le conseguenze economiche di questa pandemia ci soverchieranno.

Riguardo a ciò, risulta sconcertante che non ci sia ancora questo coordinamento europeo, tanto quanto è indicativo al riguardo che durante il suo intervento sul “Financial Times”, Draghi non abbia mai fatto alcun riferimento all’Unione Europea.

In conclusione, il “Nuovo Risorgimento Italiano” tanto economico, quanto civile e democratico-liberale non potrà avverarsi solamente pensando di accrescere il debito pubblico, ma anche e soprattutto pianificando in modo chiaro ed equo una politica economica che preveda di spostare l’onere principale su rentiers e di contrastare ogni tipo di speculazione.

La così detta “guerra” si vincerà solamente se si tuteleranno le imprese e quindi i lavoratori e tutti quei soggetti sociali più deboli, altrimenti potrebbero aprirsi degli scenari di anomia e disordini sociali e derive autoritarie mai vissute finora nella Storia.

INTERVENTO DI MARIO DRAGHI SUL “FINANCIAL TIMES”

(https://www.ft.com/content/c6d2de3a-6ec5-11ea-89df-41bea055720b)

Draghi: affrontiamo una guerra contro il coronavirus e dobbiamo mobilitarci di conseguenza

“La pandemia del Coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche. Molti oggi vivono nella paura della propria vita o in lutto per i propri cari. Le azioni intraprese dai governi per evitare che i nostri sistemi sanitari vengano travolti sono coraggiose e necessarie. Devono essere supportati. Ma queste azioni comportano anche un costo economico enorme e inevitabile. Mentre molti affrontano una perdita di vite umane, molti altri affrontano una perdita di sostentamento. Giorno dopo giorno, le notizie economiche stanno peggiorando. Le aziende affrontano una perdita di reddito nell’intera economia. Molti stanno già ridimensionando e licenziando i lavoratori. Una profonda recessione è inevitabile. La sfida che affrontiamo è come agire con sufficiente forza e velocità per evitare che la recessione si trasformi in una depressione prolungata, resa più profonda da una pletora di valori predefiniti che lasciano danni irreversibili. È già chiaro che la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito sostenuta dal settore privato – e qualsiasi debito accumulato per colmare il divario – deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato. È il ruolo corretto dello stato distribuire il proprio bilancio per proteggere i cittadini e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile e che non può assorbire. Gli Stati l’hanno sempre fatto di fronte alle emergenze nazionali. Le guerre – il precedente più rilevante – sono state finanziate da aumenti del debito pubblico. Durante la prima guerra mondiale, in Italia e Germania tra il 6 e il 15% delle spese di guerra in termini reali fu finanziato dalle tasse. In Austria-Ungheria, Russia e Francia, nessuno dei costi continui della guerra furono pagati con le tasse. Ovunque, la base imponibile è stata erosa dai danni di guerra e dalla coscrizione. Oggi è a causa dell’angoscia umana della pandemia e della chiusura. La domanda chiave non è se ma come lo Stato dovrebbe mettere a frutto il proprio bilancio. La priorità non deve essere solo quella di fornire un reddito di base a coloro che perdono il lavoro. Dobbiamo innanzitutto proteggere le persone dalla perdita del lavoro. In caso contrario, emergeremo da questa crisi con un’occupazione e una capacità permanentemente inferiori, poiché le famiglie e le aziende lottano per riparare i propri bilanci e ricostruire le attività nette. I sussidi per l’occupazione e la disoccupazione e il rinvio delle tasse sono passi importanti che sono già stati introdotti da molti governi. Ma proteggere l’occupazione e la capacità produttiva in un momento di drammatica perdita di reddito richiede un immediato sostegno di liquidità. Ciò è essenziale per tutte le imprese per coprire le proprie spese operative durante la crisi, siano esse grandi aziende o ancora di più piccole e medie imprese e imprenditori autonomi. Diversi governi hanno già introdotto misure di benvenuto per incanalare la liquidità verso le imprese in difficoltà. Ma è necessario un approccio più completo. Mentre diversi paesi europei hanno diverse strutture finanziarie e industriali, l’unico modo efficace per entrare immediatamente in ogni falla dell’economia è di mobilitare completamente i loro interi sistemi finanziari: mercati obbligazionari, principalmente per grandi società, sistemi bancari e in alcuni paesi anche le poste sistema per tutti gli altri. E deve essere fatto immediatamente, evitando ritardi burocratici. Le banche in particolare si estendono in tutta l’economia e possono creare denaro istantaneamente consentendo scoperti di conto corrente o aprendo linee di credito. Le banche devono prestare rapidamente fondi a costo zero alle società disposte a salvare posti di lavoro. Poiché in questo modo stanno diventando un veicolo per le politiche pubbliche, il capitale di cui hanno bisogno per svolgere questo compito deve essere fornito dal governo sotto forma di garanzie statali su tutti gli ulteriori scoperti o prestiti. Né la regolamentazione né le regole di garanzia dovrebbero ostacolare la creazione di tutto lo spazio necessario nei bilanci bancari a tale scopo. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrebbe essere basato sul rischio di credito della società che le riceve, ma dovrebbe essere zero indipendentemente dal costo del finanziamento del governo che le emette. Le aziende, tuttavia, non attingeranno al supporto di liquidità semplicemente perché il credito è economico. In alcuni casi, ad esempio le aziende con un portafoglio ordini, le loro perdite possono essere recuperabili e quindi ripagheranno il debito. In altri settori, probabilmente non sarà così. Tali società potrebbero essere ancora in grado di assorbire questa crisi per un breve periodo di tempo e aumentare il debito per mantenere il proprio personale al lavoro. Ma le loro perdite accumulate rischiano di compromettere la loro capacità di investire in seguito. E, se l’epidemia di virus e i blocchi associati dovessero durare, potrebbero realisticamente rimanere in attività solo se il debito raccolto per mantenere le persone impiegate in quel periodo fosse infine cancellato. O i governi compensano i mutuatari per le loro spese, o quei mutuatari falliranno e la garanzia sarà resa valida dal governo. Se il rischio morale può essere contenuto, il primo è migliore per l’economia. Il secondo percorso sarà probabilmente meno costoso per il budget. Entrambi i casi porteranno i governi ad assorbire una grande parte della perdita di reddito causata dalla chiusura, se si vogliono proteggere posti di lavoro e capacità. I livelli del debito pubblico saranno aumentati. Ma l’alternativa – una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e infine per il credito pubblico. Dobbiamo anche ricordare che, visti i livelli attuali e probabili futuri dei tassi di interesse, un tale aumento del debito pubblico non aumenterà i suoi costi di servizio. Per alcuni aspetti, l’Europa è ben equipaggiata per affrontare questo straordinario shock. Ha una struttura finanziaria granulare in grado di incanalare i fondi verso ogni parte dell’economia che ne ha bisogno. Ha un forte settore pubblico in grado di coordinare una risposta politica rapida. La velocità è assolutamente essenziale per l’efficacia. Di fronte a circostanze impreviste, un cambiamento di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempi di guerra. Lo shock che stiamo affrontando non è ciclico. La perdita di reddito non è colpa di nessuno di coloro che ne soffrono. Il costo dell’esitazione può essere irreversibile. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni ’20 è abbastanza una storia di ammonimento. La velocità del deterioramento dei bilanci privati ​​- causata da una chiusura economica che è sia inevitabile che desiderabile – deve essere soddisfatta della stessa velocità nello schierare i bilanci pubblici, mobilitare le banche e, in quanto europei, sostenersi a vicenda nel perseguimento di ciò che è evidentemente una causa comune.”

FONTE:https://versoilfutur.org/il-se-del-nuovo-risorgimento-economico

 

 

 

Draghi e il Grande Travaso di debito

26 MARZO 2020

L’editoriale di ieri di Mario Draghi sul Financial Times colpisce come un pugno allo stomaco per le parole ed i concetti scelti, da cui traspare una autentica e pienamente giustificata angoscia. La “soluzione”, se così possiamo chiamarla, con grande inadeguatezza lessicale, è una ed una sola. In parte derivante dalla “dinamica dei fluidi” già vista durante la grande crisi finanziaria, cioè il fatto che i debiti privati si trasformano in debito pubblico durante le crisi più gravi.

“Una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche”. Così Draghi definisce la pandemia. Il collasso dell’attività economica, necessario al contenimento, rischia di volgersi rapidamente in depressione. Per questo

La perdita di reddito subita dal settore privato, ed il debito raccolto per colmare la differenza, devono alla fine essere assorbiti, in tutto o in parte, dai bilanci degli stati. Livelli di debito pubblico molto più elevati diverranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati da cancellazione di debito privato.

Draghi compie il parallelo tra pandemia e guerre, che poco piace a molte persone, preoccupate di perdere libertà e scivolare in un regime senza neppure accorgersene. Ma qui il parallelo va inteso nel senso di distruzione di capitale umano, fisico e basi imponibili e nella conseguente incapacità di finanziare con normale tassazione lo sforzo “bellico”. Quando la situazione è questa, storicamente non ci sono alternative all’uso del bilancio pubblico e delle banche centrali.

Serve proteggere l’occupazione e la capacità produttiva durante la “messa in sonno” necessaria al contenimento. Solo così, mantenendo intatto il potenziale (e l’attuale) dell’economia, il recupero sarà garantito. Diversamente, la distruzione di capitale umano ed aziendale rischierebbe di mutilare la ripresa. Per ottenere ciò, serve erogare liquidità.

Ma attenzione: liquidità non è credito, cioè qualcosa che poi va restituito. Per fare questo helicopter money (perdonate l’espressione logora; non me ne vengono altre, al momento), serve la capillarità del sistema finanziario e dei pagamenti:

Le banche devono rapidamente prestare fondi a costo zero alle aziende preparate a salvare posti di lavoro. Poiché in tal modo esse divengono veicoli di politica pubblica, il capitale di cui necessitano per eseguire questo compito deve essere fornito dallo stato sotto forma di garanzie pubbliche su tutti gli sconfinamenti aggiuntivi di conto o sui prestiti. Né la regolazione né le regole sulle garanzie devono intralciare la creazione di tutto lo spazio necessario nei bilanci delle banche a questo scopo. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrebbe essere basato sul rischio di credito dell’azienda che le riceve ma dovrebbe essere zero indipendentemente dal costo di finanziamento del governo che le emette.

Ricapitolando: preservare lavoro e aziende, compensando i mancati redditi mediante erogazione di liquidità a titolo gratuito e definitivo, a carico del bilancio pubblico, usando come conduttura il sistema dei pagamenti, in grado di garantire la rapida diffusione dell’intervento. Ci saranno aziende in grado di tirare credito per il normale funzionamento, ma in molti altri casi non andrà così.

Ecco perché è semplicemente impensabile erogare credito: nel “dopo” gli oneri sarebbero ingestibili. Ma questa considerazione, come vedremo, vale a maggior ragione per gli stati che si faranno carico di questo “travaso”. E qui Draghi ha un “suggerimento” appena abbozzato, che tuttavia mi appare ottimistico, per il “dopo”, cioè per il futuro del macigno di debito pubblico aggiuntivo così creato:

Dobbiamo anche ricordare che, dato il presente e probabile futuro livello dei tassi d’interesse, tale aumento del debito pubblico non aumenterà i costi del suo servizio.

