RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 16 GIUGNO 2020

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RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI

16 GIUGNO 2020

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

Verità e Vizio han molta somiglianza:

se nuda e la Verità, così è la vergogna

 W. SAVAGE LANDOR, Brevities/Epigrammi, Sansoni, 1946, pag. 93

 

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SOMMARIO

GLI STATI GENERALI DELLA “POVERTÀ SOSTENIBILE”
Piano di Salvezza Nazionale Intervista ad Alessandro Coluzzi
Il giorno in cui l’Italia perse la sovranità sul panfilo “Britannia”
MANAGER DI STATO LIQUIDATI E POI RINOMINATI
Spazzolare la storia contropelo
Floyd non lo posso considerare un martire, tutti sanno che era un criminale incallito
Chi tocca la Botteri muore
Villa Pamphili e Villa Medici del Vascello, sede massonica del Goi, troppo vicine per gli Stati Generali
VIRUS SÌ, VIRUS NO, ANZI SÌ, ANZI NO
I Quaderni Neri.
Caffè americano
NON POSSIAMO NON ESSERE CRISTIANI
Siamo ancora “FIGLI DEL DUECENTO”
Altro che Immuni: il Bluetooth va tenuto spento!
Le email hackerate di Wuhan e Bill Gates:”covid-19 fatto in laboratorio e rilasciato intenzionalmente”
La truffa del MES “senza condizionalità”
Il piano per la ripresa stilato da Vittorio Colao
Shock economy all’italiana
Affari e società. Da Bill Gates a Zuckerberg la reputazione è tutto
REGOLARIZZAZIONI
Ho voluto verificare se quel che leggo è vero. Cosa ha fatto The Donald
Gli stati generali sono il nuovo Britannia che porteranno l’Italia verso il nuovo ordine mondiale
Il gioco dell’evoluzione artificiale
Sanificare tutto, pure la storia
LA PROPENSIONE A DECONTESTUALIZZARE LA STORIA E IL NUOVO TOTALITARISMO

 

 

IN EVIDENZA

GLI STATI GENERALI DELLA “POVERTÀ SOSTENIBILE”

Gli Stati generali della “povertà sostenibile”Giuseppe “Giuseppi” Conte è oramai preda del delirio d’Oltralpe. Si sente a capo d’una sorta di nuovo corso. Così tra i consigli di Rocco Casalino (una sorta di favorita di Francia dei tempi che furono) e le telefonate del gentil Emmanuel Macron, ha deciso di celebrare a Roma gli “Stati generali dell’economia”: manifestazione da certi detta “Stati generali dell’economia sostenibile”.

Qualcuno fa notare che si parlerà anche di reddito universale di cittadinanza, ovvero di “povertà sostenibile”, così i malevoli obiettano che gli sfarzi del Casino del Bel Respiro (Palazzo di Villa Pamphilj) e la ricca ristorazione poco si conciliano con la vita morigerata dei milioni d’italiani candidati al programma di “povertà sostenibile”.

La vetrina ampollosa degli “Stati generali” ha di fatto già creato un secondo lockdown nelle zone tra Roma-Nord e Monteverde. La polizia controlla tutto e tutti, ed elicotteri e droni muniti di raggi laser volteggiano notte e giorno. L’evento è davvero rococò, e costa allo Stato (quindi ai poveri italiani) più di cinque milioni di euro tra sicurezza, ristorazione, accoglienza e pernotto degli ospiti, trasporti…

Tanto dispendio di risorse nel momento in cui viene dribblato il problema degli aiuti a chi ha perso lavoro, casa, azienda. Ma al centro del dibattito di Villa Pamphilj (dura dal 13 al 21 giugno) c’è l’economia da rilanciare o come passare a mani europee il potere su asset e patrimoni italiani? Questa domanda se la pongono in tanti. Anche perché è davvero infelice la scelta del titolo “Stati generali”: sembrerebbe per alcuni motivato dalla voglia di rivelare che si sta riportando la società a prima del 1789… e del resto le immagini della sfilata di parrucconi a Villa Pamphilj ricordano non poco i convenuti a Versailles, presso l’ Hôtel des Menus-Plaisirs, per gli “Stati generali di Francia”. Oggi in foto e filmati, ieri nella mirabile incisione di Isidore Helman su bozzetto di Charles Monnet.

Tra gli invitati non è un caso vi siano Ursula von der Leyen e Christine Lagarde, perché l’occasione permette a Conte di giocare al primo della classe sulla pelle dei colonizzati italiani, che dal primo luglio subiranno la riforma del controllo del risparmio, come da richieste di Commissione europea e Bce. È bene ricordarlo, dal primo luglio non si potrà maneggiare e tesaurizzare contante per più di 1.900 euro, pena multe e carcere. Ed oggi, alla luce dell’accordo sul “Recovery fund”, l’Ue chiederà che la prima riforma in cambio d’aiuti sia appunto una stretta sull’uso che gli italiani fanno del proprio gruzzoletto, e colpendo il contante. Non dimentichiamo che nel resto dell’Ue non ci sono limiti all’uso di danaro contante. Ma l’Italia è osservato speciale per debiti, dubbi di mafiosità sulla ricchezza e sul contante e, soprattutto, che il risparmio italiano sia frutto d’evasione fiscale. In pratica, l’Italia è ancora una volta l’appestato economico d’Europa, ma spende soldi in sfarzo per gli “Stati generali”. Ma a far quadrare i conti pare provveda il ministro Roberto Gualtieri, che nell’occasione presenterà la riforma tributaria italiana, introducendo una specie di “aliquota liquida”: una sorta di patrimoniale perversa, che secondo l’Ordine dei commercialisti disincentiverà lavoro e creazione di ricchezza. Economia sostenibile e povertà sostenibile? Secondo la filosofia di questo Governo, l’una sosterrebbe l’altra.

E non dimentichiamo gli atti d’amore verso le banche. L’occasione permetterà al premier di far illustrare il programma Colao, che prevede gli istituti di credito possano agire direttamente sui conti dello Stato come sui risparmi dei cittadini. I soldi di questi ultimi diverrebbero virtuali e relativi, e non s’escludono Iban e conti aperti a nostra insaputa per spalmare il debito.

Già in epoca Monti, circa otto anni fa, s’era paventata l’idea (per altro supportata in ambito Ue) d’attivare conti ed Iban europei per tutti i cittadini italiani, e senza il loro consenso informato e preventivo. Ovvero conti aperti all’insaputa del cittadino, e per caricarci sopra una quota di debito pubblico attraverso l’acquisto di titoli a debito. I conti naturalmente risulterebbero tutti in rosso, e le banche chiamerebbero i cittadini a coprire il buco. L’operazione potrebbe essere congeniata con la stessa tecnica del prelievo forzoso e retroattivo operato dal Governo Amato ben ventotto anni fa: gli italiani sarebbero resi edotti della fregatura il giorno successivo all’attivazione degli Iban. Secondo Federcontribuenti le banche avrebbero già aperto sperimentalmente, ad insaputa dei cittadini, alcuni conti corrente, e sarebbero già partiti i primi pignoramenti verso i malcapitati. Sul sito dell’associazione Federcontribuenti viene raccontata la storia di Franco Piazzi (50enne ex camionista di  Portomaggiore): l’uomo avrebbe subito “illegittima apertura di un conto corrente a lui intestato, senza la sua conoscenza e a sua insaputa, per mezzo di sottoscrizioni apocrife, la cui falsità è stata giudizialmente accertata con perizia tecnica disposta dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bologna”… nonostante l’accertamento giudiziario l’uomo ha perduto casa. Eppure durante il giudizio sarebbero emerse le omissioni dell’Emil Banca. Parallelamente sarebbero stati segnalati a Bankitalia più di quaranta casi similari in tutto lo Stivale: Federcontribuenti sembrerebbe aver interpellato vari parlamentari: sulle prime si sono resi disponibili e desiderosi di fare rumore, poi il silenzio.

Una vicenda similare è avvenuta anche presso la filiale della Banca Farnese di Fiorenzuola: vari conti venivano aperti all’insaputa di operai e dipendenti d’impresa di pulizie. Sulle prime la Guardia di finanza aveva denunciato alla procura dei dirigenti di banca per aver aperto conti correnti all’insaputa dei titolari: l’accusa verte sul decreto legge 625 del ’79 nonché sul reato di violazione della privacy. Ma due anni fa arrivava il giudizio assolutorio del tribunale, con formula piena, per il vice direttore generale della banca, e le condanne a lievi pene pecuniarie  per i dipendenti: le multe venivano tutte onorate dalla banca, che ha mantenuto i dipendenti al proprio posto di lavoro. Eppure la pubblica accusa aveva chiesto pene alte per tutti, che andavano da quattro mesi a un anno per aver aperto 14 conti correnti senza rispettare le regole del Testo unico bancario. Il procedimento giudiziario è stato di fatto portato vicino alla prescrizione, e le pene ridotte al minimo. Qualche avvocato dei danneggiati dice d’aver saputo di 007 finanziari che si muovevano tra banche e procure: insomma qualcosa non torna, ed i cittadini forse fungevano da cavie per un futuro esperimento collettivo.

Il relativismo monetario è davvero dei nostri giorni, perché mentre i non dipendenti pubblici vengono tartassati, di contro chi è nel sistema riceve stipendi creati con un click presso una cabina europea. Quello degli Iban a nostra insaputa potrebbe rientrare tra le ricette d’una povertà ed economia sostenibili, ovvero bruciare case e risparmi degli italiani in osservanza ai dettami tedeschi, olandesi e danesi. Ma il discorso è lungo, e Conte ci sembra davvero poco attento alle nostre disgrazie economiche quotidiane. Gli “Stati generali” sono una cortina fumogena, che ci accompagnerà verso il fermo estivo (le vacanze più tristi d’Italia dalla fine della guerra). Ma i partecipanti italiani al summit sembrano non curanti del baratro autunnale, ovvero l’incapienza generalizzata dei contribuenti, la stagflazione di sistema, un mastodontico incagliamento della circolazione monetaria. Vivono da incoscienti questi Stati generali, sorridenti e non curanti come gli abitanti di Pompei dinnanzi ai moniti di Plinio il giovane.

FONTE:http://www.opinione.it/politica/2020/06/12/ruggiero-capone_stati-generali-conte-povert%C3%A0-ue-bce-povert%C3%A0-sostenibile-patrimoniale-lagarde-von-der-leyen-federcontribuenti/

 

Piano di Salvezza Nazionale Intervista ad Alessandro Coluzzi

a cura di Francesco Cappello

 

Piano di salvezza nazionale – CdR Conti di Risparmio

Conversazione/intervista sul Piano di Salvezza Nazionale relativamente alla proposta di Conti di Risparmio pubblici (CdR) con somme trasferibili, finalizzati alla valorizzazione del risparmio privato italiano.

I CdR sono conti correnti destinati al deposito sicuro remunerato del risparmio in euro di tutte le persone fisiche e giuridiche residenti in Italia, con facoltà di trasferimento del denaro ivi depositato ad altri titolari dei CdR pubblici.

I CdR costituiscono per lo Stato una modalità alternativa, ai ben noti titoli di Stato, di acquisire direttamente dai cittadini provvista di moneta-euro per soddisfare le esigenze del debito pubblico. I CdR potranno aumentare la detenzione di debito pubblico in mano ai residenti italiani per ridurre l’ammontare dei titoli di Stato soggetti alle fluttuazioni del mercato; contestualmente potrà aumentare il rating del paese e diminuire lo spread sui residui titoli di Stato rispetto agli altri paesi dell’eurozona.

Nel medio-lungo termine, la riduzione del tasso medio di interesse sul debito pubblico produrrà un risparmio per lo Stato; tali risorse aggiuntive potranno essere usate per la riduzione in conto capitale del debito stesso e/o per la riduzione del prelievo fiscale e/o per l’aumento degli investimenti pubblici.

Terza di sei interviste con cui si affronteranno, insieme ai loro artefici principali, le proposte del Piano di Salvezza Nazionale

VIDEO QUI: https://youtu.be/zHLq_RggESY

FONTE:https://scenarieconomici.it/piano-di-salvezza-nazionale-intervista-ad-alessandro-coluzzi/

 

 

 

Il giorno in cui l’Italia perse la sovranità sul panfilo “Britannia”

di Thomas Fazi                 COSÌ, TANTO PER NON DIMENTICARE

Il 2 giugno è un giorno strano. Oggi, infatti, ricorre sia l’anniversario della nascita della Repubblica, nel 1946, che quello di uno dei peggiori attentati alla vita della Repubblica, avvenuto il 2 giugno del 1992.

Quel giorno i massimi vertici dell’economia italiana – il presidente della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, il ministro del bilancio Beniamino Andreatta (i due che dieci anni prima avevano siglato il tragico “divorzio” tra Bankitalia e Tesoro), il direttore generale del Tesoro Mario Draghi, i vertici dell’Eni, dell’IRI, delle grandi banche pubbliche e delle varie aziende e partecipate di Stato – si incontrarono al largo di Civitavecchia sul panfilo della regina Elisabetta, il “Britannia”, con la crème de la crème della grande finanza internazionale per pianificare a tavolino il saccheggio dell’economia italiana, in primis attraverso la privatizzazione e la liquidazione, a prezzi di saldo, degli straordinari patrimoni industriali e bancari dell’Italia, che avevano fatto la fortuna del nostro paese nel dopoguerra.

All’inizio degli anni Novanta, infatti, la quasi totalità del settore bancario e oltre un terzo delle imprese di maggiore dimensione in Italia erano ancora in mano pubblica: un’eresia intollerabile nel momento in cui si andava imponendo in tutto l’Occidente il dogma del liberismo e del mercatismo selvaggio.

L’Italia aveva bisogno di una “terapia shock”, alla sudamericana, per essere ricondotta sulla retta via.

Per nostra sfortuna (ma probabilmente non è un caso) questo momento storico coincise con il “golpe bianco” di Tangentopoli, che poco prima aveva spazzato via praticamente tutti i partiti della prima Repubblica, spianando così la strada alla peggiore classe politica che questo paese abbia mai avuto, ovverosia a quegli esponenti dell’establishment italiano – Ciampi, Draghi, Amato, Andreatta, solo per citarne alcuni, che a loro volta erano espressione di uno “Stato nello Stato”, comprendente anche grandi aziende economiche ed editoriali, figure tecniche, movimenti della società civile, intellettuali e pezzi della magistratura – che da tempo sognavano di liquidare una volta per tutte il modello Stato-centrico italiano per mezzo del vincolo europeo, anche al costo di ridurre l’Italia a colonia dei centri di comando europei.

Pochi mesi prima dell’incontro del “Britannia”, infatti, era stato siglato il famigerato trattato di Maastricht, che impegnava l’Italia a una drastica politica di austerità fiscale e di abbattimento del debito pubblico. Ed è proprio facendo appello alle pressioni europee in tal senso che i privatizzatori nostrani giustificarono lo smantellamento dell’apparato industriale e di pianificazione pubblico italiano.

Come avrebbe detto poi Romano Prodi, artefice dello smantellamento dell’IRI in qualità di presidente dello stesso nel 1993-4: «Erano obblighi europei! Mi [era] stato dato il compito da Ciampi che privatizzare era un compito obbligatorio per tutti i nostri riferimenti europei».

In questa frase di Prodi è contenuto tutto il senso del vincolo esterno europeo, che ha agito (e continua ad agire) sia come pressione reale per riformare l’economia in senso neoliberale, sia come giustificazione per le élite nazionali, che a loro volta auspicavano quelle stesse riforme ma erano consapevoli che non sarebbero mai riusciti ad ottenerle «per le vie ordinarie del governo e del Parlamento», come disse Guido Carli, ministro del Tesoro al tempo della firma del trattato di Maastricht, cioè senza una pressione esterna che gli permettesse di aggirare i normali canali democratici.

È così che in pochi anni venne svenduto un patrimonio inestimabile accumulato in quasi mezzo secolo di politiche pubbliche, privando l’Italia di una delle principali basi materiali della sua Costituzione: ovverosia ciò che fino a quel momento aveva permesso allo Stato di perseguire (con tutti i limiti del caso) politiche di sviluppo industriale, di orientamento dei consumi, di innovazione strategica, di coesione territoriale, di salvaguardia dell’occupazione. Non a caso è proprio in quegli anni che inizia il lungo declino dell’Italia, a cui verrà dato il colpo di grazia con l’ingresso nell’euro.

A distanza di quasi trent’anni da quel tragico 2 giugno del 1992, sarebbe il caso di chiudere una volta per tutte questo triste capitolo della storia italiana, restituendo al popolo ciò che è suo: dai monopoli naturali come la rete autostradale e le reti energetiche – che negli anni sono stati smembrati e consegnati nelle mani di spregiudicati “prenditori”, che ne hanno ricavato rendite e profitti a scapito della qualità e dei costi dei servizi, e dunque a scapito di tutta la collettività – alle banche.

Fino ad arrivare al bene pubblico per eccellenza: la moneta.

FONTE:https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/17971-thomas-fazi-il-giorno-in-cui-l-italia-perse-la-sua-sovranita-sul-panfilo-britannia.html

 

 

 

MANAGER DI STATO LIQUIDATI E POI RINOMINATI

Manager di stato liquidati e poi rinominatiIl Parlamento fermi questo scandaloso spreco di denaro pubblico per le buone uscite dei manager di aziende pubbliche e partecipate.

