RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 14 MAGGIO 2020

https://enricaperucchietti.blog/2020/05/14/esperimento-in-una-scuola-bimbi-con-braccialetto-elettronico-per-distanziamento-sociale-come-i-cani-di-pavlov/

RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI

14 MAGGIO 2020

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

 Ecco il tempo: il mutamento e non la vela eternità né la vera immortalità

AGOSTINO D’IPPONA, Pensieri, Rusconi, 1988, pag.121

 

http://www.dettiescritti.com/

https://www.facebook.com/manlio.presti

https://www.facebook.com/dettiescritti

 

Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna. 

Tutti i numeri dell’anno 2018 e 2019 della Rassegna sono disponibili sul sito

www.dettiescritti.com

 

 Precisazioni

 www.dettiescritti.com è un blog intestato a Manlio Lo Presti, e-mail: redazionedettiescritti@gmail.com 

 Il blog non effettua alcun controllo preventivo in relazione al contenuto, alla natura, alla veridicità e alla correttezza di materiali, dati e informazioni pubblicati, né delle opinioni che in essi vengono espresse. Nulla su questo blog è pensato e pubblicato per essere creduto acriticamente o essere accettato senza farsi domande e fare valutazioni personali. 

 Le immagini e le foto presenti nel Notiziario, pubblicati con cadenza pressoché giornaliera, sono raccolte dalla rete internet e quindi di pubblico dominio. Le persone interessate o gli autori che dovessero avere qualcosa in contrario alla pubblicazione delle immagini e delle foto, possono segnalarlo alla redazione scrivendo alla e-mail redazionedettiescritti@gmail.com 

La redazione provvederà doverosamente ed immediatamente alla loro rimozione dal blog.

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

SOMMARIO

La ex-Italia sotto attacco concentrico?
Maxi inchiesta sulla Link Campus: 71 indagati
Golpisti all’ombra del coronavirus
SILVIA NON SEMBRA CHE LA DICA GIUSTA
L’umanità sull’orlo di una crisi di nervi
BIO-GEOPOLITICA.
Gli impresari del terrore
UE, NATO, NewsGuard e Réseau Voltaire
Coronavirus: La Cina conduce una campagna d’intimidazione mondiale
Tracce di Esoterismo & Gnosi nella Massoneria pre-1717
Carl Schmitt e il realismo politico
Come gioca in Somalia il tandem Turchia-Qatar (anche su Silvia Romano)
Why the EU must close EUvsDisinfo
China suspected of bio-espionage in ‘heart of EU’
Silvia Romano e la disfatta diplomatica del governo italiano
De Donno, le fake news di regime e il bullismo contro Feltri
ESPERIMENTO IN UNA SCUOLA: BIMBI CON BRACCIALETTO ELETTRONICO
Decreto, Cdp sosterrà Enel, Eni, Poste e Leonardo con Patrimoio Rilancio?
Come la garanzia dello Stato non dà liquidità all’azienda.
Pensare la fase 2 delle lotte. Incostituzionalità e contraddizioni giuridiche delle norme anti-Covid
Conciliante
LA SENTENZA DI KARLSRHUE DEL 5 MAGGIO E L’EVOCAZIONE DELL’ESM

 

EDITORIALE

La ex-Italia sotto attacco concentrico?

Manlio Lo Presti – 14 maggio 2020

Senza tanti preamboli, procedo alla elencazione dei guai presenti:

a) Molto rumore per nulla per la vicenda della ragazza rientrata in Italia. Non sappiamo altro che quello che vogliono farci sapere e per minacciare qualcuno che li sta leggendoQualsiasi illazione sui fatti è sicuramente inesatta e piena di aspetti opachi, proprio come la infausta vicenda dell’epidemia. NIENTE E’ COME SEMBRA  Il ruolo dei servizi turchi rientra in una serie di “patti” per gestire le imminenti ondate di milioni di MIGRANTI-PAGANTI-RISORSE-INPS CHE SI ABBATTERANNO SULLE COSTE ITALIANE A CAUSA DELLA GUERRA IN LIBIA?;

b) 71 indagati ala Link Campus University, una struttura privata a Roma dove sono da anni sono allestiti corsi per componenti delle unità di assassinio dei servizi segreti italiani. La scusa ufficiale è la serie di nomine abusive di insegnanti: un ruolo che costituisce una classica copertura per gli “operativi”. NIENTE E’ COME SEMBRA  anche in questo caso …;

c) Il cerchio si stringe intorno ad Obama e al Matteo fiorentino, suo servile e pagatissimo servo per la vicenda del russiagate;

c) governo senza controllo che emette a macchinetta provvedimenti amministrativi, in attesa di fatti concreti mentre il Paese si sfalda, con gioia dei predatori stranieri che caleranno per razziare tutto a due soldi;

d) mentre il palazzo va in fiamme, la priorità è stata la regolarizzazione di 600.000 africani che adesso faranno venire in Italia 2.000.000 di parenti. I caporali non li assumeranno perché continueranno ad arruolare altri 600.000 clandestini che arriveranno a ruota perché ricattabili e sottopagati che non reagiranno come potrebbero fare ormai i “regolari”. Saldo dell’operazione: 3.200.000 (600.000 REGOLARI + 2.000.000 DI PARENTI+ 600.000 CLANDESTINI NUOVI) 3.200.000 africani in più nel nostro territorio e mantenuti dalla popolazione italiana, NON CERTO DAI POLITICI BUONISTI, IMMIGRAZIONISTI, NEOMACCARTISTI ANTIFA;

e) la opaca vicenda dell’epidemia intorno alla quale girano interessi enormi, miliardi di euro che le farmaceutiche voglio incassare AD OGNI COSTO!!!! Casse da morto che girano su foto scattate in Afghanistan anni addietro, convogli di centinaia di TIR verniciati di bianco e senza insegne che scorrazzavano di notte già da metà febbraio nel nord del Paese. Colonne di arri armati che giravano in varie città con la scusa di “normali esercitazioni”. Elicotteri 25 ore al giorno. Minacce e carcerazione coatta di oltre 40.000.000 di italiani con la sapiente tecnica del terrorismo psicologico di massa  mediante 56 ore al giorno di trasmissioni web-tv-giornali

f) promozione martellante dei braccialetti elettronici che di recente hanno applicato ai bambini degli asili nido

g) opposizione dei politici alla emissione di obbligazioni statali patriottiche da collocare presso i risparmiatori italiani. Il blocco ossessivo dei politici è il mandato loro imposto dai “piani alti” di non toccare i 4.260.000.000.000  di euro di risparmi che devono essere girati nelle banche anglo-franco-germanico-USA-svizzere mediante una sequenza di fusioni ed acquisizioni ostili delle nostre banche

h) perché ad un certo momento (questo, in particolare) vengono scarcerati centinaia di criminali eccellenti della prima fila dirigente delle otto mafie operanti in Italia? Forse il DEEP STATE DE’ NOANTRI vorrà avvalersi della collaborazione di costoro per sedare rivolte sociali che esploderanno con il peggioramento verticale della condizioni economiche e sociali per crisi strutturale e per troppe regole imposte perfino su aspetti della vita privata con una feroce ossessività che sorpassa anche le restrizioni elencate nel famigerato Compendium Maleficarum? La loro liberazione è una contropartita per far partire una nuova stagione delle bombe nel nostro martoriato Paese?

i) l’INPS che non ha più soldi perché i PIANI ALTI hanno DATO ordine esecutivo di dare la precedenza al pagamento delle quote agli immigrati  prima degli italiani che sono rimasti fuori per questo???  La versione di Badoglio 2.0 è la farraginosità del sistema previsto che ha rallentato i pagamenti! …

A chi chiedere risposte accettabili?

  1. ai nostri politici – ricattati al 95% – che lavorano “nell’interesse degli italiani”
  2. all’intramontabile maestro Dario Argento?
  3. ai serial killers di Bruxelles?
  4. ad uno sciamano pellerossa?

Ho solo la certezza che NULLA ACCADE PER CASO!

 

Ne riparleremo molto molto presto

 

 

 

IN EVIDENZA

Maxi inchiesta sulla Link Campus: 71 indagati

Dopo la falsa inchiesta contro la Russia orchestrata da Obama e suoi sodali fra i quali il Matteo fiorentino, adesso la lotta oscura si trasferisce sulla Link Campus, con la scusa apparente degli esami taroccati…

To be continued

Golpisti all’ombra del coronavirus

Mentre le popolazioni hanno gli occhi puntati sui dati della progressione del contagio da coronavirus, nei governi è in atto un profondo riassetto, che consente ai gestori della salute pubblica di prendere il sopravvento sui politici. Dietro le quinte, banchieri e militari si agitano sperando d’accaparrarsi il potere e d’usarlo a proprio vantaggio.

JPEG - 31.4 Kb
Il 1° febbraio il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Mark Esper, ha dato istruzioni al generale Terrence J. O’Shaughnessy di tenersi pronto. Il 13 febbraio, davanti alla Commissione Senatoriale per le Forze Armate, il generale ha dichiarato di prepararsi allo scenario peggiore. In caso di catastrofe sanitaria, il piano di “continuità del governo” farebbe di O’Shaughnessy il dittatore (nel senso antico del termine) degli Stati Uniti.

Il primato della logica amministrativa sulla logica politica

Numerosi governi di Paesi industrializzati hanno deciso di rispondere all’epidemia di COVID-19 mettendo in isolamento la popolazione. Questa strategia non si fonda sulla medicina, che mai ha confinato le persone sane, bensì sulla necessità di gestire al meglio gli strumenti sanitari, per prevenire l’ingorgo degli ospedali provocato dal riversamento in massa dei malati. Pochi sono i Paesi industrializzati che, come la Svezia, hanno rifiutato un approccio amministrativo dell’epidemia, optando invece per una scelta di carattere medico, che non impone un isolamento generalizzato.

Quindi, la prima lezione da trarre è che nei Paesi sviluppati la logica amministrativa prevale sull’esperienza medica.

Pur privo di competenza specifica, non dubito che, per contrastare una malattia, millenni di tradizione medica possano essere più efficaci degli accorgimenti burocratici. Del resto, se osserviamo i dati, constatiamo che la Svezia al momento registra dieci morti ogni milione di abitanti; l’Italia ne piange invece 166. Naturalmente siamo solo all’inizio dell’epidemia e Italia e Svezia sono Paesi tra loro molto diversi. È però probabile che l’Italia dovrà fronteggiare una seconda e poi una terza ondata di contaminazione, mentre la Svezia, avendo raggiunto l’immunità di gregge, ne sarà protetta.

La preminenza dei gestori della Sanità sugli eletti del popolo

Stabilito questo, l’isolamento generalizzato delle persone sane nuoce non solo all’economia, ma anche alle modalità di governo. Un po’ ovunque vediamo la parola dei politici farsi da parte e lasciare posto a quella degli alti funzionari della Sanità, ritenuti più autorevoli. Ed è logico, giacché la misura dell’isolamento è un provvedimento puramente amministrativo. Abbiamo collettivamente accettato di batterci per gli ospedali e di metterci al riparo dalla malattia, invece di combatterla.

È però sotto gli occhi di tutti che, al di là di quanto ci viene mostrato, non abbiamo migliorato in efficacia. Per esempio, gli Stati dell’Unione Europea non sono in grado di fornire con tempestività equipaggiamenti sanitari e medicine. La colpa è delle regole ordinarie. Un esempio: la globalizzazione economica ha fatto sì che ci sia un solo produttore di respiratori artificiali e che sia cinese. Le procedure ordinarie degli appalti richiedono diversi mesi prima di vederne gli esiti e i politici non sono più lì per scavalcare le procedure. Soltanto gli Stati Uniti sono stati in grado di risolvere immediatamente il problema, grazie alla requisizione d’imprese.

La Francia, che durante la seconda guerra mondiale ha vissuto con Philippe Pétain una dittatura amministrativa denominata Stato Francese, ha già vissuto tre decenni di occupazione del potere politico da parte di alti funzionari. Si è così parlato di ENArchia [monopolio delle alte funzioni pubbliche da parte degli enarchi, i diplomati dell’École Nationale d’Administration, Scuola Nazionale di Amministrazione, con sede a Strasburgo, ndt]. Un sistema che, come accaduto con Pétain, pur senza esserne consapevole, ha privato i politici della conoscenza dei meandri dell’amministrazione, che consentiva loro la somma di mandati locali e nazionali. Ora gli eletti sono meno ben informati degli alti funzionari e li controllano con grande difficoltà.

Così come gli alti funzionari della Sanità si trovano all’improvviso investiti di un’autorità che normalmente non compete loro, anche i banchieri e i militari aspirano ad analogo avanzamento a spese dei politici.

I banchieri rintanati nell’ombra

L’ex cancelliere dello scacchiere (ministro delle Finanze) e in seguito primo ministro britannico, Gordon Brown, ha pubblicato una libera tribuna sul Financial Times [1] ove auspica che la paura del COVID-19 possa servire a realizzare quanto non si è riusciti a fare con la crisi finanziaria del 2008. All’epoca, Brown non riuscì a ottenere l’istituzione di un governo finanziario mondiale e dovette accontentarsi di una semplice concertazione con il G20. Secondo Brown, oggi si potrebbe cogliere l’opportunità di creare un governo della Salute Mondiale e pensare a quali potenze dovrebbero essere associate ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.

Non c’è ragione alcuna di ritenere che un governo mondiale sarebbe più efficace dei governi nazionali. Una cosa però è certa: sfuggirebbe a qualunque forma di controllo democratico.

Questo progetto non ha maggiori possibilità di successo del governo finanziario mondiale. Del resto, Gordon Brown era anche un accanito sostenitore della permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea. E anche in quest’occasione ha perso.

Lo Stato profondo rintanato nell’ombra

Il 30 gennaio 2020 l’OMS ha dichiarato lo «stato d’emergenza della sanità pubblica di portata internazionale». Il giorno successivo, il segretario alla Difesa, Mark Esper, ha firmato in segreto un Warning Order (messa in stato d’allerta) con cui si stabilisce che il NorthCom deve prepararsi a un’eventuale applicazione delle nuove regole di “continuità di governo”.

Queste regole sono classificate Above-Top Secret, ossia vengono comunicate esclusivamente a chi ha il massimo livello di abilitazione e dispone di un accesso nominativo speciale (Special Access Program).

Ricordiamo che il principio di “continuità del governo” è stato elaborato agli inizi della guerra fredda allo scopo di proteggere gli Stati Uniti in caso di guerra nucleare con l’Unione Sovietica e di morte o impedimento del presidente, del vicepresidente e del presidente della Camera dei Rappresentanti. Secondo una direttiva scritta del presidente Dwight Eisenhower, in tal caso, un governo militare avrebbe dovuto subentrare per assicurare immediatamente la continuità del comando, per l’intera durata della guerra, e comunque fino al ristabilimento delle procedure democratiche [2].

Il governo sostitutivo è stato richiesto una sola volta: l’11 settembre 2001 dal coordinatore nazionale per la lotta al terrorismo, Richard Clarke [3]. Ma, sebbene il Paese stesse subendo un tremendo attacco, né il presidente né il vicepresidente né il presidente della Camera dei Rappresentanti erano morti o incapaci, il che m’indusse a ritenere si trattasse di un colpo di Stato. In ogni caso, il presidente George Bush Jr. è rientrato nelle sue piene funzioni la sera stessa, ma non è mai stato spiegato quanto sia accaduto nelle dieci ore di sospensione dell’autorità presidenziale [4].

In un articolo pubblicato su Newsweek [5] il migliore specialista del Pentagono, William Arkin, afferma che oggi esistono sette piani distinti:
- Rescue & Evacuation of the Occupants of the Executive Mansion (RESEM) per la protezione del presidente, del vicepresidente e delle loro famiglie.
- Joint Emergency Evacuation Plan (JEEP) per la protezione del segretario alla Difesa e dei principali capi militari.
- Atlas Plan per la protezione di membri del Congresso e della Corte Suprema.
- Octagon, di cui non si sa nulla.
- Freejack, parimenti sconosciuto.
- Zodiac, di cui s’ignora il contenuto.
- Granite Shadow, che prevede il dispiegamento di unità speciali a Washington, nonché stabilisce le condizioni per l’utilizzo della forza e per il trasferimento degli spazi sotto l’autorità militare [6].