Che vuol dire: un enorme stock di debito pubblico a costo verosimilmente nullo, quindi di fatto sostenibile. Forse andrà così, forse no. Forse, quando la “normalità” sarà tornata, con le sue profondissime cicatrici, si tornerà a discutere di sostenibilità, e si tornerà a distinguere tra debiti pubblici nazionali, tra chi cresce e chi no. Anzi, togliamo quel “forse”.

Ma ora questa è l’angosciante emergenza, e Draghi la richiama con forza. Perché, anche se non vi piace il parallelo bellico, questi sono gli effetti prodotti: distruzione su vasta scala. C’è spazio anche per il cosiddetto azzardo morale e per il moralismo giustificabile in tempo di pace:

Di fronte a circostanze impreviste, un cambio di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempi di guerra. Lo shock che stiamo affrontando non è ciclico. La perdita di reddito non è colpa di nessuno di quelli che ne soffrono. Il costo della esitazione può essere irreversibile. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni Venti del secolo scorso è di sufficiente ammonimento.

Il travaso di debito da privato a pubblico è parte di una meccanica inevitabile. A livelli elevati di gravità della crisi, lo è anche una monetizzazione “ombra”, cioè non esplicitata ma basata su una finzione di convenzione nella condotta delle banche centrali. Nel mio piccolissimo, lo avevo segnalato giorni addietro. Non so se le cose andranno come immaginato e richiesto con forza da Draghi.

La dimensione degli stati nazionali resta ineliminabile, e con essa la costante tensione tra cooperazione e competizione tra sistemi paese. Chi ha conseguito risultati “in tempo di pace”, controllando il debito e ottenendo crescita, ora si sente per certi aspetti defraudato dalla sorte. Pensateci: a ruoli invertiti, voi come vi sentireste?

Tra le altre cose che avevo immaginato, c’era anche l’uso della Bce come modo per evitare l’emissione di strumenti di debito comune. Ed infatti, la notizia è che il nuovo programma di acquisti, il PEPP, ha fatto saltare i limiti su emissione ed emittente. Questo serve ai paesi “frugali” per ridurre la pressione ad emettere eurobond o assimilati e mantenere chiaramente identificabili i debiti pubblici nazionali. La resa dei conti è rinviata a epoche “migliori”.

P.S. Siete preoccupati per una ipotetica iperinflazione nel “dopo”? Sospendete la preoccupazione e concentratevi sugli sforzi per arrivare a quel “dopo”.

FONTE:https://phastidio.net/2020/03/26/draghi-e-il-grande-travaso-di-debito/#more-21182

 

 

 

Eurobond vs MES, lo scontro fra due visioni del futuro

Due concezioni dell’Europa, due visioni del suo futuro, si stanno scontrando drammaticamente in questi giorni fra i governi e le istituzioni dell’Ue, con una polarizzazione crescente fra i due fronti

28 marzo 2020

BRUXELLES (ASKANEWS) – Due concezioni dell’Europa, due visioni del suo futuro, si stanno scontrando drammaticamente in questi giorni fra i governi e le istituzioni dell’Ue, con una polarizzazione crescente fra i due fronti che le sostengono, mentre appare sempre più difficile un compromesso politico capace di riconciliarle. Queste due visioni si esprimono ormai chiaramente nell’appoggio o nell’opposizione a due ipotesi alternative per sostenere finanziariamente nel medio-lungo termine gli Stati membri più colpiti dalla pandemia del Covid-19 e dalle sue conseguenza economiche: da una parte la proposta di istituire gli eurobond (o Corona bond), strumenti di emissione di debito comune europeo; dall’altra il ricorso ai crediti del Mes, il Fondo salva Stati dell’Eurozona.

A Bruxelles ci sono parole che non si possono pronunciare, veri e propri tabù che chiudono immediatamente ogni discussione, e creano scandalo come una bestemmia in chiesa. E’ quello che accade in questi giorni quando si prova a fare domande sugli eurobond. Si sa che è una proposta sul tavolo, che è appoggiata da nove Stati membri, fra cui tre dei più grandi, l’Italia, la Spagna e la Francia. Ma i giornalisti che nelle ultime settimane hanno chiesto, nelle conferenze stampa teletrasmesse da Bruxelles, come stia andando la discussione fra i ministri finanziari o i capi di Stato e di governo dell’Ue, continuano a ricevere risposte elusive, che non contengono mai la parola «eurobond», ma solo generici riferimenti a «le proposte sul tavolo», senza altri dettagli.

Eppure, se c’è un dibattito centrale in questo momento per il futuro dell’Unione europea e dell’Eurozona, è proprio quello su come dovrà essere finanziato il debito pubblico che sarà generato, inevitabilmente, dall’emergenza sanitaria del Covid 19 e dalle sue conseguenze socio-economiche di medio e lungo termine.

«La pandemia di Covid-19 costituisce una sfida senza precedenti per l’Europa e per il mondo intero. Esige un’azione urgente, risoluta e globale sia a livello Ue che a livello nazionale, regionale e locale. Adotteremo tutte le misure necessarie per proteggere i nostri cittadini e superare la crisi, preservando i valori e lo stile di vita europei», hanno scritto i capi di Stato e di governo dei Ventisette nella loro dichiarazione comune dopo la videoconferenza che li ha riuniti a distanza, giovedì sera, per la terza volta in tre settimane.

Ma che cosa significa quell’impegno a prendere «tutte le misure necessarie» per rispondere a «una sfida senza precedenti» per gli olandesi, gli austriaci, i tedeschi, i finlandesi, che sanno dire solo «no» a qualunque proposta che vada al di là dello status quo, che non sia la ripetizione di quanto abbiamo già visto durante la crisi del debito sovrano dell’Eurozona?

Si può rispondere con gli strumenti ordinari, già esistenti, senza cambiare nulla, a uno shock così tragicamente nuovo e imprevedibile, con le file di camion militari che portano centinaia di bare nei crematori, con i dottori e gli infermieri negli ospedali in Lombardia e in Spagna costretti a decidere chi tentare di salvare e chi lasciar morire, per la mancanza di posti in terapia intensiva?

Che cosa significa «adotteremo tutte le misure necessarie per proteggere i nostri cittadini e superare la crisi, preservando i valori e lo stile di vita europei», sapendo che questa crisi provocherà un enorme e rapido aumento del debito pubblico nell’Ue, se non si pensa a un modo solidale di sostenere quell’onere, evitando che ricada solo sui paesi più colpiti dalla pandemia e dalle sue conseguenze economiche, e che divida ancora di più l’Europa?

La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha chiesto e ottenuto la sospensione delle prescrizioni del Patto di stabilità, e ha esortato gli Stati membri sotto lo shock del coronavirus a «spendere tutto quello che sarà necessario». Ma che senso ha quest’invito se poi, fra uno, due o tre anni, il Patto di stabilità tornerà a essere applicato a paesi che avranno un debito pubblico molto più alto di oggi, e che dovranno ricominciare a ridurlo a tappe forzate, con nuove misure di austerità, e pagando per giunta tassi d’interesse molto più alti degli altri?

Sono le domande che stanno alla base della proposta dei capi di Stato e di governo di Italia, Francia, Spagna, Belgio, Lussemburgo, Portogallo, Grecia, Slovenia e Irlanda, favorevoli a «uno strumento di debito comune a beneficio di tutti gli Stati membri», come hanno spiegato nella lettera inviata mercoledì al presidente del Consiglio europeo, Charles Michel.

Ed è questo il senso del richiamo di ieri del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a quelle «importanti e decisioni finanziarie ed economiche» che sono state prese finora dalla Bce e dalla Commissione europea, con l’appoggio del Parlamento europeo, ma non dal Consiglio dei capi dei governi nazionali, e dell’avvertimento che ha lanciato il capo dello Stato: «Sono indispensabili ulteriori iniziative comuni, superando vecchi schemi ormai fuori dalla realtà delle drammatiche condizioni in cui si trova il nostro Continente. Mi auguro che tutti comprendano appieno, prima che sia troppo tardi – ha ammonito Mattarella -, la gravità della minaccia per l’Europa».

Eurobond significa emissione di debito comune, con garanzie comuni e a tassi d’interesse bassi e uguali per tutti. Niente spread, condizioni di partenza identiche, nessun effetto di stigmatizzazione da parte dei mercati per i paesi che finanziano in questo modo il loro nuovo debito.

Ma per i tedeschi, gli olandesi, gli austriaci, i finlandesi, la mutualizzazione del debito è un’eresia, morale prima ancora che economica. E’ inaccettabile, perché incoraggerebbe comportamenti non virtuosi, toglierebbe l’incentivo a realizzare le «riforme strutturali», assolverebbe i colpevoli e gli indebitati dalla giusta condanna dei mercati, pagata con tassi d’interesse più alti.

Secondo quanto ha rivelato oggi il quotidiano spagnolo El Pais, la cancelliera tedesca Angela Merkel, appoggiata dal premier olandese Mark Rutte, durante la discussione fra i leader di giovedì ha opposto un nettissimo «no» agli eurobond, dicendo che il Bundestag non approverebbe mai questa soluzione. Un «no» che aveva già detto nel 2012, anche allora con l’appoggio degli olandesi, nel pieno della crisi dell’Eurozona.

«Angela, bisogna che tu capisca in che emergenza stiamo vivendo», ha detto a un certo punto il premier spagnolo Pedro Sanchez durante il vertice, rivolto alla Merkel, sempre secondo el Pais. «Se vi aspettate i ‘corona bond’, non arriveranno mai», gli ha risposto la cancelliera, che ha avvertito lui e gli altri leader a «non generare false aspettative».

Secondo il quotidiano spagnolo, la presidente della Bce, Christine Lagarde ha avvertito i leader che la recessione dovuta al coronavirus causerà «una caduta del Pil che potrà oscillare fra il 2% e il 4%». E secondo stime di «Eurointelligence», un bollettino online fondato e diretto da Walter Munchau e molto seguito a Bruxelles (e favorevole agli eurobond), lo sforzo degli Stati membri per contrastare le conseguenze economiche della crisi comporterà un aumento del debito pubblico dell’Eurozona fra il 20% e il 50% nei prossimi anni, almeno pari ma probabilmente molto superiore a quello (20%) che era stato provocato dalla crisi economica e finanziaria 2008-2012.

Per Germania, Olanda, Austria e Finlandia, il massimo che si può immaginare per affrontare questa nuova crisi il ricorso a uno strumento già esistente: il Mes (Meccanismo europeo di Stabilità); ovvero il Fondo salva Stati, quello che, in cambio del suo sostegno ai paesi che l’avevano chiesto durante la crisi dell’Eurozona, ha imposto durissime misure di austerità, sotto il controllo della troika.

Si pensa a una linea di credito del Mes, adattata alle circostanze e ribattezzata «Pandemic Crisis Support», che avrebbe due condizioni: nel breve termine, essere dedicata solo alle misure di risposta alle conseguenze della pandemia; e nel medio-lungo termine, essere legata a «un’aspettativa di ritorno alla stabilità», come ha spiegato martedì scorso il presidente dell’Eurogruppo Mario Centeno, riferendo che su questo punto c’era un «ampio consenso» fra i ministri delle Finanze. «Ritorno alla stabilità» significa risanamento finanziario del paese che ha chiesto i finanziamenti. Cioè, ancora una volta, misure di austerità.