In tempi in cui a tutti gli italiani si chiede di stringere la cinghia e sopportare ulteriori sacrifici a causa delle ripercussioni del Covid-19, ma a dirla tutta, soprattutto, a causa del Governo, che invece di pensare ad un decreto snello di rilancio dell’Italia, si è calato nel ruolo di “azzeccagarbugli” emanando un decretone dove vi ha infilato di tutto, proprio di tutto, anche cose che con l’interesse dei cittadini italiani nulla hanno a che fare. Invece, perché non cercare di recuperare il denaro necessario, al fabbisogno dello Stato, anche attraverso il non spreco? Perché non cercare, anche, attraverso i rientri delle liquidazioni, o buone uscite, erogati ai manager di Stato decaduti dalla loro nomina, magari in anticipo, e poi richiamati a ricoprire incarichi in aziende similari? Negli ultimi anni abbiamo assistito passivamente, con buona pace di tutti, a un’anomalia che con il passare del tempo si è consolidata come prassi pesando sulle tasche dello Stato e quindi degli italiani. L’anomalia, del resto tutta italiana, è quella del conferimento d’incarichi come quella di presidente, amministratore delegato o comunque di membro del Consiglio d’amministrazione, che poi con lauti compensi (spesso centinaia di migliaia di euro a testa e talvolta milioni), viene a essere esonerato prima del completamento del proprio mandato.

Alcune di queste volte per il mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati, altre ancor peggio, per l’evidente riscontro di una mancata strategia o immobilismo aziendale, portando in altri casi ancora, la stessa azienda, a compiere anche degli sprechi aziendali, e che per giunta, viene poi ad essere richiamato a ricoprire incarichi analoghi altrove. Per non parlare di quei casi, invece, in cui alcuni manager fuoriescono dall’azienda approfittando di uno scivolo, per poi ritrovarli piazzati in altre aziende simili o dell’indotto. Tutto ciò avviene, molte volte, nella totale inconsapevolezza degli italiani, ma il silenzio in questi casi la fa da padrone, come dire tanto nessuno ci guarda e quindi non lo si viene a sapere. Direbbe il principe della risata Totò: “Oh perbacco!” Sarebbe da aggiungere: Ahimè, purtroppo vero!” Un Parlamento attento, che agli sprechi dovrebbe dare battaglia, dovrebbe porre la giusta rilevanza anche a questi episodi di malcostume istituzionalizzato, persino pensando ad un intervento drastico affinché questa dissolutezza cessi di esistere. Allora probabilmente il cittadino italiano, anche da queste piccole cose, piccoli segnali, si sentirebbe confortato nel sopportare qualche sacrificio in più, sapendo che si sta attuando una linea di rigore che vale per tutti, con una vera lotta allo sperpero di denaro pubblico. Difatti non si può chiedere agli italiani, come in questo periodo responsabilità, tra l’altro da costoro ampiamente dimostrata e dall’altro lato, quello istituzionale non dimostrarla.

Detto ciò, perché non pensare a un provvedimento semplice semplice, punto cardine di esso una piccola norma con cui si stabilisce che chi rientra nel caso citato, anche se in carica, non possa tornare a ricoprire incarichi nel board della stessa società da cui è stato rimosso, salvo che non restituisca la liquidazione percepita? E sì, perché delle due, una, o gli organi preposti alla nomina hanno commesso un errore di valutazione all’atto della rimozione o l’errore è stato commesso da chi è stato chiamato a ricoprire quell’incarico, e per questo non lo si può premiare due volte. Come dire, oltre il danno anche la beffa! Anche questo è modo per far cassa, solo che in questo caso la si fa a ragion veduta. Quindi cari parlamentari fate qualcosa in questo senso, magari verificando quanti di questi casi, in sordina, vi siano anche in futuro e che possono contribuire, se non al concorrenziale andamento dell’azienda, in cui sono al vertice, almeno al risanamento della tesoreria dello Stato.

FONTE:http://opinione.it/politica/2020/05/27/alessandro-cicero_parlamento-manager-di-stato-covid-19-italia-governo-tot%C3%B2-board-lotta-linea-rigore-tesoreria-risanamento-denaro-pubblico/

 

 

 

ARTE MUSICA TEATRO CINEMA

Spazzolare la storia contropelo

Utopian Display. Geopolitiche curatoriali

Gli ultimi trent’anni hanno visto la proliferazione di musei, biennali, fiere, gallerie e programmi di residenza, di pari passo alla progressiva finanziarizzazione della cultura, alla privatizzazione di musei e all’aziendalizzazione dei processi di formazione. C’è da chiedersi quale possa essere un nuovo paradigma per le istituzioni di arte contemporanea che vogliano porsi come terreno di contestazione dell’ordine egemonico (Mouffe).

Utopian display. Geopolitiche curatoriali, (Quodlibet, 2019) tenta di fornire delle risposte a questo interrogativo. L’edizione, curata da Marco Scotini per la nuova collana NABA Insights, è una raccolta di casi studio raccontati dalle voci più autorevoli dello scenario curatoriale contemporaneo, attive in contesti geopolitici diversi Africa, India, Palestina, America Latina, Sud-est asiatico, Cina, Est Europa. L’antologia ha il valore di una fenomenologia di pratiche curatoriali e modelli museali, esemplari perché capaci di superare la retorica dell’inclusività e l’ingenuità della globalizzazione, con un processo di radicale decostruzione delle istituzioni.

Utopian display è un contributo prezioso a una letteratura critica del sistema dell’arte contemporanea, che negli ultimi trent’anni si è assunta il compito di ridefinire il ruolo delle istituzioni, in uno scenario globale che col disgelo del 1989 ha visto decadere l’egemonia culturale europea e che con la crisi finanziaria del 2008 ha visto imporsi quella neoliberista, e ora deve procedere nella direzione di una decolonizzazione dello sguardo. L’istituzione così come viene decostruita e riconfigurata nei contributi di Anselm Franke, Ute Meta Bauer, Hou Hanru, Vasif Kortun e Pierre Bal Blanc deve rinunciare ad avere un punto di vista neutro, e privilegiato nella codificazione culturale, e diventare terreno di costruzione di una storia che, lontana dall’essere pacificata, è sempre incarnata in uno specifico contesto sociopolitico e fa i conti con l’irrisolto e il rimosso. Unica possibilità di coltivare futuri possibili.

In questo senso la potenzialità del display inteso come la totalità di strategie di produzione di conoscenza e modalità di ricerca risiede nella messa in discussione del modello neoliberista e globalizzato di produzione, diffusione e fruizione dell’arte contemporanea. Nel solco della critica al tardo capitalismo, un display che voglia opporsi a un modello di produzione sempre più brandizzato, e appiattito dall’univocità della modernità, deve opporsi al modello colonialista, e volgersi verso la costruzione di soggetti resistenti. Che si tratti di curare mostre, pubblicazioni, public program, l’istituzione intesa come dispositivo epistemico, deve porsi oltre il progressivo livellamento delle differenze, e la ricerca di un oggettivismo di matrice positivista. Abbandonando ogni tentativo di rintracciare un canone che abbia pretese di omogeneità, l’istituzione decostruita assume un carattere organico, capace di mutare in base al contesto politico, sociale e culturale, e farsi essa stessa catalizzatrice di trasformazione.

Un’organicità che deve confrontarsi con la nevrosi identitaria come l’ha definita Gerardo Mosquera riferendosi al contesto dell’America Latina ovvero con la spinta essenzialistica e tradizionalista a riconoscersi in pochi caratteri cogenti e ricondurre ad essi l’intera sfera della produzione, circolazione e fruizione artistica. Un processo che ha portato all’invenzione del non-Occidente, dell’esotico, dell’auto-esotico e di un modello safari. Il neologismo coniato da Tina Sherwell per spiegare la produzione artistica nel contesto palestinese si riferisce all’atteggiamento curatoriale che davanti a un contesto inedito, proietta su di esso un bisogno di autenticità, macchiata di primitivismo, per ricondurlo come elemento di alterità al proprio paradigma di riferimento.

Rispetto a queste spinte la ridefinizione della propria identità, per emanciparsi completamente dall’invenzione occidentale, non può che essere endogena, con il rischio, ben chiaro a Simon Njami che si diventi attori della propria nevrosi identitaria rischio arginabile se la ricostruzione viene affidata ai singoli, che dovranno imparare a riconoscersi attraverso il proprio sguardo e disimparare a vedersi irrevocabilmente costruiti dallo sguardo altrui. Rasha Salti farà ricadere sui singoli, oltre alla configurazione di un’identità inedita, la responsabilità di costruire una storiografia a partire dalle memorie collettive e da archivi privati, dissidenti e non allineati.

L’istituzione, così spogliata delle sue istanze moderniste e storiografiche, riscopre la sua specificità nel forgiare nuove narrazioni e nel raccontare molteplici storie dell’arte, rendendo chiaro a questo punto che l’utopia evocata dal titolo deve essere quella di spazzolare la storia contropelo, di far emergere una un passato irrisolto, una contro-storia, frammentata e discontinua, e dare voce a corpi indisciplinati, politicizzati, vitali e liberati dall’estetica modernista e dal discorso patriarcale. Andrea Giunta e Miguel A. López consegnano l’itinerario di Utopian display ai corpi non normati che risolvono la questione identitaria e quella storiografica nella prospettiva queer, la cui eccentricità antinormativa riesce a far naufragare l’egemonia eterosessuale dominante.

Se è vero che la responsabilità dell’arte contemporanea è quella di preparare alla rivoluzione per accogliere un nuovo assetto mondiale possibile, una cartografia virtuosa dell’immagine che potrebbe avere si trova in Utopian Display, per quanto si tratti di un’immagine ancora tutta da costruire.

FONTE:https://operavivamagazine.org/spazzolare-la-storia-contropelo/

 

 

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

Floyd non lo posso considerare un martire, tutti sanno che era un criminale incallito

5 Giugno, 2020

George Floyd, descritto dalla sinistra mondiale come un paladino della giustizia, un martire rappresentato sui murales con l’aureola del santo, un modello per i giovani e un militante per la democrazia era davvero questo?

Riassumo in italiano la risposta (lunga 18 minuti) di una brava, coraggiosa e famosa giornalista afroamericana che in passato si distinse per non essere tenera nei confronti di Trump. Eppure, Candace Owens afferma che lei, da afroamericana rifiuta la montatura fatta dalla stampa e rifiuta di considerare Floyd un eroe e un modello. Perché? La Owens scrive quello che tutti i giornalisti del mondo sanno da un pezzo ma non scrivono: Floyd è stato condannato per ben 5 volte alla galera e nel 2007 addirittura fece irruzione nella casa di una donna incinta e la minacciò puntandole la pistola sulla pancia. Un eroe, protettore dei più deboli? Nel giorno in cui è stato ucciso dal poliziotto (suo collega da anni come buttafuori in un night) era strafatto di fentanyl e metanfetamine, non proprio un modello per la gioventù… A questo aggiungiamo che il poliziotto non dipendeva da Trump ma da una catena di comando del partito democratico… Bene.

Leggetevi i commenti degli Antifa e degli antirazzisti sulla pagina della Owen: il più carino è “razzista bianca con la pelle nera” ma quasi tutti sono a sfondo sessuale e pesantemente razzisti.  Perché agli Antifa il razzismo è naturalmente consentito.

Ovviamente è da condannare ogni tipo di razzismo e ci auguriamo che l’agente di polizia che ha ucciso George vada in galera

FONTE:https://www.mag24.es/2020/06/05/floyd-non-lo-posso-considerare-un-martire-tutti-sanno-che-era-un-criminale-incallito/

 

 

 

Chi tocca la Botteri muore

La Verità – 6 05 2020

«Striscia» irride la mise trasandata della corrispondente Rai e tutti si stracciano le vesti: è «bodyshaming». Ma quando a prenderla pesantemente in giro erano Maurizio Crozza e Luciana Littizzetto nessuno, neppure lei, protestava.

https://www.facebook.com/quotidianolaverita/posts/2362869944018545

 

 

 

BELPAESE DA SALVARE

Villa Pamphili e Villa Medici del Vascello, sede massonica del Goi, troppo vicine per gli Stati Generali

Il premier Giuseppe Conte lo aveva annunciato come un incontro per scrivere un “piano per la rinascita dell’Italia” ma il PD immediatamente gli ha ricordato che quel nome lo aveva già dato Licio Gelli ai lavori della sua loggia P2. Conte ha subito rinunciato a quella denominazione ma non ha rinunciato a fare gli Stati Generali a Villa Doria Pamphilj, molto, troppo forse per alcuni, vicina a Villa Medici del Vascello e a Villa Corsini, appartenute tutte alla stessa famiglia Pamphilj.

Nessun riferimento, naturalmente, a possibili concreti collegamenti con il Grande Oriente d’Italia, però se si usano, per far rinascere il paese, fraseggi e dimore storiche come quelle, a qualche vecchio cronista nasce spontaneo un sorriso e gli torna in mente la storia. E la storia fa emergere questa vicinanza inusuale.

Abbiamo notato che “gli europei”, nei loro interventi d’apertura degli Stati Generali, hanno preso qualche distanza dal governo italiano, infatti il presidente del Parlamento europeo David Sassoli ha esordito dicendo che “è importante che i governi nazionali si concentrino sulle strategie per rendere concreti gli strumenti che l’Unione ha reso disponibili o intende sviluppare. Ora i governi sono chiamati, prosegue, riferendosi sempre ai governi -in generale-, ad una maggiore responsabilità dando prova della loro capacità di programmazione”.

Ed anche il presidente della commissione, UE, Ursula von der Leyen, intervenendo in collegamento video ha esordito dicendo che “l’Europa s’è desta” -parafrasando Mameli (noto massone autore dell’omonimo inno), per soffermarsi poi, in lingua italiana, sulla “Next generation UE. Un’alleanza tra generazioni, un’opportunità per l’Italia”. Sempre parole di senso generale e non riferite all’Italia in particolare. Quale sia stato il contributo di questi di due Europeisti ai lavori degli Stati Generali lo capiremo fra qualche giorno oppure ce lo dirà in seguito direttamente il Premier.

Non entriamo nella polemica dell’opportunità o meno di convocare questi Stati generali, che Il nostro Premier apre, parlando di “bellezza”. Dice Conte: “Nell’ambito di questo progetto rientra anche l’investimento nella ‘bellezza’ del nostro Paese”. Peccato che non abbia aggiunto “per un mondo a colori”.

Credeteci, non stiamo qui a criticare, siamo solo a fare modesta cronaca. È troppo presto per tirare somme e interpretare i risultati di quello che sarà di queste otto giornate romane. No, non abbiamo scritto “vacanze romane”, non siate cattivi. Aspettiamo solo con molta ansia perché l’Italia non ha molto tempo, non ha lo stesso tempo che Gelli aveva dato ai suoi per far rinascere il Paese; a lui interessava il potere immediato, e lo aveva espresso nel documento di rinascita democratica che fu ritrovato nel doppio fondo di una valigia della figlia Maria Grazia Gelli.

FONTE:https://ladiscussione.com/40184/politica/villa-pamphili-e-villa-medici-del-vascello-sede-massonica-del-goi-troppo-vicine-per-gli-stati-generali/

VIRUS SÌ, VIRUS NO, ANZI SÌ, ANZI NO

Che succede? Alla convinzione generale, del resto corrispondente al prevedibile di una riduzione della violenza della pandemia, si aggiungono, di giorno in giorno, notizie contrastanti.

Non sarebbe vero che il virus si indebolisca. Ma forse sì. Basta un po’ di riflessione per rendersi conto che invece dei 60mila “Militi Antimovida”, qualcuno che ne ha la possibilità, cerchi di giocare la carta del riaccendersi di un sacrosanto timore.

La cosa è complicata dal fatto che, poi, alcune questioni estremamente serie e dure finiscono per sottostare a questo svolazzare di opinioni e di spauracchi. Inoltre, ogni relazione statistica sulla violenza della pandemia è condizionata dal fatto che le percentuali sono calcolate sulla popolazione naturale ma non su quella realmente esposta al contagio.

Tutte le misure antivirus sono state in realtà dirette a ridurre il numero delle persone ad esso esposte: quelle che ad un certo punto preferiscono la movida, che non possono restarsene a casa etc.. Così all’interesse di chi ha la possibilità ed in qualche misura il dovere di valersi della paura del pubblico, si aggiunge l’impossibilità di fare i conti con numeri che non siano giostrati in effetti da tali sensazioni. È giusto e immorale agire così?

Non sto a discuterne. Quel che preoccupa è che l’abitudine a valersi di spauracchi per governare, si radica anche al di là di ogni necessità e di ogni speciale situazione. Governare diventa, dunque un po’ lo è sempre stato, l’arte di valersi delle paure della gente. Il guaio è che sempre meno sono coloro che hanno fiducia nella possibilità e nel dovere di governare, invece, con la verità e con la forza razionale dei propri argomenti

FONTE:http://opinione.it/societa/2020/05/28/mauro-mellini_coronavirus-governo-misure-paura-assistenti-civici-numeri-pandemia/

 

 

 

CULTURA

I Quaderni Neri.

Una lettura di Matteo Simonetti

Luigi Iannone – 13 giugno 2020

Se chiedessimo ad un pubblico di lettori quali siano stati gli scritti più biasimati del Novecento e al centro di polemiche più furiose e incattivite, la quasi totalità di essi non avrebbe alcun dubbio: citerebbe i Quaderni Neri di Martin Heidegger. Quei taccuini rilegati – appunto, in tela di colore nero – e che riprendono annotazioni filosofiche per un periodo che va dall’inizio degli anni trenta alla fine degli anni sessanta, sono il caso filosofico e culturale del secolo. Lo scritto intorno al quale si sono mosse analisi trasversali, puntute, dotte o anche parziali ed interessate. E su questo non v’è alcun dubbio. Anche perché il triangolo nazismo, ebraismo e Heidegger, è di quelli che non lasciano scampo a valutazioni equilibrate o pilatesche. In qualunque fronte d’analisi ci si schieri il pericolo è infatti quello di bruciarsi col fuoco dal momento che, nonostante siano passati decenni, gli interrogativa – nonostante si veli tutto dietro arzigogolamenti filosofici – restano gli stessi di sempre e, per tanti versi ancora insoluti: Heidegger fu nazista? Fu antisemita? E i Quaderni neri sono una propaggine filosofica rilevante di posizionamenti che intaccarono la sua sfera personale e politica?