Sia chiaro che il RESEM ha lo scopo di proteggere il presidente e il vicepresidente, ma può essere messo in atto solo dopo la loro morte o in caso di loro impedimento.

Comunque sia, la messa in atto di questi sette piani spetterebbe al Comando militare degli Stati Uniti per l’America del Nord (NorthCom), sotto la responsabilità di un illustre sconosciuto, il generale Terrence J. O’Shaughnessy.

È bene ricordate che, secondo il diritto statunitense, O’Shaughnessy diventerebbe il dittatore degli Stati Uniti solo in caso di morte o impedimento delle tre principali cariche elettive dello Stato federale, ma che invece il suo predecessore, generale Ralph Eberhart, ha esercitato questi poteri straordinari senza che ne ricorressero le condizioni. Oggi Eberhart dirige, a 73 anni, le principali società di avionica militare USA.

Il 13 febbraio il generale O’Shaughnessy ha affermato davanti alla Commissione senatoriale delle Forze Armate che il NorthCom si sta preparando al peggio ed è in collegamento quotidiano con gli altri dieci comandi centrali degli Stati Uniti, che hanno in carico altrettante regioni del pianeta [7].

Il NorthCom ha potere non soltanto sugli Stati Uniti, ma anche su Canada, Messico e Bahamas, e, in virtù di accordi internazionali, può, di propria iniziativa, dispiegare truppe USA in questi tre Stati.

Nel 2016 il presidente Barack Obama firmò la segretissima Direttiva Politica Presidenziale n. 40 (Presidential Policy Directive 40) sulla «Politica di continuità nazionale» (National Continuity Policy). L’amministratore dell’Agenzia per la Gestione delle Emergenze (FEMA), Craig Fugate, due giorni prima che Donald Trump assumesse le funzioni di presidente firmò la Direttiva di Continuità Federale n. 1 (Federal Continuity Directive 1) che ne precisa alcune modalità di funzionamento a livello inferiore.

Hanno pensato a tutto e sono pronti al peggio. L’epidemia è la scusa per passare ai fatti. All’improvviso, gli interrogativi del portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, su una possibile disseminazione deliberata del virus da parte delle forze armate USA assumono pieno significato.

NOTE

[1] “End the dog-eat-dog mentality to tackle the crisis”, Gordon Brown, Financial Times (UK), Voltaire Network, March 26, 2020.

[2Continuity of Government: Current Federal Arrangements and the Future, Harold C. Relyea, Congresionnal Research Service, August 5, 2005.

[3Against All Enemies: Inside America’s War on Terror, Richard Clarke, Free Press (2004).

[4A Pretext for War: 9/11, Iraq, and the Abuse of America’s Intelligence Agencies, James Bamfort, Anchor Books (2005).

[5] “Exclusive: Inside The Military’s Top Secret Plans If Coronavirus Cripples the Government”, William M. Arkin, Newsweek, March 18, 2020.

[6] “Top Secret Pentagon Operation “Granite Shadow” revealed. Today in DC: Commandos in the Streets?”, William Arkin, Washington Post, September 25, 2005.

[7Hearing to receive testimony on United States Northern Command and United States Strategic Command in review of the Defense Authorization Request for fiscal year 2021 and the future years Defense Program, Senate Committe on Armed Service, February 13, 2020.

FONTE:https://www.voltairenet.org/article209574.html

 

 

 

BIO-GEOPOLITICA.

Pierluigi Fagan – 13 MAGGIO 2020

Foucault aveva già indagato i rapporti tra “bios” e politica. Byung-Chul Han aveva proposto di evolvere il concetto in psicopolitica. Perché controllare i corpi quando si può controllare la mente che permette l’introiezione (Elias) dei codici? Ma fino a qui ci muoviamo all’interno di una data società con relativa struttura di poteri interni. Poiché però esiste una politica interna tanto quanto una esterna, che ne è del rapporto tra bios e conflitto geopolitico?

L’altra sera, il programma di giornalismo d’inchiesta televisivo Report ha fatto delle scoperte davvero sconcertanti. Innanzitutto, contrariamente a quanto ritenuto, abbiamo scoperto che le grandi organizzazioni internazionali non sono neutrali. Ed io che avevo ingenuamente pensato che Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, OCSE e WTO fossero davvero istituzioni mondo che rispondevano all’umanità e non ad interessi geopolitici specifici. Che delusione! Il caso specifico era il WHO o OMS in italiano che in quanto guardiano della salute, è ente biopolitico per elezione, ma poiché è fatto da 194 stati e gli stati confliggono e cooperano al contempo in logica geopolitica, scopriamo che in realtà è bio-geopolitico.

L’ente ha un direttore generale che, come Guterres all’ONU, probabilmente non decide neanche di che colore deve scegliere la cravatta che si mette la mattina essendo il front man di una Assemblea a 194 soci più Executive Board in cui siedono 7 africani, 6 americani tra cui USA e Brasile, 8 europei tra cui Israele e Germania (e Italia), più vari arabi, asiatici come il Giappone e pacifici come l’Australia, per un totale di 34 membri.

Per la prima volta nella sua storia, WHO ha eletto il suo nuovo Direttore generale nel 2017 con i voti non dei più potenti ma dell’Assemblea generale, in modo diciamo “democratico”. L’eletto è un etiope che ha vinto 133 a 50 contro un britannico appoggiato da USA, Canada e tutta l’anglosfera che a tempo perso ha anche una struttura di intelligence comune detta “Five eyes”. Quei “Five eyes” che avrebbero prodotto di recente un rapporto d’indagine citato da Pompeo sulle colpe cinesi in quel di Wuhan, sebbene poi il tutto si sia rivelato una cronostoria dei ritardi con cui i cinesi hanno reso pubblici i loro dati sull’epidemia, ritardi che si ricostruiscono stando comodamente su una poltrona a casa da Internet. Gli stessi cinque occhiuti occhi erano chiusi al tempo dei fatti visto che era su tutti i giornali che il 1 gennaio i cinesi avevano chiuso il mercato di Wuhan e da fine dicembre avevano segnalato polmoniti sospette.

Report dice anche Tedros, l’etiope compagno di merende di Xi Jinping si è macchiato di vari crimini tra cui il soffocamento delle notizie relative a ben tre epidemie di colera nel suo Paese. Ma questa notizia è stata presa da un rapporto pubblicato da NYT, peccato poi si sia scoperto che il rapporto era stato confezionato da un avvocato americano, tale Larry Gostin, che però era il consulente legale della campagna elettorale per l’elezione dell’avversario britannico di Tedros. Report però non demorde e sostiene che Tedros è stato eletto solo perché si sono messi d’accordo gli africani. Ma l’Unione Africana conta 55 membri, i restanti 78 voti chi li ha dati?

Report però fa altre sconvolgenti scoperte. Ad esempio che WHO monopolizzato dai cinesi, ostracizza Taiwan. Diavoli gialli! E dire che Taiwan non è riconosciuta neanche dall’ONU e su 196 stati sovrani del mondo, solo 14 intrattengono rapporti diplomatici ufficiali. Giusto o sbagliato difficile dire, bisognerebbe studiare una questione molto complessa, ma a chi va? Tutto ciò, come detto, perché la tesi è che WHO è un pupazzo il cui ventriloquo è la Cina che spadroneggia in Africa. Gli africani avrebbero supportato Tedros non perché l’Etiopia è la sede dell’Unione Africana dal 2002, non perché i paesi africani gli riconoscono un ruolo geopolitico di primo piano per promuovere gli interessi del continente e dell’Unione che per la prima volta ha un suo uomo in visibilità a livello internazionale, ma perché manipolati dai cinesi. In effetti, i furbi occhi a mandorla, hanno generosamente prestato 60 miliardi nel 2015 e 60 miliardi nel 2018 a gli africani. Ma incredibile a dirsi, non per aiutarli disinteressatamente come fanno i Francesi in Africa occidentale, i Belgi in Congo, gli Americani e i Britannici un po’ dappertutto assieme alle petromonarchie nostre alleate che aiutano alcuni governi di specchiata reptazione ufficialmente e sabotano altri con le milizie armate salafite, no! i sporchi musi gialli, coltivano subdoli “interessi”.

Ecco allora che ben si comprende perché Trump abbia revocato i fondi al WHO, ti credo, anzi è stato anche troppo paziente! Infatti Trump ha dichiarato di voler togliere i fondi a WHO già nel 2017, pochi mesi dopo esser stato eletto e pochi giorni dopo che era stato eletto Tedros. Certo, da quando è stato eletto ha tolto o minacciato di togliere l’appoggio americano all’UNESCO, alla NATO, allo stesso ONU ed a tutte le organizzazioni internazionali che non fanno più interesse americano, ma non importa. Qui ha sicuramente ragione. Certo, se gli USA togliessero davvero i fondi a WHO (i fondi 2020 sono già stati stanziati ed approvati dal Congresso presso il quale Trump non ha la maggioranza, quindi semmai se ne riparla nel 2021, ma siamo in campagna elettorale è un annuncio vale più di mille fatti) la dipendenza del WHO dai fondi delle multinazionali farmaceutiche sarebbe ancor più stretta. Davvero un bel problema per Trump visto che 6 tra le prime 10 multinazionali farmaceutiche sono americane, 2 svizzere, 1 britannica ed 1 francese e visto che Healtcare system ha donato per la sua campagna elettorale il triplo dei fondi dati a Biden! Certo non ci sono i cinesi ma i cinesi controllano Tedros quindi non c’è problema. E così via…

Ora delle due l’una. O a Report sono degli sprovveduti che pensavano davvero di vivere nel migliore dei mondi possibili in cui c’è l’interesse alla salute delle umani genti pervertito dai cinesi aggressivamente espansionistici o sono degli incapaci che non fanno una ricerchina su gli articoli allegati alla voce Tedros o WHO su Wikipedia.org. per seguire una agenda psico-geopolitica in cui la narrazione prevale su i fatti, ora anche in versione informazione alternativa in un curioso corto circuito mainstream pilotato da Pompeo – anti mainstream pilotato da Bannon .

Il conflitto geopolitico c’è sempre stato, c’è e fa parte della realtà del mondo. Io mi occupo non solo ma spesso di queste cose e contrariamente ai tifosi di Trump o di Putin o di Xi Jinping, in questi anni ho imparato che in questi giochi “il più pulito c’ha la rogna”. Per questo propugno una Unione Latino-mediterranea perché così almeno potremmo grattarci la nostra rogna e non subire quella degli altri.

Quindi: Tedros è comunque una figura questionabile, i cinesi in effetti godono di qualcosa di più che non “alto credito” in Africa, la Cina ha sicuramente ritardato notizie da dare al mondo sul Covid-19, avrà anche chiesto a Tedros di fare il vago per 15-21 giorni (per quanto poco plausibile è che l’Executive Board non sapesse nulla, tra cui il rappresentante USA), il WHO è un nido di vipere assetate di sangue, pubbliche e private.

Sta di fatto che l’11 gennaio i cinesi hanno dato a tutti il RNA decodificato del SARS-CoV2 (notizia data a 0.00.28 della puntata di Report, cioè all’inizio) , gli americani hanno sfollato i loro cittadini da Wuhan ed Hubei a partire dal 20 gennaio giorno in cui hanno avuto il primo caso certificato a casa, il 23 i cinesi hanno messo in lockdown militare una provincia di 50 milioni di abitanti rendendo noto a tutti che c’era un grosso problema. Da allora cosa abbiamo fatti i governi occidentali e quello americano non si sa o si sa e non fa onore al senso di responsabilità dei governanti verso le proprie popolazioni. Da almeno l’11 gennaio a quando ha dichiarato l’emergenza sanitaria nazionale, Trump ha avuto sessanta giorni per “prepararsi” sempre che della ventina di agenzie di intelligence americane nessuna sapesse nulla e prima di ciò che avveniva in Cina perché WHO “non le aveva avvertite”.

Insomma, le favolette della buonanotte vadano a raccontarle a chi ha difficoltà a prender sonno visto che abita il mondo “grande e terribile” da addormentato.

FONTE:https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10221070069036969&set=a.1148876517679&type=3

ARTE MUSICA TEATRO CINEMA

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

L’umanità sull’orlo di una crisi di nervi

MARCELLO VENEZIANI, Panorama, n. 21 (2020)

Se Vittorio Colao dice: “col 5G si potrà iniettare o rilasciare una sostanza medica in remoto, quasi istantaneamente” voi che reazione avete? Lo ritenete un pazzo, uno che si è espresso male, uno che non capisce pur essendo stato ai vertici del settore; o uno che vi sta dicendo con orgoglio che sarà possibile in modi a noi sconosciuti “iniettare” un farmaco (o anche un veleno) a distanza? Non saprei come, non mi azzardo a fare congetture, dico solo che è inquietante, anche se i saputelli ironizzano: non hai capito tu, non si può trasmettere da remoto una sostanza, lo faranno i medici; e allora quale sarebbe la novità col 5G? Scusate ma continuo a non capire e resto turbato.

L’umanità è sull’orlo di una crisi di nervi cosmica. Non bastava l’infinita quarantena senza precedenti con le restrizioni dei diritti più elementari e delle libertà primarie come mai era accaduto. Non bastava l’incertezza della profilassi, le divisioni degli esperti, la paura del virus, l’inadeguatezza delle classi dirigenti, degli apparati amministrativi e sanitari e dei governi.

Ma è atroce la mancanza assoluta di verità e l’abbandono selvatico alle dicerie perché le versioni ufficiali paiono persino meno credibili delle fake news: è assoluto il mistero interno a quel che è accaduto, sta accadendo, accadrà. È terribile non sapere nulla, non essere sicuri di nulla e non avere più fiducia in nessuno: succede quando i verdetti della scienza divergono e sono smentiti dalla realtà, quando i decreti dei governi sono grotteschi e confusi, e quando interessi economici o politici si intravedono dietro le posizioni ufficiali. Quando non sai come, dove e quando veramente è nato il virus; quando non sai come affrontarlo, non sai quanto dura e se ritornerà o resterà nella pancia della nostra società, ti senti impazzire. Non hai scampo, non puoi evadere. Sei dentro questa cappa, questo sistema globalitario, che è il peggiore dei totalitarismi, un incubo da cui non è possibile svegliarsi, di cui l’unica libertà in fondo è morire.

C’è una tarma, anzi un nido di tarme che ci corrode quotidianamente il cervello. E insinua dubbi, angosce, dietrologie, che in questo momento attecchiscono, ah se attecchiscono. Come molti di voi sono assediato da una selva di notizie incontrollate e tremende che giungono dalle fonti più disparate, a volte insospettabili. Non solo haters e chiromanti, estremisti, leoni della tastiera, casalinghe, pensionati e ragazzi scoppiati, ma anche medici e magistrati seri, informatori scientifici e agenti segreti, preti e avvocati, studiosi. Ciascuno ha la sua verità o se ne fa portatore e magari la integra con la verità del vicino, purché differisca dalla verità ufficiale.

Facile dire che sono tutte sciocchezze o mezze notizie, intorbidate, ingigantite e costruite in una narrazione malefica. Non sembrano tutte sciocchezze ed è sciocco accontentarsi delle mezze bugie somministrate dalle fonti ufficiali… Il meglio che si possa dire è che brancolano come noi nel buio, vanno per tentativi. E il peggio è che ci nascondono qualcosa, ma tanto e di serio…

Hanno trovato Il colpevole del covid: è Antony Fauci, consigliere sanitario di Trump in conflitto con lui. Sarebbe stato lui, secondo tale Rashid Buttar, il colpevole della modifica chimerica del coronavirus, lui ad aver promosso la ricerca a Wuhan con gli esperimenti che si sono poi rivelati letali. Resto basito, trovare un colpevole con nome e cognome, una faccia e perfino un certo prestigio, a questa catastrofe mondiale. La bufala rientra nel catalogo delle news abortite, ritrattate, ricicciate, poi sparite nel nulla. E allora ripensi a tutto quel che hai visto e sentito in questi giorni: il virus nato in laboratorio, le smentite e le conferme, dall’immunologo e Nobel Luc Montagnier, subito massacrato, al segretario di Stato Usa Pompeo; sugli interessi torvi della Cina a nascondere, veicolare e poi avvantaggiarsi della situazione, sui controlli che si annunciano, le app sanitarie che vegliano su di noi, le ombre del 5G, le restrizioni pazzesche che in altro modo dureranno, il racket dei vaccini e il loro obbligo universale…E il colonnello dei servizi segreti russi, Kvachkov, che vede nel contagio un’operazione terroristica per controllare la popolazione mondiale.