L’impressione chiara, ascoltando Centeno riferire sulle discussioni nell’Eurogruppo, è che la strada del ricorso al Mes sia già tracciata, mentre quella degli eurobond è considerata impraticabile. Durante il vertice Ue di giovedì sera, il premier italiano Giuseppe Conte e lo spagnolo Sanchez si sono ribellati alla bozza di dichiarazione finale che non menzionava neanche la proposta dello «strumento di debito comune» richiesta nella lettera dei Nove, mentre invece si dava indicazione all’Eurogruppo di continuare il lavoro per definire le «specifiche tecniche» della nuova linea di credito del Mes per il «Pandemic Crisis Support».

Conte e Sanchez, facendo infuriare la Merkel (che li ha accusati di creare divisioni fra i Ventisette), hanno ottenuto di eliminare questo riferimento al Mes dalla dichiarazione finale, in modo che le due ipotesi restassero almeno sullo stesso piano, nel mandato affidato all’Eurogruppo di continuare la discussione e «presentare proposte (al plurale, ndr) entro due settimane» al Consiglio europeo.

Ciò che è paradossale è che, dopo le divisioni emerse martedì fra i ministri delle Finanze, che si erano affidati al Consiglio europeo attendendosi una mediazione al più alto livello politico per uscire dal guado, ora i leader abbiano rimandato la palla allo stesso Eurogruppo, chiedendogli di continuare a discutere e di avanzare nuove proposte. E questo lo ha sottolineato durante il vertice Ue il presidente francese Emmanuel Macron, che ha appoggiato Sanchez e Conte. «E’ una questione politica, non possiamo lasciarla ai ministri delle Finanze, che riproducono le posizioni di ciascuno di noi», ha detto Macron secondo la ricostruzione di El Pais.

Per questo, Sanchez ha avanzato l’ipotesi che il lavoro sulle due proposte venga affidato ai presidenti delle cinque istituzioni europee (Commissione, Consiglio europeo, Europarlamento, Bce ed Eurogruppo); ma, sempre a quanto rivela El Pais, Merkel si è opposta temendo che i cinque (anche a causa delle nazionalità coinvolte, sembra di capire) finirebbero col proporre qualche forma di mutualizzazione del debito. Alla fine, da questa «lista dei presidenti» (che potrebbe essere proposta come soluzione di ripiego se l’Eurogruppo non riuscirà a risolvere niente) sono caduti l’italiano David Sassoli e il portoghese Mario Centeno, e sono rimasti solo la francese Christine Lagarde, la tedesca Ursula von der Leyen e il belga Charles Michel.

In questo contesto di scontro fra fronti contrapposti, un possibile compromesso potrebbe essere forse l’eliminazione della «condizionalità futura» (l’impegno al ritorno alla stabilità finanziaria) per accedere alla linea di credito del Mes. Una soluzione che, pur non avendo la stessa efficacia dei «Corona bond», almeno garantirebbe tassi d’interesse uguali per tutti i paesi che volessero accedervi. Ma non sembra che i falchi dell’austerità siano disposti a fare neanche questa concessione.

L’impressione è che sia sempre più un dialogo fra sordi, che le divisioni stiano continuando ad approfondirsi, fino a minacciare la tenuta dell’Eurozona, e della stessa Unione europea. E’ un rischio che non è mai stato così grande, neanche durante la crisi greca. Perché non è più solo un negoziato politico: pesano le migliaia di morti in Italia e in Spagna, e quelli che purtroppo si aggiungeranno ancora nei prossimi giorni, anche negli altri paesi.

Di fronte al solito veto tedesco-nordico, i paesi pro-eurobond potrebbero arrivare a promuovere iniziative radicali e dirompenti: una «cooperazione rafforzata», per esempio (un’integrazione più stretta di un gruppo di paesi in un settore di fronte al rifiuto degli altri di parteciparvi) che crei uno strumenti di debito comune solo per i paesi che ci stanno. Fra l’altro, nove Stati membri è giusto il numero minimo per attivare questo meccanismo, previsto dai Trattati Ue.

Inoltre, c’è sempre la possibilità di denunciare il Mes, che è basato su un trattato intergovernativo e non è una istituzione dell’Ue. In questo caso, l’Italia, la Spagna, possibilmente la Francia e altri Stati membri potrebbero ritirarsi dal Meccanismo e riprendersi i soldi che hanno conferito al Fondo salva Stati: i nove paesi insieme detengono più del 60% del capitale del Mes; l’Italia, da sola, ha versato oltre 14 miliardi di euro e ha un capitale sottoscritto di 125 miliardi. E proprio il capitale sottratto al Mes potrebbe essere usato come garanzia per l’emissione comune di eurobond. Sarebbe la fine del Fondo salva Stati, e un chiaro atto pubblico d’accusa contro l’europeismo ipocrita della Germania e dei suoi alleati.

«Se non proponiamo ora una risposta unitaria, potente ed efficace a questa crisi economica, non solo il suo impatto sarà più duro, ma i suoi effetti dureranno più a lungo e metteremo a rischio l’intero progetto europeo», ha detto Pedro Sanchez dopo il vertice Ue. «Non possiamo rifare gli stessi errori della crisi finanziaria del 2008, che ha seminato disaffezione e discordia riguardo all’Europa e ha provocato l’ascesa del populismo. Dobbiamo imparare quella lezione», ha concluso il premier spagnolo.

Oggi è intervenuto, dopo un lungo silenzio anche l’ex presidente della Commissione Jacques Delors, padre del mercato unico e dell’euro avvertendo che la mancanza di solidarietà europea fa correre «un pericolo mortale» all’Unione.

https://www.diariodelweb.it/economia/articolo/?nid=20200328-546300

 

 

 

 

E’ una crisi diversa dalle altre. Keynes non basta, serve una logica di piano
Intervista ad Emiliano Brancaccio
Per l’economista sono già sconfessate le previsioni ottimistiche della BCE, secondo cui questa sarebbe una crisi “a forma di v”, con una breve caduta e poi subito una ripresa spontanea. E riguardo al fondo salva-stati dice: “non è la soluzione, è una trappola”. Ma non basta nemmeno invocare un rilancio della domanda. Un piano “anti-virus” è l’unica strada efficace per risolvere la “disorganizzazione” dei mercati e combattere la speculazione

keynes main photo“Il coronavirus rischia di condizionare le nostre vite più e peggio di quanto fece l’aids un trentennio fa. Se vogliamo difendere le nostre conquiste e i nostri diritti di libertà, dobbiamo comprendere che siamo dinanzi a una sfida colossale, che contemporaneamente investe la sanità, la scienza e la tecnica e l’economia. Per il momento siamo lontanissimi da una presa di coscienza. I policymakers sembrano ragionare con lo sguardo rivolto all’indietro, come se non avessero il coraggio di guardare avanti e indicare soluzioni all’altezza di questa tragedia epocale”. L’economista Emiliano Brancaccio denuncia all’AntiDiplomatico l’inadeguatezza dell’azione politica di fronte agli effetti dell’epidemia e lancia un appello sul Financial Times per un “piano-anti-virus”.

* * * *

Professor Brancaccio, pochi giorni fa il Financial Times ha pubblicato un appello promosso da lei e da altri colleghi economisti per l’immediata attuazione di un piano “anti-virus” che possa fronteggiare una crisi a vostro avviso gravissima. Qual è l’effettiva portata economica di questa crisi? E’ possibile quantificare l’impatto complessivo che avrà sulla produzione e sull’occupazione, in Italia e nel mondo?

Dipende da quanto dovranno durare le quarantene. Marx sosteneva che se una nazione ferma il lavoro anche solo per un paio di settimane, quella nazione è destinata a soccombere. Esagerava ma non andava troppo lontano dal vero. Un banale calcolo contabile ci dice che appena due settimane di blocco anche parziale dell’attività produttiva implicano una perdita di produzione e di reddito di un’ottantina di miliardi, ossia circa il 4 percento del Pil italiano, e questo senza considerare gli effetti moltiplicativi della recessione. Ovviamente, se il blocco perdura, il crollo si accentua.

Questa semplice misura chiarisce che sono già del tutto sconfessate le previsioni ottimistiche della BCE e di altri, secondo cui questa sarebbe una crisi “a forma di v”, cioè con una breve caduta e poi subito una ripresa in grado di portarci spontaneamente al vecchio equilibrio. I profeti della “v” non hanno compreso che questa crisi distrugge contemporaneamente sia le capacità di spesa che di produzione, e per questo rischia di essere più pesante e più lunga delle precedenti.

Chi rischia di pagare di più gli effetti economici della crisi del coronavirus?

La crisi sta avendo e avrà i suoi vincitori e i suoi vinti, e la distinzione tra gli uni e gli altri è sempre una distinzione tra classi sociali. Basti pensare agli ambiti in cui il virus si è maggiormente propagato nelle ultime settimane: nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, soprattutto tra i lavoratori precari che non potevano sottrarsi ai loro impegni. E dal lato sociale opposto, basti pensare alle occasioni di guadagno che il caos dei mercati potrebbe dare agli speculatori.

Considerata la dimensione della crisi, come giudica le prime azioni della BCE e delle istituzioni europee?

Inadeguate e in alcuni casi controproducenti. Tutti ora si rallegrano della sospensione del patto di stabilità. Ma quel patto è stato già violato nei due terzi dei casi e non è mai stato il problema principale. Il rischio più grande è che adesso i vari stati vadano sul mercato a vendere in massa nuovi titoli in cambio di finanziamenti. In questo modo potrebbe determinarsi un eccesso di offerta di titoli, il classico ingorgo del mercato che favorisce la caduta dei prezzi e le scommesse al ribasso degli speculatori. La BCE potrebbe offrire un ombrello protettivo contro di essi. Ma per farlo, anziché aggiungere alla spicciolata quantità definite di miliardi ad ogni nuovo sussulto dei mercati, dovrebbe dichiarare che mette a disposizione risorse illimitate. Purtroppo non lo sta facendo. La verità è che il modo di agire della BCE è ancora vago, condizionato da feroci conflitti tra creditori e debitori nel Direttorio di Francoforte.

Il presidente del consiglio Conte sostiene che risorse immediate potrebbero scaturire dal MES, il cosiddetto fondo “salva-stati”. Anche il commissario europeo Gentiloni la vede in questo modo. Lei che ne pensa?

Penso che stiano sbagliando. Quello che chiamano fondo “salva-stati” è un accordo intergovernativo estraneo ai Trattati e completamente sbilanciato, poiché condiziona espressamente l’erogazione delle risorse al soddisfacimento del “punto di vista dei creditori”. E’ un meccanismo iniquo e inefficace, che è stato ideato solo per dare alla BCE un alibi che le consenta di sottrarsi dal ruolo decisivo di prestatore di ultima istanza, l’unico che può garantire la solvibilità del sistema e può quindi realmente bloccare gli speculatori. Per come è configurato, il MES dunque non è la soluzione. E’ una trappola.

Nel vostro appello sostenete che se dovessero prevalere gli egoismi, l’Europa unita potrebbe non resistere. A questo proposito, in una recente conversazione con lei, anche l’ex ministro Giovanni Tria ha sorprendentemente dichiarato che sarebbe utile avere un “piano B” per gestire un eventuale tracollo dell’euro. A suo avviso in cosa dovrebbe consistere un ipotetico “piano B”?