Come mi è capitato di scrivere anche in altre occasioni, ho il timore che non se ne possa venire definitivamente a capo. E per due motivi essenziali. In primo luogo, perché la scrittura, il filosofare, i percorsi, le inclinazioni di Heidegger sono assimilabili ad una pietra preziosa a cui si può rivolgere uno sguardo veloce o una analisi approfondita ma da diverse angolature e che, perciò, gli stessi temi e i medesimi approcci e punti d’approdo si possano confutare e contraddire a vicenda. In secondo luogo, c’è da ammettere che le sue connessioni personali dirette o indirette col nazismo, hanno fagocitato e tuttora fagocitano ogni lettura che voglia essere fredda e scientifica. Anche il testo più serio su Heidegger, gira e rigira, come in una sorta di incredibile gioco dell’oca, torna sempre al punto di partenza.

Ebbi modo di “sentire”, un paio di anni fa, Francesco Alfieri ( docente alla Pontificia Università Lateranense) per Il Giornale. Alfieri aveva pubblicato un voluminoso saggio insieme a Friedrich-Wilhelm von Herrmann (ultimo assistente di Heidegger), nel quale si mettevano in luce gli errori di traduzione e le glosse che avevano distorto il pensiero del filosofo. Per i due, molte delle distorsioni si sarebbero prodotte da termini mal interpretati come, per esempio, la parola Wüste («deserto») che non doveva essere in alcun modo legata al popolo ebraico. Ma, ovviamente, non era l’unica bizzarria segnalata. Un lavoro certosino, di traduzione e di riconversione perché il trasferimento da una versione all’altra è questione filologica, interpretativa ma anche di contenuti. E furono mesi in cui questo quadro analitico costruito negli anni da Donatella Di Cesare, una delle più assidue studiose del filosofo tedesco, fu messo pesantemente al vaglio e sottoposto a fuoco incrociato.

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Da qualche tempo è andato in stampa un volume di Matteo Simonetti, I Quaderni Neri di Heidegger. Una lettura politica (Idrovolante edizioni, p.270, euro 20) che ha il pregio di riprendere in maniera sistematica l’intero arcipelago di queste interpretazioni operando, su ognuna di esse, analisi e controanalisi sistematiche.

Ecco… se nella Prefazione di Diego Fusaro, nella Introduzione e nel Primo Capitolo… quello sull’eredità di Ernst Nolte, si ricompone lo scenario filosofico, il contesto generale, e si fa accenno ai rapporti del filosofo col nazismo, nei capitoli successivi si entra nella critica più strutturata, tentando di valutare ogni singolo approccio. E dunque ritroviamo, l’Heidegger di Donatella Di Cesare, quello di Peter Trawny, di Von Hermann e Alfieri, e poi quello di Faye, Farias, Fuchs, e ancora proseguendo, di molti altri.

Il lavoro di Simonetti è una mappa, una sorta di cartina che ripercorre gli scenari ermeneutici ma non disdegna, anzi mette al centro, personali punti di vista e di approdo. Può essere dunque letto seguendo entrambi gli approcci o, magari, mantenendo la barra dritta solo su uno di essi. Ciò che tuttavia risalta, è il taglio interpretativo che, come evidenziato nel sottotitolo, connette ogni tipo di rilettura innanzitutto al fronte politico e alla battaglia delle idee.

Per essere chiari: Simonetti non si sofferma più del dovuto sulle controversie linguistiche e di traduzione/interpretazione che, pure, sono fondamentali ed essenziali, ma volge la sua diagnosi occupando il campo della analisi politologica. Anche i rimandi a contesti, personalità e fatti che, ad una prima lettura, poco o nulla sembrerebbero avere a che fare con i Quaderni Neri e il suo contenuto, qui rientrano appieno in una logica di interconnessione grazie alla quale si tenta poi di ricomprendere i singoli posizionamenti di Heidegger. E perciò, riconduce il tutto ad una fisionomia generale in grado di tenere insieme il quadro sistemico, e di cui ne diamo un ampio stralcio, qui di seguito, riportando un brano tratto dalla sua Introduzione.

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Tutti i maggiori contributi sul tema, i quali qui tratteremo singolarmente e in maniera dettagliata, si sono risolti più o meno in un atto di condanna o di assoluzione di Heidegger, senza che però si sia speso un attimo del proprio tempo a ripensare le leggi e la casistica giurisprudenziale a partire dalle quali pronunciarsi. Heidegger ha davvero detto queste cose? Ci credeva? Dava loro peso? Quanto? Se sì, allora è derubricato a mostro e condannato al confino o alla pena capitale, se no allora avanti così, magari con qualche “aggiustamento” necessario alla sua permanenza nei sacri e segnati solchi della correttezza, intesa nella sua attuale accezione. Questo è lo stato dell’arte intorno ai Quaderni Neri, anche quando si pervenga ad esso dopo analisi che d’acchito sembravano puntigliose e assolutamente non “di parte”.

Detto in altri termini: “Se così si è davvero espresso sugli ebrei e sul nazionalsocialismo allora non è un filosofo!” oppure “Siccome è un grande filosofo allora non può essersi espresso così e quindi mi metto alla ricerca di relative pezze d’appoggio”. Questi, semplificando, i due termini della questione. Non v’è alcuno, tra i “filosofi laureati”, che si sia chiesto – dopo aver osannato il maestro per decenni e magari conformato il proprio pensiero al suo perché “fa fico” in un salotto o dalle pagine di una rivista – se magari quel grande pensatore, per giungere a dire ciò che dice partendo da premesse che io stesso condivido, abbia pensato qualcosa che io non riesco ancora a pensare. E che cos’è che non riesco a pensare e perché, a causa di cosa, non riesco a pensarlo? Eppure “ripensare”, uscendo dal “si” impersonale che paralizza l’essere, dovrebbe essere un’abitudine per filosofi sedicenti heideggeriani.

Io non sono un heideggeriano, nel senso che, per quanto sia possibile aderire al pensiero di un singolo uomo come se fosse una muta da sub, mi sento certamente più nicciano. Anche perché, lo ammetto, a mio parere il linguaggio a cui Heidegger è costretto nel tentativo di uscire dalle maglie dell’inautentico è stancante e riesce meno nel suo intento rispetto all’aforisma. Heidegger lo sa e, presentendo l’insufficienza di neologismi e ripensamenti semantici, pur necessario in un linguaggio in prosa, ricorre ad Hölderlin. Anche Nietzsche lo sa ma può ricorrere a se stesso. Un grande vantaggio, senza dubbio.

Pur non essendo heideggeriano, mi piace quando dalle elucubrazioni di Heidegger emerge d’un tratto una illuminazione che dona nuova tonalità ad un tema che mi tocca da vicino, in modo esistenziale direbbero alcuni ma magari non Heidegger. E questo succede molto spesso, frequentandolo. È come quando uno, non esperto di elettricità, ottica e meccanica, si mettesse ad osservare qualcun altro che ripara un televisore, spiegando nel contempo ciò che sta facendo (mi si passi la similitudine tecnica, quindi poco heideggeriana). Si può idealmente stargli dietro ma quando poi ricompare l’immagine sullo schermo è tutta un’altra cosa.

Personalmente, è dalla presenza dell’immagine che sono spinto all’indietro all’indagine sul procedimento. È questa, in sintesi, la maestria di Heidegger: che un signore, da solo, in una baita delle Foresta Nera ci sveli l’origine dell’attuale scadimento che ci attanaglia partendo dai modi in cui si dice “essere”. Ebbene, questo ha qualcosa di magico.

Si sarà capito che sono poco interessato all’aspetto teoretico del pensiero filosofico, ma lo sono molto a ciò che della filosofia giunge poi alla vita politica e sociale dell’individuo calato nel mondo. È cioè il mondo che va reso filosoficamente sensato e non sono le astrusità della filosofia a dover essere vivificate, come se dovessero avere per forza rispondenza nel mondo. Altrimenti hanno ragione Wittgenstein e Carnap e conviene farla finita con questo “giuoco delle perle di vetro”, il quale non mira nemmeno alla costruzione di una qualsiasi casta aristocratica, visto il ruolo marginale oggi riservato ai pensatori.

Questo saggio quindi, per calarsi nella realtà, che non significa nella quotidianità ma in un progetto di essa, prenderà in considerazione il testo dei Quaderni Neri, la letteratura critica disponibile su di essi, il pensiero di Heidegger nella sua interezza per chiarificarne l’inquadramento, ma sarà anche una messa a fuoco del periodo storico nel quale essi si situano e degli accadimenti ai quali si riferiscono.

Ad esempio mi servirò dei Quaderni Neri per mettere alla prova la vulgata storica che ci è pervenuta dal tribunale di Norimberga, dalla propaganda dei vincitori angloamericani, dai modelli e dagli stereotipi culturali da costoro promossi nell’Europa dei due dopoguerra.

Lo farò partendo dal presupposto metodologico, banale ma purtroppo non praticato, che Heidegger non fu schizofrenico. Quale sia il quadro generale della suddetta vulgata sarà chiarito strada facendo, perché è molto composito. Mettere alla prova non significa negare in toto o rifiutare, ma semplicemente ripensare criticamente perché, pur volendo alla fine rifar proprie tali posizioni, esse non saranno più le stesse, ma verranno vivificate dal passaggio nella fornace del dubbio. Se poi alcune periranno nel fuoco, amen.

http://www.idrovolanteedizioni.it/libri/i-quaderni-neri-di-heidegger/

quaderni-neri-simonetti

FONTE:http://blog.ilgiornale.it/iannone/2020/06/13/i-quaderni-neri-una-lettura-di-matteo-simonetti/

 

Caffè americano

Manlio Lo Presti – 15 giugno 2020

Questo libro è fin troppo chiaro già dalla scelta dell’immagine di copertina: un caffè corretto con una spruzzata di disinfettante.

Si tratta di un testo denso e attento agli aspetti legali di quanto è accaduto in tema di epidemie nazionali e planetarie. Con un metodico e calmo ritmo espositivo, l’Autore conduce con mano sicura il lettore e lo pone in grado di recepire con chiarezza i contenuti di grande attualità, spesso di difficile interpretazione. Parliamo del controverso rapporto fra la tutela delle libertà civili collettive e individuali e l’emergenza distruttrice dei diritti provocata dalla diffusione repentina delle epidemie.

L’Autore possiede una elevatissima formazione giuridica e organizzativa che ha utilizzato per analizzare con attenzione le implicazioni geopolitiche di molte decisioni errate, inefficaci o propagandistiche adottate dai politici sempre pronti ad accusare altri piuttosto che esaminare e rettificare le falle del sistema che hanno provocato disastri e, purtroppo, migliaia di morti.

L’agile testo è ripartito in quattro parti. Dopo la prima parte di inquadramento del problema, la seconda descrive le qualità che dovrebbero avere gli esponenti di un “buongoverno”. Si entra nel vivo con il terzo capitolo: milioni di italiani senza colpa sono stati carcerati con misure eccessive e repressive utili esclusivamente a coprire l’incompetenza delle autorità responsabili (pag. 38).

Normative esorbitanti, caotiche e restrittive hanno aumentato il contagio. Non si è lavorato sulla comunità punendo in maniera persecutoria le singole persone (pag. 41) e così via.

I capitoli successivi costituiscono una vera propria requisitoria contro il cinismo politico di Trump al quale l’Autore rimprovera una gestione del caos epidemico modellata per captare il maggiore consenso elettorale possibile.

Viene evidenziato l’allarmante violazione dei diritti umani che non devono mai essere negoziabili per reprimere un virus la cui responsabilità della sua diffusione è stata via via addebitata ai soliti nemici esterni: la Cina, La Russia, l’Iran ecc. Si è avuta una notevole e grave perdita di tempo. Totale è stata l’assenza di un’analisi sistemica delle cause accompagnata da dannose violazioni in massa delle libertà costituzionali in Italia in particolare (pag. 66). Immensi i danni economici e sociali.

Il libro, scritto con un linguaggio contemporaneamente giuridico, economico e sociologico, evidenzia la pochezza politica e la scarsa coesione dell’Unione Europea, l’incompetenza degli alti comandi nordamericani. L’arroganza USA ha fatto il resto per la sua fermissima convinzione di essere investita dal compito di migliorare il mondo con un ordine mondiale da essa progettato, in virtù di un mandato inizialmente divino autoconferito: il “Manifest Destiny”.

Un libro da leggere e rileggere come una guida informata sulle conseguenze di una pessima gestione degli effetti di questa epidemia Covid19.

Di primo ordine la qualità delle note a piè di pagina.

Buona lettura.

Nicola Walter Palmieri, Caffè americano. La libertà fugge dinanzi alla pandemia, Pendragon, 2020, pag, 142, € 15,00

 

NON POSSIAMO NON ESSERE CRISTIANI

La freddezza dell’Occidente sconsacrato non è più in grado di valutare il rilievo fondamentale della sacralità nella vita politica, e la vulgata di uno pseudo-liberalismo imbecille non contribuisce alla sua evoluzione. La decisione di Recep Tayyip Erdoğan di fare di nuovo della basilica di Santa Sofia, a Costantinopoli, una mosche è di una gravità estrema. Ricordiamo la storia. L’Imperatore romano cristiano Giustiniano, il grande codificatore del Corpus Iuris, la fece edificare, sul luogo di una antecedente dedicata al Logos divino incarnato, voluta, per tradizione, da san Costantino. Si affidò all’architetto Isidoro di Mileto ed al fisico e matematico Antemio di Tralle. Lo decise nel 532, e la consacrò, assieme al Patriarca Eutichio, il 27 dicembre del 537. La dedicò alla Divina Sapienza. Fu la cappella imperiale dell’impero ecumenico dei Romani, e la sede del Patriarcato cristiano ortodosso, salvo la parentesi dal 1204 al 1261, all’ poca dell’occupazione franca, quando venne officiata dal clero latino. Fu quindi la sede universale del cristianesimo ortodosso fino a quel tragico martedì 29 di maggio del 1453, in cui ciò che rimase dell’Impero Romano cadde in mano ottomana. Da allora fu riconvertita in moschea dal conquistatore, Maometto II. L’edificio, per la cristianità, ebbe una fondamentale funzione simbolica. Si pensi che l’attuale basilica di san Pietro, in Roma, venne fatta riedificare con una pianta centrata sul cupolone, perché avrebbe dovuto richiamare la basilica della caduta Costantinopoli e così la pretesa papale di dominio sulla cristianità.

La trasformazione di Santa Sofia in moschea, nel 1453, avvenne in un quadro nel quale, per diritto di conquista, il sultano ottomano si fregiò del titolo d’Imperatore dei Romani, che mantenne sino al 1922, quando Mustafa Kemal Atatürk depose l’ultimo sultano, proclamò lo Stato laico e convertì Santa Sofia in museo. Da allora, accurati lavori di restauro hanno riportato alla luce i mosaici, ricoperti di calce in quanto nelle moschee non vi possono essere immagini, e l’Unesco ha dichiarato la basilica patrimonio dell’umanità. Oggi questo patrimonio è a rischio, ma è anche a rischio l’equilibrio internazionale. Al palazzo di Topkapi, oggi anche esso museo, v’è una specie di sancta sanctorum di reliquie islamiche. Erdoğan cominciò il suo cursus honorum come sindaco di Istanbul, ed allora vi collocò in permanenza un imam a leggervi il Corano. All’epoca venne arrestato, ora è lui a mettere dentro gli altri. Non riesco a trovare una rivista del Touring Club dei primi del secolo scorso, e il “Vaticano mussulmano”. È evidente come questi gesti siano simbolici e tendano a conquistare al nuovo sultano le masse islamiste fanatizzare. Del resto, i sultani ottomani vantarono anche il titolo di Califfo dei credenti, e dalla loro deposizione serpeggia tra i maomettani una nostalgia del califfato. La Turchia fa parte dell’Alleanza atlantica ed ha il secondo esercito, in potenza, dell’organizzazione; se ne venisse espulsa si metterebbe a capo del fronte islamico antioccidentale, se resta nella Nato, la stessa, però, non è più utilizzabile per la difesa dal fondamentalismo islamico. E c’è ancora qualche imbecille che mantiene sanzioni alla Russia ortodossa. Benedetto Croce scrisse un articolo, sul più laicista giornale dell’epoca, il mondo, dal titolo Non possiamo non dirci Cristiani. Oggi o la Destra liberale riconverte il titolo in Non possiamo non essere cristiani, o si arrende anch’essa al nemico spirituale della civiltà che l’ha partorita.

FONTE:http://opinione.it/politica/2020/06/15/riccardo-scarpa_occidente-croce-destra-liberale-santa-sofia-erdo%C4%9Fan-corpus-iuris-giustiniano-corano-imam-maomettoii-imperoromano-atatuerk/

Siamo ancora “FIGLI DEL DUECENTO”

L’identità italiana è nella Letteratura (G. Palma – VIDEO)

15 GIUGNO 2020 posted by Giuseppe Palma

La vera identità italiana non è da ricercare nelle ragioni di spada, ma in quelle letterarie. Noi italiani siamo ancora “FIGLI DEL DUECENTO“: parliamo, dopo oltre sette secoli, la lingua di Dante, quel volgare fiorentino affermatosi sugli altri volgari – come sosteneva correttamente Pier Paolo Pasolini – per ragioni di prestigio letterario.