Sarebbe facile liquidare il tutto come fake news, fantasie popolari, superstizioni. Il Gran Complotto, le Forze del Male, e via dicendo. Si, puerili sciocchezze ma non le liquiderei tutte in modo sbrigativo come destituite di fondamento; alcune partono da indizi veri, altre toccano situazioni reali, magari la narrazione complessiva è fantasiosa, i collegamenti e le deduzioni sono psico-patologici, ma restano alla base fatti inquietanti, interessi torbidi, giustificate diffidenze, sfiducia non infondata… Giusto vagliare, confrontare, ma non tutto è fantasia; bisogna distinguere, documentarsi, mantenere lo spirito critico verso il potere come verso i suoi accusatori.

Viviamo in un mondo aperto e interdipendente, pieno d’insidie, a cui si aggiungono i misteri del potere, i segreti di stato, gli “arcana imperii” di sempre. Non è peggiorata l’umanità, si sono potenziati i mezzi, e ogni mezzo può diventare mezzo di distruzione. Distruggere è più facile che costruire, si fa in un attimo. Un mondo globale è più facile preda di un pazzo o di una setta di pazzi al potere, in laboratorio, nei luoghi di controllo e di comunicazione. Risale allora il controcanto, la nostalgia dei mondi separati, della provincia, dei paesi dimenticati dai tracciati globali, delle solitudini campestri, montane e marine. Che voglia di cogliere i frutti, che voglia di nuotare, che voglia di pensare e di non pensarci.

FONTE:http://www.marcelloveneziani.com/articoli/lumanita-sullorlo-di-una-crisi-di-nervi/

 

 

 

SILVIA NON SEMBRA CHE LA DICA GIUSTA

E’ bastato un giorno perchè si scatenasse una contrapposizione, una specie di guerra di dichiarazioni ed opinioni nel caso di Silvia Romano. La prima notizia che la giovane sequestrata si era convertita all’Islamismo durante la sua prigionia, era stata accolta con almeno un titolo volgarmente ostile e certamente inaccettabile. Che ritornata fra noi Silvia Romano non possa svolgervi il ruolo della Santa martire è logico che dispiaccia a chi del martirio degli altri ha sempre fatto oggetto di venerazione. Ma oggi possiamo dire che anche a chi non avrebbe mai voluto valersi del martirio di Silvia di fronte al suo atteggiamento disinvolto nei panni della musulmana ortodossa, giustamente provoca fastidio e non può certo meritare consensi.

Che la sua conversione sia stata unicamente finalizzata a salvarsi la pelle ed a rendere meno pesante la prigionia, avrebbe dovuto darsi per scontato, ed oggi di fronte ad una certa ostentazione di entusiasmo per questa sua nuova religione possiamo ipotizzare molte ragioni che potrebbero spingere la ragazza a non lasciar trapelare il motivo “pratico” della sua abiura del Cristianesimo e dall’accorrere tra i fedeli di Maometto. Può eventualmente farlo per tutelarci da ulteriori pericoli che un’organizzazione come quella della jihad può creare anche per i prigionieri come lei rilasciati. Può, magari, evitare contrasti e polemiche sue personali che potrebbero danneggiare altri, perchè pare che altri ce ne siano sequestrati dalla stessa organizzazione criminale.

Si è insinuata, guarda caso ad opera della Procura della Repubblica, l’ipotesi di una complessa operazione sostanzialmente truffaldina, ma i sospetti delle Procure non sono sempre regolati dalla moderazione e dal buon senso. Probabilmente nei giorni che seguiranno saranno gettate in campo notizie ed ipotesi che varranno a rendere più acre la discussione in proposito. Certo è che Silvia Romano non mi pare, per quello che io ho potuto leggere e farmi leggere sui giornali, abbia rivolto ai suoi liberatori ed ai cittadini italiani, che in situazioni come quelle attuali hanno sborsato ben 4 milioni di euro per la sua salvezza, quell’apprezzamento e quella riconoscenza che anche chi ha motivo di attendersi protezione e sforzi del proprio Paese di fronte a pericoli come quelli di chi è sequestrato a scopo di estorsione, dovrebbe avere un minimo di buon gusto di non dimenticare. Grazie quindi ai rapitori jihadisti che poco c’è mancato che siano stati da lei osannati come dei gentiluomini preoccupati del suo benessere. Non una parola per Diplomatici, Agenti di Polizia, Funzionari vari italiani che hanno anche rischiato la vita per lei. Se l’altro giorno il titolo di Libero mi aveva turbato per un’inammissibile durezza, oggi devo dire che uguale turbamento sento per l’atteggiamento di questa nuova Santa musulmana.

Così vanno le cose. Così in Italia si conquista la simpatia della stampa o di parte di essa.

FONTE:https://www.italyflash.it/2020/05/14/silvia-non-sembra-che-la-dica-giusta/

 

 

BELPAESE DA SALVARE

Gli impresari del terrore

MV, La Verità 3 maggio 2020

conte colao arcuri

C’è qualcuno che vorrebbe prolungare all’infinito l’emergenza, la chiusura del paese, spostando la liberazione di data in data, di fase in fase. C’è qualcuno che ci guazza in questa quarantena, ne approfitta, si avvantaggia, su piani diversi. C’è qualcuno che in questa paralisi si sente importante, decisivo, determinante, esercita il potere allo stato puro, in grande o in piccolo, e riduce i cittadini a bambini, malati e delinquenti, tutti con l’obbligo di stare dentro.

C’è qualcuno che gode il quarto d’anno di celebrità, si arroga il diritto di decidere nel nome della vita e della morte, ti consente o meno di respirare, a sua discrezione, ti toglie la libertà senza darti in cambio la sicurezza; ma accolla quest’ultima solo sulle tue spalle, dipende solo da te, se ti barrichi in casa, stai buono e ti separi da tutti. Il nuovo Hobbes decreta: Homo homini virus. E su quella paura fonda il suo strapotere.

C’è qualcuno che vede in questa situazione la realizzazione della propria utopia, tutti irretiti, cioè presi per la rete, attaccati a una piattaforma, senza più differenze, tutti uguali, magari con uno stesso reddito universale di miseria, controllati e cinesizzati come il Grande Impostore vuole. Se ci fosse qualcuno in grado di parlare oggi nel nome della fede direbbe che tutto ciò è diabolico, perché diavolo significa separare, dividere.

C’è qualcuno che teme di tornare alla vita normale perché sa che l’incantesimo si spezzerebbe, il consenso di gregge, automatico e impaurito, verrebbe meno, la vita tornerebbe aperta. C’è qualcuno che ritarda sine die la prigionia universale perché sa che tragedie ci aspettano per il lavoro, la società, le famiglie, l’economia e non è stato predisposto nulla di concreto e di adeguato. C’è qualcuno che prolunga questa condizione per stremare i cittadini, devitalizzarli e abituarli e intubarli, e farli appena uscire ma con la minaccia che se non fate i bravi tornate in castigo. Terrorismo mediatico e sanitario.

“Impresari della paura”, vi ricordate? Ogni giorno e ogni giornalone rovesciavano su Salvini e sulla destra nostrana e internazionale, accuse di fondare il loro consenso sulla paura. Paura degli sbarchi, dei migranti, dei rom; impresari della paura. Come definire ora il governo in carica, le sue task force e tutto il carrozzone di esperti e comunicatori, se non grandi fabbriche della paura? Incutere terrore nella gente per tenerla prigioniera in casa, privarla delle libertà più innocue e più elementari, fare un lavaggio del cervello in massa per spaventarli sui rischi che si corrono solo ad allentare la sorveglianza da regime poliziesco che stiamo vivendo. Con divieti insensati su chi incontrare e chi no, sui luoghi, le case, dove la cautela non c’entra ma è solo coazione, Comandamento. Impresari del terrore.

Mai viste tante auto di polizia e carabinieri in giro, sono spariti i problemi di mezzi, personale, carburanti… Agli angoli delle strade vedi soldati coi mitra che sorvegliano sul pericoloso popolo italiano, come se ci fosse da abbattere pericolosi terroristi in vena d’uscire di casa.

Ti barrichi in casa per il terzo mese consecutivo e devi subire l’aggressione del video con quell’indegno volantinaggio di propaganda e terrore dei tg: “non abbassare la guardia”, “mantenere alta la tensione”, non è finita la galera; se allentiamo appena, arriva sicura come la morte una tempesta di contagi. E via di questo passo, ogni servizio, ogni intervista, ogni passaggio in studio ti vomita un solo, ossessivo messaggio. Anche dall’estero le notizie e le immagini sono filtrate per ammaestrarci.

Vedi comitati tecnico-scientifici che non sono stati capaci di prevedere un beneamato tubo, neanche le previsioni più ravvicinate, non sono stati in grado di dare indicazioni di alcun genere e ora ci prospettano ben 92 scenari: ma tra tutti, i tg, i governi, gli esperti compiacenti, ci sparano solo i più agghiaccianti per spaventarci e costringerci in casa.

Tutto come prima, e se non vi comportate bene, peggio di prima. Bande di virologi che in due mesi di vetrina quotidiana non hanno concordato su nessuna profilassi e non hanno saputo dire altro che ripetere il rimedio primitivo del duemila avanti Cristo: state a casa, lontani dal prossimo, lavatevi le mani. Grazie, non c’era bisogno di loro per sentirci dire quello che una qualunque nonna analfabeta era in grado di dire. Dalle istituzioni, dagli organismi “preposti”, nessuna terapia o prevenzione socio-sanitaria, in più di due mesi. Solo un incubo militante, state a casa, vi spariamo a vista, vi facciamo tornare a casa carichi di meraviglie, vi sorvegliamo coi droni e gli elicotteri tipo Apocalypse now e noi i vietcong. In casa fate onanismo sul virus, per distrarvi sparatevi un bel filmone sul contagio: vi racconta ciò che state vivendo. Siete già nella leggenda, nella fiction… Rallegramenti.

Intendiamoci. Non tutti coloro che ci prescrivono e osservano queste norme sono in mala fede, c’è chi ne è davvero convinto e argomenta bene. Né è in discussione la necessità delle precauzioni, ma quelle necessarie, ragionevoli, come distanziarsi e mascherarsi, andare il meno possibile e più coperti possibile nei luoghi pubblici, magari controllare le condizioni di salute (ciò che nessuno ci ha mai fatto). Ma star da soli all’aria aperta, passare isolati da una casa all’altra non provenendo da nessuna zona di rischio, uscire, bagnarsi o saltellare per conto proprio in luoghi appartati, vedere una persona anche se non è congiunto, riprendere con tutte le precauzioni le attività lavorative, sono rischi calcolati, che si devono correre se non vogliamo che i danni per la prevenzione diventino superiori ai danni sanitari. Un manifesto firmato da tanti, in primis da Vittorio Sgarbi, ha denunciato questo regime liberticida; un flash-mob di cittadini contro le violazioni della Costituzione è stato fatto ieri mattina a Bologna. Ma vige la legge marziale. Filate a casa, da soli, coda tra le gambe.

FONTE:http://www.marcelloveneziani.com/articoli/gli-impresari-del-terrore/

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

UE, NATO, NewsGuard e Réseau Voltaire

Il dispositivo propagandistico mirante a soffocare ogni voce fuori dal coro ha varcato una soglia: chi dissente non è più accusato semplicemente di commettere errori fattuali o di mentire deliberatamente, è presentato come traditore al soldo d’una potenza straniera.

JPEG - 35.5 Kb
Secondo questo sito ufficiale dell’Unione Europea, Réseau Voltaire sarebbe una banda di traditori al soldo della Russia, incaricati di diffamare le forze armate statunitensi.

Il Servizio Europeo per l’Azione Esterna (European External Action Service) nel 2015 ha creato l’East StratCom Task Force, un’unità incaricata di combattere la disinformazione diffusa dai servizi segreti russi. Quest’organizzazione cura un sito internet, EUvsDisinfo.eu, e invia settimanalmente e-mail ai giornalisti dell’Unione affinché diffondano la buona parola. Già abbiamo riferito che si tratta di un’unità collegata al Centro di Comunicazione NATO a Riga [1].

L’East StratCom Task Force ha ora messo in guardia i giornalisti della UE, nonché tutti gli abbonati alla sua newsletter [2], sull’articolo di Réseau Voltaire del 31 marzo, “Golpisti all’ombra del coronavirus” [3]: una disinformazione veicolata per conto dei russi [4].

Innanzitutto siamo indignati di figurare – e non è la prima volta – su un sito ufficiale dell’Unione, incaricato di censire la disinformazione russa. Non abbiamo alcun legame né con le autorità russe né con quelle di ogni altro Paese. È pura diffamazione.

Secondariamente, la confutazione della UE consiste semplicemente nell’affermare che il nostro lavoro sarebbe «Un’interpretazione esagerata di un articolo di Newsweek di metà marzo. Newsweek descrive il ruolo delle forze armate americane in caso d’incapacità dei dirigenti politici» (An exaggerated interpretation of a Newsweek article article from Mid-March. Newsweek describes the role of the US military, should the political leadership be incapacitated). Ebbene, abbiamo citato parte dell’articolo di William Arkin senza deformarlo e analizzando le informazioni in esso contenute mettendole in relazione con altre parimenti non contestate. È la visione prospettica dell’insieme dei dati a disturbare la UE.

Finora i poteri pubblici hanno finanziato iniziative private per screditare le fonti dissidenti. È il caso, per esempio, del servizio Decodex di Le Monde [5]. Ora si va oltre: le si accusa di tradimento.

Per distinguere il vero dal falso esercitate il vostro spirito critico!

NewsGuard, società newyorkese creata per valutare l’affidabilità dei siti internet e per far apparire un giudizio sui motori di ricerca, ci ha contattati chiedendoci innanzitutto in quali relazioni siamo con lo Stato siriano, e poi cosa «pensiamo di questa critica».

NewsGuard è quanto di più lontano ci possa essere dalla neutralità. Il suo consiglio di amministrazione è segreto, ma il consiglio consultivo comprende uno dei co-fondatori di Wikipedia, Jimmy Wales, nonché l’ex direttore della CIA e della NSA, generale Michael Hayden, poi l’ex segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, l’ex segretario per la Sicurezza della Patria, Tom Ridge, e l’ex sottosegretario di Stato per la Diplomazia Pubblica – ossia per la Propaganda – Richard Stengel [6].

JPEG - 15.2 Kb
Sul suo sito francese, NewsGuard si guarda bene dal pubblicare i nomi dei membri del Consiglio Consultivo, tranne uno, Anders Fogh Rasmussen. Mentendo spudoratamente, presenta l’ex segretario generale della NATO non come alto funzionario dell’Alleanza Atlantica, bensì delle Nazioni Unite.

Secondo i Trattati Europei, la NATO protegge la UE. Vale a dire, l’Unione Europea non è che l’elemento civile di un insieme di cui la NATO è l’elemento militare.

Dopo diversi tentativi di rapimento o di assassinio che uno dei miei collaboratori e io abbiamo subito in quattro Paesi, abbiamo valide ragioni di ritenere che sia stata l’Alleanza Atlantica a saturare, per non dire hackerare, il nostro sito internet numerose volte. I nostri avversari sembrano voler tornare a mezzi non letali: la menzogna e la diffamazione.

La propaganda di guerra è un processo articolato in tre fasi, che ha lo scopo di arruolare il pubblico in cause che normalmente disapproverebbe:
- La prima fase consiste nel mescolare il falso al vero, accusando coloro che dicono il vero di essere nell’errore o nella menzogna (fake news).
- La seconda consiste nell’estromettere ogni discorso dissidente, creando così una parvenza di unanimità attorno a una verità adulterata. I dissidenti non sono più sconsiderati affabulatori, sono traditori.
- La terza consiste a spingere i bersagli a compiere atti simbolici di acquiescenza alla nuova ideologia.