Se si presentasse questa emergenza si tratterebbe di risolvere il vecchio “trilemma” delineato da Padoa Schioppa e altri: tra piena apertura ai movimenti di merci e di capitali, cambi fissi e politica monetaria nazionale autonoma, sono compatibili tra loro solo due opzioni su tre. Se la soluzione della delega della politica monetaria a un ente sovranazionale come la BCE fallisce, qualcuno dice che basterà abbandonare i cambi fissi e affidare i movimenti valutari al gioco del mercato e degli speculatori. Io penso che questa strada porterebbe ad altri fallimenti. Se l’euro crolla, la prima cosa giusta da fare sarà il ripristino dei controlli sulla circolazione internazionale dei capitali.

Al di là dei destini dell’Eurozona, in ogni caso nel piano “anti-virus” pubblicato sul FT voi proponete il controllo dei mercati dei capitali per bloccare la speculazione. Ci ha meravigliati che la testata più autorevole della finanza mondiale abbia deciso di pubblicare una proposta che limiterebbe la libera circolazione del capitale. Come se lo spiega?

E’ un po’ il segno di questo tempo. Durante una crisi di tale portata può accadere che il capitale si guardi allo specchio e si interroghi sul rischio che l’instabilità dei mercati minacci la sua stessa riproduzione. E può accadere che arrivi persino a chiedere aiuto alla politica, in un certo senso per salvarsi da sé stesso. Non sarebbe la prima volta.

Nell’appello voi parlate anche del rischio di una più generale “disorganizzazione” dei mercati, che potrebbe riguardare non solo il mercato finanziario ma pure i mercati delle merci, con strozzature nelle catene della produzione e al limite problemi di approvvigionamento di beni e servizi. Quanto è concreto questo rischio?

Il rischio di “disorganizzazione” dei mercati è stato evocato qualche giorno fa dall’ex capo economista del FMI, Olivier Blanchard. Sta proprio a indicare che questa è una crisi diversa dalle altre, perché pone problemi non solo dal lato consueto della domanda ma anche dal lato dell’offerta. Ce ne stiamo già accorgendo nella fornitura di beni e servizi sanitari, ma se le quarantene perdurano le difficoltà emergeranno anche in altri settori. E saranno guai ancora più seri.

Proprio per la complessità di questa crisi, voi invocate una vera e propria pianificazione pubblica.

Sì. Per uscire da questo caos non basteranno le solite invocazioni a fornire liquidità e a rilanciare la spesa aggregata. Servirà pure consapevolezza della fragilità delle catene input-output della moderna produzione capitalistica, che potrebbero incepparsi e potrebbero quindi aver bisogno di una riorganizzazione tramite interventi misurati e moderni di pianificazione pubblica. Non basta Keynes, questa volta serve anche Leontief.

In un articolo recente avete anche accennato alla necessità di una pianificazione nel campo della ricerca sul virus, per contrastare i tentativi di speculare sulle conoscenze scientifiche in materia. Può spiegarci questo punto?

Ci sono aziende private che ogni giorno annunciano scoperte imminenti nella ricerca sui vaccini, e che per questo vedono esplodere i loro valori di borsa. Ci sono altre aziende che già dispongono di conoscenze che potrebbero risultare utili nella lotta alla pandemia, ma le mettono a disposizione solo dei migliori offerenti. I governi, a cominciare da quello americano, hanno finora assecondato questi “battitori liberi”. Noi invece sosteniamo che queste speculazioni ostacolano la ricerca e debbono essere immediatamente fermate. Occorre un piano pubblico per acquisire le conoscenze che attualmente sono in mani private e per metterle subito gratuitamente a disposizione di tutti gli scienziati che sono impegnati nella lotta contro il virus. Più presto mettiamo in comune le conoscenze, più presto avremo a disposizione armi efficaci per sconfiggere il Sars-Cov-2.

Veniamo da più di trent’anni di liberismo. E’ davvero possibile compiere una svolta verso forme così sofisticate di pianificazione pubblica?

Il piano è sempre la risultante di un’emergenza, che improvvisamente costringe a coordinare azioni che prima erano caotiche e divergenti. Dopo anni di litanie sull’opportunità di gestire le unità sanitarie come aziende private in competizione tra loro, all’improvviso i cittadini si sono resi conto di quanto invece sia fondamentale disporre di un sistema sanitario che agisca secondo logiche di pianificazione pubblica e democratica: che vuol dire tutelare i cittadini in base alle condizioni di salute piuttosto che al censo, anche in situazioni di razionamento dei beni e dei servizi sanitari. Se la crisi durerà a lungo, problemi analoghi di razionamento potrebbero emergere anche in altri settori, con difficoltà di approvvigionamento e quindi anche tentativi di speculare su di esse. Se le cose diventeranno così difficili, meccanismi moderni e ben delineati di pianificazione pubblica saranno l’unica possibile salvaguardia, civile e democratica, contro eventuali fenomeni di “borsa nera”.

Professore, lei insiste sulla parola “democrazia”: pensa che sia a rischio?

La democrazia ha molti nemici, è già malata da tempo e questa tragedia del coronavirus può indebolirla ulteriormente. In fin dei conti, più funesta del virus c’è solo la tentazione di affidare l’emergenza al cosiddetto “uomo forte”: se la gente resterà chiusa in casa a lungo e si susseguiranno emergenze che impongono centralizzazione delle decisioni, quella tentazione si farà sempre più strada. Già oggi alcune forze politiche di tradizione autoritaria invocano a piè sospinto super-commissari con potere di decretazione d’urgenza. E’ un pessimo segnale. Saremmo più tranquilli se ci fosse ancora quel tessuto di salvaguardia democratica che veniva garantito da sindacati combattivi e da partiti di massa che intermediavano tra popolo e istituzioni. Oggi purtroppo non c’è nulla di tutto questo. Quel tessuto democratico andrebbe ricostruito, in fretta.

FONTE:https://www.sinistrainrete.info/politica-economica/17304-emiliano-brancaccio-e-una-crisi-diversa-dalle-altre-keynes-non-basta-serve-una-logica-di-piano.html

 

 

 

L’ITALIA IN GUERRA E LE CONTRAEREE ECONOMICHE
di Alessandro Giovannini27 marzo 2020

Siamo in piena guerra economica, lo sappiamo. E sappiamo anche che la nostra contraerea di finanza pubblica ha una forza di fuoco limitata. Per non lasciare imprese, lavoratori e professionisti a combattere con gli stivali di cartone, è allora indispensabile creare armi nuove.

Mario Draghi, sulle colonne del Financial Time, ha scritto che la risposta sta nel debito pubblico. In tempo di guerra, ha precisato, gli Stati si possono e anzi si devono indebitare. Oltre al debito, ha aggiunto, gli Stati possono dare liquidità al sistema anche garantendo il prestito concesso dalle banche ai privati e casomai sostituendosi a questi nella restituzione. Insomma, nella sostanza, debito pubblico senza limiti e garanzie pubbliche senza limiti, questa è o sarebbe la ricetta di guerra.

Una strategia di questo genere, se condivisa dall’Unione europea – ad oggi, tuttavia, la condivisione sembra una chimera – determinerebbe probabilmente una crescita immediata dell’economia. Passati i bombardamenti, però, vi sarebbe il rischio di trovarsi di fronte a macerie uguali o superiori a quelle che avrebbero prodotto i bombardamenti stessi.

In parole semplici, passata l’emergenza, fatto il debito, qualcuno dovrà pure pagarlo. E non è sicuro che le economie nazionali siano in grado, a quel punto, di farcela, perché non è affatto certo che questo gigantesco debito si ripaghi da solo. La storia economica ha dimostrato che il mitico moltiplicatore keynesiano è, appunto, un mito. Nell’economia reale, come attestano numerosi studi, il debito pubblico non ha mai dato i risultati teorizzati: pur quando ha determinato una crescita immediata, non si è mai autopagato integralmente, se non in rari casi e per periodi limitati.

Ma questo, in fondo, lo aveva scritto anche Keynes, solo che la sua teoria, a un certo punto della storia, è stata presa e affogata nell’ideologia marxista e quindi ha perso la sua originaria coerenza. Keynes, da un certo punto in poi, è diventato l’inventore della teoria del moltiplicatore in salsa comunista.

Vi è poi un aspetto politico centrale. Prendiamo per buona la prospettiva del debito e diamo per scontata che l’Unione accetti questa strategia. Ammettiamo pure che lo Stato italiano riesca a garantire la liquidità necessaria alle imprese e che il sistema creditizio si accodi. Che scenario avremmo alla fine della guerra? Più o meno questo: un sistema economico completamente drogato, perché non solo sarà un sistema a debito, ma sarà anche dipendente. La finanza statale dipenderà dalla finanza internazionale, da quella dell’Unione, della Banca centrale europea e da quella di Stati esteri dotati in proprio di liquidità; i privati dipenderanno a fil doppio dallo Stato.

Ci troveremmo di fonte, quindi, non solo, come detto, a una economia a debito, ma anche a una nuova statalizzazione dell’economia. Questo è il vero nodo politico che si deve affrontare, che il Parlamento deve discutere e sul quale il corpo elettorale dovrebbe essere chiamato a esprimersi. È inutile girarci intorno: o si sceglie di andare verso un sistema economico di stato eterodiretto, oppure si ha il coraggio di andare verso un’economia e un fisco d’ispirazione liberale. Il che non significa liberista, non vuol dire smantellare il sociale, la sanità pubblica e altri servizi primari. Significa non ricorrere soltanto o principalmente al debito e non contare solo o principalmente su interventi pubblici.

Come ho scritto su queste colonne, l’Italia ha un potenziale straordinario, con una ricchezza privata incomparabilmente superiore a quella di qualsiasi altra economia avanzata: oltre 10 mila miliardi, dei quali la metà in titoli, denaro liquido, oro. Questa ricchezza dallo Stato può essere utilizzata in due modi: come base di tassazione, per un’imposta patrimoniale, e sarebbe scelta suicida; oppure come serbatoio per investimenti privati nell’economia reale. Il fisco, in questa ipotesi, potrebbe diventare la chiave di volta per incentivarli. Si potrebbe prevedere la detassazione degli utili da essi derivanti, unitamente alla corresponsione da parte dello stato di interessi attivi sugli investimenti stessi.

Sarebbe una rivoluzione, culturale e politica anzitutto. Saremo disposti? O saremo allettati e allattati, ancora una volta, dal caldo tepore del seno di mamma Italia che si indebita per noi e i nostri figli?

(*) agiovannini.it

FONTE:http://www.opinione.it/economia/2020/03/27/alessandro-giovannini_draghi-debito-pubblico-ft-crescita-banche-bce-strategia-marxista-ispirazione-liberale/

 

 

 

 

FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI

Mercati oggi: ancora coronavirus a dominare la scena

30 Marzo 2020

Mercati oggi: cosa sta succedendo nella prima seduta della nuova settimana, sempre dominata dal coronavirus?

I mercati oggi sono tornati a pesare ancora una volta l’impatto economico del coronavirus.