Ma la nostra lingua, prima che in Toscana (col Dolce Stil Novo), nasce in Umbria (col Cantico delle Creature di San Francesco d’Assisi e con i poemetti religiosi di Jacopone da Todi)), poi in Lombardia e in Veneto (con Uguccione da Lodi, Giacomino da Verona e Gherardo Patecchio di Cremona), ma ancor prima passando dalla Sicilia con la Magna Curia di Federico II di Svevia (Scuola Poetica Siciliana).

Una mia breve lezione di letteratura su come (e dove) nascono la lingua e la letteratura italiana, pubblicata sul canale youtube dell’amico e filosofo Diego Fusaro, che ringrazio per avermi ospitato. Buona visione. VIDEO di 10 minuti:

VIDEO QUI: https://youtu.be/yLvUiO9Hbmo

Consigli letterari:

A) di Giuseppe Palma, “DANTE – dalla lingua alla patria. Nel settecentenario della morte (1321-2021) siamo ancora Figli del Duecento”, Gds edizioni.

Qui il link per l’acquisto su Amazon (cartaceo ed e-book):

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B) di Paolo Becchi e Giuseppe Palma, “DEMOCRAZIA IN QUARANTENA. Come un virus ha travolto il Paese“, Historica edizioni.

Qui i link per l’acquisto:

http://www.historicaedizioni.com/libri/democrazia-in-quarantena/

https://www.ibs.it/democrazia-in-quarantena-come-virus-libro-paolo-becchi-giuseppe-palma/e/9788833371535

https://www.mondadoristore.it/Democrazia-quarantena-Come-Giuseppe-Palma-Paolo-Becchi/eai978883337153/

https://www.libreriauniversitaria.it/democrazia-quarantena-virus-ha-travolto/libro/9788833371535

 

FONTE:https://scenarieconomici.it/siamo-ancora-figli-del-duecento-lidentita-italiana-e-nella-letteratura-g-palma-video/

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

Altro che Immuni: il Bluetooth va tenuto spento!

Cassandra Crossing/ L’exploit Bias del protocollo Bluetooth mette a rischio qualsiasi cellulare e non è rimediabile.

[ZEUS News – www.zeusnews.it – 29-05-2020]

Ci sono delle notizie che navigano e vivacchiano sulla superficie dell’Infosfera senza mai finire nel mainstream. Nemmeno in quello di un settore specialistico come la sicurezza informatica. Anche a non essere paranoici verrebbe da chiedersi come questo sia possibile.

La notizia è che il protocollo Bluetooth contiene una falla che permette di impersonare un device durante la fase di pairing di un dispositivo.

In pratica, dopo aver accoppiato il vostro cellulare con un auricolare, con la vostra auto o con il cellulare di un amico, è possibile che un altro device maligno sostituisca la connessione memorizzata e diventi uno dei vostri collegamenti Bluetooth permanenti e affidabili. E da qui si apre un nuovo mondo per l’insicurezza informatica.

Una presentazione tecnica è reperibile qui, e la paper originale qui.

Il Nist lo classifica “solo” come bug di medio livello, e anche questa classificazione è questionabile, almeno secondo Cassandra. Infatti non stiamo parlando di un bug software, evento comunissimo e con cui siamo ormai familiari, rimediabile più o meno facilmente con una patch del software o del sistema operativo.

Non stiamo parlando nemmeno di una molto più grave falla nel silicio, come Meltdown delle Cpu Intel, o Checkm8 della boot Rom dei cellulari iOs, che può talvolta essere mitigato oppure deve essere “corretto” con la dolorosa, ma al limite possibile, sostituzione del device.

Bias è un bug del protocollo Bluetooth, cioè della specifica tecnica che definisce come i device Bluetooth devono comportarsi. Non è rimediabile in assoluto. Parafrasando Lawrence Lessig“è una legge sbagliata del cyberspazio”.

È sbagliata la legge, non c’è rimedio, non c’è mitigazione, non c’è patch, se non fare una nuova legge… per il lontano futuro. Un nuovo protocollo richiede infatti anni per essere discusso, approvato e poi utilizzato in device reali.

Tuttavia, come in tante cose non indispensabili della vita tipo Facebook, il rimedio in realtà esiste; farne a meno, o usarlo il meno possibile. Quindi spegnere il protocollo Bluetooth interamente, accenderlo sono quando serve, cancellare tutte le nuove connessioni appena non sono più necessarie. E questo è il consiglio, banale, di Cassandra.

Certo questo renderà impossibile usare il contact tracing digitale, che si basa appunto su Bluetooth, e richiede che questo sia sempre acceso. Ma il non poter usare Immuni e i suoi succubi sarà, secondo l’opinione di Cassandra, un guadagno, non una perdita.

La cosa positiva che può scaturire da questa storia è che sia lo spunto per una riflessione e un ragionamento, su quanto siamo dipendenti da tecnologie che non comprendiamo, e che anche gli esperti che le hanno realizzate non capiscono evidentemente fino in fondo.

Forse tutti noi dovremmo usarle (e anche non usarle) con molto più senso critico. Il che non significa non accettare una tecnologia e i suoi rischi, purché siano noti e calcolati. Proprio come hanno fatto i due astronauti che sabato 30 si siederanno nella Crew Dragon, e ai quali, per questo, vanno i personali ringraziamenti di Cassandra e dei suoi 24 lettori.

FONTE:https://www.zeusnews.it/n.php?c=28090

 
 
 
 

Le email hackerate di Wuhan e Bill Gates:”covid-19 fatto in laboratorio e rilasciato intenzionalmente”

Un massiccio hackeraggio informatico sarebbe stato effettuato da parte del gruppo anonimo di attivisti informatici, USA hackers, ai danni dell’istituto di virologia di Wuhan, della fondazione di Bill Gates, la Bill and Melinda Gates Foundation, e dell’OMS, l’organizzazione mondiale della sanità.

Quest’ultima attraverso il suo direttore, Bernardo Mariano, ha negato che l’intrusione nei server dell’OMS sia avvenuta recentemente, ma avrebbe imputato il rilascio delle email dei dipendenti dell’agenzia ONU a precedenti tentativi di hackeraggio.

La fondazione di Bill Gates, da parte sua, dichiara di non aver rilevato finora nessuna particolare violazione dei protocolli di sicurezza informatica della società.

Ad ogni modo, una massiccia quantità di email con relativo contenuto è stata rilasciata sul sito di condivisione 4chan e gli hacker hanno pubblicato un articolo sul loro sito nel quale annunciavano le primissime conclusioni del loro esame del materiale a disposizione.

Secondo gli attivisti di USA hackers, la pandemia non sarebbe stata affatto un evento naturale, ma una manovra orchestrata a tavolino per arrivare all’obbiettivo finale di impiantare microchip sottocutanei all’intera popolazione mondiale.

Il progetto in questione di cui si già parlato in diverse occasioni è il famigerato ID2020, l’alleanza nel quale il magnate di Microsoft e la famiglia Rockefeller hanno investito considerevoli somme di denaro.

Per raggiungere questo proposito, sarebbe stata indispensabile la collaborazione dell’OMS e di altre importanti organismi, come il CDC, il centro per il controllo delle malattie degli USA, e la banca mondiale.

Le email hackerate: il virus rilasciato intenzionalmente dalla virologa cinese Zhengli Shi

La prima email che gli hacker hanno condiviso sul loro account twitter è quella nella quale si riporta il rilascio intenzionale del coronavirus.

Secondo quanto affermato nell’email, ad aver rilasciato il coronavirus sarebbe stata la dottoressa Zhengli Shi.

La virologa cinese è stata presentata dai media italiani e internazionali come la “donna pipistrello” per le sue ricerche indirizzate appunto nell’identificare i virus mortali portati da questo animale.

L’email è datata 16 febbraio 2020.

Questo è quanto riportato nell’email.

“Il 19 ottobre 2019 la dottoressa Zhengli Shi ha preso un autobus dall’istituto di tecnologia di Wuhan verso il luogo dove si trova il laboratorio di virologia P4 di Wuhan, una distanza approssimativa di circa 25 km.

La dottoressa si è fermata una volta nel corso del suo tragitto, ha aperto la sua valigia e ha collocato un blocco di ghiaccio secco contaminato vicino ad un condotto di ventilazione nel mercato del pesce in questione.

Questo mercato è stato scelto perchè è nello stesso edificio nel quale si trova rete ferroviaria più veloce al mondo, e perchè non era fuori dal percorso quotidiano che la dottoressa faceva.

Il fatto è stato registrato da telecamere a circuito chiuso.”

Se i fatti si fossero effettivamente svolti in questo modo, non ci sarebbe stata alcuna mutazione del coronavirus dal pipistrello all’uomo, ma ci si troverebbe di fronte ad un vero e proprio attacco biologico eseguito dalla nota virologa cinese.

Proprio su questo, il presidente degli Stati Uniti ha lanciato delle dure accuse alla Cina, avanzando l’ipotesi che quanto accaduto a Wuhan non sia stato affatto un evento naturale.

Ad ogni modo, non appena l’account di USA Hackers ha pubblicato questa email, Twitter ha immediatamente sospeso il profilo degli attivisti informatici accusati di aver violato i termini di utilizzo del social americano.

Ma il messaggio è stato catturato da altri utenti e ha iniziato a girare ugualmente su Twitter.

L’email sulla creazione artificiale del coronavirus con parti dell’HIV

Un’altra email che sta circolando e che sarebbe stata anch’essa parte dell’hackeraggio informatico in questione è quella che sembra provenire dall’account del dottor Dian Bing Whang dell’istituto di virologia di Wuhan.

In alto a destra, si vede infatti riportato l’account di posta elettronica del virologo cinese, wangdb@wh.iov.cn.

https://www.zerohedge.com/s3/files/inline-images/1587440148951.png?itok=3ecU5dsW

L’email di Dian Bing Whang

Nel messaggio, si parla di “splicing” del coronavirus con parti dell’HIV.

Lo spicling in biologia molecolare è una sorta di processo di modifica della sequenza genetica del virus.

In questo caso particolare, il Covid-19 sarebbe stato modificato con parti del virus dell’HIV.

Sono le stesse conclusioni alla quali erano giunti dei ricercatori indiani che avevano pubblicato uno studio secondo il quale il Covid-19 era il risultato di una modifica fatta in laboratorio.

I ricercatori indiani dopo fortissime pressioni sono stati costretti a ritirare la loro ricerca, ma recentemente il premio nobel per la medicina nel 2008, il professor Luc Montagnier, ha avvalorato la validità di questa ricerca.

VIDEO QUI: https://youtu.be/2UrCZxs0glE

L’intervista del professor Luc Montagnier

Lo scienziato francese ha a questo proposito parlato di un “lavoro da orologiai” fatto da professionisti che operano in laboratori altamente specializzati.

Se queste conclusioni fossero confermate, l’ipotesi di un attacco biologico su scala globale inizierebbe a prendere sempre più consistenza.

Qualsiasi cosa sia accaduta a Wuhan, si sta rivelando semplicemente ideale per raggiungere gli scopi di chi vorrebbe difatti sottoporre la popolazione mondiale ad una sorveglianza di massa.

Coronavirus: cui prodest?

Bill Gates, l’uomo che sta finanziando lo sviluppo di un vaccino contro un virus che muta in continuazione e quindi di fatto inutile, sembra essere uno dei maggiori beneficiari di questa enorme crisi.

Lo stesso magnate americano aveva previsto casualmente lo scoppio di una pandemia di coronavirus in una simulazione da lui finanziata lo scorso ottobre 2019, chiamata Evento 201, della quale si è parlato in un precedente contributo.

Si noti la cronologia. La simulazione è uscita nello stesso mese in cui la dottoressa Zhengli Shi avrebbe rilasciato il virus nel mercato del pesce di Wuhan, il luogo ideale per aggregazione e spostamenti per favorire la diffusione del Covid.

Tutto questo dovrebbe essere oggetto di una seria indagine internazionale, e a questo proposito Robert F. Kennedy jr, figlio di Robert Kennedy, ha invocato proprio un’inchiesta su Bill Gates.

Se lo scopo finale di questa pandemia è quello di sottoporre forzatamente la popolazione a una sorta di microchippaggio di massa, forse sarebbe ora di guardare a chi effettivamente ha finanziato questa tecnologia.

E i primi sospetti dovrebbero ricadere proprio sul magnate americano e la potentissima famiglia americana Rockefeller.

A questo proposito si noti un’altra incredibile coincidenza.

Bill Gates non è stato l’unico a prevedere una pandemia nel mondo.

I Rockefeller infatti in un altro rapporto pubblicato nel 2010 intitolato “Scenari per il futuro della tecnologia e dello sviluppo internazionale” avevano praticamente previsto la pandemia e tutto ciò che sta accadendo ora.

Nella loro relazione lo sbocco finale di questa crisi porta alla nascita di uno Stato di polizia globale che per controllare i cittadini farà ricorso alla “soluzione” che si legge in questo passaggio.

“Nei Paesi più avanzati, questa elevata sorveglianza ha assunto molte forme: identità biometriche, ad esempio, per tutti i cittadini e regolazione più stringenti per le industrie più importanti.”

Per identità biometrica si intende anche l’utilizzo di microchip sottocutanei per registrare tutte le informazioni di un individuo che vengono poi custodite in un enorme archivio digitale informatico.

In altre parole, le due persone, Bill Gates e Rockefeller, che avevano anticipato il corso degli eventi e la loro conclusione, sono le stesse due persone che più stanno beneficiando dalla pandemia che porta al raggiungimento dei loro obbiettivi, ovvero il microchip come mezzo per il controllo completo della popolazione mondiale.

Probabilmente, le coincidenze iniziano ad essere troppe persino per i ricercatori più scettici.

La crisi da coronavirus si sta rilevando l’evento catalizzatore ideale per costruire una società modellata per riflettere gli interessi delle élite globaliste.

Forze potentissime sono in gioco in questa vicenda, ma sui media mainstream queste informazioni non arrivano.

E’ molto più comodo dare la colpa al pipistrello che, tra l’altro, non può nemmeno difendersi.

FONTE:https://lacrunadellago.net/2020/04/23/le-email-hackerate-di-wuhan-e-bill-gatescovid-19-fatto-in-laboratorio-e-rilasciato-intenzionalmente/

 

 

 

ECONOMIA

La truffa del MES “senza condizionalità”

di Thomas Fazi

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Mentre in Italia continua la drammatica conta quotidiana dei morti, l’Unione europea e i nostri “partner” continentali sembrano avere una sola preoccupazione: come approfittare della tragica situazione in cui versa il nostro paese per stringerci ulteriormente il cappio del debito attorno al collo. Pare infatti che Francia e Germania abbiano trovato un accordo in vista dell’Eurogruppo di martedì prossimo (7 aprile), basato sull’attivazione del Meccanismo europeo di stabilità (MES) a “condizionalità limitate”, sul potenziamento delle linee di credito della Banca europea per gli investimenti (BEI) e sul nuovo fondo “anti-disoccupazione” SURE. 

Come volevasi dimostrare, insomma, alla prima occasione la Francia si è sfilata dal cosiddetto fronte “anti-rigore”, che in realtà vedeva opposti due nemici delle classi popolari: da un lato le classi dirigenti della Germania e dei paesi del nord che maggiormente beneficiano dall’attuale architettura europea – e che ritengono di avere sufficienti “cartucce” a disposizione per rispondere autonomamente alla crisi provocata dal COVID-19 – e dunque premono per mantenere sostanzialmente inalterata tale architettura; dall’altro le classi dirigenti dei paesi del sud (e fino a poco fa della Francia stessa), Italia in testa, che invece ravvedono nel collasso socioeconomico provocato dal COVID-19 una minaccia per la loro stessa sopravvivenza e dunque spingono per l’introduzione di nuovi strumenti – eurobond” et similia – che garantirebbero un po’ di ossigeno alle loro economie (e a loro stessi) ma nei fatti rafforzerebbero il carattere oligarchico della UE, accentrando ulteriore potere nelle mani di istituzioni anti-democratiche quali la Commissione europea, senza apportare alcun beneficio concreto per le classi lavoratrici e popolari dei paesi del sud. 

In poche parole, siamo di fronte a uno scontro tutto interno alle élite europee, che con ogni probabilità, comunque, si risolverà ancora una volta a favore della diarchia franco-tedesca, nella misura in cui le borghesie “vendidore” dei paesi del sud, per quanto vacillanti nel loro fervore europeista, non paiono ancora pronte a contemplare una fuoriuscita dalla moneta unica. E dunque finiranno per capitolare. 

Ma veniamo al merito della proposta franco-tedesca e a quello che significa per l’Italia. Al primo punto, come detto, troviamo la sottoscrizione di un prestito del MES a “condizionalità limitate”, una soluzione che, a quanto pare, incontrerebbe il favore di Gualtieri e dei tecnici del Ministero dell’economia e delle finanze (MEF). La soluzione che verrà discussa martedì, infatti, è stata redatta dall’Eurogroup Working Group (EGW), composto dai dirigenti dei ministeri delle Finanze di tutti i paesi UE, ed ha dunque ricevuto il via libera anche del MEF, nella figura di Alessandro Rivera, direttore generale del Tesoro e noto fedayìn europeista. 