NOTE

[1] “La campagna della NATO contro la libertà di espressione”, di Thierry Meyssan, Traduzione Matzu Yagi, Megachip-Globalist (Italia) , Rete Voltaire, 7 dicembre 2016.

[2] “Subscribe

[3] “Golpisti all’ombra del coronavirus”, di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 31 marzo 2020.

[4] “Disinfo: The bankers and the military prepare a takeover in the US”, EUvsDisinfo.eu, April 30, 2020.

[5] “Dietro Décodex ci sono NATO e Unione europea”, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 16 febbraio 2017; “La verità sulle «fake news»”, di Thierry Meyssan, Traduzione Matzu Yagi, Megachip-Globalist (Italia) , 22 gennaio 2018.

[6] “Our Advisory Board”, NewsGuard, consulted May 3, 2020.

FONTE:https://www.voltairenet.org/article209811.html

 

 

 

 

FONTE:https://it.gatestoneinstitute.org/16018/cina-campagna-intimidazione

 

 

 

CULTURA

Tracce di Esoterismo & Gnosi nella Massoneria pre-1717

Print Friendly, PDF & Email

(P. Paolo M. Siano) Nel 1717 a Londra nasce la Massoneria moderna che nel 1723, con le Costituzioni di James Anderson, assume il Deismo, ossia una religiosità naturale in cui i dogmi di fede diventano opinioni soggettive. Di solito, gli apologeti della Massoneria (massoni e non-massoni), ma anche studiosi antimassonici, sostengono che prima del 1717 la Massoneria era del tutto cristiana e citano come prova gli “Old Charges” (Antichi Doveri), ovvero manoscritti dei secoli XIV-XVIII che fungono da base per tradizione e regolamenti massonici, e che, in genere, contengono una storia leggendaria della Muratoria (o Massoneria) in cui sono mescolati personaggi biblici e storici, errori cronologici ed elementi leggendari.

Studiosi di lingua inglese, come ad esempio Frances Yates, David Stevenson, Marsha Keith Schuchard, hanno invece il merito di dimostrare che l’Esoterismo, specie quello di stampo umanistico-rinascimentale (Ermetismo, Alchimia, Gnosi, magia…), entra nella Muratoria già prima del 1717: in Scozia, almeno dalla fine del XVI secolo, e in Inghilterra almeno dalla metà del XVII secolo, se non anche prima. In effetti, anche prescindendo dai suddetti autori, un’attenta lettura degli Old Charges rivela tracce di Esoterismo. Nel 1872 il massone inglese William Hughan (uno dei futuri fondatori della celebre Loggia Quatuor Coronati N° 2076) pubblica The Old Charges of British Freemasons, un volume che raccoglie vari Old Charges dei Muratori britannici tra XVI e XVIII secolo. Gli Old Charges che vanno all’incirca dal 1550 al 1680 cominciano con una invocazione alla Santissima Trinità, contengono una professione di fede cristiana e di fedeltà alla Chiesa (non è precisato se cattolica o anglicana) ma, come ho personalmente riscontrato, contengono anche degli ELEMENTI che, messi insieme, rivelano un’influenza ESOTERICA, GNOSTICA e perfino MAGICA su ambienti “colti” della Muratoria britannica. L’unione tra Cristianesimo e Gnosi/magia è una “coincidentia oppositorum” tipica dell’Esoterismo e di maghi come John Dee (1527-1608).

Ecco, in breve, tali ELEMENTI:

1) La Massoneria, o Arte Muratoria, viene identificata con la Geometria che è il fondamento, e la quinta, delle 7 Scienze Liberali.

2) Tutte le Arti e le Scienze, incluse le 7 Liberali e la Geometria-Massoneria, sono inventate dai 4 figli di Lamech tra cui c’è Tubalcain (che è anche la Parola di passo nella Massoneria moderna al 1° o al 3° grado). Dalla Bibbia sappiamo che Lamech è discendente di Caino, il quale è presentato come il primo che ha fatto costruire una città e che, di fatto, è il primo Muratore.

3) I 4 figli di Lamech, sapendo che Dio vuole vendicarsi («vengeance») dei peccati degli uomini, salvano dal Diluvio tutte le Scienze e le Arti scrivendole su due colonne. Ciascuna colonna reca tutte le Scienze e le Arti.

4) Una di quelle due colonne viene ritrovata da Hermes «padre degli uomini saggi», il quale trasmette le Scienze a tutti gli uomini.

5) Abramo insegna le 7 Scienze agli Egiziani. Le Scienze si tramandano da Euclide a Pitagora.

6) C’è anche un elogio implicito alla Torre di Babele o di Babilonia e al re Nimrod che l’ha fatta costruire e che per primo ha dato regolamenti ai massoni…

In altre parole, ai Cainiti [tale è anche il nome di una setta gnostica del II secolo d.C.] viene attribuita l’invenzione e la salvezza di tutte le Scienze (soprattutto la Geometria-Massoneria) poi rinvenute e diffuse da «Hermes» ossia Ermete Trismegisto, dio greco-egiziano della magia, cui si attribuisce un insieme di scritti gnostici e magici chiamato Corpus Hermeticum, da cui il termine Ermetismo. Sappiamo che tra le dottrine dell’Ermetismo ci sono: Gnosi, panteismo, magia, divinità dell’uomo, androginia di Dio (cf. C. Moreschini, Storia dell’Ermetismo cristiano, Brescia 2000, pp. 9-10, 21-32, 127-132).

Nei suddetti Old Charges «Hermes» viene definito «the father of Wisdome» («il padre della Sapienza») o «the Father of wise men» («il padre degli uomini saggi»). Ho scoperto che in un testo alchemico italiano del veneziano Giovan Battista Agnello (o Agnelli), stampato a Londra nel 1566 col titolo Apocalypsis spiritus secreti, si parla di: «Hermes padre di tutti i Filosofi» (p.12). Insomma è innegabile una presenza alchemico-ermetica, molto discreta, nella mentalità massonica degli Old Charges tra XVI e XVII secolo.

Tra gli Old Charges, forse, il più interessante è il manoscritto Cooke che non è contenuto nel volume di Hughan. Il Cooke viene pubblicato a Londra nel 1861 ed è datato intorno al 1490. Ma nel 1938, tre studiosi inglesi (di cui due sicuramente massoni), Douglas Knoop, G.P. Jones, Douglas Hamer, nel loro libro The Two Earliest Masonic Mss. (Manchester University Press 1938) affermano che il manoscritto Cooke è del 1400-1410, mentre il contenuto può risalire addiritura all’ultimo quarto del secolo precedente, dunque tra il 1375 e il 1400 (cf. ivi, pp. 21-22).

Il Cooke, pur con l’invocazione alla SS. Trinità e la professione di fede cristiana, riporta anche i 6 punti che ho riscontrato negli Old Charges del sec. XVI-XVII, con la variante che dopo il Diluvio una colonna dei cainiti viene ritrovata da «Hermes the philosopher» e l’altra da «Pythagoras» (cf. ivi, pp.47.49). Dunque Ermete e Pitagora… È un caso che Ermetismo e Pitagorismo fioriranno nel panorama esoterico della Massoneria moderna post-1717?

Dunque almeno tra fine Trecento e inizi Quattrocento, da documenti di Muratoria britannica, accanto a devozione biblica e professione di fede cristiana, si intravede uno spirito esoterico, gnostico, ermetistico, che apparirà più chiaro nella Massoneria moderna fino ai nostri giorni.

Ho scoperto anche qualche somiglianza tra quegli Old Charges e un testo di magia angelica medievale, “Ars Notoria”, tradotto in inglese da Robert Turner (London 1656): il testo comincia con la lode alla SS. Trinità e pretende di insegnare l’Arte che Dio ha insegnato, tramite un Angelo, a Re Salomone, Arte che permette di conoscere tutte le Arti e le 7 Scienze Liberali. Ci sono anche preghiere agli Angeli per conoscere tutte le Scienze, inclusa la Geometria.

Tornando agli Old Charges (vedi sopra, punto 6), vedo un’interessante somiglianza tra l’episodio della Torre di Babele (dove l’Uomo pretende di salire da solo al Cielo), lo spirito della magia (che è la pretesa di manipolare il Sacro o il Divino) e la Ritualità Massonica post-1717 la quale, prescindendo da Dogmi e da Autorità religiose, pretende di collegare al Divino i suoi Iniziati, ossia uomini di tutte le religioni, e di rendere Sacro lo spazio rituale della Loggia. Questa è appunto magia liberomuratoria, peculiare ed intrinseca alla ritualità della Massoneria regolare e tradizionale post-1717.

Inoltre, l’origine cainita (ovviamente non storica, ma filosofica, esoterica) della Geometria-Muratoria degli Old Charges pre-1717, mi richiama alla mente una teoria che compare nella letteratura massonica sin dalla metà del secolo XIX: Hiram Abiff, architetto del Tempio di Salomone ed eroe dei Maestri Massoni, è discendente di Tubalcain (uno dei quattro figli di Lamech!) che a sua volta discende da Caino il quale è nato dall’unione di Eva con… Lucifero! Ho scoperto che questa leggenda esoterica (Caino figlio di Lucifero!) non è un’invenzione ottocentesca ma si trova già nel testo cabalistico medievale dello “Sefer-Ha-Zohar” (cf. F. Lachower – I. Tishby, The Wisdom of the Zohar. An Anthology of texts, vol. II, London – Washington 1994, p.530).

Infine, nel 2019 esce il libro Testament eines Freimaurers… (Delta X Verlag, Wien) del massone Dieter Hönig (GLvÖ) con la prefazione elogiativa del Gran Maestro della Gran Loggia d’Austria (GLvÖ) Georg Semler (come scrissi qui su CR, Semler elogia il libro filo-massonico di mons. Weninger). Dieter Hönig accenna alla discendenza spirituale cainitica dei Massoni: Tubalcain, il grande padre dei Massoni abita nel santuario del fuoco al centro della Terra (cf. pp. 172-173).

FONTE:https://www.corrispondenzaromana.it/tracce-di-esoterismo-gnosi-nella-massoneria-pre-1717/

 

 

 

Carl Schmitt e il realismo politico

di Carlo Galli

ph 4441. Quale realismo?

Mi piace credere che il mio modo di pensare la politica possa essere definito (lo è stato) “realismo critico”. Ora esporrò i motivi per cui mi distanzio dal realismo che definirei “acritico”, e in definitiva “non realistico”.

Nato – insieme al suo opposto, l’ “idealismo” – all’interno della disciplina politologica “Relazioni internazionali”, il termine “realismo politico”1 condivide con la scienza politica alcune debolezze epistemologiche: la prima è che esista una realtà “là fuori”, che questa realtà sia instabile e conflittuale, e che il mondo intellettuale si divida fra chi l’accetta com’è e chi pensa che la si possa cambiare. In sostanza, un’opposizione fra essere e dover essere (posizioni pre-moderne, come il tomismo, sono realistiche nel senso che ipotizzano una realtà oggettiva intrinsecamente ordinata; e lì il “dover essere” significa conoscere e rispettare la struttura logica, etica, ontologica del reale).

La seconda debolezza epistemologica sta nell’ipotizzare una sintonia fra natura umana individuale (psicologia) e natura umana collettiva (lo Stato), una convergenza fra antropologia e politica. Sintonia e convergenza nel segno della instabilità, dell’aggressività, della pericolosità dei singoli e degli aggregati umani – tutte caratteristiche “naturali” e oggettive, la cui modificazione è impossibile, o indesiderabile, o inutile, o da ottenere attraverso l’esercizio di rigide discipline individuali e collettive –. Gli “uomini rei” di Machiavelli e la “vita corta misera brutale e breve” di Hobbes – insomma, l’antropologia negativa e pessimistica – a fondamento di forme politiche autoritarie. Naturalmente a questo riguardo gli “idealisti” che condividono con i realisti le debolezze di cui parliamo, sostengono al contrario antropologie in vario grado positive.

La terza debolezza è che il realismo, a partire da questi presupposti, passa a cercare, e a trovare, “leggi” naturali, o “oggettive” regolarità di comportamento e di sviluppo tanto individuale quanto collettivo, relative all’ontogenesi e alla filogenesi (etologia, psicologia delle masse, ecc.) . Il realismo culmina nel darwinismo sociale e politico, nella selezione del più adatto a competere in un gioco naturale e mortale, elevato a vera “essenza” dell’uomo e della politica..

La quarta debolezza è che questi parametri portano alla costruzione di una famiglia intellettuale – i “realisti” politici, appunto – che contiene di tutto: Tucidide, Machiavelli, Hobbes, Mosca, Pareto, Schmitt, Aron, Miglio (ma si potrebbero e dovrebbero aggiungere Agostino, Donoso Cortés, Hegel, Spencer, Marx, Lenin, e anche Hitler). Una famiglia i cui tratti comuni sono estremamente labili, e consisterebbero nella opposizione contro pensatori idealisti, ingenui, utopisti, formalisti, “liberal”: Moro, Vitoria, Locke, Rousseau, Kant, Kelsen. Mentre è evidente che le divergenze strutturali e categoriali fra i “realisti” sono totali, radicali, inconciliabili, e che lo stesso vale per gli “idealisti”.

La quinta debolezza, infine, è che la categoria di “realismo” allude, a volte consapevolmente e a volte istintivamente, a una serie di opposizioni tutte ideologiche e tutte reversibili, o discutibili: oltre a quella fra essere e dover essere, c’è quella fra ordine e libertà, fra coazione e spontaneità, fra guerra e pace, al limite fra male e bene, natura e spirito, fra destra e sinistra, disuguaglianza e uguaglianza, fatti e valori, conservazione e progresso, serietà e gioco. Dove il realismo è il primo termine, e l’idealismo il secondo. Ovvero, dove il realismo è la difesa dell’esistente nella sua durezza e l’idealismo è lo sforzo di superarlo – vano, per i realisti, utile e doveroso per gli idealisti – (mentre in realtà il primo esempio di prosa attica, lo Pseudo-Senofonte, è tanto “realistico” quanto schierato contro l’esistente – la democrazia ateniese –).

In verità, la “realtà” politica è una costruzione, una selezione d’esperienza, un montaggio di cause ed effetti; non è “là fuori” ma è interna al pensiero; ed è interna a una lotta fra pensieri, che di volta in volta assume profili diversi. Realismo è un nome che nasce da un conflitto d’idee e di posizioni pratiche in un determinato tempo su un determinato problema contro determinati avversari. I politologi realisti americani erano mossi da una polemica anti-wilsoniana (anti-universalistica) che li portava a interpretare le relazioni internazionali come ineluttabile rapporto di forze tra entità politiche (rapporti a loro volta variamente interpretati e orientati verso un ordine). Ogni volta la realtà è re-interpretata, ogni volta sono identificate le “leggi” della politica, a scopi ogni volta polemici. Qui veramente la realtà è un cumulo di vissuti2

In Tucidide realismo è la lotta contro il mythos e la narrazione indiretta e favolosa dei fatti; in Machiavelli è la lotta contro la morale tradizionale applicata alla politica; in Hobbes è la lotta contro tutta la tradizione antica e medievale per una politica “scientifica”; in Hegel è la lotta contro l’illuminismo e il liberalismo; in Marx è la lotta contro Hegel e contro l’economia politica; inMosca è la lotta contro l’egualitarismo democratico; in Schmitt è la lotta contro l’universalismo giuridico-morale.