Nella prima seduta della nuova settimana, numerose Borse hanno infatti lasciato osservare nuovi segnali di cedimento e in alcuni casi le perdite sono risultate piuttosto evidenti.

Tutto è accaduto in concomitanza con il crollo del prezzo del petrolio, affondato momentaneamente persino sotto i $20 al barile. Sui mercati, oggi, sembra essere tornato un sentiment di avversione al rischio, ma la seduta potrebbe ancora cambiare rotta.

Mercati oggi alle prese con il coronavirus: le ultime notizie

Esattamente come accaduto nel corso delle ultime, drammatiche settimane, anche oggi i mercati hanno ricominciato a valutare con crescente scetticismo l’impatto e le conseguenze globali del coronavirus.

Quest’ultimo, ormai trasformatosi in vera e propria pandemia globale, ha contagiato più di 700.000 persone stando ai più recenti dati della Johns Hopkins University. Le morti, invece, hanno superato quota 33.000, mentre i Paesi più colpiti sono risultati:

  • Stati Uniti: oltre 139.000 infetti
  • Italia: circa 97.000
  • Cina: oltre 82.000
  • Spagna: più di 80.000
  • Germania: circa 62.000

I mercati oggi sono tornati a riflettere proprio sugli effetti del coronavirus, che ha già messo con le spalle al muro numerose economie. Secondo Rodrigo Catril, currency strategist della National Australia Bank, essi continueranno a chiedersi se e quanto le misure di stimolo introdotte in tutto il mondo si riveleranno sufficienti per aiutare l’economia a resistere a questo shock inaspettato.

Per rispondere a questa domanda sarà necessario conoscere l’entità delle misure di contenimento oltre che per quanto tempo saranno implementate. Fino a che queste incertezze non verranno risolte è probabile che le Borse e i mercati tutti continueranno a scambiare in preda alla volatilità.

L’andamento delle Borse oggi

Non è andata tanto meglio alla Cina, dove i principali indici hanno scambiato con ribassi più o meno evidenti. Lo SZSE Component ad esempio ha perso più del 2%, mentre l’Hang Seng di Hong Kong è riuscito a limitare i rossi.

Meno depresse, invece, sia la Corea del Sud (che ha tentato di resistere alle vendite), sia l’Australia e la Nuova Zelanda, rispettivamente in rialzo del 7% e dell’1,68%.

Nonostante le performance di alcune Borse siano risultate particolarmente negative, non tutti i mercati oggi sono stati trascinati nel baratro. I rossi sono stati molto più contenuti rispetto a quelli delle ultime sedute. Tutti gli occhi ora saranno puntati sull’apertura delle europee e degli USA.

FONTE:https://www.money.it/_Cristiana-Gagliarducci_

 

 

 

GIUSTIZIA E NORME

Csm, le intercettazioni tra Fuzio e Palamara e l’audio mancante. L’ex pg a verbale: “Non sapevo degli incontri notturni per le nomine”

L’ex procuratore generale della Cassazione, costretto a farsi da parte dopo essere finito indagato nell’inchiesta della procura di Perugia, si difede davanti ai pm: ” A Palamara non ho riferito nulla in più di quello che lui mi aveva ripetuto già altre volte”. Intanto secondo la difesa dell’ex presidente dell’Anm esisterebbe una parte di quella conversazione che non è stata trascritta forse perché coperta dal fruscio. Parole che gli avvocati ritengono utili al loro assistito

di Antonio Massari | 28 MARZO 2020

Il 21 maggio 2019 l’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio incontra sotto casa il pm romano Luca Palamara. Da una settimana è esploso lo scandalo che porterà Fuzio, capo della sezione disciplinare, a chiedere la sospensione dalle funzioni (e dallo stipendio) di Luca Palamara, indagato per corruzione. Fuzio – che per il suo ruolo è membro di diritto del Csm – proprio per l’incontro e la conversazione del 21 maggio darà l’addio anticipato alla magistratura e sarà indagato a Perugia di rivelazione del segreto nei confronti dello stesso Palamara. Negli stessi giorni assistiamo alle dimissioni di ben quattro consiglieri del Csm. Ilfattoquotidiano.it è in grado di publicare in esclusiva stralci della conversazione intercettata quel 21 maggio. Parole che vanno integrate con quelle che Fuzio dice alla procura di Perugia quando viene interrogato nel luglio scorso. Anche queste riportate in esclusiva per la prima volta dal Fatto Quotidiano.

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“NON SAPEVO DELLE MANOVRE A CENA” – Fuzio precisa che i contatti con Palamara – in totale due – sono avvenuti dopo la cena del 9 maggio 2019, quella in cui con i parlamentari del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri, alla presenza di Palamara e cinque consiglieri del Csm: Corrado Cartoni, Antonio Lepre, Paolo Criscuoli (Magistratura indipendente) e Luigi Spina e Gianluigi Morlini (Unicost). La conversazione viene intercettata perché Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati ed ex membro del Csm, indagato per corruzione dalla procura di Perugia, ha il cellulare infettato da un trojan. In quella cena Lotti dice a un certo punto: “Si vira su Viola”. In sostanza si stabilisce che per la nomina alla procura di Roma si punta sul procuratore generale di Firenze Marcello Viola, in competizione con il procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo e quello di Palermo Francesco Lo Voi. “Non ero informato” di questa cena e dei suoi contenuti tiene a precisare Fuzio nell’interrogatorio. In realtà – ed è un fatto accertato – Fuzio non sapeva neanche che, scendendo per strada, dopo aver risposto al citofono a un altro magistrato, avrebbe incontrato Palamara. I due parleranno anche dei voti, conteggiando le eventuali maggioranze, che porteranno alla nomina del procuratore di Roma. Dice Palamara a Fuzio: “Se tu ti astieni non può mai vincere Creazzo”.

“PALAMARA SAPEVA CHE NON GLI AVREI PARLATO” – “Le modalità” con cui Palamara lo contatta, spiega Fuzio alla procura di Perugia, “segnalano” che “sapeva che non avrei accettato di incontrarlo dopo aver ricevuto l’informativa da Perugia”. L’informativa sulle indagini che riguardano Palamara, accusato di corruzione per viaggi e altre utilità ricevute dall’imprenditore Fabrizio Centofanti, è infatti giunta alla procura generale della Cassazione appena qualche giorno prima. E proprio sull’informativa, in un altro passaggio, Fuzio spiega alla procura perugina: “Vista l’informativa mi sono sentito sollevato in quanto ho ritenuto che la stessa potesse contribuire a rasserenare gli animi in seno al Csm”. Non si trattava comunque di una vera e propria novità.

“CHIEDEVO A DE FICCHY SE PALAMARA ERA INDAGATO”- Fuzio spiega che già a settembre 2018, proprio il Fatto Quotidiano, aveva dato notizia di un procedimento a carico di Palamara legato ad alcuni viaggi fatti con un imprenditore. “La notizia – spiega Fuzio – era quindi nota e conosciuta da tempo in ambito consiliare oltre che dagli uffici di Roma. Da diverso tempo si era creato un clima di attesa e di tensione”. “Sempre in articoli pubblicati dal Fatto” spiega ancora, “c’erano riferimenti al procedimento disciplinare nei confronti della dottoressa Duchini e a un colloquio che avrei avuto con il procuratore di Perugia Luigi de Ficchy”. Antonella Duchini è stata a lungo procuratore aggiunto di Perugia, dove ha condotto inchieste particolarmente rilevanti, come quella sul presunto sequestro di Alma Shalabayeva, compagna di Muhtar Ablyazov. In seguito sarà indagata a Firenze per rivelazione di segreti d’ufficio e abuso d’ufficio. E nell’agosto del 2018, con Palamara a Palazzo dei marescialli, viene trasferita d’ufficio dal Csm. Occhio alle date. “Ricordo – continua Fuzio – che abbiamo avuto all’epoca un’interlocuzione quotidiana per tale vicenda con il procuratore di Perugia. Nel maggio 2018 (quindi tre mesi prima del trasferimento di Duchini, ndr) fu pubblicata una notizia che faceva riferimento a un’indagine trasmessa dalla procura di Roma a quella di Perugia nei confronti di un magistrato romano. Nel corso di uno di tali colloqui chiesi a De Ficchy se il coinvolto fosse Palamara e, in caso positivo, senza violare il segreto, avremmo fatto in modo che lui non partecipasse alla sezione disciplinare che doveva valutare il procuratore aggiunto Duchini”.

“MI HA PRESO ALLA SPROVVISTA” – Il primo incontro con Palamara viene organizzato per il tramite del procuratore di Terni Alberto Liguori il 18 maggio 2019 – “né io né Liguori sapevamo che Palamara partecipava a incontri notturni” – sempre nei pressi dell’abitazione di Fuzio: “Non ricordo se Palamara mi abbia chiesto se fossero pervenute alla procura generale comunicazioni dalla procura di Perugia”. Poi arriva la sera del 21 maggio. Fuzio non sa che sotto casa sta per incontrare Palamara. Perché quando le vede non si rifiuta di parlargli? “Non ho ritenuto di mandare via Palamara – spiega – per mie ragioni caratteriali. Preso di sorpresa non ho avuto tempo di reagire con immediatezza. Nel corso del colloquio – continua – dopo le lamentele ripetute che lui faceva verso Ermini (vice presidente del Csm, ndr) non ho riferito nulla in più di quello che lui mi aveva ripetuto già altre volte in merito ai viaggi finanziati da Centofanti. Non ho svelato il contenuto dell’iscrizione né i titoli dei reati per cui si procedeva. Non ho indicato dati importanti che potessero consentirgli di fare approfondimenti o inquinare le prove…”.

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Poi si passa a discutere delle accuse della procura di Perugia a Palamara che riguardano alcuni viaggi con Adele Attisani pagati da Centofanti. “Perché almeno l’unico modo per controbattere l’informativa – dice Palamara – è poter darle l”archiviazione, se no che cazzo faccio giusto? Però rimane l’informativa che mi smerda…nessuno gli dice questa cosa qui, questo è gravissimo…qualcuno glielo deve dire, cioè o gli dici chiaro, sennò veramente io perdo la faccia…mi paga il viaggio, l’informativa non l’ho mai letta, non si sa di che importo si parla…qual è l’importo di cui si parla? Si può sapere? Cioè io non so nemmeno quanto è l’importo di cui parliamo”.“Si…”, risponde Fuzio, “Ci stanno le cose con Adele (…) E il viaggio a Dubai…”. “Viaggio a Dubai…” replica Palamara, “Quant’è? Ma quanto cazzo è se io…allora… e di Adele…cioè in teoria…va bè me lo carico pure io…quanto..quant’è, a quanto ammonta?”. “Eh…” risponde Fuzio “sarà duemila euro”.