Di tutte le opzioni sul tavolo, questa sarebbe di gran lunga la peggiore. Non solo ci indebiteremmo nei confronti di un’istituzione che agisce a tutti gli effetti come una banca privata – e che difatti è collocata al di fuori dell’assetto istituzionale dell’Unione –, a cui saremmo costretti a rimborsare ogni singolo centesimo, assurdità tutta europea, giacché è assodato che in tutti paesi “normali” (ovverosia che dispongono di una loro valuta) le spese per far fronte all’emergenza saranno monetizzate, de facto o de jure, dalle loro rispettive banche centrali – cioè non prevedranno alcun rimborso futuro –, come ammesso persino da Federico Fubini sulle pagine del Corriere della Sera

Ma, cosa ancor più grave, è assolutamente menzognera l’idea che l’Italia possa sottrarsi indefinitamente alle condizionalità del MES. Difatti, anche se nel breve gli Stati membri trovassero un accordo per aggirare la «rigorosa condizionalità» prevista dall’articolo 136(3) del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), su cui si basa il MES, magari accordandosi su una forma “leggera” di condizionalità, le condizioni a cui è soggetta l’assistenza finanziaria nell’ambito del MES possono essere modificate unilateralmente dalle istituzioni europee, come prevede l’art. 7(5) del regolamento 472/2013. Quest’ultimo, infatti, recita che: «La Commissione, d’intesa con la BCE e, se del caso, con l’FMI, esamina insieme allo Stato membro interessato le eventuali modifiche e gli aggiornamenti da apportare al programma di aggiustamento macroeconomico […] Il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata su proposta della Commissione, decide in merito alle modifiche da apportare a tale programma». 

Sarebbe a dire che i creditori, in qualunque momento, potranno cambiare le condizionalità dei prestiti concessi, avendo dalla parte loro la forza di un trattato europeo. Come scrivono Floriana Cerniglia e Francesco Saraceno sul Sole 24 Ore: «Si può prevedere che, non appena la tempesta sarà passata, il MES (il cui Consiglio dei governatori è composto dai ministri dell’Economia dei paesi membri) pretenderà dai debitori condizioni ben diverse, e si tornerà a parlare di piani di rientro, avanzi primari e così via». Su questo il vicepresidente esecutivo della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, è stato molto chiaro: passata l’emergenza i paesi dovranno rientrare del debito e del deficit accumulati per gestire la crisi, assieme agli squilibri pregressi. 

Inoltre, come notano i giuristi Marco Dani e Agustín José Menéndez, «il fatto che l’assistenza finanziaria sia erogata “a rate” garantisce che per tutta la durata del prestito i creditori abbiano non solo il potere giuridico, ma anche quello economico di variare le condizioni con cadenza semestrale». In altre parole, non si tratta solo di persuadere Angela Merkel e Mark Rutte, «ma di continuare a convincere per anni ciascuno dei loro successori della bontà del prestito MES a condizionalità leggera. Qualcosa che, chiaramente, è poco realistico». 

C’è poi un altro punto, sottolineato sempre da Dani e Menéndez: il MES prevede che i debiti contratti con esso siano sottoposti al diritto di Lussemburgo. L’obiettivo di questa pratica è evitare che il debitore modifichi le condizioni o la consistenza delle proprie obbligazioni nell’esercizio della propria sovranità monetaria. «La conseguenza di questa pratica – scrivono i due giuristi – è che ogni stato che ricorre al MES vede diminuita la possibilità di un recupero della propria sovranità monetaria anche se decide di lasciare l’eurozona, dato che in tal caso affronterebbe una montagna di debito in valuta estera senza la possibilità di ridenominarla in futuro». 

Infine, c’è la questione della limitatezza delle risorse del MES: 440 miliardi di euro per tutta l’eurozona, una cifra che è assolutamente incapace di assicurare il rifinanziamento del debito pubblico italiano, per non parlare di quello complessivo dell’eurozona. Il risultato è che in un secondo momento, per garantire la solvibilità dell’Italia e metterla al riparo dalla speculazione, si paventerebbe senz’altro la necessità di un intervento diretto della BCE sui mercati dei titoli sovrani italiani. Tuttavia, in base alle regole attuali, un intervento mirato e illimitato della BCE a favore di singoli paesi attraverso il programma OMT (Outright Monetary Transactions) è sottoposto anch’esso a rigorose condizionalità e dunque rappresenterebbe un’ulteriore arma nelle mani dei creditori per imporre una stretta ai paesi debitori, o comunque aprirebbe un nuovo fronte politico, esponendo nel frattempo l’Italia alla furia degli speculatori. In tal senso, il recente invito della banca tedesca Commerzbank a vendere i BTP italiani, lungi dal rappresentare un “complotto” ai danni del nostro paese, appare del tutto giustificato. Preoccupa piuttosto che i nostri politici non vedano – o facciano finta di vedere – i rischi fotografati dalla banca tedesca. 

Veniamo ora alle due altre due architravi del piano franco-tedesco: il potenziamento delle linee di credito della Banca europea per gli investimenti (BEI) e il nuovo fondo “anti-disoccupazione” SURE. Sul primo c’è poco da dire: non si tratta di fondi che andranno agli Stati ma di prestiti che la BEI metterà a disposizione delle imprese europee. La vera beffa, però, è rappresentata dal “grande piano di aiuti” (stampa italiana dixit) messo in campo dalla Commissione europea, il SURE, un fondo di circa 100 miliardi di euro finalizzato in teoria ad aiutare i paesi europei a sostenere i costi della cassa integrazione. A prima vista sembrerebbe una misura positiva. Ma il diavolo, come sempre, è nei dettagli. Innanzitutto le risorse eventualmente trasferite allo Stato richiedente sono un prestito e dunque andranno ad aggiungersi al debito pubblico (esattamente come i prestiti del MES). Ma c’è di più. Come sottolinea Stefano Fassina

Ciascuno Stato dell’UE deve dare garanzie irrevocabili, liquide e immediatamente esigibili alla Commissione affinché la Commissione possa emettere sul mercato i titoli necessari a raccogliere le risorse da prestare agli Stati in difficoltà. Nella narrazione, è poi saltato che la partecipazione al programma è su basi volontarie e che il programma parte soltanto quando tutti gli Stati membri mettono a disposizione della Commissione le garanzie necessarie. Inoltre, l’astuta terminologia «fino a 100 miliardi» copre la possibilità di arrivare a un ammontare di risorse disponibili decisamente inferiore, poiché dipendente dalle garanzie volontariamente messe a disposizione da ciascuno degli Stati UE e dai limiti annui di impegno contenuti nelle norme istitutive: per avere a disposizione 100 miliardi da distribuire, sono necessarie garanzie per 25 miliardi; il massimo utilizzo complessivo annuo, per tutti gli Stati richiedenti, può essere soltanto il 10 per cento delle risorse mobilizzabili dal Fondo. 

Dunque, nel breve termine – cioè nella fase più acuta della crisi economica e sanitaria – l’Italia potrà realisticamente avere a disposizione al massimo qualche centinaio di milioni in prestito, ma solo dopo aver impegnato due o tre miliardi in garanzie «irrevocabili, liquide e immediatamente esigibili». In sintesi, tutte le misure proposte dall’Europa si inquadrano saldamente nella logica disciplinatoria del debito su cui si fonda l’Unione europea. Possono essere definiti “aiuti” nella stessa misura in cui può definirsi “aiuto” il prestito di uno strozzino ad una famiglia in difficoltà. 

Veniamo infine all’opzione auspicata di recente da Mario Draghi sulle colonne del Financial Times e caldeggiata dal Movimento 5 Stelle: quella di reperire i soldi sui mercati, aumentando significativamente il deficit, approfittando del “potenziamento” del programma di quantitative easing (QE) annunciato dalla BCE. Nel breve periodo questo rappresenterebbe indubbiamente il male minore nella cornice dell’euro. Tuttavia a un certo punto si riproporrà lo scenario evocato poc’anzi: dato il suo crescente rapporto debito/PIL, che potrebbe portare anche a un declassamento da parte delle agenzie di rating, arriverà il momento in cui l’Italia non sarà più in grado di rifinanziarsi sui mercati e dunque necessiterà di un intervento continuativo e illimitato della BCE sul proprio mercato dei titoli sovrani, il che sarà pressoché impossibile ottenere senza la sottoscrizione di un programma del MES, come detto sopra. 

È una misura, insomma, che non risolverebbe nessuno dei problemi strutturali della moneta unica ma che permetterebbe al sistema di guadagnare un po’ di tempo, scaricando l’onere dell’aggiustamento – o dell’assunzione di scelte più drastiche – su chi verrà dopo. Che poi è quello che hanno sempre fatto le nostre classi dirigenti pur di non assumersi le loro responsabilità di fronte alla storia. La realtà dei fatti è che non esiste soluzione alla crisi pluridecennale dell’Italia nella cornice dell’architettura europea e prima o poi saremo costretti a fare i conti con questa verità. Purtroppo più tempo passa e più deboli arriveremo a quell’appuntamento inevitabile con la storia. 

FONTE:https://sinistrainrete.info/europa/17396-thomas-fazi-la-truffa-del-mes-senza-condizionalita.html

 

 

Il piano per la ripresa stilato da Vittorio Colao

Lisa Stanton – 4 06 2020

Il piano per la ripresa stilato da Vittorio Colao, a capo della commissione per la ricostruzione, prevede una svendita colossale dell’industria pubblica con cui finanziare l’industria privata.

Leonardo, Fincantieri, Ferrovie dello stato ed altre aziende minori verrebbero dismesse insieme alla vendita delle riserve auree italiane (tra le maggiori al mondo dopo quelle di USA, Germania e FMI) per fare cassa.

Lo si era immaginato quando la FCA ha chiesto ed ottenuto in pochi giorni 6,3 mld di prestito garantito dallo Stato dopo aver distribuito 5,5 mld di dividendi agli azionisti.

Allo stesso modo, era chiaro che Atlantia avrebbe rinunciato ad Autostrade solo dopo aver avuto il suo bel indennizzo miliardario e che il Governo non ha mai avuto alcuna intenzione di nazionalizzare 3000km di autostrade.

Ma tutti i politicanti hanno compreso che, al di là degli annunci pubblicitari, non arriverà un euro nelle tasche degli italiani né dal Recovery Fund né dal famigerato MES su cui ancora tutte le sigle Confederali insistono.

Reigling , un tedesco a capo della Unità volante MES, dopo il rifiuto della Grecia ha promesso di ridurre gli interessi dall’1% allo 0,08% ed ha pregato Prodi, Letta e Gualtieri di insistere sull’affare.

La Task Force che vuole impegnare aziende strategiche di stato – o quel che ne rimane – e riserve auree ha previsto l’istituzione di un fondo per lo Sviluppo con una dotazione compresa tra i 100 e i 200 mld: “Sull’altare del MES si aggiunge anche questa, la peggiore risposta alla crisi mai pensata finora”. Lo Stato, le regioni, le province e i comuni, secondo quanto prevede il piano Colao, conferiranno al Fondo immobili, partecipazioni in società e titoli. Un progetto molto chiaro che secondo Malvezzi punta ad un unico obiettivo: “Mettere fine allo Stato”. Su Byoblu24 l’economista s’è sbizzarrito.

La BCE tra marzo e maggio ha comprato 37,4 mld del nostro debito, rendendo l’Italia il primo beneficiario del programma PEPP. Lunedì, a fronte di una domanda di 108 mld, il MEF ne ha piazzati 14. Perchè in piena emergenza ed a fronte di una domanda di BTP straripante Gualtieri va avanti col bilancino emettendo TdS  in quantità inferiore agli anni passati? Per forzare l’opinione pubblica ad accettare il MES, come è stato chiesto a Prodi, Letta e Gentiloni.

Intanto è allarme Copasir sulle mire francesi verso Generali: preoccupa l’ascesa della francese Delfin nell’azionariato di Mediobanca, che è azionista di primo piano di Generali. Resistere all’offensiva italo-francese è difficile se scopri che la Golden Power è legalmente attaccabile perché fu scritta male… Andate a scoprire da chi.

Nell’immediato non ha mire in Italia la Germania, che ha già dato aiuti di stato alle imprese per 1000 mld. Ieri ha legiferato per ulteriori 130 miliardi di tagli a tasse e spese, con l’Iva giù di 3 punti, dal 19  al 16%.

Sapete che significa? Che il 60% del mercato estero dell’industria italiana (quello europeo) è probabilmente perduto.

FONTE: https://www.facebook.com/100000248554468/posts/3258906247460962/

 

 

 

Shock economy all’italiana

26 LUGLIO 2010                   RILETTURA, COME AVVERTIMENTO
E’ in libreria “Cricca Economy. Potere e corruzione nella crisi italiana” di Manuele Bonaccorsi, Angelo Venti e Daniele Nalbone (Edizioni Alegre).
Oltre al racconto dei fatti relativi a Bertolaso, Anemone, Balducci, piscine e massaggi, si avanza una tesi ripresa dalla teoria di Naomi Klein: il terremoto dell’Aquila è un tassello del capitalismo dei disastri e in questo senso era atteso. Per questo, quella notte, gli imprenditori interessati alla ricostruzione ridevano.
Per gentile concessione dell’editore ne pubblichiamo un capitolo.

Shock economy all’italiana

In tanti hanno riso, la notte del 6 aprile 2009. Non solo i due imprenditori Piscicelli e Gagliardi di cui tutti hanno letto l’intercettazione: «Mica c’è un terremoto al giorno…». Hanno fatto festa in molti. E non è la prima volta.
«La maggior parte delle scuole di New Orleans è in rovina, come lo sono le case dei bambini che le frequentavano. Questa è una tragedia, ma è anche un’opportunità», scrive sul Wall Street Journal l’economista Milton Friedman il 9 settembre 2005, pochi giorni dopo l’arrivo sulla città americana – il 29 agosto – dell’uragano Katrina, che uccide 1.800 persone. Steve Quinn, un analista finanziario della Hulliburton, l’azienda che gestisce importanti appalti nell’occupazione americana dell’Iraq, il 22 novembre 2006 afferma: «L’Iraq è stato meglio del previsto», riferendosi all’andamento della sua impresa nel mese di ottobre. Proprio in quei trenta giorni il body count dell’intervento militare fa registrare il picco di 3.709 civili uccisi. «Siamo una nazione benedetta da tante risorse naturali e non le abbiamo sfruttate pienamente. La natura deve aver pensato “quando è troppo è troppo” e così ci ha presi a sberle da ogni direzione, per insegnarci a essere uniti», dichiara il presidente dello Sri Lanka Chandrika Kumaratunga il 19 gennaio 2005, parlando dello tsunami che il 26 dicembre 2004 ha ucciso circa 226mila persone. E dell’opportunità di investire sul turismo dell’isola, dato che l’onda anomala ha “ripulito” dai pescatori le spiagge. «In mezzo alle sofferenze, la crisi di Haiti offre delle opportunità agli Usa. Oltre a fornire aiuti umanitari immediati, la risposta degli Stati uniti al tragico terremoto offre l’opportunità di ristrutturare il governo e l’economia di Haiti, che funzionano male ormai da tempo, oltre che di migliorare l’immagine degli Stati uniti nella regione», scrive l’Heritage Foundation, think-tank neocon americano il giorno dopo il terremoto del 12 gennaio 2010 (452 morti).

Gioire di una tragedia è quanto di più abominevole si possa immaginare. Ma secondo Naomi Klein, autrice di Shock economy (The shock doctrine: the rise of disaster capitalism, 2007), è una delle principali tecniche di funzionamento del capitalismo contemporaneo. Da quando gli esponenti della scuola di Chicago capitanati da Milton Friedman, sono riusciti a imporre le loro tesi – libero mercato, privatizzazioni e monetarismo – in tutto mondo: nel Sudamerica delle dittature negli anni Settanta e Ottanta, negli Usa e nella Gran Bretagna della controrivoluzione reaganiana e thatcheriana, nei Paesi in via di sviluppo bisognosi di prestiti del fondo monetario internazionale, nell’est europeo messo sul lastrico dal passaggio immediato dal socialismo reale al mercato senza regole. E ancora, nell’Iraq dove, in seguito alla guerra basata sulla strategia dello Shock and Awe (paura e sgomento) il governatore Bremer ha sperimentato una privatizzazione integrale delle risorse del paese occupato. Infine nei paesi colpiti dalle catastrofi naturali. E, oggi, anche nel terremoto ad Haiti, in Cile, a l’Aquila. E in Grecia, in Spagna, Francia, Italia e Germania dove Ue e Fmi impongono draconiani tagli alla spesa sociale. Perché una crisi economica e un terremoto del sesto grado della scala Richter sono molto più simili di quanto possa sembrare.