In ciascuna di queste posizioni – dei “realisti” e degli “idealisti” – è compreso tanto un “essere” quanto un “dover essere” quanto una polemica. In Machiavelli l’essere è la conflittualità e l’aggressività umana (la lotta fra i Grandi e il Popolo) e il dover essere è la ridirezione di questa conflittualità, che nasce dall’avarizia (dal possesso), verso obiettivi politici espansivi (la virtù) ed espansionistici (la guerra), al fine di suscitare una qualche efficacia politica in un’Italia troppo debole e divisa. In Hobbes l’essere è il materialismo e l’individualismo possessivo, insieme alla guerra civile (insomma, lo stato di natura), e il dover essere è l’uscita dallo stato di natura e la costruzione dello Stato politico come dispositivo efficace di pace, di garanzia della proprietà, e di salvezza umana e oltreumana. In Kant l’essere è l’insocievole socievolezza, il legno storto dell’umanità, che coesiste col dovere morale e con la possibile interpretazione progressiva della natura, e della natura umana, verso la coesistenza universale nel diritto. In Hegel c’è l’essere come dialettica, come presenza propulsiva del limite e del negativo nel cuore del reale, e c’è il dover essere come obbligo di essere all’altezza delle possibilità conoscitive e pratiche che il tempo offre (non si può essere migliori del proprio tempo, ma si deve stare nel proprio tempo nel modo migliore). In Marx c’è l’essere (il capitalismo) e il dover essere (svelarne le contraddizioni reali per liberare la natura umana reificata). In Donoso c’è l’essere (la nullità della creatura umana, il suo bisogno di autorità) e il dover essere (la lotta contro la modernità e i suoi esiti). In Mosca c’è l’essere, la necessaria struttura elitaria della politica, e il dover essere (l’obbligo di riconoscerla e di gestirla in chiave anti-socialista). In Schmitt c’è l’essere, il ‘politico’, e il dover essere (la coazione alla forma politica concreta), in lotta contro Versailles, Ginevra, Weimar (com’egli stesso dice).

Questi sono solo esempi del fatto che in ciascun autore c’è una realtà, un ideale, una lotta. E quindi, più in generale, anziché costruire la categoria di “realismo” (e di “idealismo”), e metterci dentro questo o quell’autore – che è una mossa dal significato didascalico ed esteriore, ma che non restituisce la realtà di una prestazione intellettuale –, è meglio vedere qual è la concretezza storica in cui ogni autore si muove, capire in ciascuno degli autori che cosa significano – e per quali motivi (e contro chi) – la parola “realtà” e la parola “politica”.

In positivo, “realismo” (e “realismo critico” che ne è la determinazione più efficace) è una posizione epistemologica e politica complessa, che esige un’analisi dell’esperienza storico- politica la più estesa possibile, in cui le scienze sociali siano utilizzate ma che vada anche oltre la loro descrittività, per catturare ciò che vi è di radicale e distintivo in una fase storica; all’estensione deve affiancarsi l’intensità, la discesa verticale: l’attività teoretica della critica. Al tempo stesso, la critica deve sottoporsi ad auto-critica, ovvero deve essere consapevole della propria determinatezza e condizionatezza; deve quindi sapere che al fondo verso cui tende non c’è la Verità, ma un nucleo di relazioni soggette a diverse interpretazioni, e soprattutto un nodo di contingenze e di contraddizioni, concrete ma non stabili né calcolabili. Questa è la “realtà” instabile (ma effettuale) del “realismo critico”; una realtà mai del tutto piegabile e neutralizzabile in un logos, o in una tecnica, o in una morale. Una realtà che ha un inizio e un fine concreti: la proprietà privata e la libertà del razionalismo liberale, la posizione di classe e la storia del pensiero marxista (nel caso di Schmitt, la contingenza assoluta).

Il realismo, insomma, rifiuta il “dover essere” (la norma universale) nel momento dell’analisi: cerca nella concretezza storica quell’inizio, l’origine, e quel fine. E si differenzia – ogni volta, in modi diversi – dall’idealismo appunto come il concreto dall’astratto, dal cattivo universale che si abbatte sulle concretezze come una vuota Legge (e dal cattivo particolare, che crede di bastare a se stesso, e nulla sa delle proprie cause e delle proprie origini). E questo è un punto centrale, come è centrale che la prestazione del realismo è incompleta se prescinde dalla lotta contro altre posizioni – delle quali denuncia la condizionatezza inconsapevole, la ideologicità –.

Come si vede la scoperta di “leggi”, l’antropologia negativa, la difesa dell’esistente, sono fuori da questo orizzonte; o meglio sono solo forme di autolegittimazione di questa o quella realtà storico-politica concreta. Non è fuori, invece, la progettualità, inevitabile tanto quanto la condizionatezza, la concretezza e la polemicità; la progettualità nasce infatti dall’adesione stessa al reale (nel senso sopra esposto): se l’adesione è critica, se è condizionata (com’è inevitabile), è anche “orientata”, diretta a un fine. Il realismo critico implica quindi oltre all’autocritica anche il dover essere; ne è auto-criticamente consapevole. Ma, almeno, è sempre impegnato a indicare come il dover esser possa nascere dall’essere, come sia lo sviluppo non necessario ma possibile di contraddizioni, eventi, processi, tensioni concrete che costituiscono la trama del reale. La proiezione di un dover essere incondizionato, di una fantasticheria consolatoria, di una razionalità assoluta e universale, non fa parte del realismo critico; come non ne fa parte (benché possa esserci) la chiusura dogmatica sul presente, l’assenza di immaginazione. Il vincolo che il realismo critico non può eludere è dato dal calcolo dei costi reali del dover essere che inevitabilmente ha in sé; e dal calcolo dei passaggi storici necessari a realizzarlo, nonché dall’individuazione dei soggetti che di quel dover essere si suppone possano essere i portatori. Il realismo critico è responsabile, oltre che radicale: risponde alla domanda di un “che fare?”, privo di certezze dogmatiche e aperto alla contingenza.

A questo punto, c’è da chiedersi quale sia il concetto di “realtà” di Schmitt; quale sia il concetto di “politica”; dove stia la capacità critica del suo pensiero, e fin dove arrivi.

 

2. Schmitt – la struttura del reale

L’interpretazione che Schmitt dà della realtà sta nella sua teologia politica, ed è ostile all’individualismo, alla soggettività libera3 (cfr. Romanticismo politico) ma anche al normativismo e all’economia politica. Questa ostilità è dettata dal fatto che egli vede in queste posizioni la pretesa di sottomettere la realtà storico-politica a una norma universale, a un’interpretazione e a una progettualità semplificatrici.

“Reale” per Schmitt è il doppio volto del Moderno, la coazione all’ordine e l’impossibilità dell’ordine; e questo doppio lato del Moderno è visibile grazie alla teologia politica, il quadro epocale che tiene insieme secolarizzazione (i concetti politici sono concetti teologici secolarizzati, sono la permanenza, in altra guise, del pensiero dell’ordine) e resto originario, e deficitario, non razionalizzabile, una strutturale mancanza di sostanza che è anche una coazione all’ordine.

Schmitt muove dalla questione della Rechtsverwirklichung, della realizzazione pratica dell’idea giuridica di ordine, sull’impulso della più tradizionale linea teologico-politica che si snoda fra i controrivoluzionari cattolici da una parte e Thomas Hobbes dall’altra4. Schmitt, nemico della Grande Separazione liberale moderna fra religione e politica, assume che la modernità sia la secolarizzazione della tradizione teologica, ma la chiave della posizione di Schmitt non è solo l’analogia fra sovranità e onnipotenza di Dio (l’analogia, di origine controrivoluzionaria, fra modi della metafisica e forme politiche) che pure egli accetta, ma soprattutto quella fra decisione e miracolo. La teologia politica schmittiana comprende la struttura logica delle legittimazioni della modernità come un re-impiego politico dei concetti teologici in un contesto contrassegnato originariamente dal Nulla-di-Ordine, dall’assenza della trascendenza e di ogni ordine ben fondato; decisione e miracolo, infatti, sono entrambi lo sfondamento della norma.

La sovranità, però, è solo in parte analoga al miracolo: infatti, la sua azione, la decisione, si dà in un tempo, la modernità, in cui l’ordine è assente, e non ha alcuna base ontologica: a differenza dell’ordine tradizionale, che il miracolo lacera solo momentaneamente5 , l’eccezione è la norma del Moderno; non è occasionale ma originaria, e agisce dentro il Moderno come un principio di indeterminazione, e al contempo come coazione alla forma. E la decisione, l’azione politica adeguata all’eccezionalità della politica moderna, non solo sospende e sovverte gli ordini ma si fa anche carico di fondarli – in quanto sospesi sul Nulla –. E’ dopo tutto l’ordine a essere il vero “miracolo” nell’epoca della “normalità” dell’eccezione: è l’ordine a disporsi in forme successive che sono analoghe a quelle della teologia, con la decisiva differenza che il loro centro è vuoto di sostanza, e quindi gli ordini sono tutti instabili, infondati. Sono mediazioni sospese sul nulla. Teologia politica, per Schmitt, è a un tempo necessità della forma e disincanto di quella necessità. È in riferimento alla trascendenza assente che Schmitt comprende l’immanenza, la sua struttura, le sue coazioni: teologia politica è per lui scoprire il punto cieco del Moderno, la sua incompletezza, la sua immediatezza, la sua contingenza, e al contempo la potenza dell’assenza della trascendenza che si manifesta nella coazione moderna tanto a distruggere quanto a costruire, a restare cioè all’interno della metafisica che pure è sempre negata.

In concreto, la normalità dell’eccezione è la permanenza del ‘politico’ come rapporto amico/nemico; e significa, sotto il profilo politico, che lo Stato è tutt’altro che stabile, ma non tanto perché è percorso dalla dialettica socio-economica quanto perché è originariamente indeterminato dal ‘politico’, ovvero dall’eccezione e dalla decisione, dal potere costituente, affacciato sulla rivoluzione. Il ‘concreto’ che Schmitt persegue per tutta la vita sono gli ordini politici puntuali e decisi (e quindi sciolti dalla prospettiva di progresso storico) che, soli, la modernità consente. A differenza di Nietzsche, che lo rifiuta in quanto “debole”, Schmitt scopre e rende operativo e produttivo di forma il nichilismo della modernità. E’ nella teologia politica – molto più che nell’antropologia negativa alla quale pure ricorre soprattutto nella fase tarda del suo pensiero6 – la radice del “realismo” di Schmitt; un realismo che non si manifesta nell’individuazione di “leggi” o “regolarità” naturali della politica, ma che agisce come indeterminazione di ogni discorso e struttura d’ordine, e al contempo come coazione alla produzione di ordine concreto e puntuale. Un realismo polemico contro il ben più agguerrito idealismo dei formalisti, contro la potestas indirecta dei moralismi, contro le utopie di piena giuridificazione del reale.

L’ordine non nasce dal soggetto individuale: nemmeno dal sovrano: è infatti evidente che il soggetto dell’agire politico (il sovrano) è indeterminato e occasionale, che è la funzione che attiva l’indeterminazione strutturale dell’ordine («sovrano è chi decide sul caso d’eccezione»); ed è altrettanto evidente che qui il Male è l’inconsapevolezza della struttura teologico-politica dell’ordine moderno, e l’inerzia e l’inefficacia che ne conseguono: nel libro sul Parlamentarismo il razionalismo liberale è infatti iscritto in una inconsapevole metafisica della discussione, affine all’eterno dialogo dell’occasionalismo romantico 7 . Insomma, Male è l’inconsapevolezza dei limiti del logos individualizzante e universalizzante, è la debolezza politica della potenza tecnica; Bene è la forza puntuale che spezza e crea l’ordine, ovvero la decisione (che, nel suo spasmo nichilistico, è però anche parte del problema) e, nella fase più tarda, il Nomos che è taglio e presa di possesso, ma anche ordinamento concreto (non neutrale ma orientato, eurocentrico)8.

Per Schmitt, quindi, non è possibile pensare il Moderno, come fa Hegel, come l’evolvere progressivo della sostanza che si apprende in forme sempre più adeguate, dalla religione alla filosofia. Su questo punto c’è uno iato insuperabile fra il giurista cattolico e il filosofo luterano; il Moderno non consente né promette conciliazione ma permanente conflitto. Ma alla dialettica protestante Schmitt non oppone né la neutralizzante auto-interpretazione razionalistica della modernità come laicizzazione, né il fondamentalismo cattolico. La sua posizione è quella di una continuità formale e di una discontinuità sostanziale fra religione e politica (opposta a quella di Hegel, quindi; come del resto Schmitt è lontano da Marx, la cui mediazione materialistica e dialettica ha come obiettivo un’immediatezza conciliata, cioè il comunismo, e solo tangente rispetto a Weber e al suo individualismo metodologico); e, a differenza anche di Hobbes, per Schmitt il moderno svuotamento della religione, il suo persistere come schema trascendentale dell’ordine politico, non dà vita a un ordine razionale tendenzialmente stabile.

Schmitt tenta, nel dopoguerra di uscire dal paradigma decisionistico e nichilistico che la sua teologia politica gli consegna (con ben altri esiti, anche la fase nazista può così essere interpretata): ma certo non esce dalla teologia politica né dalla metafisica. A questo tentativo appartiene la Teologia politica II, con la confutazione della confutazione di Peterson (per Schmitt la teologia politica non può essere liquidata teologicamente perché è attinente a un ambito metafisico e politico, non teologico9) e anche la seconda interpretazione di Hobbes come cristiano, dopo una prima interpretazione (1938) del Leviatano decisionista e positivista 10 che vi aveva visto, prevalentemente, un mito o una macchina: il “compimento della Riforma”11 realizzato da Hobbes è per Schmitt (1965) il superamento della mediazione pontificale cattolica e di quel suo residuo che è la potestas indirecta, e anche il superamento politico dell’individualismo moderno nella sua forma più destabilizzante (della riserva interiore giudaica e luterana); ma è anche la permanenza della trascendenza non come fondamento della politica, ma pur nella sua assenza, come suo orizzonte di senso. La politica moderna può essere solo cristiana, solo teologia politica. E può solo perdere, progressivamente, la consapevolezza di questa sua origine.

Già dalla prima metà degli anni Quaranta Schmitt ha introdotto la fortunata immagine del katechon, da lui dapprima interpretato come potere politico territoriale e continentale, opposto alle potenze tecnico-marittime-capitalistiche ignare di decisione, di confini, di concretezza, e aperte al potere indiretto, all’illimitato, all’uso politico in senso discriminatorio (la guerra giusta) della morale e del diritto; in seguito, come concetto e figura di un potere che non solo trattiene il Male nella storia ma anche che rende possibile la storia in generale, come alternativa rispetto alle dinamiche progressiste della tecnicizzazione, della democratizzazione del Mondo e della sua unificazione comunista o capitalistica. Contro il progresso che annichilisce e svuota la storia, il katechon non è più, nella fase finale del pensiero di Schmitt, una specifica forma storica ma è il cristianesimo che con la sua assialità – che si incardina nella concreta nascita di Cristo – potrebbe salvaguardare la storia stessa sottraendola alle derive entropiche dell’automatismo e del caos; è insomma la consapevolezza della insuperabilità della teologia politica (una consapevolezza che la storia sta tuttavia smentendo, secondo lui) – Schmitt resta pensatore dell’origine, insomma, ma l’origine, ora, non è più la decisione quanto piuttosto l’Incarnazione – .

Se la teoria del nomos è il frutto più maturo dello sorzo di Schmitt di uscire dalla instabile realtà del decisionismo, il libro sul Nomos, al di là della sua utilizzabilità contemporanea, è un libro epimeteico, che ripercorre ex post la vicenda moderna all’insegna di un fallimento epocale. La teologia politica con la sua duplice spinta alla decisione e alla forma, pare al vecchio Schmitt del tutto tramontata.

Qui il suo realismo diventa nostalgia.

3. Schmitt – guerra e politica

Se “realismo” è insistere sul ruolo centrale che la guerra ha come fenomeno politico – anche senza darne un giudizio di valore positovo, s’intende –, Schmitt è senz’altro realista. La parola chiave è a questo riguardo “coappartenenza” di guerra e politica (ovvero, il “politico”).

Ma la coappartenenza ha cause storiche e metafisiche. E’ la crisi della statualità moderna, e quindi anche della distinzione fra pace e guerra, e del controllo della politica su quest’ultima, a costituire il problema politico che interessa Schmitt12.