IL PEZZO MANCANTE – Secondo la difesa di Palamara però esisterebbe una parte della conversazione con Fuzio che non è stata trascritta forse perché coperta dal fruscio. Parole che i legali di Palamara, Benedetto Buratti e Roberto Rampioni, ritengono possano essere utili al suo assistito. Non sappiamo se sia vero o no. Sappiamo però che dall’audio che abbiamo potuto ascoltare non si evince alcun saluto né il minimo convenevole tra Fuzio e Palamara. Anzi, già dopo appena 20 secondi, stando alla trascrizione dei brogliacci, peraltro coperti quasi integralmente dal fruscio, i due stanno discutendo del procuratore capo di Roma appena andato in pensione, Giuseppe Pignatone. Non è inverosimile, insomma, che qualche frase sia stata mangiata dal fruscio e di conseguenza risucchiata nelle manciate di secondi precedenti che la polizia giudiziaria ha giudicato non rilevanti. Per capirlo però la difesa dovrà tentare di ottenere audio puliti da ogni disturbo. Richiesta già inviata in procura.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/03/28/csm-le-intercettazioni-tra-fuzio-e-palamara-e-laudio-mancante-lex-pg-a-verbale-non-sapevo-degli-incontri-notturni-per-le-nomine/5752395/

 

 

 

 

IMMIGRAZIONI

MIGRANTI, 44 SBARCANO A BRINDISI: TUTTI INDOSSAVANO LA MASCHERINA
27 Mar 2020 Redazione

Uno sbarco di 44 migranti è avvenuto stamattina a Cerano di San Pietro Vernotico, nel Brindisino. Così il sito d’informazione Rai News. Il gruppo di stranieri è stato localizzato, mentre si stava cambiando i vestiti bagnati con altri asciutti, da un operatore della vigilanza privata.

A quanto si apprende, gli stranieri hanno dichiarato di essere minorenni, egiziani e iracheni; ci sono anche due bambine. Avevano tutti la mascherina chirurgica, forse fornita loro dagli scafisti una volta giunti in Italia, alle prese con l’epidemia di coronavirus. Sono stati accolti e prima di essere smistati nei centri di accoglienza sono state offerte loro, in zona, le prime cure.

I migranti stanno tutti bene e si sta provvedendo ad alloggiarli in una struttura dove possano trascorrere la quarantena obbligatoria, assistiti dai volontari e dallo stesso sindaco di San Pietro, Comune competente per territorio.

FONTE:https://stopcensura.org/migranti-44-sbarcano-a-brindisi-tutti-indossavano-la-mascherina/

 

 

 

LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI

29 marzo 2020 – 17:39

Il sociologo De Masi accusa: “Erano i capi a impedire smart working”

“Volevano tenere i lavoratori sotto le grinfie, vergognoso”

Roma, 29 mar. (askanews) – Punta il dito contro quegli 800 mila capi e dirigenti che in tutti questi anni non hanno mai cercato di favorire lo smart working, fenomeno che ora all’improvviso, causa forza maggiore una pandemia globale, di colpo (in pochi giorni) ha coinvolto 8 milioni di lavoratori in Italia. Finora non si faceva “perché i capi volevano tenerli sotto le loro grinfie”, è l’accusa del sociologo Domenico De Masi.

Ma ben prima del coronavirus, lo smart working e il telelavoro si sarebbero potuti già fare da anni, anzi da decenni secondo De Masi, con enormi benefici per la colletività. “Certo alcune categorie non possono telelavorare. Il chirurgo in sala operatoria ci deve andare”, ha detto il sociologo che è stato intervistato da una troupe di Rai News 24 – a distanza di sicurezza – sul portone di casa.

“Ma su 23 milioni di occupati in Italia una decina di milioni può fare il telelavoro, pensi che vantaggio per tutti” in termini di minore inquinamento, meno incidenti stradali o altro. “Le imprese hanno fatto sempre di tutto per separare i lavoratori per categorie, e su questo – si è chiesto retoricamente il sociologo – che servirebbe a tutti, perché no?”.

La risposta per De Masi è chiara ed è una accusa. “Otto milioni di lavoratori che stanno facendo smart working ragionevolmente hanno 800.000 capi, 1 ogni 10. Perché questi 800 mila capi non hanno introdotto il telelavoro prima? Perché li hanno voluto tenere sotto le loro grinfie. Una cosa vergognosamente antiquata”.

http://www.askanews.it/economia/2020/03/29/il-sociologo-de-masi-accusa-erano-i-capi-a-impedire-smart-working-pn_20200329_00110/

 

 

 

LA LINGUA SALVATA

Surreale

sur-re-à-le

SIGNIFICATO Nella corrente del surrealismo, che esplora la profondità della psiche; onirico; assurdo, incredibile

ETIMOLOGIA derivato di reale col prefisso sur- ‘sopra’.

Ci sono notti d’estate surreali in cui la bonaccia fa sembrare che gli alberi siano scolpiti nella luce dei lampioni; siamo spaesati nel vedere piazze, di solito affollate, deserte in modo surreale; per strada si fanno incontri surreali con personaggi onirici, vestiti in maniera bizzarra e in bizzarre faccende affaccendati; seguiamo increduli procedure burocratiche surreali in cui si viene rimandati circolarmente da un ufficio a un altro; viviamo momenti singoli in cui la vita dopo ci sembra surreale.
Questi contesti sono del tutto reali, ma per rappresentarli concepiamo il surreale — e questo ci fa capire che si tratta di una parola non dappoco.

Non è difficile indovinare che questa parola ha una matrice francese (è propria di tutte le parole col prefisso ‘sur-‘ per ‘sopra-‘), e nemmeno che c’entri col surrealismo. Ma si deve puntualizzare che il termine ‘surreale’ è molto successivo (una quarantina d’anni) rispetto a ‘surrealismo’ — il primo Manifeste du surréalisme è del 1924. E non solo.
Il surrealismo si proponeva come dirompente corrente di indagine delle parti nascoste della mente umana attraverso una rappresentazione sfrenata del pensiero, che passando per l’enormità di Dalì arriva a Fellini e oltre; il surreale, pur nascendo come aggettivo relativo al surrealismo e ai suoi complessi caratteri, qualificando ciò che scaturisce dalle sovrasensibili profondità della psiche, si è normalizzato. Ma non in maniera prosaica.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo scriveva Montale in un suo capolavoro, ‘I limoni’ e il concetto è in questa sua suggestione. Il surreale che usiamo oggi non attinge tanto a immaginarî onirici e fantasmagorici che trovano il loro senso nell’estremo imprevedibile e inconseguente: coi suoi paradossi, il surreale filtra da quelle che paiono crepe del reale. Nasce quando un accadimento si scosta sensibilmente dal modo in cui normalmente ne facciamo esperienza; quando una deformazione nella membrana del solito ci dà l’impressione di un passaggio a un piano di realtà altro, soprastante, più vero o più finto. Il nostro surreale è più kafkiano che daliniano.
Sembra che gli alberi siano pietra, sembra che dalla città siano spariti tutti, sembra che girino tipi scappati dal Paese delle meraviglie di Alice, sembra che gli uffici si siano messi d’accordo per farmi uno scherzo, sembra un sogno da cui ci dobbiamo svegliare.
Dopotutto, quando sentiamo commentare una decisione politica dicendo che ‘è surreale’, non si sta dicendo che pare un’esplorazione di abissali circonvoluzioni dell’inconscio, ma banalmente che è incredibile, assurda, sbagliata — e che è incredibile, assurda e sbagliata perché è reale. Più Kafka che Dalì.
Parola pubblicata il 28 Marzo 2020

FONTE https://unaparolaalgiorno.it/significato/surreale

 

 

 

NOTIZIE DAI SOCIAL WEB

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

“I nuovi Unni”. Intervista a Gianfranco Amato
25 Marzo 2020 – 11:07

Lei ha scritto ormai quasi dieci anni fa un libro sulla Gran Bretagna intitolato “I nuovi Unni”: quanto è accaduto ha confermato le sue previsioni?

Ricordo che l’uscita di quel libro fu accompagnata da una scia di polemiche soprattutto in quella parte del mondo cattolico, che potremmo definire irenista o buonista, la quale ancora oggi si ostina irriducibilmente ad adottare la cosiddetta “logica dello struzzo” nella lettura della realtà. Del resto, non è un mistero che da lungo tempo ormai il grande assente in quel mondo – compresa larga parte della Chiesa istituzionale – sia proprio il realismo tomista dell’«adequatio rei et intellectus».

Le polemiche di dieci anni fa si fondavano sull’obiezione che le denunce lanciate dal libro riguardassero, in realtà, concetti come quello di “gender” e “omofobia”, che l’opinione pubblica in Italia non conosceva e che non avrebbe compreso. Si sosteneva che tali concetti appartenessero alla Weltanschauung anglosassone e che non sarebbero mai stati recepiti dalla nostra cultura italiana. Per questo mi si accusava di voler procurare un inutile allarmismo, di voler «agitare fantasmi», o addirittura di «fare del terrorismo psicologico».

Letto oggi, quel libro sembra ormai persino datato. L’opinione pubblica italiana è andata addirittura oltre. E pensare che nel libro io avevo spiegato bene perché la Gran Bretagna è il laboratorio sperimentale della rivoluzione antropologica che stiamo vivendo. È per noi come la sfera di cristallo: per comprendere cosa accadrà con quale anno di anticipo, basta dare un’occhiata a quel che succede Oltre Manica.

In che modo aggiornerebbe questo libro se dovesse ripubblicarlo oggi?

Il libro si divide in due parti. Nella prima, intitolata Le cause, io cerco di analizzare le ragioni storiche, culturali, filosofiche e religiose, che sono all’origine della peculiarità britannica. Nella seconda parte, intitolata Gli Effetti, rendo evidente, attraverso precisi e circostanziati episodi di cronaca, le conseguenze pratiche di questa peculiarità.
Se dovessi riscriverlo oggi, lascerei invariata la prima parte – quelle ragioni appaiono sempre più fondate –, mentre sarei costretto ad aggiornare la seconda. La rivoluzione antropologica in atto ha raggiunto livelli che nel 2010 erano ancora inimmaginabili. Mi riferisco, in particolare, al campo della bioetica e alla distruzione della famiglia. Oggi non solo si è aperto, per esempio, lo scenario inquietante della cosiddetta “intelligenza artificiale”, ma si comincia a parlare di «artificial womb», per la creazione della vita, del «baby sharing» o del «coparenting» per quanto riguarda gli ultimi attacchi all’istituto della famiglia. Certo, sono tutti concetti che al momento l’opinione pubblica italiana non conosce o non comprende bene ma che ­– temo nel giro di poco tempo – imparerà a conoscere. Esattamente come nel 2010.

Sembra che in Gran Bretagna rifiutino le cure ai pazienti di una certa età coerentemente con una visione utilitaristica della politica sanitaria. Lei pensa che in questo paese l’analisi costi/benefici si sostituisca al valore della persona umana?

La Gran Bretagna, da questo punto di vista, insieme all’Olanda è al Belgio, è uno dei Paesi più scristianizzati d’Europa. Oggi nei pub come in parlamento si sentono i discorsi che facevano gli stoici, i cinici e gli scettici duemila anni fa. In un ristorante di Londra una volta mi è capitato di ascoltare un avventore del tavolo accanto, le cui parole mi hanno ricordato quello che scriveva Seneca nelle sue Lettere a Lucillio: «C’è un solo modo per entrare nella vita, ma molte possibilità di uscirne. Perché dovrei aspettare la crudeltà di una malattia o di un uomo, quando posso andarmene sfuggendo ai tormenti e alle avversità? Si può scegliere la morte come si sceglie la nave quando ci si accinge a un viaggio, o si sceglie una casa quando si intende prendere una residenza».