«Definisco capitalismo dei disastri, dei raid orchestrati contro la sfera pubblica in seguito a eventi catastrofici, legati a una visione dei disastri come splendide opportunità di mercato», scrive Naomi Klein nel suo Shock economy. Ma il primo ad aver esposto questa tesi non è l’autrice di No logo, bensì proprio Milton Friedman, leader riconosciuto della scuola di Chicago, premio Nobel per l’economia, consigliere economico di Augusto Pinochet, ispiratore delle controriforme di Reagan e Thatcher. In Capitalismo e libertà, il suo più importante libro, edito nel 1962, Friedman scrive: «Soltanto una crisi, reale o percepita, produce un vero cambiamento. Quando quella crisi si verifica le azioni intraprese dipendono dalle idee che circolano. Questa, io credo è la nostra funzione principale: sviluppare alternative alle politiche esistenti, mantenerle in vita e disponibili finché il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile». Solo uno shock, dice il pensatore del neoliberismo, può rendere inevitabile l’impossibile. […]

«Il nostro intento è quello di creare delle new town vicino ai capoluoghi di provincia per aiutare chi non ha una casa e le giovani coppie che attualmente non possono permettersi di acquistare un appartamento». Silvio Berlusconi, il 23 gennaio 2009, tira fuori dal cilindro l’ultimo coniglio. Centouno nuove città, decine e decine di nuove Milano 2, costruite con «modernissimi criteri», da vendere a giovani coppie vittime dell’emergenza abitativa «con rate di mutui inferiori ai canoni di locazione attuali». Ma la conferenza delle regioni boccia la proposta: «Il progetto del premier di realizzare una nuova new town in ogni singolo capoluogo di provincia non ci convince», commenta Vasco Errani, presidente dell’associazione dei governatori. In quelle settimane Berlusconi è impegnato a sostenere la sua battaglia per il Piano Casa, un decreto che liberalizza l’ampliamento degli edifici esistenti. Ma l’opposizione delle regioni, che hanno la titolarità di decidere in materia urbanistica, rallenta il percorso. Poi, il terremoto del 6 aprile, cambia le carte in tavola. Alle 21:40 dello stesso giorno, mentre vigili del fuoco e volontari stanno ancora scavando tra le macerie, il premier annuncia che quella di L’Aquila sarà la prima new town ad essere costruita. I terremotati, promette il governo, non dovranno aspettare anni nelle “baracche”, per loro in pochi mesi sarà pronta una casa nuova di zecca. Il 22 aprile l’esecutivo vara il decreto Abruzzo. Lo stesso giorno, in una conferenza stampa, la Protezione civile presenta le slide del piano C.a.s.e., i Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili. Ottocento milioni di euro di lavori pubblici assegnati con gare a invito e una deroga al limite del 30% di opere subappaltabili. L’Aquila diventa il più grande cantiere d’Italia: 4.500 abitazioni da costruire in pochi mesi. Solo il 15% delle opere viene realizzato da imprese abruzzesi. Quasi nessun operaio proviene dalla regione. Alcune migliaia di lavoratori immigrati, rumeni, albanesi, maghrebini, si recano nella città del sisma. Nessun aquilano li vedrà mai: vivono lontano dalle tendopoli e dalla città, in capannoni industriali riempiti di container. In tre turni di lavoro, dall’alba alle due di notte, costruiscono il monumento della shock economy all’italiana. Alla fine le new town non basteranno, a un anno dal sisma saranno ancora 45mila gli aquilani senza casa. E il piano C.a.s.e. sottrarrà preziose risorse per la ricostruzione vera e propria, quella degli edifici distrutti dal sisma. Neppure un euro viene speso per il rilancio economico della città. Ma il grande affare si è messo in moto. Ed è anche un grande affare mediatico. Il premier non perde una inaugurazione. Seguito dalle immancabili telecamere dei telegiornali nazionali.

Il piano C.a.s.e. viene approvato dal governo senza neppure consultare il Comune di L’Aquila né i cittadini del capoluogo abruzzese, metà dei quali allora viveva nelle tendopoli gestite dalla Protezione civile. L’urbanizzazione di 183 ettari di campagna, per costruire palazzine a tre piani, in zone senza mezzi di trasporto né servizi di alcun genere, viene imposta a una comunità che mai l’avrebbe accettata. In condizioni normali. Ma subito dopo la scossa del 6 aprile la popolazione aquilana vive il suo secondo shock, che segue quello del sisma. Nei campi gestiti con piglio militare dalla Protezione civile, tutti recintati per difendersi dagli «sciacalli», nei quali è impedito l’ingresso agli esterni, gli sfollati, chiamati “ospiti”, vengono “ospedalizzati”. Viene loro impedita qualsiasi partecipazione alle decisioni sulla gestione dell’emergenza. Così come al comune di L’Aquila, cui viene sottratta ogni competenza amministrativa sulla città. La Protezione civile crea nella Di.coma.c, alla caserma di Coppito, la sua zone verde. E recinta in un’immensa zona rossa il centro storico della città. Posti di blocco e camionette dell’esercito sfrecciano nelle strade, e il sorriso dei soccorritori si tramuta nel ghigno degli occupanti. «La popolazione è comunque sempre coinvolta nelle situazioni di crisi […]. Se la sua controparte istituzionale sarà sufficientemente autorevole e determinata, la maggior parte dei cittadini sarà disponibile ad abdicare alle proprie autonomie decisionali, a sottoporsi a privazioni e limitazioni, ad “ubbidire” alle direttive impartite. […] Un chiaro piano di comunicazione […] permetterà una più agevole accettazione delle misure adottate. Non solo: qualora il precipitare degli eventi lo rendesse necessario, sarà più facile imporre una disciplina più ferrea e chiedere sacrifici più duri», recita il metodo Augustus, vademecum di azione della Protezione civile. In questa maniera l’impossibile di cui parlava Friedman diviene inevitabile. […]

FONTE:http://temi.repubblica.it/micromega-online/shock-economy-allitaliana/

 

 

 

Affari e società. Da Bill Gates a Zuckerberg la reputazione è tutto

Donato Di Donna – 19 maggio 2020

Nella prospettiva evoluzionistica i mutamenti intervengono sulla base dei meccanismi di selezione e adattamento. L’evoluzione della nostra specie, da quando ha imparato a dominare un elemento naturale come il fuoco, ha consentito all’uomo primitivo di passare da preda a cacciatore, ponendosi al vertice della catena alimentare. E l’aggregazione sviluppatasi attorno al focolare ci ha consentito uno sviluppo culturale e sociale sconosciuto alle altre specie.

È un processo continuo, di cui possiamo avere esperienza anche a livello domestico: pensiamo alla dimestichezza e all’intuitività che i bambini dimostrano sin da piccoli nell’uso della tecnologia (telecomandi, telefonini, ecc.) presente nell’ambiente domestico e, viceversa, alla difficoltà di adattamento (spesso di rifiuto) che gli stessi strumenti producono negli anziani. Eppure, gli anziani hanno magari esperienze di vita sconosciute ai nostri figli (una volta polli e conigli si ammazzavano in casa per mangiarli ed erano anche quelli gesti domestici). Dobbiamo giustamente prepararci a vivere nel futuro, non nel passato, e i nostri stessi figli diventeranno a loro volta anziani e con scarsa capacità di adattamento al progresso tecnologico futuro, pensiamo all’interazione con l’intelligenza artificiale, salvo eventi, naturali o indotti dall’uomo, così disastrosi da portarci a recuperare abilità esercitate oggi solo nei corsi di sopravvivenza in condizioni estreme.

Ogni mutamento fisico ha un veicolo di trasferimento genetico da una generazione all’altra, ma la nostra evoluzione non è solo biologica, è anche culturale e sociale. Anche in questo ambito il comportamento più funzionale alla sopravvivenza e allo sviluppo dell’individuo come della società prima o poi si consolida, nel caso, anche in leggi o consuetudini sociali. C’è un’evidente correlazione, ad esempio, tra rispetto delle libertà, affermazione dei diritti civili e sviluppo economico e benessere sociale. Non solo il Pil, ma anche la qualità della vita urbana e l’attrattività per le migrazioni economiche rispondono a questa correlazione. Com’è che siamo passati dalla schiavitù sopravvissuta in occidente fino a fine ottocento alla responsabilità sociale ed ambientale delle grandi imprese e alla generosa filantropia dei loro maggiori azionisti? Evidentemente, fare del bene, essere altruisti, godendo della libertà economica per farlo, non solo ci fa sentire meglio, ma fa bene anche ai bilanci aziendali in un circolo virtuoso. Nei Paesi più evoluti sotto il profilo civile (quindi non penso all’Italia, che è un Paese con diffusi problemi di criminalità e corruzione) la reputazione nel mondo degli affari è tutto: senza reputazione non si ha credito, non si è affidabili, non solo in banca, ma anche nella considerazione sociale. Non basta essere capaci di accumulare profitti, anche uno scafista sa farlo: conta soprattutto il modo in cui lo si fa.

Quindi, per stare meglio bisogna non rubare, non ammazzare, rispettare i diritti degli altri, rispettare l’ambiente e aiutare gli altri, specie i meno fortunati, in modo generoso e disinteressato? Ma questi concetti non li avevano già affermati migliaia di anni fa un uomo che si era ritirato sul monte Sinai e un altro che fu ucciso proprio per queste idee sul monte Golgota? Come facevano a conoscere con tanto anticipo – e in tempi davvero non sospetti – dove ci avrebbe portato l’evoluzione sociale umana del terzo millennio?

FONTE:https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/05/19/affari-e-societa-da-bill-gates-a-zuckerberg-la-reputazione-e-tutto/3584796/

 

 

 

IMMIGRAZIONI

REGOLARIZZAZIONI

Giovanni Bernardini – 7 05 2020

Battaglia aperta sulla regolarizzazione dei migranti.
Qualche domanda e considerazione. Telegraficamente.

1) La regolarizzazione NON è una esigenza che nasce dalle necessità della agricoltura. La regolarizzazione degli immigrati clandestini, come lo Jus soli, è sempre stato uno dei cavalli di battaglia di certa sinistra. Oggi l’agricoltura è solo una scusa.2) In Italia ci sono milioni di disoccupati, fra cui moltissimi giovani. In moltissimi prendono il reddito di cittadinanza senza fare letteralmente una mazza. Possibile che per raccogliere cocomeri e pomodori si debbano regolarizzare centinaia di migliaia di clandestini?
3) Perché non utilizzare uno strumento come i voucher?
4) Chi ha detto che una volta regolarizzati i migranti correranno tutti a fare lavori agricoli?
5) Chi ha detto che un migrante, per il solo fatto di essere stato regolarizzato, non farà lavori in nero o non delinquerà? Forse che i criminali italiani sono tali perché irregolari?
6) Una volta finito il lavoro stagionale cosa faranno questi “regolarizzati”. E’ fuori luogo sospettare che saranno mantenuti dalla collettività? Proprio nel momento in cui ci attende una crisi devastante?

Non aggiungo altro…

FONTE: https://www.facebook.com/giovanni.bernardini.75/posts/3235510353148851

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

Ho voluto verificare se quel che leggo è vero.

Cosa ha fatto The Donald

Lisa Stanton 2 06 2020

Insomma, theDonald – lo sapete – è molto suscettibile e vedere tutto il potere nazionale ed internazionale che l’ostacola gli fa montare una gran rabbia.

Vediamo cos’ha fatto ultimamente:

– I vaccini negli USA saranno volontari, non obbligatori. L’istituto medico dell’esercito (quello che ne ha contestato l’abuso e la tossicità) ne controllerà la qualità e li distribuirà.

– “Defunded W.H.O”, Trump ha firmato un ordine per cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità non riceverà più fondi dagli USA e chiesto un’indagine sulle sue operazioni.

– Ha annullato il disegno di legge 6666 dei Democratici, noto come Covid-19 TRACE Act, che era alla base del progetto di diagnosi e monitoraggio delle fondazioni di Bill Gates.

– Ha annullato il progetto della Bill Gates Foundation noto come ID2020, fondamentalmente l’utilizzo di un chip che tiene traccia delle persone in base ai movimenti del loro corpo e le premia con dollari bonus.

– Ha aperto una piattaforma di reclamo dove il cittadino può segnalare la censura su Facebook, Twitter e YouTube, social invasi da lamentele degli utenti per l’arbitrarietà delle limitazioni da parte dei padroni del servizio.

– Interruzione dell’implementazione del 5G a livello nazionale – la cui capacità è molto più elevata ma è anche collegata a numerosi problemi di salute.

– Ordine esecutivo di riapertura degli Stati: i Governatori che rifiuteranno di darne esecuzione verranno citati in giudizio.

– Ordine esecutivo per la Casa Bianca di rilevare tutte le reti elettriche, inclusi server Internet, sistemi di trasmissione, sistemi elettronici. 

– Ha dichiarato i luoghi di culto “Servizi essenziali” per impedire ad alcuni sindaci di continuare a multare i credenti per essere andati in Chiesa.

– Sostiene l’Australia ed altri 116 paesi che chiedono un’indagine sulla Cina per la diffusione del Covid-19, sebbene la Cina abbia minacciato di bloccare le esportazioni in USA.

– Con gli USA paese ospitante, dopo il rinvio chiesto dalla Merkel, ha insistito che al G7 siano presenti Russia, India, Australia e Corea del Sud, nonostante i dubbi espressi da UK.

Prima del 3 novembre, se riuscirà a fermare saccheggi, incendi, violenze ed omicidi senza senso di questi giorni, il Deep State attenterà alla sua vita.

Segnatelo!

FONTE:https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=3254204954597758&id=100000248554468

 

 

 

POLITICA

Gli stati generali sono il nuovo Britannia che porteranno l’Italia verso il nuovo ordine mondiale

di Cesare Sacchetti

Gli stati generali in Francia del 1789 non furono portatori di buoni auspici per Luigi XVI.

La testa del monarca francese finì infatti per rotolare pochi anni dopo sul patibolo della furia rivoluzionaria.

Quegli stati generali servivano sostanzialmente a preservare il potere dello status quo, la monarchia e il clero, sul terzo stato, composto prevalentemente dalla borghesia.

Quelli convocati da Conte non hanno tanto la funzione di preservare lo status quo, quanto quella di ridisegnare completamente la faccia della Penisola che non assomiglierà in nulla a quella vecchia, ovviamente sempre avendo come stella polare di riferimento gli interessi dell’oligarchia che ha in pugno il Paese.

Non a caso ci saranno, tra gli altri, il presidente della Commissione UE, Ursula Von Der Leyen, il presidente del Parlamento UE, David Sassoli e il governatore della Bce, Christine Lagarde.

Nessuno di questi si trova lì per un mandato elettivo, ma tutti sono il prodotto di compromessi raggiunti al chiuso delle stanze dei palazzi comunitari, laddove i popoli europei non hanno mai avuto voce.

Non è altro che un piccolo gruppo Bilderberg in miniatura dedicato esclusivamente all’Italia che si riunisce per attuare le direttive già tracciate in larga parte dal piano Colao.

Si deve procedere alla fase finale della globalizzazione ed è per questo indispensabile privare l’Italia della sua ricchezza residua.

Colao, anch’egli membro del Bilderberg, ha in questo senso indicato la via nel suo piano per facilitare le dismissioni pubbliche e consegnare i gangli vitali dello Stato nelle mani dei grandi gruppi finanziari esteri.

IL 5G, l’ultima generazione della telefonia mobile, sarà lo strumento che consentirà di instaurare un tecno-totalitarismo che sorveglierà i cittadini in ogni istante della loro vita.

La privacy sparirà del tutto così come le libertà personali. L’ultima fase del globalismo prevede difatti la fine del dissenso e il controllo assoluto della popolazione.

Il governo unico mondiale che agognano da generazioni le famiglie più facoltose della finanza internazionale, come i Rockefeller e i Rothschild, sarà molto simile ad un totalitarismo perfetto.

La tecnologia e gli strumenti di controllo del nuovo tecno-totalitarismo arriveranno probabilmente a partorire una società simile a quella descritta da Huxley, nella quale molti cittadini inizialmente si ritroveranno ad adorare o accettare la loro condizione di servitù.

Gli stati generali quindi sono stati espressamente concepiti come appuntamento delle grandi élite internazionali per accompagnare l’Italia verso l’ultimo ciclo del nuovo ordine mondiale.

In questa ultima fase, gli stati nazionali europei perderanno le loro caratteristiche originarie. Saranno più simili a post-nazioni gestite e dirette completamente da strutture sovranazionali senza alcun legame con i popoli europei.

Il potentissimo club di Roma – braccio operativo del comitato dei 300 secondo l’ex agente dei servizi britannici John Coleman – fondato da Aurelio Peccei disegnò già nei primi anni’70 la mappa del mondo secondo la visione globalista.

Il pianeta dovrà essere suddiviso in 10 blocchi geopolitici, e l’UE con ogni probabilità lascerà il posto agli Stati Uniti d’Europa, vera e propria ossessione delle élite.

Gli stati generali sono il nuovo Britannia

Gli stati generali avranno pertanto questa funzione. Serviranno a portare l’Italia verso l’era deindustrializzata nella quale lo Stato giuridicamente sarà un simulacro nelle mani di queste organizzazioni sovranazionali dominate a loro volta dai club privati delle élite.

Sono la fine di un lavoro di smantellamento di una nazione iniziato molti decenni addietro.

Sono la naturale prosecuzione di un altro appuntamento nel quale si decise che la Repubblica doveva morire, ovvero la riunione che ebbe luogo il 2 giugno 1992 a bordo del famigerato panfilo della Regina Elisabetta, il Britannia, al largo delle acque di Civitavecchia.

Fu lì che Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, consegnò l’industria pubblica nelle mani di Goldman Sachs e dei predatori della finanza anglosassone.

A bordo c’erano anche Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca governatore di Bankitalia, Beniamino Andreatta, deputato della DC progressista e già ministro del Tesoro, Mario Monti, Giulio Tremonti, Emma Bonino e i vertici dell’ENI e dell’IRI.

Secondo un’intervista attribuita proprio ad Emma Bonino, e ad oggi apparentemente non smentita, sul panfilo c’era anche Beppe Grillo, una circostanza che se confermata confermerebbe quanto i piani delle élite fossero di lungo respiro.

I club globalisti avrebbero probabilmente ospitato il comico in funzione della preparazione di un suo ruolo di contenimento del dissenso contro le politiche della globalizzazione che hanno difatti distrutto la classe media e minato l’integrità nazionale dell’Italia.

Il 1992 è stato sicuramente un anno fondamentale nella lunga guerra che è stata dichiarata all’Italia da questi poteri.

Il clan di Mani Pulite in questo senso fu decisivo. Attraverso una vera e propria caccia alle streghe giudiziaria, si conseguì uno scientifico abbattimento della classe dirigente del Paese con la sola eccezione dell’ex PCI divenuto PDS, deputato ad essere l’esecutore privilegiato del processo di globalizzazione della nazione.