Il significato del concetto di ‘politico’ come rapporto amico/nemico, inteso da Schmitt quale origine della politica, è che nelle associazioni umane abbastanza intense da meritare il nome di ‘politiche’ c’è, oltre che un principio di unione, anche un principio di dissociazione, di ostilità e di esclusione interne prima ancora che esterne; la disponibilità reale a essere uccisi e a uccidere è la caratteristica, e lo stigma, del ‘politico’, della sua “serietà”13. La guerra è l’anomia che sta all’interno del nomos come sua origine: e ciò non solo implica il primato della guerra civile sulla guerra esterna, ma riconosce le istituzioni politiche come nate da un conflitto che va controllato – del quale dunque deve esserci consapevolezza – e che non può essere espunto o neutralizzato del tutto, com’è l’obiettivo del razionalismo (anche la principale riserva di Schmitt su Hobbes sta nella sua concezione dello Stato come di una macchina tecnico-razionale).

Non ci si deve far prendere la mano dalla nostalgica descrizione della “guerra in forma” moderna, della chiara distinzione fra pace e guerra, derivante dalla distinzione sovrana- statuale fra interno ed esterno, che Schmitt tratteggia a partire dai tardi anni Trenta e che porta a compimento nel Nomos della Terra14 ; la guerra classicamente limitata allo scontro fra forze armate in divisa, espressione degli Stati europei, è una breve eccezione storica (molto stilizzata, se non esagerata, da Schmitt). E’ nella crisi novecentesca delle istituzioni neutrali della modernità che emerge per Schmitt proprio quell’immanenza del disordine e del conflitto rispetto alla pace che è l’origine autentica e ineliminabile della politica. Che è problema ma è anche la verità più radicale a cui egli possa attingere.

La politica come la vede Schmitt è energia totale; almeno in potenza, è un parossismo onni- coinvolgente che non lascia sussistere alcuna delle distinzioni classico-moderne (pace e guerra, civile e militare, pubblico e privato, popolo e istituzioni, Stato e società), e che dà quindi luogo sia alla politica totale sia alla guerra totale. Schmitt, insomma, sa che la politica contiene la guerra, e che anzi l’ordine può essere tale solo se accetta il disordine, e se si struttura intorno ad esso. Solo negandosi l’ordine politico può, precariamente, affermarsi. E qui, nel primato logico della guerra civile sulla guerra esterna (non però nell’accezione machiavelliana, e piuttosto come rovesciamento speculare di quella hobbesiana), sta tutta la distanza di Schmitt rispetto alla forma classica dello Stato.

Certo, Schmitt si pone il problema di controllare, senza che mai possa esser abolito, il nesso guerra/politica, di renderlo ancora una volta concreto, produttivo di forma politica. Da questo punto di vista, Schmitt prosegue gli sforzi di Hobbes, di Hegel, di Clausewitz: gli sforzi di pensare in senso ordinativo la prossimità di guerra e politica, anzi il loro inestricabile co-appartenersi, dopo il fallimento dei loro tentativi, cioè nella crisi ormai irreversibile dello Stato. E, nonostante il rovesciamento categoriale a cui la sottopone, c’è in Schmitt anche una nostalgia della statualità. Infatti, l’obiettivo di Schmitt è di sfruttare a scopi ordinativi proprio l’impossibilità dell’ordine, cioè l’accompagnarsi dell’ordine al conflitto. E a questo scopo è orientata la presenza del sovrano o del partito, o del partigiano (anch’esso nemico “concreto”, non “assoluto”)15, a seconda di quello che Schmitt pensa di volta in volta praticabile nel corso della sua lunga esperienza esistenziale e politica: l’agire politico è il gesto con cui un soggetto politico determina il nemico per determinare se stesso come amico, si dissocia per associarsi, esclude per includere. L’ordine è possibile, purché conservi in sé il disordine originario.

Quindi, a differenza di Jünger, Schmitt non attribuisce rango ontologico sovrumano e intrinseche capacità morfogenetiche all’automovimento del complesso tecnica/guerra. Non è, per lui, la ‘sostanza’ ad agire, ma attori politici determinati: e l’esito dell’azione non sono sacrifici umani, sì l’istituzione politica, o, comunque sia, un’affermazione di ordine, anche spaziale (meno che mai, inoltre, per Schmitt nella guerra ne va dell’Essere, come per Heidegger).

Schmitt è, infatti, il grande avversario del tentativo di rimediare alla crisi dello Stato attraverso la costruzione del diritto internazionale e la riduzione del ruolo della sovranità. La raffigurazione dello spazio internazionale come un’unità indifferenziata, da cui la guerra deve essere espulsa come un crimine, è frutto, per lui, dell’ignorare la indistinguibilità originaria di guerra e politica, che tuttavia permane, e anzi si aggrava. E’ dall’oblio – da addebitarsi alle potenze marittime 16 e liberali anglosassoni – dell’origine della politica (del ‘politico’) che la politica è resa ancora più polemica, e la guerra discriminatoria, e pertanto ancora più distruttiva: ‘guerra giusta’ contro il nemico criminalizzato17. Il “realista” politico teme, in realtà, gli “idealisti” come più efficienti e più letali. Ma non è nell’azione di polizia internazionale di entità sovranazionali che, per lui, si deve cercare la soluzione al problema costituito dalla drammatica scoperta del fatto che guerra e pace non sono più distinguibili; sì invece occorre farne l’origine di un nuovo ordine, di una nuova ripartizione mondiale dello spazio. Che è contenuta nell’idea schmittiana di “Grande spazio”18 – che nondimeno dal punto di vista del rapporto fra guerra e politica non è particolarmente innovativa e ricalca logiche tradizionali di statualità –.

Quindi, Schmitt ripropone la discontinuità moderna, non qualitativa, fra spazio interno e spazio esterno, fra legge e conflitto, fra pace e guerra, fra criminale e nemico. Ma la sua è una ‘restaurazione’ solo apparente: in realtà, tanto all’interno quanto all’esterno, lo spazio è attraversato dalla violenza, e non è quindi uno spazio neutrale o neutralizzabile, ma sempre orientato al conflitto e all’esclusione (è questo il senso anche della tarda teoria del Nomos): è uno spazio che incorpora il conflitto nella politica.

Se bellicismo è pensare e praticare una politica orientata alla guerra, Schmitt è quindi più che bellicista: la sua teoria contempla non solo la fine dell’equilibrio fra guerra e politica, ma anche della loro distinzione categoriale, e, nonostante l’assetto ordinativo neo-classico del suo pensiero, apre squarci inquietanti sulla diffusione della violenza dentro la politica.

La costante lotta contro l’universalismo giuridico, che per lui altro non è che una concezione poliziesca, moralistica, criminalizzante e discriminatoria della guerra, vede Schmitt sempre impegnato alla “concretezza”, affidata via via alla decisione sovrana, al Grande Spazio, alla “guerra totale”: questa è per lui una guerra integrale – cioè una guerra che coinvolge Stato, società, esercito e partito, economia, politica, ideologia; insomma tutte le forme dell’umana esistenza – ma non è discriminatoria perché è rivolta contro un nemico altrettanto totale e concreto19. E’ la guerra che coinvolge tutte le energie, senza distinzione fra Stato e società.

La guerra totale, come fu pensata e gestita dal nazismo, fu invece ferocemente discriminatoria, non integrale ma belluina, non la manifestazione di una forte identità sicura di sé che affronta i propri nemici, ma di un’indistinzione caotica, di un delirio angoscioso. All’acume di Carl Schmitt – capace di fargli comprendere che il nemico è, nella modernità, fattore di forma politica, e che questa, al rovescio, è percorsa dal ‘politico’, dal conflitto – è sfuggito che proprio la Germania totalitaria riproduceva in se stessa, potenziandola, sia l’abnorme “situazione intermedia”, la zona grigia di indistinzione fra pace e guerra, sia l’interpretazione discriminatoria e moralistica del conflitto, la criminalizzazione e la disumanizzazione del nemico, della cui sostanza sociale e biologica perseguiva la distruzione. Schmitt fu cieco davanti a ciò, e rimase fermo alla denuncia del fatto che furono gli alleati – liberali, democratici e comunisti, accomunati dall’universalismo, pur diversamente declinato – a condurre una guerra totale discriminatoria contro la Germania20 , e a praticare la criminalizzazione del nemico vinto; e al rimpianto – incoerente con l’essenza del suo pensiero – per lo juspublicum europaeum, ormai tramontato con la sua concettualità politica chiara e distinta.

 

4. Conclusione

Si potrebbe interpretare alla luce del “realismo” la posizione di Schmitt nel 1931 e nel 1932, nella crisi di Weimar21. Egli fu realista perché fu capace di uno sguardo politologico, giuridico e storico-teorico radicale: uno sguardo che gli consentì di formulare diagnosi e categorie che entrarono nel dibattito coevo, condivise anche da autori di opposto orientamento. Vide insomma la disperata situazione del parlamento tedesco e dello Stato tedesco, senza veli ideologici anti-democratici: anzi, il suo sforzo andò verso la difesa dell’assetto istituzionale di Weimar, che egli vide sempre come compromissorio ma anche come espressione di una vera decisione sovrana del potere costituente del popolo tedesco. Una difesa che egli volle affidare – e anche qui fu realistico – non ai partiti (che erano il problema, nella loro polarizzazione estrema) ma al presidente, attorno a cui volle costruire uno “Stato dei presidi” necessariamente autoritario, ma in grado di tenere fuori dal potere Hitler (e i comunisti). Si illuse invece nel pensare che ci fosse qualcuno che volesse salvare Weimar, sia pure al caro prezzo che egli proponeva; in realtà tutti i poteri forti della Germania transitarono verso Hitler appena Hindenburg lo nominò Cancelliere (con lo scopo di tenerlo a bada), e Schmitt si trovò anch’egli a collaborare col nuovo ordine, prendendo atto del suicidio della repubblica.

Opportunismo, carrierismo e cinismo spiegano questo passaggio; che è spiegato soprattutto dal fatto che nel cuore del pensiero di Schmitt c’è uno spazio vuoto (l’eccezione) che può essere riempito da ogni contenuto (l’occasionalismo di Schmitt); ma certo non è il “realismo” (se non nell’accezione più ovvia di riconoscimento del fatto compiuto – da altri –) a ispirare la sua adesione al nazismo. Che è stata preceduta, semmai, da un’illusione.

Ma in conclusione, benché affetto da nostalgia, cecità, ingenuità, il pensiero di Schmitt è realistico, e non nel senso banale, oggettivo (le “leggi” della politica) o ideologico (la difesa della tradizione, l’esaltazione della legge del più forte). E’ realistico perché tenta di pensare la realtà senza sovrapporvi filtri universalistici, perché cerca di cogliere la contingenza, la concretezza. E quindi è ben lontano da “realisti” come Hegel (in Schmitt non c’è la dialettica) e come Machiavelli (che non conosce la teologia politica dell’assenza).

Ma naturalmente Schmitt (come del resto nessun altro) non può non sovrapporre filtri al reale; e infatti, la contingenza è da lui colta come “assenza della trascendenza”, per via paradossalmente metafisica. Potente correttivo al razionalismo e al pensiero dialettico (a loro volta capaci di realismo, sia pure declinato diversamente, intorno alla proprietà, o alla classe), certo; un realismo tardo-moderno, quello di Schmitt, interno al pensiero negativo.

Ma è un realismo che, benché radicale, non è sufficientemente auto-critico. Schmitt vive e muore all’interno del “suo” realismo senza mai metterne in causa gli assi categoriali. Dalla trappola metafisica assenza di ordine-coazione all’ordine, non esce mai. Da qui, appunto, nostalgia e cecità. Ma si deve anche dire che il non saper saltare oltre la propria ombra, il non poter uscire dalla propria pelle, che chiediamo a Schmitt, non è impresa facile. Egli non ha nemmeno voluto tentarla, certo. Ed è proprio per questo che Schmitt vale come strumento e non come dogma; non come ultima parola del realismo critico, ma come esempio concreto, storicamente datato, che ci spinge a pensare (anche) con Schmitt oltre Schmitt.


Note
1 P.P. Portinaro, Il realismo politico, Roma-Bari, Laterza, 1999; A. Campi – Stefano De Luca (a c. di), Il realismo politico. Figure, concetti, prospettive di ricerca, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014
2 F. Nietzsche, La gaia scienza (1882), Milano, Adelphi, 1977, libro II, afor. 57, p. 78
3 C. Schmitt, Romanticismo politico (19252), Milano, Giuffrè, 1981
4 Id., Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità (1922), in Id., Le categorie del‘politico’, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 27-86; Id., Sul Leviatano, Bologna, Il Mulino, 20112
5 Id., La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria (1921), Roma-Bari, Laterza, 1975, p. 151
6 Id., Il concetto di ‘politico’ (19323), in Id., Le categorie del ‘politico’, cit., pp. 87-208 (: 150, in una nota aggiunta nell’edizione del 1963)
7 C. Schmitt, Romanticismo politico, cit.; Id., La condizione storico-spirituale dell’odiernoparlamentarismo (19262), Torino, Giappichelli, 2004
8 Id., Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum” (1950), Milano, Adelphi, 1991
9 Id., Teologia politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica (1970), Milano, Giuffrè, 1992
10 Id., Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes. Senso e fallimento di un simbolopolitico (1938), in Id., Sul Leviatano, cit., pp. 35-128
11 Id., Il compimento della Riforma. Osservazioni e cenni su alcune nuove interpretazioni del“Leviatano” (1965), ivi, pp. 129-165
12 Id., Il concetto di ‘politico’, cit. (alle pp. 193-203 il saggio del 1938 Sulla relazione intercorrente fra i concetti di guerra e di nemico); Id., La guerra d’aggressione come crimine internazionale (1945), Bologna, Il Mulino, 2015; Id., Il nomos della terra, cit.; Id., Stato, Grande spazio, Nomos, Milano, Adelphi, 2015
13 Id., Il concetto di ‘politico’, cit., pp. 116-118
14 Id., Sulla relazione, cit.; Id., Il Nomos della Terra, cit., pp. 161 sgg.
15 Id., Teoria del partigiano (1962), Milano, Adelphi, 2005
16 Id., Terra e mare (1942), Milano, Adelphi, 2002
17 Id., Il concetto discriminatorio di guerra (1938), Roma-Bari, Laterza, 2008
18 Id., Il concetto d’Impero nel diritto internazionale. Ordinamento dei grandi spazi con esclsuionedelle potenze estranee (1939), Roma, Istituto nazionale di cultura fascista, 1941
19 Id., Nemico totale, guerra totale, Stato totale (1937), in Id., Posizioni e concetti. In lotta conWeimar-Ginevra-Versailles (1940), Milano, Giuffrè, 2007, pp. 389-398; cfr. anche Id., Sulla relazione intercorrente fra i concetti di guerra e di nemico, cit., p. 201
20 Id., Il Nomos della Terra, cit., pp. 429-431
21 Id., Il Custode della Costituzione (1931), Milano, Giuffrè, 1981; Id., Legalità e legittimità (1932), Bologna, Il Mulino, 2018

FONTE:https://www.sinistrainrete.info/teoria/17683-carlo-galli-carl-schmitt-e-il-realismo-politico.html

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

Come gioca in Somalia il tandem Turchia-Qatar (anche su Silvia Romano)

di 

Turchia Somalia

Caso Silvia Romano. In Somalia si muovono su opposti fronti Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti da un lato e Qatar e Turchia dall’altro. L’approfondimento di Marco Orioles

Così, grazie alla liberazione di Silvia Romano, abbiamo saputo che la Turchia sguazza in Somalia.

Niente di nuovo naturalmente, compresa l’identità degli altri attori che stanno facendo il bello e il cattivo tempo non solo da quelle parti ma in tante altre aree del mondo – dice niente il nome Libia? – e che ovviamente non potevano starsene con le mani in mano in una regione che strategica è dir poco come il Corno d’Africa.

 

Per quanto sia un paese piccolo, economicamente disastrato e privo di stabilità politica da generazioni, la Somalia è diventata da qualche anno una pedina fondamentale del grande scontro in atto per la supremazia politica, militare, culturale ed economica all’interno del mondo islamico.

Un gioco che, in Somalia, vede cimentarsi come altrove su fronti opposti Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti da un lato e Qatar e Turchia dall’altro. Paesi allettati, oltre che dal desiderio di tirare fuori dai guai (leggasi: Shabab) quello che in futuro potrebbe rivelarsi un fedele vassallo, da una collocazione geografica che pone la Somalia a un tiro di schioppo dalle più importanti rotte petrolifere e commerciali del pianeta e la la benedice con un litorale che, qui come nel resto del Corno d’Africa, ha scatenato la corsa a chi se ne accaparra i porti più strategici.