Stiamo tornando indietro di venti secoli, ed è come se duemila anni di cristianesimo fossero passati inutilmente. Questo è il vero problema. Una società senza Cristo si trasforma in una società cinica, incapace di riconoscere un’autentica dignità all’essere umano dal concepimento alla sua morte naturale. E senza questo riconoscimento l’uomo viene privato della sua dimensione spirituale, viene considerato mera materia. Questo implica inevitabilmente l’applicazione della logica imprenditoriale dei costi/benefici. Quando, però, si comincia ad accettare la prospettiva del puro pragmatismo utilitarista, allora gli esseri umani si cominciano a vedere non come soggetti titolari di una dignità, ma come possibile fonte di spesa, come esseri improduttivi, come un inutile peso per la società. Questo, tra l’altro, sta anche modificando la relazione tra medico e paziente. È la fine della cosiddetta alleanza terapeutica che per secoli ha caratterizzato la Medicina. Il paziente diventa solo un “cliente” per il professionista della salute e il consenso informato si trasforma in un mero mezzo di tutela giuridica del medesimo professionista. Con buona pace del povero Ippocrate.

In Gran Bretagna è già così, e quindi basta dare un’occhiata alla sfera di cristallo per comprendere che questa logica non tarderà molto ad entrare anche nei nostri ospedali.
Sembra assurdo, ma come spiegava bene il grande Dostoevskij, se Dio non c’è allora tutto è possibile.

Tra l’altro, molti dimenticano che il concetto moderno di sanità lo hanno inventato i monaci benedettini di quel medioevo considerato “oscuro”. Lo stesso Benedetto nella Regola scrive: «infirmorum cura ante omnia et super omnia adhibenda est». E questa cura nasce dall’esempio del Buon Samaritano e dall’esortazione evangelica di amare il prossimo come se stessi. Al tempo dei romani gli ospedali non esistevano. Vi erano i cosiddetti “valetudinaria”, ma erano infermerie destinate ai soli militari. È Benedetto che nella Regola impone l’istituzione in ogni monastero di un’infermeria, dalla quale nascerà l’«hospitale pauperum et pelegrinorum». L’ospedale per tutti. Non c’è nulla da fare: se si toglie l’autentica cultura della vita e dell’amore che solo Cristo può davvero portare in una civiltà, ciò che appare all’orizzonte è la silhouette luciferina del Male pronta ad inoculare la sua cultura della morte e del disprezzo per l’uomo.

FONTE:https://www.corrispondenzaromana.it/i-nuovi-unni-intervista-a-gianfranco-amato/

 

 

 

POLITICA

Bifarini: cari italiani, siamo finiti. Subiremo una catastrofe

Siamo di fronte a una crisi economica senza precedenti nella storia moderna. Credo che sia addirittura peggiore di una guerra, cui è stata paragonata. Durante i conflitti mondiali, infatti, esisteva comunque un’industria bellica a fare da traino. Oggi è fermo tutto, sia dal lato della produzione che della domanda. Resistono solo i consumi primari, quelli di generi alimentari. A farne le spese per primi saranno le partite Iva, i lavoratori autonomi, i commercianti, i ristoratori, i liberi professionisti, le agenzie immobiliari, i centri di benessere, le palestre, gli albergatori e tutto il fiorente settore del turismo italiano col suo indotto. Possiamo dire che gli unici a salvarsi, almeno per ora, saranno i dipendenti pubblici e i pensionati. A guadagnarci? Probabilmente i detentori del capitale, che a breve potranno fare shopping di quello che rimarrà del paese a bassissimo prezzo, vista la inevitabile svalutazione sia degli immobili che degli asset produttivi e strategici. Misure alternative per non bloccare il paese? Sarebbe stato più opportuno adottare una strategia mirata e non replicare il cosiddetto modello Whuan. La Cina, infatti, ha applicato il blocco a una sola regione, seppur popolosa come l’Italia, e non all’intero paese come abbiamo fatto noi. La loro economia ha continuato a produrre e a muoversi, seppur a ritmi rallentati, mentre noi abbiamo paralizzato l’Italia intera.

Inoltre, visto il ritardo della Cina nel comunicare l’infezione, possiamo fidarci che sia stata davvero debellata, da loro? Andavano fatti tamponi a tappeto, come in Corea, per individuare e isolare i contagiati. Inoltre, poiché i dati dell’Iss Ilaria Bifariniconfermano che l’età media dei deceduti è di circa 80 anni e si tratta prevalentemente di persone con una o più patologie pregresse, per i tre quarti di sesso maschile, occorreva effettuare una profilazione dei soggetti più a rischio e adottare misure specifiche, per essi. Non si può fermare l’intero paese, riservando ai bambini, che hanno un rischio pressoché nullo, le stesse restrizioni degli anziani, che anzi possono uscire a fare la spesa o per portare fuori il cane. Maggiore è l’esposizione al rischio, maggiori devono essere le restrizioni e anche le tutele. Sarebbe stato opportuno offrire alle persone più fragili al virus un servizio di consegna a domicilio di cibo e medicinali. Laddove necessario, mettere a disposizione degli alloggi per separare genitori e figli di età adulta, che possono contagiarsi all’interno dello stesso nucleo familiare. È illusorio e ingenuo credere che tra conviventi non avvenga il contagio. Le fasce più deboli hanno bisogno di maggiore protezione: questo è il compito dello Stato, e non riservare lo stesso trattamento restrittivo a tutti.

È possibile che i prezzi dei beni di prima necessità aumentino, e che alcuni prodotti diventino introvabili? Per la legge della domanda e dell’offerta che regola il mercato, sì. È chiaro che, se blocchi tutte le attività produttive, prima o poi potrebbe verificarsi una situazione del genere. Inoltre il panico che si è diffuso tra la popolazione spinge a comportamenti istintivi, che aumentano la domanda di alcuni beni per la paura di non trovarli in futuro. Se la situazione non si sblocca velocemente, che fine faranno, tra poco, tutte quelle famiglie che non possono contare sui risparmi? Credo che sia stata innescata una bomba a orologeria. Secondo le stime la disoccupazione italiana, che era finalmente scesa sotto il 10%, arriverà al 20%. Io credo che potrebbe andare ben oltre, considerato che il solo turismo offre il 6% dell’occupazione totale nazionale. Molte aziende ed esercizi commerciali costretti a interrompere la loro attività non riapriranno più. A pagarne le spese per primi saranno tutti quei lavoratori, per lo più giovani e precari, della ristorazione, del commercio e delle Pmi. I primi a essere licenziati saranno loro; senza poter contare su risparmi messi da parte, dovranno tornare a vivere con i propri genitori, laddove ne abbiano la Giuseppe Contepossibilità, non potendo più permettersi un affitto, un’abitazione autonoma.

Poi sarà la volta dei loro datori di lavoro che, esauriti gli eventuali risparmi, senza un flusso di liquidità non potranno più sostenere i costi fissi e gli investimenti fatti per la loro attività. Insomma, sarà un effetto domino che travolgerà tutti. Rischiamo rivolte popolari? Quando la povertà si diffonde a tutti gli strati sociali, la situazione diventa fuori controllo. Per il momento viene potenziata la presenza delle forze dell’ordine, e addirittura è previsto l’esercito in strada. Ma siamo di fronte a una situazione inedita, imprevedibile. I 25 miliardi stanziati dal governo? Acqua fresca, purtroppo. Secondo una stima del centro di ricerche Cerved, se questa situazione dovesse protrarsi fino a maggio – ma ormai sembra un’ipotesi irrealistica – la perdita stimata per il nostro tessuto produttivo sarebbe di 275 miliardi di euro, nel periodo 2020/2021. Nel caso in cui invece questa situazione di emergenza dovesse durare fino a dicembre la perdita totale ammonterebbe a 641 miliardi. Ma queste previsioni sono state fatte prima dell’ulteriore stretta delle restrizioni. D’altronde tutta l’economia è ferma, a parte il comparto alimentare: cosa dobbiamo aspettarci?

L’Italia tornerà a essere quella che è stata fino a un mese fa? Per un’economia già fragile come la nostra, con un Pil quasi immobile da anni, già vicina alla recessione, questo sarà il colpo di grazia. Abbiamo un debito pubblico già elevatissimo ed è possibile che vengano applicate le misure già sperimentate in Grecia dalla Troika. Difficile trovare soluzioni per uscire fuori da questo disastro annunciato: una volta distrutta l’economia reale, il tessuto produttivo nazionale e quella rete di Pmi che da sempre rappresenta il cuore pulsante nazionale, dell’Italia rimarrà ben poco. Anche il turismo, da sempre nostro settore trainante, faticherà molto a riprendersi, sia per il danno d’immagine che l’Italia ha subito più di altri, sia per un inevitabile e prolungato rallentamento dei viaggi a livello mondiale. Come magra consolazione possiamo dire che neanche per il resto delle economie avanzate la situazione tornerà come prima; ma, sfortunatamente, saremo noi a pagare il prezzo più alto.

(Ilaria Bifarini, dichiarazioni rilasciate a Pietro di Martino per l’intervista “Ecco cosa sta per succedere all’Italia”, ripresa dal blog della Bifarini il 27 marzo 2020).

FONTE:https://www.libreidee.org/2020/03/bifarini-cari-italiani-siamo-finiti-subiremo-una-catastrofe/

 

 

Le nuove facce degli umani

Le mascherine sono diventate il simbolo della pandemia, ma erano già di moda. Resteranno per sempre?

di Silvia Schirinzi 

Lo scorso gennaio a Milano l’aria era irrespirabile e prima che arrivasse Sanremo a riempire le nostre timeline, consultavamo ossessivamente app e profili Instagram per controllare i valori di PM10 della città. In molti abbiamo anche comprato una mascherina, di quelle con il filtro antismog, volendo sentirci Grimes o una delle Blackpink in realtà sentendoci scemi, ma almeno non si respirava lo scarico delle macchine, soprattutto in motorino. La mia l’ho cacciata nella tasca del cappotto un giorno e dev’essermi caduta, mai più trovata nonostante sia tornata indietro a cercarla, fatto sta che è arrivata la pandemia e io la mascherina non ce l’avevo più. Il Coronavirus ha stravolto molte delle nostre abitudini, anche se per la maggior parte di noi fortunati che possiamo stare in casa si è trattato – molto poco eroicamente – di ripensare la strategia per fare la spesa o scoprire nuovi angoli della nostra solitudine. Soprattutto, però, ha riempito di nuovi significati oggetti vecchi e nuovi, uno su tutti la mascherina.

Introvabili ormai da settimane, se non a prezzi sciagurati, le mascherine filtranti in svariate fogge – FFP1, FFP2 e FFP3, come da certificazione europea – sono diventate l’oggetto ultimo di desiderio e struggimento degli italiani, che non hanno mancato di scambiarsi tutorial social per produrne di casalinghe in chat già ingombre di fake news su come combattere il virus. Come il gel antibatterico, un miraggio pure quello e che però risulta meno carico di ansia esistenziale rispetto a una mascherina chirurgica, che magari circola frettolosa in una corsia del supermercato svuotato. Fino a un mese fa, indossandone una, eri classificabile come esibizionista anche se stavi masticando polveri sottili, mentre oggi ci siamo ormai abituati a vederle addosso a chiunque (il nuovo governo slovacco ci ha fatto anche il giuramento), ci infastidisce chi come Boccia non ne rispetta la sacralità, sono bianche, verdi, blu, nere, sono la nostra nuova quotidianità, anzi sono quasi una rassicurazione, la prova infallibile che leggiamo tutti le stesse cose, abbiamo tutti le stesse paure, siamo in questo casino tutti insieme. E che quello che quando ti vede si sposta dall’altra parte della strada è pure più fortunato e preparato di te, perché è riuscito a trovarne una e tu no.