La magistratura e la stampa che riportava puntualmente in prima pagina ogni avviso di garanzia, rappresentato agli occhi dell’opinione pubblica come una condanna, costituirono la macchina da guerra che scatenò l’intera opinione pubblica contro la politica di allora.

L’operazione di distrazione di massa fu perfetta. Mentre l’uomo della strada lanciava monetine a Craxi, i predoni della finanza si compravano il Paese a prezzi di saldo.

Non ci fu mai nessuna inchiesta sulla riunione del Britannia che ebbe a tutti gli effetti le caratteristiche di un attacco alla Repubblica perpetrato grazie alla sponda di uomini che hanno tradito la loro patria e la costituzione.

Due mesi dopo il Britannia, un Parlamento falcidiato dalle inchieste giudiziarie e gravemente delegittimato firmava l’adesione al trattato di Maastricht, che sanciva l’ingresso dell’Italia nell’UE e nella moneta unica.

L’operazione riuscì alla perfezione. La crisi destabilizzante costruita dalla magistratura e dall’apparato mediatico traghettò il Paese verso il traguardo prestabilito.

Un importante passo in avanti fu raggiunto e l’Italia da allora è ingabbiata nel vincolo esterno.

Ora si sta per fare un altro passo in avanti verso questo progetto, probabilmente quello decisivo.

La crisi da Covid è in questo senso perfetta per compiere l’ultimo atto. Occorre rimuovere l’ultima presenza industriale pubblica e spianare la strada ai grandi gruppi privati.

Occorre, in altre parole, privatizzare l’Italia.

Gli Stati Uniti d’Europa non saranno composti infatti da stati nazionali ma da entità substatali prevalentemente in mano a delle grandi corporation.

Gli stati generali di Conte sono quindi la chiusura del cerchio. Le élite avevano bisogno di un evento catalizzatore e questa volta si sono servite di una pandemia che i numeri ufficiali dicono esistere solo sui media, ma non nella vita reale.

La crisi va alimentata, perché questa serve a mantenere in vita l’emergenza senza la quale sarebbe molto più difficile raggiungere l’obbiettivo del club di Roma e dei circoli mondialisti, ovvero un nuovo ordine mondiale nel quale ci saranno gli Stati Uniti d’Europa.

Quest’ultimi porteranno il nome Europa ma non avranno nulla in comune con essa.

Saranno una impostura, perché il loro vero obbiettivo, come disse chiaramente uno dei suoi primi ideologi, il  conte Kalergi, è quello di rimuovere l’identità europea per sostituirla con una allogena che nulla ha in comune con quella originaria.

Per farlo, è indispensabile però colpire il cuore d’Europa, la sede della Chiesa cattolica e il Paese che custodisce la storia di questo continente, l’Italia.

Ecco perché l’odio viscerale delle élite verso questa nazione ed ecco perché gli stati generali sono l’ultimo passaggio di questo progetto.

E’ probabile che tutto questo riesca. Gli USE (United States of Europe) nasceranno ma la loro antistoricità e antieuropeismo li porteranno probabilmente a tensioni costanti con la vera Europa.

Ci sarà una inevitabile crisi di rigetto. Il globalismo nega le radici dei popoli e per questo in ultima istanza è destinato a fallire.

La vera Europa prima o poi respingerà inevitabilmente la falsa Europa.

Le nazioni prima o poi torneranno. La storia dell’umanità non si può cancellare e negare per sempre.

FONTE:https://lacrunadellago.net/2020/06/15/gli-stati-generali-sono-il-nuovo-britannia-che-porteranno-litalia-verso-il-nuovo-ordine-mondiale/

 

 

SCIENZE TECNOLOGIE

Il gioco dell’evoluzione artificiale

Paolo Alessandrini – 230 giugno 2011
La teoria dell’evoluzione delle specie viventi rappresenta uno dei pilastri della biologia e del pensiero moderno. Nonostante si tratti di una teoria giovane (fu formulata da Charles Darwin “soltanto” un secolo e mezzo fa) ad oggi i suoi principi generali sono ormai consolidati presso la comunità scientifica, grazie alle numerose prove scientifiche fin qui raccolte.
Tuttavia, al di fuori del mondo scientifico c’è tuttora chi si ostina a rifiutare la visione darwiniana, e perfino alcuni (fortunatamente rari) scienziati sono notoriamente contrari alla teoria, pur non avendo mai avuto il coraggio di proporre tali opinioni a riviste specialistiche.
Tra le visioni alternative che rifiutano o criticano il darwinismo, possiamo citare la teoria del “disegno intelligente”, il “creazionismo”, il “devoluzionismo”: alcune di queste opinioni sono sostenute da posizioni religiose, altre soltanto da una discutibile critica ai fondamenti logici e sperimentali dell’evoluzionismo.
Le prove dell’ipotesi di Darwin, in realtà, sono talmente schiaccianti e definitive che non dovrebbe esistere più alcun dubbio sulla validità della teoria: non è questa la sede per elencarle tutte, anche perché si tratterebbe di spaziare dalle dimostrazioni paleontologiche a quelle legate alla distribuzione geografica delle specie viventi e dei fossili, e questo non è un blog che possa occuparsi in modo competente di queste discipline.
Sorprendentemente, però, una delle prove a mio parere più meravigliose della teoria dell’evoluzione ci viene offerta proprio dalla matematica e dall’informatica. Com’è possibile?
Prima di arrivare al punto, devo però fare un excursus sui contenuti dell’ipotesi di Darwin.

L’esempio classico, che trova spazio anche sui libri di scuola, è quello del collo della giraffa.

Tutti sappiamo che le giraffe hanno il collo lungo. Ma è anche noto, e lo era già ai tempi di Darwin, che il collo delle giraffe primitive era più corto. Secondo l’ipotesi di Darwin, di tanto in tanto, diciamo “per caso”, o “per errore”, può nascere una giraffa col collo un po’ più lungo. Essendo il collo lungo una mutazione genetica e non un carattere acquisito, si tratta anche di una caratteristica ereditaria, cioè i figli di una giraffa dal collo lungo avranno probabilmente anche loro il collo lungo.
In una certa epoca, a causa dell’impoverimento dei pascoli, molte giraffe avevano cercato di cibarsi non più soltanto dell’erba ma anche delle foglie degli alberi: nella dura competizione per il cibo, una giraffa dotata di un collo più lungo si sarebbe trovata quindi nettamente avvantaggiata. Il collo lungo, insomma, rappresentava un importante vantaggio competitivo, e quelle giraffe fortunate si ritrovavano ad avere, come dicono i biologi, una idoneità superiore alle loro cugine.
Un’alta idoneità comporta, in genere, una maggiore probabilità di sopravvivenza, una vita più lunga e un maggior benessere, ma anche una maggiore predisposizione a riprodursi e quindi un numero maggiore di figli. Questo meccanismo è alla base della cosiddetta selezione naturale, perché induce una specie di cernita tra gli individui più idonei e quelli meno idonei, o, per così dire, tra mutazioni più o meno vantaggiose. Secondo la teoria di Darwin è questo il vero motore dell’evoluzione.
La conseguenza fu che le giraffe dal collo lungo si diffusero rapidamente, sostituendo gradualmente quelle dal collo corto. Altre mutazioni casuali che potevano essersi verificate, ad esempio giraffe senza coda oppure con cinque zampe, sicuramente non avrebbero avuto lo stesso successo e la stessa diffusione, in quanto poco vantaggiose.

Il meccanismo della selezione naturale premia quindi le piccole mutazioni casuali che si rivelano più vantaggiose: queste si replicano nella discendenza, innescano un lento processo di evoluzione delle specie e si accumulano generazione dopo generazione, determinando sul lungo periodo vistosi e radicali cambiamenti. La teoria di Darwin, però, non spiega però altre cose: ad esempio come l’informazione sui caratteri ereditari venga registrata all’interno degli esseri viventi, e come questi caratteri vengano trasmessi dai genitori ai figli.

E’ la genetica a fornire queste risposte, mostrando come le cellule del nostro corpo siano dotate di un nucleo che contiene particolari corpuscoli, chiamati cromosomi, di solito disposti a coppie: in ogni cellula di un essere umano, ad esempio, vi sono 23 coppie di cromosomi, ciascuna delle quali è formata da un cromosoma ereditato dal padre e da uno ereditato dalla madre. Ogni cromosoma è costituito da un lunghissimo filamento di una molecola chiamata DNA, tutto attorcigliato su se stesso come un gomitolo e suddiviso in porzioni chiamate geni. Una molecola di DNA è simile ad una scala a chiocciola, i cui “pioli” sono composti chimici detti basi azotate: il modo in cui queste basi si susseguono nei filamenti dei cromosomi costituisce una sorta di lunghissima sequenza codificata, detta genoma, che rappresenta il “libretto di istruzioni” , o, meglio, una enorme enciclopedia da consultare per costruire un essere vivente.

Tutte le informazioni “genetiche”, cioè ereditarie, sono scritte qui: ad esempio la lunghezza del collo per la giraffa, il colore dei nostri occhi, e così via.
Quando queste informazioni vengono replicate in modo errato, si verificano le mutazioni già intuite da Darwin: ad esempio la comparsa delle giraffe dal collo lungo.
Oltre alla mutazione, l’altro fenomeno genetico fondamentale per i meccanismi dell’evoluzione è il crossing over, che avviene in ciascuno di noi durante la formazione dei gameti, le cellule che partecipano alla fecondazione: in ognuna delle coppie di cromosomi ereditati dai genitori, si verifica uno scambio reciproco di geni, fatto che favorisce l’incrocio dei programmi genetici e produce inedite mescolanze da trasmettere ai discendenti.

Negli anni Quaranta, alcuni illustri matematici, come Alan Turing, Norbert Wiener e John Von Neumann, cominciarono a studiare i fenomeni biologici dell’evoluzione e della genetica e intuirono la possibilità di replicare questi meccanismi in modo artificiale, utilizzando i primi calcolatori elettronici.

Perché imitare nei computer il comportamento della materia vivente? Quel era l’utilità di questo strano gioco dell’evoluzione artificiale?
Fin dagli albori dell’informatica i ricercatori si erano imbattuti in problemi difficili, che richiedono di trovare la soluzione ottimale tra una enorme quantità di soluzioni possibili. Ad esempio, è difficile far giocare un computer a scacchi, oppure fargli trovare il percorso più breve per visitare un insieme di città, oppure progettare una proteina che abbia un comportamento chimico desiderato. Purtroppo, l’approccio concettualmente più ovvio, cioè esaminare tutte le possibilità per scoprire qual è la migliore, appariva proibitivo, perché avrebbe richiesto un tempo di calcolo troppo lungo. Era necessario escogitare metodi più veloci, scorciatoie più efficienti.
L’idea vincente presa a prestito dalla biologia è presto detta. Invece di scandagliare, una per una, tutte le soluzioni possibili e alla fine scegliere la migliore, usiamo un approccio evolutivo: immaginiamo che ogni possibile soluzione del problema sia un “individuo”, il cui genoma contiene le informazioni caratteristiche della soluzione rappresentata. Partendo da una “popolazione” iniziale scelta casualmente, gli individui vengono fatti “evolvere” simulando la comparsa di mutazioni casuali e il verificarsi di fenomeni di crossing over, similmente a quanto avviene nella realtà nelle cellule viventi. Generazione dopo generazione, vengono selezionati gli individui più idonei, cioè le soluzioni migliori, secondo un principio che imita la selezione naturale: potremmo definrila una sorta di “selezione artificiale”. Generalmente questa metodologia, se ben applicata, porta ad avvicinarsi alla soluzione ottimale in tempi relativamente brevi.
L’approccio descritto corrisponde, con buona approssimazione, allo schema generale degli algoritmi genetici, proposti per la prima volta negli anni Settanta, dal ricercatore americano John Holland.

Nella terminologia degli algoritmi genetici gli individui della popolazione vengono chiamati anche cromosomi: infatti, per semplicità, si assume che ogni individuo possieda un solo cromosoma, e possa quindi essere identificato con quell’unico cromosoma (In natura le specie viventi hanno di solito più cromosomi, ad esempio 46 nell’uomo, ma gli informatici sono molto meno bravi della Natura, per cui è già tanto che ci sia un solo cromosoma per individuo).

Uno delle questioni spinose che sorgono con gli algoritmi genetici consiste nel trovare un modo di codificare la soluzione all’interno del genoma dell’individuo. Ovviamente l’approccio da seguire dipende dal tipo di problema. Molto spesso le soluzioni vengono rappresentate come stringhe, o semplici successioni di simboli. Ad esempio, se il problema che vogliamo risolvere è quello di progettare una proteina, ossia determinare una sequenza di amminoacidi che, una volta sintetizzata in laboratorio, evidenzi determinate caratteristiche chimiche, allora potremmo rappresentare ogni individuo, cioè ogni proteina corrispondente a una possibile soluzione, tramite la sequenza di simboli di amminoacidi che rappresenta quella proteina.

Un’altra difficoltà cruciale da affrontare è legata al modo in cui, ad ogni generazione, dobbiamo misurare l’idoneità di ogni individuo, cioè di ciascuna soluzione che si trova nel nostro brodo di coltura. Il nostro ingrato compito è selezionare gli individui con l’idoneità più alta, e, ahimé, scartare quelli di peggiore qualità. Ad esempio, nel problema delle proteine, l’idoneità di una sequenza candidata di amminoacidi dipende dalle caratteristiche chimiche che tale sequenza esibirebbe una volta sintetizzata in laboratorio: l’algoritmo genetico dovrà quindi implementare particolari calcoli per misurare questo grado di qualità delle soluzioni.

Ecco allora lo schema generale del nostro “gioco dell’evoluzione artificiale”, vale a dire la struttura base di un algoritmo genetico:
1. stabilire delle politiche per la codifica delle soluzioni e per la misurazione dell’idoneità;
2. costruire una popolazione iniziale casuale di individui che codifichino, tramite sequenze opportune di simboli, altrettante soluzioni possibili del problema;
3. ad ogni generazione:
• analizzare tutti gli individui presenti e scegliere quelli con idoneità più alta;
• accoppiare tra loro gli individui selezionati e sottoporli a crossing over;
• mutare alcuni dei figli ottenuti;
• se l’idoneità dell’individuo migliore è considerata abbastanza alta per i nostri scopi, terminare, altrimenti passare alla prossima generazione.

Superati gli scogli progettuali riguardanti la codifica delle soluzioni e i criteri di selezione degli individui più idonei, ciò che rimane potrebbe assomigliare ai giochi di una rivista di enigmistica: le operazioni di crossing over e di mutazione, infatti, applicate alle sequenze di simboli che rappresentano le soluzioni, sembrano uscite dalla “Pagina della Sfinge” della Settimana Enigmistica.
Il tipo più comune di crossing over tra due sequenze di simboli consiste nel tagliare in due ciascuna delle due sequenze, dando origine a due figli, l’uno formato dalla concatenazione della prima parte del primo genitore e della seconda del secondo, e l’altro formato dalla concatenazione della prima parte del secondo genitore e della seconda del primo. Una sorta di doppia sciarada incrociata tra due parole (gli appassionati di enigmistica correggeranno certamente le mie imprecisioni terminologiche), come nell’esempio seguente:

PIC-CO, ARTI-COLO –> PIC-COLO, ARTI-CO

Una mutazione, invece, non è altro che la variazione di una parte della sequenza di simboli che rappresenta una soluzione: nulla più che un semplice cambio di lettera in una parola.
Ad esempio:

PICCO –> PACCO

Grazie ai primi studi pionieristici di Turing, Von Neumann e Wiener, alla formalizzazione di Holland e alle ricerche successive, gli algoritmi genetici sono stati progressivamente perfezionati e hanno dato prova di funzionare ottimamente per la risoluzione di problemi difficili. In particolare, queste tecniche evolutive hanno permesso di affrontare con successo non soltanto problemi di ottimizzazione, ma anche problemi di modellazione e di predizione di dati. In questo caso si fanno evolvere modelli che cercano di descrivere un sistema complesso: ad esempio modelli ingegneristici di motori o di edifici, modelli biologici, modelli meteorologici o climatici, modelli finanziari, ecosistemi, modelli per giochi di simulazione, e così via. Spesso, per costruire modelli di questo tipo, gli algoritmi genetici vengono usati per fare evolvere strutture matematiche dette reti neurali, ognuna delle quali rappresenta un possibile modello del problema. L’accoppiata reti neurali – algoritmi genetici è utilizzata molto spesso e con ottimi risultati nelle attuali ricerche sull’intelligenza artificiale.
Quali conclusioni possiamo trarre dall’efficacia degli algoritmi genetici? Gli algoritmi genetici non sono altro che l’applicazione a problemi “umani” di un meccanismo naturale: certo, si tratta di un’idea applicata in modo semplificato e adattato, ma in realtà il copyright dell’idea non è nostro, ma di Madre Natura. E se l’idea alla base di questo gioco dell’evoluzione simulata funziona, questa è certamente un’ulteriore dimostrazione del fatto che l’evoluzione, quella naturale, funziona, e anche molto bene.
Potrebbe sembrare forzato il concetto di usare l’evoluzione per risolvere problemi: ma in realtà è esattamente ciò che ha fatto e continua a fare la Natura. L’evoluzione e la selezione naturale, che funzionano, generazione dopo generazione, attraverso un accumulo selettivo di piccole mutazioni vantaggiose, hanno dato prova di saper risolvere problemi molto difficili, escogitando soluzioni ingegnose e sofisticate. Pensiamo alla giraffa: il problema difficile della giraffa primitiva consisteva nel trovare un modo per mangiare le foglie degli alberi, e la geniale soluzione fu un progressivo allungamento del collo, attraverso le generazioni.
Altro esempio: il pipistrello. Dovendo cacciare di notte, il simpatico mammifero volante deve riuscire a individuare le prede nel buio: ebbene, l’evoluzione ha messo a punto, nel corso dei millenni, una tecnologia di ecolocazione davvero sofisticatissima, simile al nostro sonar, che farebbe invidia a molti ingegneri di oggi.
Gli informatici, insomma, dopo avere “rubato” ai biologi l’idea per inventare gli algoritmi genetici, hanno ricambiato il favore nel modo migliore che potessero escogitare: fornendo una affascinante dimostrazione del fatto che Darwin aveva ragione.
Spero che questa osservazione possa contribuire a convincere qualche persona ancora scettica rispetto alla teoria dell’evoluzione. E’ vero che i principi della teoria di Darwin, ad un esame intuitivo, possono apparire “strani”, o “irragionevoli”: eppure, per quanto incredibile, l’evoluzione, sia quella naturale che quella artificiale, funziona. E come scrisse il poeta inglese George Byron: “E’ strano, ma vero; perché la verità è sempre strana, più strana della fantasia.”