Come già spiegava due anni fa a Reuters il presidente dell’International Crisis Group, Rob Malley, la Somalia si è trovata al centro della corsa frenetica da parte delle potenze islamiche impegnate a “tentare di espandere la propria influenza lungo” queste e le altre coste della regione.

Chi, secondo un diplomatico occidentale confidatosi sempre con Reutersha abbandonato ogni prudenza per tentare di fagocitare la Somalia e, dopo debiti interventi infrastrutturali estesi anche alle vicine Gibuti ed Eritrea, trasformare le sue coste e quelle vicine nel proprio “fianco occidentale di sicurezza” sono stati gli Emirati Arabi Uniti.

Dobbiamo risalire al lontano 2012 per vedere la strategia emiratina cominciare a dispiegarsi in quella che, col passare degli anni, apparirà sempre più come una sua terra di conquista con un piano d’azione articolato in due fasi: l’avvio di operazioni militari in Somalia per contrastare tanto la pirateria che imperversava nelle sue coste quanto l’insurrezione islamista degli Shabab, e l’inizio di uno shopping di infrastrutture portuali passibili di essere utilizzate come avamposti militari nella zona che dal Corno d’Africa va al Golfo di Aden.

Sono almeno una dozzina i porti che, nel tempo, sono passati di mano. E i più problematici, alla fine, si sono rivelati proprio quelli somali su cui gli Emirati hanno cominciato ad affondare le proprie fauci sin dal 2016.

Risale a quell’anno infatti l’investimento di 440 milioni di dollari fatto da DP World, il quarto operatore portuale degli Emirati, per acquisire il controllo del porto di Berbera, che sorge nella regione settentrionale del Somaliland. .All’epoca si vociferava di una presunta partecipazione del governo etiope, che successive rivelazioni di stampa quantificheranno nel 19% delle quote del porto.

Un anno dopo era già bis per gli Emirati con il contratto da 336 milioni di dollari con cui la stessa DP World si aggiudicava i lavori per l’espansione del porto di Bosaso a nord di Mogadiscio, nel cuore della regione semi-autonoma del Puntland.

Pur contenendo già il potenziale per pericolosi incidenti, queste mosse non avrebbero innescato l’odierna guerra di tutti contro tutti in Somalia se non fosse stato per l’avvio, nell’estate del 2007, del conflitto diplomatico interno al Consiglio di Cooperazione del Golfo che vide il Qatar messo all’indice dalle monarchie sorelle per una sfilza di accuse che andavano dal sostegno al terrorismo alle indebite relazioni con il nemico iraniano.

Sebbene si siano fatti sentire dappertutto, gli effetti di questa guerra intestina furono particolarmente intensi proprio in Somalia, trasformatasi seduta stante in uno dei fronti dello scontro.

Come rilevava l’anno scorso il New York TimesEmirati Arabi Uniti e Qatar iniziarono a mettere a disposizioni armamenti e istruttori militari alle opposte fazioni e a chissà chi altri. Se però l’ obiettivo era continuare ad estrarre il massimo vantaggio in termini di nuovi contratti e concessioni da ottenere a scapito dei rivali, il risultato si poté raccogliere anche sotto la forma di una ulteriore destabilizzazione della Somalia e di una sequenza di episodi di violenza dietro cui si intravedevano nitidamente le sagome di lontani burattinai.

Il campanello d’allarme suonò nel febbraio 2019, quando due militanti travestiti da pescatori fecero irruzione nel porto di Bosaso, uccidendo il manager e ferendo tre addetti. L’attacco fu prontamente rivendicato dagli Shabab, a detta dei quali la compagnia emiratina che gestisce il porto, ossia P&O, “occupava” illegalmente la struttura.

La reazione degli attaccati fu veemente come l’accusa rivolta al Qatar di sostenere gli Shabab. Accusa che trovò parzialmente concorde all’epoca una specialista di Somalia dell’Università di Washington con un passato al Dipartimento di Stato Usa, Tricia Bacon, per la quale il Qatar non aveva nemmeno bisogno di stringere accordi con gli islamisti per assicurarsi la loro collaborazione in attacchi alle infrastrutture emiratine. Inquadrare gli Shabab come “proxy” del Qatar, d’altro canto, non faceva che rientrare a pennello nella percezione di un Paese incline ovunque a fomentare e foraggiare le rivolte jihadiste.

Di fronte a questi episodi, e al montare del sospetto di inverecondi rapporti tra Qatar, Turchia e tagliagole assortiti, la reazione non si è fatta attendere, ed è arrivata attraverso la decisione di emiratini e sauditi di dar man forte alla causa secessionista del Somaliland (che Riad ha riconosciuto de facto) e del Puntland.

Il primo affronto si è registrato nella primavera 2018 quando, nel giro di pochi giorni, alcuni funzionari del Puntland hanno fatto tappa negli Emirati per incontrare il management di P&O e discutere di nuovi investimenti portuali, e il presidente del Somaliland Abdiweli Mohamed Ali ha poi accolto nella sua residenza alcuni diplomatici del nuovo partner per discutere su come “potenziare i rapporti bilaterali”.

Diventava nel frattempo di dominio pubblico l’ennesima provocazione: l’accordo tra Abu Dhabi e Somaliland per l’addestramento delle forze di sicurezza di quest’ultima.

Da quel momento in poi, il barometro dei rapporti tra Emirati e Somalia ha virato decisamente verso la tempesta.

La prima contromossa somala fu anzi immediata: il monito del ministro degli Esteri a DP World affinché troncasse i rapporti con i funzionari del Somaliland coi quali era stato appena pianificato lo sviluppo di una zona economica speciale intorno al porto di Berbera. Un accordo che andava annullato, disse  Ahmed Isse Awad, alla luce del fatto che “il Somaliland punta a diventare uno stato indipendente dalla Somalia”, le cui legittime autorità erano state “bypassate” in quella che secondo l’ambasciatore somalo all’Onu Abukar Osman si configurava come una chiara “violazione della legge internazionale”.

Pochi giorni dopo, l’escalation: le autorità somale sequestrarono quasi 10 milioni di dollari in contanti a bordo di un jet degli Emirati in transito nell’aeroporto di Mogadiscio. Quelli che per Abu Dhabi erano soldi destinata a pagare i salari dei soldati e poliziotti somali addestrati dalle truppe emiratine, per Mogadiscio rappresentavano invece il viatico per future azioni volte a destabilizzare il Paese.

A differenze delle scuse somale, che non arrivarono mai, le conseguenze non si fecero attendere, a arrivarono attraverso la repentina cancellazione della cooperazione militare tra Emirati e Somalia. Una collaborazione che si chiuse nell’ignominia di depositi di armi e munizioni degli Emirati in Somalia saccheggiati alla luce del sole.

Ed è proprio questo il momento in cui il Qatar intuisce la grande opportunità. E si mette immediatamente in moto.

A meno di un mese dall’incidente dell’aeroporto di Mogadiscio, Doha staccava un assegno di 385 milioni di dollari per il governo centrale somalo destinato all’assistenza umanitaria, al settore educativo e alla realizzazione di nuove infrastrutture.

Si metteva in moto, nel frattempo, anche la danarosa macchina del Fondo per lo Sviluppo del Qatar, che varò seduta stante una pletora di progetti in favore della Somalia.

All’alba del 2019, la nuova partnership somala-qatarina faceva quindi un passo da gigante con la fornitura da parte di Doha di 68 veicoli corazzati.

Fu l’atto di nascita di una pur embrionale cooperazione militare che si manifestò anche attraverso il trasferimento negli ospedali del Qatar dei soldati di Mogadiscio rimasti feriti negli attacchi messi a segno dagli Shabab.

E siccome da cosa nasce cosa, ecco che poco tempo dopo il ministro degli Esteri del Qatar Sheikh Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani fece tappa in Somalia con un dono: i piani per realizzare, con un cospicuo investimento da parte della Qatar Ports Management Company (Mwani), un nuovo porto a Hobyo, località nella regione centrale di Mudug che riveste un enorme valore strategico per via della sua prossimità con lo stretto di Bab-el-Mandeb, quello da cui transitano ogni giorno innumerevoli petroliere dirette verso il canale di Suez.

Chi non rimase in silenzio di fronte ad una mossa chiaramente concepita come uno schiaffo fu l’Arabia Saudita, che reagì alla notizia dell’accordo sul porto di Hobyo scatenando una campagna mediatica di demonizzazione del Qatar accusato come sempre di finanziare il terrorismo e adesso anche di sfruttare i miseri somali.

A questo punto la leggenda vuole che i sauditi abbiano offerto – ricevendo un secco diniego – 80 milioni di dollari alla Somalia per troncare i rapporti col Qatar. A riferirlo fu un quotidiano locale, che rimarcava “le pressioni esercitate dall’Arabia Saudita sul governo somalo affinché ribaltasse la sua decisione di rimanere neutrale” nella disfida del regno col Qatar.

Indignata per il rifiuto, l’Arabia Saudita replicò accogliendo i pellegrini islamici del Somaliland in occasione dell’annuale pellegrinaggio alla Mecca accettando il passaporto emesso dalle autorità della regione secessionista. Un affronto aggravato dal primo cittadino del Somaliland che poté beneficiare della decisione, ossia il presidente Muse Bihi.

Da allora, i rapporti tra Somalia e Qatar non hanno fatto altro che intensificarsi. Se dunque nel novembre scorso il nuovo benefattore dei somali ha provveduto a donare loro 25 milioni di dollari per estinguere parte del loro debito con la Banca Mondiale, a dicembre l’ambasciatore del Qatar a Mogadiscio è stato il protagonista di una cerimonia durante la quale, alla presenza del ministro dei trasporti somalo e di numerosi parlamentari, sono state donati all’Autorità per l’Aviazione Civile somala numerosi computer, stampanti e altre attrezzature radio destinate agli aeroporti del paese.

Lungi dall’essere finita, la manna del Qatar sembra invece destinata ad intensificarsi quando, nei prossimi mesi, sarà completata e inaugurata la sua nuova ambasciata somala il cui progetto è stato diffuso via Twitter dal Direttore della Pianificazione e delle Relazioni Internazionali del ministero dell’informazione somalo

FONTE:https://www.startmag.it/mondo/come-gioca-in-somalia-il-tandem-turchia-e-qatar-anche-nel-caso-di-silvia-romano/

 

Why the EU must close EUvsDisinfo

 

EU “mythbusters” have 35,000 followers on Twitter (Photo: euvsdisinfo.eu)

On March 6, a large majority of the Dutch Parliament consisting of 10 out of 13 parties, ordered interior minister Kajsa Ollongren to convince her European colleagues to take down EUvsDisinfo.eu, the EU website dedicated to countering Russian disinformation.

Ollongren has made the fight against Russian fake news and disinformation a top priority, and previously stated that she wanted to provide extra means and funding for EUvsDisinfo.

The EUvsDisinfo website is run from EU forieign affairs chief Federica Mogherini‘s European External Action Service (Photo: consilium.europa.eu)

That’s why the parliamentarians added that if she would not make the Dutch case properly, they would send prime minister Mark Rutte to Brussels to do the job.

I think the Dutch parliamentarians are right and I will explain why.

The state should not interfere with the free media.

EUvsDisinfo.eu is a website that reports about disinformation fake news spread by Russian state or private actors.

It maintains an extensive and constantly-updated online database of currently 3,500 media reports that, according to EUvsDisinfo, constitute “disinformation”.

The website is published by the East Stratcom Task Force, an official EU body that was set up in 2015 by the European heads of state.

If your publication ends up in its database, you’re officially labeled by the EU as a publisher of disinformation and fake news.

That is a problem which should not be underestimated.

Since the birth of the Enlightenment, most of us have not only come to accept the principle of democracy as a form of government where citizens – who are principally seen as equals – have the final say in politics, but also the principle of freedom of speech, meaning the natural right of free individuals to freely spread information and absorb information by others without interference by the state.

Freedom of speech is closely associated with other classical citizen rights such as the right to run free media, to free assembly, free association, free education, and on.

The democratic state should not interfere in these areas because if it does, it makes it impossible for the truth to emerge in the public debate leading up to democratic votes. Also, by crippling the mentioned citizen rights the state would kill the source for its own regeneration.

A curtailing by the state of the mentioned individual rights does not become more legitimate when it is democratically decided – even by referendum – because even 99 percent of citizens do not have the natural right to prevent the other one percent from free speech, free association, free education, and so on.

How EUvsDisinfo operates

The above is not an abstract academic discussion. When state bodies interfere with the free media, things quickly go wrong as demonstrated below.

The Dutch parliamentary action against EUvsDisinfo results from the controversy that emerged after three Dutch media outlets – regional newspaper De Gelderlander and two Eurosceptic news websites GeenStijl.nl and TPO.nl with a large cult following – discovered in January that they had been accused of spreading disinformation and fake news by the EU body because of one article published by each of them.

Sadly, there is no space here to describe the cases in detail. But anyone who wants to know exactly how EUvsDisinfo distorted the Dutch media articles, falsely accused them of spreading pro-Kremlin propaganda, refused to fully rectify its obvious errors, and tried to get away with it by offering apparently false excuses, should read the English subpoena of the court case started by the Dutch media outlets against the European Union (as this is the official publisher of EUvsDisinfo).

Only after receiving the subpoena, EUvsDisinfo removed the three articles from their database, without a real rectification and without informing the three media outlets about it.

After their attorneys advised them that their chances in the court room had now severely reduced, the media outlets dropped the case and continued to defend themselves just by words.

Meanwhile, other Dutch media, puzzled by its bizarre accusations, contacted EUvsDisinfo and investigated into its operations. The EUvsDisinfo spokesperson told them they could not visit its headquarters nor were they allowed to speak to its team members.

EUvsDisinfo claims that it is informed by a volunteer network of more than 400 experts, journalists, government officials, NGOs and think tanks.

In reality, Dutch public broadcaster NOS discovered that of the claimed 400 volunteers, only 10 are really active.

Together they reported 75 percent of blacklisted articles, while one single jobless volunteer has been responsible for reporting no less than 25 percent of all 3,500 supposed cases of disinformation.

Even more worrisome is the fact that, long after EUvsDisinfo has removed the three Dutch media reports from its blacklist, EUobserver last week quoted anonymous EU officials involved who still maintain that the Dutch media reports were, in fact, disinformation.

This means EU officials have not changed their attitude at all and apparently plan to keep going on the old way.

How disinformation should be combatted

Of course, the free media should be watched critically just like any other societal institution.

This is the job, however, of other free media, experts, NGOs and non-state media watchdogs. The media should check on the state, not the other way around.

If the media publish libel or slander, then affected individuals or organizations can sue them under the libel and slander laws existing in virtually all European countries.

If state actors run disinformation campaigns meant to manipulate other countries, then governments have highly-sophisticated secret and intelligence services that can track down and counter such campaigns – if only by publishing about them.

There are many claims these days that Russian disinformation threatens our democracies.

In a January 2018 meeting in the European Parliament in Strasbourg, the security commissioner of the European Commission, Julian King, told MEPs and the public that Russia has been “extremely successful” in spreading disinformation.

As evidence he quoted EUvsDisinfo’s 3,500 cases. Danish MEP Jeppe Kofod stated: “Next year the citizens of Europe will elect a new European Parliament. This raises an uncomfortable question: how many seats will Russia get?”

I think we should keep our heads cool and look at the facts.

First, even if we assume that the quoted 3,500 cases (typically online articles of one webpage each) really are disinformation, then we should still remember that there are currently an estimated 130 trillion (130,000,000,000,000) single webpages, the bulk of which are from Europe and the USA.

So the percentage of (claimed) disinformation pages is near zero. Could they really have the extreme effects predicted by EU officials?

Second, Russian state attempts manipulate the democratic process of European countries have been in full swing since at least the 1917 Communist grab to power.

And each year, tens of thousands of elections and referendums are held in Europe on all levels of government – France alone has 35,000 municipalities.