Sul New York Times, Vanessa Friedman ne ha raccontato brevemente la storia. Prima che sui volti di popstar come Billie Eilish e nelle collezioni dei designer, come Marine Serre, che più negli ultimi anni si sono concentrati sull’ecologismo, sono comparse alla fine dell’Ottocento in Europa per proteggere i dottori dalle infezioni batteriche e intorno al 1910 sono arrivate in Cina, dove le autorità le consigliavano per combattere il diffondersi della peste polmonare. Sono perciò diventate ben presto «l’emblema della medicina moderna, svolgendo una doppia funzione: da una parte fermavano i germi e dall’altra segnalavano la mentalità scientifica dei cittadini». È uno dei tanti motivi, da sommare alle recenti epidemie di Sars, per cui sono così radicate in molte culture asiatiche (non è un caso che in zona Paolo Sarpi, nella Chinatown di Milano, le mascherine circolassero già da un bel po’, pure in versione modaiola) dove, come spiega Connie Wang su Refinery29, «una persona che indossa una mascherina non sta ammettendo di essere malata o paranoica: piuttosto riconosce di essere a conoscenza del suo dovere civile riguardo alla salute pubblica». È un gesto di cortesia e di senso civico, insomma, un modo di esprimere appartenenza e cura verso la comunità di cui si fa parte: qualcosa che noi italiani abbiamo compreso appieno solo in questi giorni di quarantena e che si porta dietro anche una serie di interrogativi etici.

L’assenza o la drammatica incompletezza di protocolli da seguire in caso di epidemia nei Paesi occidentali è sotto gli occhi di tutti, in primis da noi, e le mascherine sono diventate un terreno di scontro e litigi in questi tempi in cui ognuno, anche se dal divano di casa sua, cerca di partecipare a questo incredibile, e per certi versi inquietante, sentimento di unità nazionale. Ai nostri egoismi, a quello che ti scansa per strada se non ce l’hai, al nonno del secondo piano che dalla sua mascherina tira fuori il naso e continua a toccarsi la faccia mentre si dirige chissà dove e stimola in noi indecenti istinti polizieschi che non sapevamo di avere, si sommano infatti le notizie cui è praticamente impossibile sfuggire. C’è carenza di mascherine e equipaggiamento protettivo per il personale sanitario, non c’è dimostrazione scientifica che siano utili per chi non ha sintomi, comprandole le togliamo a chi ne ha davvero bisogno (come i medici, gli infermieri, i rider, i cassieri del supermercato, i farmacisti, tutti quelli sui quali in questo momento l’Italia si fonda), la Cina ce ne ha mandate un milione, anzi due, no trecentomila, almeno loro ci aiutano, ah no ora dicono che il virus circolava prima da noi che da loro, siamo noi gli untori, cosa cavolo è successo in Lombardia, ah se non l’avessi perduta ora sarei più tranquilla di fare la mia parte.

Intanto molte aziende del tessile si stanno impegnando per fornirne di nuove a chi è in prima linea: oltre alle italiane Miroglio, Artemisia e Santini, che hanno inaugurato già nelle scorse settimane la riconversione della loro produzione e sono in attesa della certificazione ufficiale, il gruppo francese Kering ha annunciato che le factory dove normalmente si confezionano Balenciaga e Saint Laurent inizieranno a produrre mascherine e materiale tecnico sanitario da donare al sistema sanitario francese (anche loro in attesa dello sblocco normativo sulla questione), mentre è già partito un ordine di oltre 3 milioni di pezzi che arriveranno dalla Cina la prossima settimana. Più di un milione di mascherine e circa 55 mila tute mediche saranno donate al servizio sanitario nazionale da Gucci, che fa sempre parte di Kering. Prada ha invece riconvertito temporaneamente lo stabilimento di Perugia per produrre mascherine che verranno consegnate agli ospedali toscani entro il 6 aprile. La scarsa reperibilità è lampante e non c’è niente, al momento, che ci fa infuriare di più che pensare un infermiere in reparto sprovvisto di mascherina. Accessorio distopico per i cultori del tecno-streetwear e per gli ecologisti urbani, simbolo della fiducia comunitaria ma anche pericoloso segnalatore di provenienza, tant’è che quando il New York Times ha messo la foto di un uomo asiatico in un articolo sul Coronavirus l’ha poi rimossa perché molti utenti si sono lamentati della stigmatizzazione (Trump d’altronde lo chiama “il virus cinese”, chissà che tra qualche settimana non diventi “italiano”), la mascherina è entrata nelle nostre vite a segnalarci, brutalmente, che niente è più come prima.

 

SCIENZE TECNOLOGIE

Lavori da casa? Sarà meglio spegnere Alexa

Davvero vorresti che informazioni confidenziali finissero nelle mani di sconosciuti?

[ZEUS News – www.zeusnews.it – 26-03-2020]

«Forse siamo un po’ paranoici» – ammette l’avvocato Joe Hancock, dello studio legale britannico Mishcon de Reya – «ma ci viene richiesto di riporre molta fiducia in queste organizzazioni e in questi dispositivi. Preferiremmo non assumerci questi rischi».

La paranoia e la fiducia di cui parla l’avvocato Hancock riguardano un’unica classe di oggetti (e le aziende che li producono): gli assistenti personali virtuali – come Alexa, ma anche Google Assistant e Siri – cui pressoché tutti possono accedere dallo smartphone e molti dallo smartspeaker.

Li abbiamo sempre vicino, sono in grado di captare ciò che diciamo (sia perché glielo ordiniamo, sia per errore) e di ciò che hanno registrato fanno un uso che nel recente passato s’è dimostrato non esattamente trasparente.

Così è capitato che spezzoni di conversazioni private (e a volte imbarazzanti) finissero nelle orecchie di sconosciuti, senza che chi quelle a conversazioni aveva partecipato ne sapesse niente.

Il che è un problema già consistente quando si parla di argomenti normali e banali come capita spesso tra persone che vivono sotto lo stesso tetto, ma può diventare veramente grosso quando sotto quel tetto si lavora.

In epoca di telelavoro forzato, dove quanti hanno un impiego “da scrivania” hanno attrezzato una sorta di ufficio domestico, bisogna tenere conto di tutti i fattori che differenziano la stanza di casa adibita a ufficio dal luogo di lavoro reale.

Uno di questi fattori è la possibile presenza degli smart speaker – i vari Amazon EchoGoogle Home o Nest e via di seguito – dotati di assistenti vocali, che a questo punto possono assorbire informazioni confidenziali e segreti inerenti l’attività lavorativa.

Ecco quindi che lo studio Mishcon de Reya ha chiesto ai suoi dipendenti che lavorano da casa di zittire o, meglio ancora, disabilitare completamente gli assistenti domestici durante le chiamate di lavoro.

Hancock ammette che, dopo le modifiche apportate al modo in cui vengono gestite le conversazioni registrate, è meno probabile essere spiati da Amazon o Google che da un prodotti di una marca sconosciuta o poco nota. D’altra parte, la prudenza non è mai troppa.

Più volte abbiamo ripetuto che usare uno smart speaker significa mettersi in casa un microfono aperto, e nutrire una fiducia sostanzialmente assoluta verso le aziende che li producono: un po’ troppo, per chi tratta informazioni confidenziali.

Approfondimenti

Se parlate con Alexa, i dipendenti di Amazon sanno dove vivete
Alexa, ecco come disabilitare l’ascolto
Se Amazon Echo registra le conversazioni private (e le invia ai contatti)
Google Home Mini: mettersi un microfono aperto in casa

FONTE:https://www.zeusnews.it/n.php?c=27971

 

 

 

STORIA

CHURCHILL NEL 1952: “I TEDESCHI SONO SEMPRE STATI IL PROBLEMA DELL’EUROPA”

“Io sono inglese. Sono un liberale conservatore. Ho servito per tutta la vita la Corona cercando di svolgere il mio servizio pubblico per il bene comune della collettività, quindi, come inglese conservatore non posso che dire Stalin è mio amico, ed è amico degli inglesi”.

“Ben altra cosa è il comunismo che considero una vera e propria truffa, un’illusione che un gruppo di burocrati, che fanno affari con i nostri banchieri, alimenta per manipolare della povera gente che ha bisogno di credere in qualcosa. Un giorno si sveglieranno e capiranno. Sono quindi furiosamente anti-comunista”.

“A parte la truffa del comunismo, a me i russi stanno anche simpatici. Sono i crucchi che non sopporto. Loro, i tedeschi, sono sempre stati il problema dell’Europa. Ne riparliamo tra cinquant’anni quando avranno rialzato la testa: i gravi problemi per le future generazioni verranno da Berlino e non da Mosca, glielo dice uno che li conosce tutti come le proprie tasche”.

fonte:https://stopcensura.org/churchill-nel-1952-i-tedeschi-sono-sempre-stati-il-problema-delleuropa/

 

 

 

MERKEL DIMENTICA CHE L’EUROPA DIMEZZÒ I DEBITI DI GUERRA (50%) ALLA GERMANIA

L’ammontare del debito di guerra tedesco dopo il 1945 aveva raggiunto i 23 miliardi di dollari (di allora) pari al 100% del Pil tedesco. La Germania non avrebbe mai potuto pagare i debiti accumulati in due guerre. Guerre, ricordiamo, da essa stessa provocate. I sovietici pretesero e ottennero il pagamento dei danni di guerra fino all’ultimo centesimo. Mentre gli altri Paesi, europei e non, come riporta almaghrebiya.it, decisero di rinunciare a più di metà della somma dovuta da Berlino.

Il 24 agosto 1953 infatti ventuno Paesi (Belgio, Canada, Ceylon, Danimarca, Grecia, Iran, Irlanda, Italia, Liechtenstein, Lussemburgo, Norvegia, Pakistan, Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, Repubblica francese, Spagna, Stati Uniti d’America, Svezia, Svizzera, Unione Sudafricana e Jugoslavia), con un trattato firmato a Londra, le consentirono di dimezzare il debito del 50%, da 23 a 11,5 miliardi di dollari, dilazionato in 30 anni. In questo modo, la Germania poté evitare il default, che c’era di fatto.

L’altro 50% avrebbe dovuto essere rimborsato dopo l’eventuale riunificazione delle due Germanie.

Ma nel 1990 l’allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell’accordo che avrebbe procurato un terzo default alla Germania. Anche questa volta Italia e Grecia acconsentirono di non esigere il dovuto. Nell’ottobre 2010 la Germania ha finito di rimborsare i debiti imposti dal trattato del 1953 con il pagamento dell’ultimo debito per un importo di 69,9 milioni di euro. Senza l’accordo di Londra, la Germania avrebbe dovuto rimborsare debiti per altri 50 anni.

FONTE:https://stopcensura.org/merkel-dimentica-che-leuropa-dimezzo-i-debiti-di-guerra-50-alla-germania/

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