FONTE:http://misterpalomar.blogspot.com/2011/06/il-gioco-dellevoluzione-artificiale_20.html

 

 

STORIA

Sanificare tutto, pure la storia

Marcello Veneziani, La Verità 13 giugno 2020

Scusate se insisto, ma la violenta offensiva contro il passato, le statue e i personaggi storici è la prosecuzione della follia totalitaria e sanitaria con altri mezzi. Ed è l’applicazione retroattiva dei codici sanitari imposti dalla nuova religione. Cosa vogliono fare coloro che chiedono di abbattere monumenti e cancellare la toponomastica, riscrivere la storia e rimuovere chiunque abbia detto, fatto, scritto qualcosa che contravviene al catechismo presente sul razzismo, i neri, i gay, e così via? Cosa vuol ottenere la legge, criticata pure dai vescovi, contro l’omotransfobia che colpisce pure i reati d’opinione? Vogliono sanificare. Sanificare è il verbo giusto che riassume questi assalti alla realtà, alla libertà, alla memoria storica. Compiere una gigantesca opera di disinfestazione per depurare/epurare la storia, i suoi eredi e ogni difformità rispetto agli standard ideologici in uso. Codice rosso.

Sanificare è la nuova religione della purezza e la nuova traduzione della redenzione: se vogliamo liberarci dal male, dobbiamo compiere quest’opera di sanificazione. Naturalmente non tutto l’Apparato concorda con le punte estreme di questa ondata psicosanitaria che colpisce Colombo, Montanelli, i cioccolatini moretti e Via col vento… Ma quelle avanguardie di fanatici sono la punta estrema di una nuova religione che ridisegna l’umanità, la realtà, la vita, la civiltà, attraverso nuove profilassi, nuovi divieti e prescrizioni, nuove reti di protezione, nuove mascherine e museruole, nuove barriere di plexiglas applicate perfino alla mente. La dittatura sanitaria non distingue più tra il covid e il razzismo, concepiti entrambi come virus, manifestazioni della pandemia.

È una profilassi estesa a dismisura, col relativo vaccino “antifa” obbligatorio, che non si allarga solo dall’America all’Europa, ma anche dal presente al passato, minacciando pure il futuro. È un processo che richiede l’avvento di una religione, quella che dicevamo l’altro giorno: pugni chiusi, genuflessioni, penitenze. L’ossessione di sanificare è tipica dei regimi totalitari. Quando Mao Tse Tung fece la Rivoluzione culturale, che sarebbe poi costata decine di milioni di morti, deportati e rieducati, disse che avrebbe sradicato ogni passato dalla Cina e avrebbe fatto del suo paese una grande “pagina bianca”. Così i talebani con le statue di Buddha abbattute, i terroristi islamici contro Palmira (ma a volte anche gli americani con le loro bombe umanitarie su Ninive, Bagdad, Damasco, e ieri su città d’arte ricche di storia). Radere al suolo, fare tabula rasa sono gli atti supremi di questa religione sanitaria che vuole purificare, sanificare, azzerare ogni cosa.

La damnatio memoriae, l’iconoclastia e l’epurazione che si abbatte contro i grandi del passato, peccatori ante litteram contro il codice rosso religioso-sanitario, ci fa inorridire e anche preoccupare per gli sviluppi futuri e le ricadute sulla vita quotidiana. Ogni grandezza è disconosciuta se si adottano quei filtri e quelle barriere imposti da giudici dementi ed arroganti; capolavori, grandi imprese ed eccellenze condannati all’oblio e alla rimozione forzata.

Ma quali sono i meccanismi pseudologici della sanificazione? Ne avrei individuati tre. Il primo procedimento possiamo chiamarlo reductio: isolare nella vita di un personaggio una frase, un episodio, un aspetto riprovevole, scorretto se non imperdonabile e nel nome di quel particolare dettaglio della vita, dell’opera, dell’ingegno, prescindendo dal contesto, si cancella l’intero e si maledice tutto il resto, fino ad abbattere o decapitare la sua memoria.

Il secondo procedimento si riassume in un’operazione: negatio. È il negazionismo di ogni altro valore, realizzazione, eccellenza, genialità, nel nome del moralismo medico-legale o religioso-giudiziario; non c’è nulla al di sopra del canone e dell’osservanza integrale del codice rosso della purezza. Puoi essere il più grande artista ma non conta se maltrattavi una donna o un gay, se sfruttavi un nero, se insolentivi un rom o un ebreo. L’arte, la storia, la letteratura, l’estetica devono indossare i guanti, la mascherina, la cintura di sicurezza. Vagoni di artisti e poeti maledetti gettati nel rogo della vergogna e dell’oblio, peggio che ai tempi della caccia alle streghe. Non c’è capolavoro che regga di fronte all’infrazione commessa: distruggete Aristotele che difendeva lo schiavismo e considerava le donne inferiori; abolite Dante che dannava all’inferno i “pederasti”, era guerrafondaio e maltrattava i giudei.

Il terzo procedimento alla base della religione sanitaria si può riassumere nella parola chiave: dilatatio. Estendere la morale del presente al passato, giudicare parole, atti e giudizi di altre epoche con gli occhi, le parole e i pregiudizi del nostro momento, applicare il vigente codice ideologico a tutte le epoche precedenti, che avevano altre visioni del mondo, renderlo retroattivo e assoluto. È la presunzione che la civiltà, l’età della ragione e dell’umanità sia cominciata solo con noi, siamo superiori a tutti i predecessori; il resto è barbarie, preistoria animalesca, età oscura del peccato. Il presente dilatato all’infinito.

Le tre operazioni censorie – reductio, negatio e dilatatio – costituiscono il protocollo sanitario della nuova religione totalitaria. Il suo fine è la cancellazione della realtà e la camicia di forza, la camera sterile, fino all’eliminazione degli incurabili e di chi non si adegua. Chi aderisce alla nuova religione acquisisce automaticamente il diritto di giudicare la restante umanità e tutta l’umanità passata alla luce del suo credo e chiedere di sanzionarla.

Alla fine dobbiamo solo ringraziare l’incoerenza e l’inefficacia, la viltà e l’ignoranza, se la sanificazione non arriva fino in fondo, passando dal totalitarismo morale al totalitarismo applicato. Almeno per ora si limitano a sparare cazzate…

FONTE:http://www.marcelloveneziani.com/articoli/sanificare-tutto-pure-la-storia/

 

 

LA PROPENSIONE A DECONTESTUALIZZARE LA STORIA E IL NUOVO TOTALITARISMO

La propensione a decontestualizzare la storia e il nuovo totalitarismoLa proposta di rimuovere la statua dedicata ad Indro Montanelli dai giardini pubblici di Milano che portano il suo nome non poteva che far discutere. Dopo l’uccisione di George Floyd, i Santinelli e altre associazioni di cittadini milanesi ritengono che Montanelli sia stato un fascista e un razzista, e che quindi la sua figura non possa essere portata ad esempio dei cittadini attraverso un monumento pubblico. Inoltre, e la cosa appare se possibile ancora più grave, viene accusato di aver acquistato una schiava sessuale bambina. Ora, la prima delle due contestazioni mosse a Montanelli è vera “per un certo periodo”, e la seconda lo è “in un certo senso”: la prima perché, per ammissione dello stesso Montanelli, in gioventù, quando aveva circa 25 anni e partì come volontario per partecipare alla campagna d’Etiopia, era fascista, come la maggior parte degli italiani allora; la seconda invece perché la grande maggioranza dei cittadini bianchi del mondo, sia che fossero italiani, europei o statunitensi, nel 1936 pensavano che le popolazioni africane di colore fossero sotto qualche profilo “inferiori” alle popolazioni bianche occidentali, chi per ragioni storico-culturali, chi per ragioni razziali, chi per entrambe. In questo senso, e per questo motivo, coloro che tacciano oggi Montanelli di razzismo non potrebbero che considerare “razzisti” anche loro, finendo così col giudicare per lo più razzista un’epoca storica.

Uno che potrebbe oggi, in base a un simile criterio, essere tacciato di razzismo è, per esempio, Albert Schweitzer. Il grande medico e musicista alsaziano, premio Nobel per la pace nel 1952, che passò gran parte della sua vita a curare bambini e adulti a Lamabaréné, in Gabon, pensava che qualsiasi processo di decolonizzazione fosse allora prematuro, perché la maggior parte delle popolazioni africane erano incapaci di governarsi da sole senza innescare delle sanguinose guerre civili. Schweitzer, che Albert Einstein definì come la persona più buona del mondo, considerava infatti gli africani come “fratelli minori”, da “seguire” ancora per un po’. I fatti gli hanno poi dato ragione, confermando pienamente le sue previsioni, ma la lettera che scrisse allora a Charles de Gaulle per indurlo a desistere dall’abbandonare l’Africa a se stessa rimase senza esito. Probabilmente anche Montanelli era convinto di qualcosa del genere, e se fu un “razzista” lo fu semmai perché considerava quelle popolazioni “arretrate” (e non per colpa loro) sotto il profilo culturale piuttosto che per ragioni propriamente “razziali”. In ogni caso, se anche la prima contestazione può risultare giustificata se riferita alla metà degli anni trenta del secolo scorso, e se la seconda può risultare verosimile solo in un senso molto generico e storicamente poco significativo, la terza, ovvero quella per cui sarebbe una sorta di colonizzatore pedofilo, risulta però decisamente forzata e fuorviante.

Ma procediamo con ordine: quando Montanelli arriva in Africa gli viene consigliato dal suo “sciumbasci” (ossia dal suo attendente di colore che coordinava il battaglione eritreo) di prendere moglie, così come fanno molti ufficiali delle truppe d’occupazione italiane. La ragione è duplice: il suo attendente etiope lo consigliò di sposarsi sia perché in questo modo avrebbe avuto maggiore autorità sulle milizie locali che ricadevano sotto il suo comando, sia perché per un soldato o un ufficiale impegnato a combattere l’unico modo per avere ogni tanto a disposizione, in zone dove l’acqua non è spesso disponibile, della biancheria pulita era quello di ammogliarsi. Poiché l’età a cui le donne erano solite sposarsi in quel contesto coincideva con gli anni immediatamente successivi alla pubertà, le ragazze da marito avevano grosso modo quell’età, perché quelle più grandi erano in genere già sposate e avevano già dei figli. A Montanelli ne venne proposta una, Destà, che pagò al padre com’era usanza fare secondo la consuetudine del “madamato”, di 14 anni. Per tutta la sua permanenza in Africa questa giovanissima moglie ebbe il compito di lavargli la biancheria e di riportargliela pulita ogni 15 giorni raggiungendolo, insieme alle mogli degli ascari che erano con lui, nella postazione dove nel frattempo il suo plotone si fosse spostato.

Durante i loro incontri, Montanelli stesso riporta anche che ci fu un non semplice approccio sessuale a causa dell’infibulazione cui Destà era stata sottoposta da bambina, ma tutto lascia intendere che tali tipi di rapporti furono assai sporadici. In ogni caso, per tutte le ragazze di quell’età in Eritrea era allora normale essere comprate da qualche marito, locale o importato che fosse. Fu dunque vera “servitù sessuale”? Dal punto di vista del contesto socio-culturale della ragazza no, perché tutte le ragazze della sua età avevano normalmente rapporti sessuali con i mariti che le avevano comprate dal padre. Più complesso sarebbe invece rispondere alla stessa domanda anche dal punto di vista del contesto socio-culturale da cui Montanelli proveniva: se da un lato infatti, per sua stessa ammissione, non sarebbe mai stato disposto a sposare una ragazza occidentale in età puberale dopo averla comprata dal padre, in quel contesto non gli parve immorale, decidendo di adottare come paradigmi etici di riferimento quelli della società di cui era entrato a far parte. Per questo motivo non considerò scandaloso consumare un matrimonio con una ragazza che, sebbene troppo giovane per i suoi parametri occidentali, non lo era per la società locale; una ragazza che aveva regolarmente sposato con il consenso di una famiglia che riteneva, come accadeva un tempo anche in molte famiglie italiane, la consumazione del matrimonio un atto “doveroso”.

In ogni caso non risulta che il rapporto che ebbe con lei sia stato violento, come si può evincere anche dal fatto che, dopo la partenza di Indro, quando lei si fu risposata con un altro soldato suo sottoposto, continuò a manifestare affetto e riconoscenza per il primo marito, tanto da voler dare il suo nome al primo dei suoi figli. Lo stesso Montanelli riassume così la vicenda dalla sua Stanza del Corriere della Sera del 12 febbraio 2000: “… Dopo la fine della guerra e delle operazioni di polizia, uno dei miei tre “bulukbasci” che stava per diventare “sciumbasci” in un altro reparto (si tratta di gradi militari delle truppe indigene), mi chiese il permesso di sposare Destà. Diedi loro la mia benedizione… Nel ’52 chiesi e ottenni di poter tornare nell’Etiopia del Negus e la prima tappa, scendendo da Asmara verso il Sud, la feci a Saganeiti, patria di Destà e del mio vecchio bulukbasci, che mi accolsero come un padre. Avevano tre figli, di cui il primo si chiamava Indro. Donde la favola, di cui non sono mai più riuscito a liberarmi, che fosse figlio mio. Invece era nato ben 20 mesi dopo il mio rimpatrio…”

Non sembra dunque esserci stata da parte di Montanelli alcuna violenza né alcuna imposizione sessuale oltre quella perpetrata abitualmente all’interno della società d’origine di Destà, per quanto invece possano comunque rimanere legittimi dubbi sulla legittimità morale della sua scelta dal punto di vista del contesto socio-culturale da cui Montanelli proveniva. Il problema, però, a questo punto è diverso: se dovessimo infatti spazzare via la memoria di tutti gli artisti, scrittori, filosofi, giornalisti, musicistiscienziati o politici che a 25 anni, nella loro vita privata, hanno assunto comportamenti moralmente discutibili la lista di nomi illustri sarebbe particolarmente lunga, e se dovessimo aggiungere a tale lista quella di coloro che nel 1936 potevano essere definiti o si definivano fascisti, o che potevano essere considerati “razzisti”, nel senso che consideravano culturalmente arretrati o inferiori le popolazioni africane, la lista diverrebbe ancora più lunga: si svuoterebbero non solo molte piazze dei loro monumenti, ma anche molte antologie scolastiche e molti musei.

Una simile tendenza a voler “ripulire” la storia da quanto oggi non sarebbe ammissibile dalla nostra evoluta coscienza potrebbe essere riconducibile a quanto Benedetta Tobagi ha scritto sulle colonne di Repubblica sabato 13 giugno, ovvero al “deficit di memoria storica che affligge la maggior parte della società. Il senso comune storiografico è paurosamente impoverito, per lo più si galleggia in un eterno presente. Il problema non è soltanto che le cancellazioni forzate hanno un inquietante sottofondo orwelliano, roba da stalinisti o talebani. Eliminata la statua, esaurita l’emozione del momento, che cosa si lascia a futura memoria delle ragioni della sua rimozione, per contrastare l’ignoranza generale?”. La presente pulsione a sopprimere, decapitare o imbrattare monumenti, da quello di Cristoforo Colombo a quelli di Winston Churchill e di Montanelli, è espressione d’un risentimento greve verso la storia, verso le diverse visioni del mondo che l’hanno caratterizzata, verso le sue molteplici culture e civiltà. Siamo di fronte, in altre parole, a una forma di revisionismo ben più radicale e arrogante di quello che è stato ingiustamente imputato allo stesso Montanelli: siamo di fronte ad una vera negazione della storia, negazione che potrà avere come principale conseguenza solo quella d’impedire in futuro la possibilità di comprenderla e che pare molto simile alla censura sistematica perpetrata dai regimi totalitari di ogni specie.

Anzi, c’è da temere che proprio la pulsione decontestualizzante che la ispira preluda a una forma pericolosa di totalitarismo, quella propugnata da coloro che pensano di poter applicare le loro emancipate concezioni etico-politiche al passato, d’essere cioè esponenti d’una forma astorica e superiore di saggezza o di giustizia, quasi che il tempo li avesse consacrati quali portatori delle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità e come se fossero stati incaricati di redimere la storia e di epurarla dal male con qualche censura a posteriori, che in realtà può essere soltanto figlia della propensione eterna a giudicare senza voler capire.

FONTE:http://opinione.it/societa/2020/06/15/gustavo-micheletti_indro-montanelli-george-floyd-nuovo-totalitarismo-milano-campagna-d-etiopia-fascista-1936-schweitzer-lamabar%C3%A9n%C3%A9-gabon/

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