Still, the first hard evidence that even a single political seat or a single referendum vote in Europe was won or lost because of hidden interference by any foreign actor, still has to be produced.

That also goes for the Brexit plebiscite.

Scaring the public with unproven stories that our European democracies are being derailed through hidden manipulation by agents of the enemy, comes uncomfortably close to promoting classical conspiracy theories.

History has shown the destruction caused by them and responsible officials and commentators should refrain from employing them.

In any case, we do not defend democracy, freedom and truth by taking over the methods of those who would like to destroy them.

AUTHOR BIO

Arjen Nijeboer is an independent Amsterdam-based journalist, author and activist. He is board member of Democracy International and staff member of Meer Democratie (“More Democracy” in the Netherlands). With Jos Verhulst, he is author of “Direct Democracy: Facts and Arguments about the Introduction of Initiative and Referendum” (Brussels 2007) which has appeared in 10 European languages.

FONTE:https://euobserver.com/opinion/141458

 

 

China suspected of bio-espionage in ‘heart of EU’

China is building a science park next to GlaxoSmithKline (GSK) research facilities in Belgium

By  

Chinese spies have targeted Belgian biological warfare and vaccine experts, Belgium’s security service suspects.

They are also targeting British pharmaceutical giant and vaccine-maker GlaxoSmithKline (GSK) in Belgium and Belgian high-tech firms, Belgian intelligence fears.

The suspicions were detailed in confidential Belgian reports dated from 2010 to 2016, seen by EUobserver.

They were meant to alert Belgian authorities to the threat of Chinese military, scientific, and medical espionage.

But the Belgian suspicions have no direct link to the current coronavirus pandemic, which started in China in December 2019 due to natural causes, according to the scientific consensus.

And the reports, which were written by Belgium’s homeland security service, the Veiligheid van de Staat (VSSE), nowhere accused China of having a covert biological weapons programme.

For its part, the Chinese EU mission denied any wrongdoing in Belgium and told EUobserver that China always acted “in accordance with local laws”.

But one of the confidential Belgian reports, from 2016, said: “This area [biological warfare and vaccines] is of great interest to Chinese [intelligence] services. Both defensively, because China, due to its overpopulation, is very exposed to epidemics, as well as offensively, since it has studied Ebola as an offensive vector”.

The VSSE reports were based on multiple human informants.

And Chinese spies were not the only ones who showed “interest” in the subject, they indicated.

Jean-Luc Gala, a top Belgian bioweapons expert, used to have a “suspicious” Russian assistant, the VSSE noted.

“I was as much a target from the US, Russian, Chinese, or even African sides,” Martin Zizi, a second Belgian former bioweapons expert, also told this website.

Building in (UCL) university campus that houses Belgian bioweapons unit and suspected Chinese spies (Photo: google.be)

Zizi and Gala

Bioweapons were banned by the 1975 Biological Weapons Convention, a multilateral treaty.

But many countries do military research on biological warfare, alongside medical studies on virology and epidemiology, to be on the safe side despite the treaty guarantee.

“Vaccines are the first line of defence in a [potential] biological conflict,” a Belgian security source told EUobserver.

And vaccine breakthroughs can be national and corporate goldmines in crisis situations.

The VSSE already warned about Chinese bio-espionage a decade ago.

Chinese spies had targeted Zizi, a former bioweapons inspector for the Belgian military, who was, in 2010, a science professor at the Vrije Universiteit Brussel (VUB), the VSSE said in a report from February of that year.

Zizi was very friendly with a Chinese scientist, whom he had “introduced into the scientific and medical milieu” in Belgium, the VSSE said.

But the Chinese scientist used to be a military doctor in the Chinese army, the VSSE noted, and “she might keep too-close ties with her country in general and her former employer in particular”, it added.

“She was obviously MSS,” the Belgian security source told EUobserver, referring to China’s Ministry of State Security (MSS).

China also targeted Jean-Luc Gala, another Belgian biological warfare specialist, the VSSE reports indicated.

Gala is the head of the Centre de Technologies Moléculaires Appliquées (CTMA), a Belgian military-private joint venture that does bioweapons research.

He is a retired colonel who went on an EU co-financed mission to fight Ebola in Africa six years ago.

He used mobile laboratories developed by the CTMA and spent part of his time in remote areas of Guinea testing Avigan, the VSSE said in a 2014 document, referring to a Japanese anti-viral drug, which is now being studied in the battle against coronavirus.

The CTMA itself was described as being “ahead of its time on the subject of bioterrorism”, by the Belgian spy service.

It is located on the campus of the Université catholique de Louvain (UCL) in Louvain-la-Neuve in central Belgium.

But a few years ago, the VSSE noted that two curious Chinese entities had opened offices on a different floor of the same campus building that housed a unit of the Belgian bioweapons institute.

The first one, Beijing ZGC Science Park, folded in 2018, and had been a “non-specialised wholesale trade” company, according to its declarations in the National Bank Belgium.

The second one, Shenzhen European Office, is a branch of a Chinese regional development agency and is still operating at the same UCL address.

But one of its top people, a Chinese official, fell under suspicion because he had been “remarkably idle” in public terms for five years since arriving in Belgium, the VSSE said in a report in July 2016.

“Obviously MSS,” the Belgian security source said.

Meanwhile, if the Beijing ZGC Science Park and Shenzhen European Office were MSS Trojan horses in UCL, there might be a bigger one being built outside the university’s gate.

Construction of Chinese science park in Louvain-la-Neuve (Photo: google.be)

Chinese bearing gifts

The China Belgium Technology Centre (CBTC) is a Chinese-funded “smart valley” in Louvain-la-Neuve.

It already houses 23 Chinese and Belgian firms in the life sciences, IT, and high-tech manufacturing sectors, according to l’Awex, the development agency of Wallonia, a Belgian region.

It is to house up to 800 Chinese high-tech specialists and entrepreneurs when it is completed in late 2021, although construction has paused for now, due to the Belgian coronavirus lockdown.

It is the first project of its kind in the EU and is symbolically located in “the heart of Europe”, CBTC’s website says, with Belgium so called because it houses the main EU institutions

The CBTC is situated next to UCL, the home of the CTMA, and an incubator of several other Belgian high-tech start-ups.

And the Chinese science park is located next to two GSK facilities doing vaccine research: GlaxoSmithKline Biologicals in Waver (a Belgian district) and GlaxoSmithKline Biologicals in Rixensart (a neighbouring district), prompting VSSE alarm.

The CBTC was agreed, with some fanfare, when Chinese president Xi Jinping came to Belgium in 2014.

It is worth over €700m in total investments and almost 800 jobs to Wallonia, l’Awex said.

But Xi’s gift “involves a very significant danger of economic espionage to the detriment of the university [UCL] … as well as against the numerous technological companies which surround it,” the VSSE said in a January 2014 report.

And even if the CBTC itself was not a front for Chinese intelligence, it could be used by the MSS as a back door in future, the VSSE warned.

CBTC was “a future vector for intelligence agents tasked with spying on the numerous high-tech companies based near the UCL or on the university itself,” the VSSE said in a February 2014 document.

Building the CBTC in what was “one of the most developed areas of Wallonia threatens to pose economic espionage problems in the future,” the VSSE warned again in a September 2016 report.

“There’s no way of security-vetting the hundreds of Chinese nationals that will be coming and going through there,” the Belgian security source said.

GSK was not named in the VSSE papers seen by EUobserver.

But the Belgian intelligence service has been in contact with GlaxoSmithKline Biologicals in Belgium since at least 2010, according to email correspondence between a senior IT risk officer at GSK and the VSSE from that year, seen by this website.

GSK corporate chiefs have also come in from London to Belgium for VSSE security briefings on the Chinese threat in more recent times, EUobserver has learned.

And in another sign of MSS interest in GSK, a Chinese biochemist is currently on trial in the US for spying on the UK firm’s facilities in Switzerland.

“GSK is a major target [for China],” the Belgian security source told this website.

“Its new collaboration with Sanofi makes it even more valuable,” the source added, referring to a recent GSK venture with a French pharmaceutical company, aimed at creating a coronavirus vaccine.

Chinese president Xi Jinping (l) in Belgium in 2014 (Photo: belgium.be)

MSS lifestyles

Belgium, in October 2019, also declared a Chinese international relations professor, Xinning Song, persona non grata.

Xinning was the director, in Brussels, of the Confucius Institute, an offshoot of the Chinese education ministry.

He had worked at the VUB and lived in Belgium for 10 years, building wide social circles among Belgium’s academic elite, while spying for China, the VSSE believed.

And the confidential documents seen by EUobserver also painted a picture of a thriving MSS community in “the heart” of the EU.

The Chinese scientist suspected, back in 2010, of targeting Zizi still lives in Belgium, according to her Linkedin.com profile, and now works for a pharmaceutical firm.

Her husband, also Chinese, worked for the Association of Chinese Professionals, a business club in Louvain-la-Neuve.

The Chinese official suspected of targeting Gala and the CTMA still works for the Shenzhen European Office in UCL, according to his Linkedin.com page.

He studied at a top UK university and used to travel between Belgium and Denmark, where he had a side-job for a Chinese bio-tech company, the VSSE said.

Another Chinese man named as a potential threat by the VSSE also still lives in Belgium, Linkedin.com indicated. He works for a regional development agency and owns a PR firm in Louvain-la-Neuve.

And a fourth Chinese man who was “well-known … to our service”, the VSSE said in a September 2016 report, used to work in a Chinese business consultancy on the outskirts of Brussels.

For its part, the Chinese EU mission denied any wrongdoing.

“The Chinese government encourages Chinese enterprises to conduct overseas business cooperation in accordance with local laws, the market principle, and international rules,” its spokesman, Liu Hui, told EUobserver.

The VSSE declined to comment on details of the confidential files referred to by this website.

But despite the China EU mission’s denial, the Belgian intelligence service bluntly accused China of “economic espionage” in a more general statement.

“As part of the ambitious ‘Made in China 2025’ project, which provides for rapid development of know-how in China itself, all available means must be used to import as much knowledge as possible into China,” the VSSE told EUobserver.

“These include formal knowledge transfer programmes, such as exchanges between researchers, joint ventures, and takeovers of companies. In some cases, China also does economic espionage,” it said.

“Our country must ensure that it retains its strategic independence from foreign players such as China,” it added.

Belgian spies were helping sensitive firms in Belgium to keep safe, the VSSE said.

“In political and economic circles, there is a growing awareness of the risks linked to espionage and Chinese interference,” it said.

“But the VSSE also runs awareness campaigns among actors who are likely to be targets of Chinese interference and spying activities,” it added.

GSK declined to comment on whether the VSSE had briefed its top executives on China.

But the British firm had “robust and established protocols regarding site and system security, which are regularly reviewed and updated,” Simon Moore, a GSK spokesman, said.

Shenzhen European Office and the CBTC declined to comment.

But staff from Shenzhen European Office, and any other unauthorised personnel, had “of course, no access to the CTMA offices, which, by the way, are spread in different buildings on the campus,” UCL’s deputy rector, Jean-Christophe Renauld, told this website.

The CBTC science park would “facilitate collaborations between Chinese companies and our university”, he said, but “protection of the intellectual property generated by our research has always been a priority,” Renauld added.

Belgian bioweapons experts have helped to fight Ebola in central Africa (Photo: worldbank.org)

Dangerous knowledge

Gala did not reply to EUobserver.

But for his part, Zizi disagreed with the VSSE’s assessment of his old VUB friend, the Chinese scientist and suspected MSS spy.

“I never introduced [her] in the medical milieu … This is not correct. She was a PhD student in my lab,” Zizi told EUobserver from California, where he is now CEO of a biometrics firm called Aerendir.

She “did not hide” the fact she had worked for the Chinese military and “there was nothing suspicious in her behaviour ever,” Zizi said.

“Bioweaponry and biodefence are not activities that one does in a lab at a university with plain students. It is sliced to between [different] places and people,” anyway, he added.

The Belgian security source told EUobserver that “only China is doing this kind of highly specialised espionage [bioweapons and vaccines]” in Belgium.

But Zizi also disagreed with that.

Bio-espionage was “not limited to China”, he said, adding: “I was as much a target from the US, Russian, Chinese, or even African sides”.

Gala, the head of the CTMA, also used to have a dubious Russian “assistant” at UCL, prior to going on his anti-Ebola and Avigan-testing mission in Africa, the VSSE noted.

“The profile of this person [Gala’s assistant] is suspicious in terms of collaboration with the intelligence services of her country [Russia],” the VSSE said in a November 2014 document.

And she is also still at UCL, her Linkedin.com profile says.

Zizi gave an insight into what it was like to work in the world’s most dangerous scientific domain.

His biological warfare research had given him “unique knowledge”, he said.

But having that knowledge meant “there were countries where I could not, nor would not, go,” he added, mentioning Russia as an example.

“I suppose that if I were to cross this invisible line and go where I should not go, I may have some unfortunate accident, as some would rather have me dead than working for bad actors,” Zizi said.

The Belgian warnings on Chinese scientific and economic espionage come amid wider EU fears.

The European Commission, for instance, is drafting guidelines on how to help European universities stop Chinese “interference” of a “coercive, covert, deceptive, [and] corrupting” nature.

“Such activities have been observed in the EU,” an EU source recently told this website.

But for Zizi, no matter how you do it, scientific cooperation with geopolitical rivals will always bear risk.

“You have to understand that everything in biology and molecular technologies is dual-use … This means that the same materials can be used to make diagnostics for a hospital, or can be included in a weapons programme,” Zizi said.

 

 

Silvia Romano e la disfatta diplomatica del governo italiano
13 Maggio 2020 – (Luca Della Torre)

La notizia della liberazione di Silvia Romano, la cooperante sequestrata nel novembre 2018 nel villaggio di Chakama, in Kenya, da parte dei miliziani dell’organizzazione terroristica somala di ispirazione religiosa islamista “al Shabab” non può che rallegrare il lettore e l’Italia intera: i diciotto mesi trascorsi in cattività nelle mani di una delle organizzazioni politiche di fede islamica più feroce e criminale in Africa, responsabile di una serie infinita di omicidi, violenze, e soprattutto legata organicamente alla “internazionale islamista” di Al Qaeda e dello Stato islamico dell’ISIS, sono stati sicuramente un’esperienza traumatica che la giovane cooperante italiana non potrà rimuovere dal suo vissuto personale. Al netto delle doverose considerazioni di solidarietà per la connazionale che ha recuperato la libertà, tuttavia si profilano lunghe ombre sull’equivoca condotta del governo italiano nella gestione della vicenda in un quadro geopolitico molto fragile e pericoloso come quello africano e mediorientale, in cui l’interlocutore principale è la componente religiosa fondamentalista islamica che da oltre vent’anni si salda a movimenti politici criminali in una logica strategica di pervicace sovversione della libertàe dei diritti dell’uomo contro l’Occidente. In questo quadro il governo Conte ha dimostrato purtroppo di essere un autentico “vaso di coccio” in politica estera, assoggettandosi di fatto ai diktat diplomatici di Paesi limitrofi dell’area mediterranea e peggio ancora, alle esigenze propagandistiche massmediatiche della galassia terroristica islamica che ha gestito il rapimento ed il rilascio di Silvia Romano.

Tre sono i punti nodali su cui il governo italiano del Presidente Conte ha dimostrato pochezza, insipienza, mancanza di visione strategica del ruolo politico, culturale e militare di un Paese come l’Italia nei confronti dell’asse del male islamista che circonda l’area mediterranea.

In primo luogo si pone la questione del pagamento del riscatto per la liberazione di Silvia Romano: per quanto il governo italiano, con dichiarazioni contraddittorie, si sforzi di negare se non ignorare il fatto, è oramai assodato che un’ingente somma è stata pagata per il riscatto, somma che oscillerebbe tra i 2 milioni e 4 milioni di €; somma che ha senza dubbio arricchito l’attività terroristica del gruppo jihadista. Le critiche manifestate sia in seno all’esecutivo che presso l’opinione pubblica su questo punto sono più che giustificate. Vale la pena di pagare ingenti somme per il riscatto di cittadini italiani che decidono di operare volontariamente in aree geopolitiche ad alta densità di rischio e criticità bellica? La questione non è polemica, quanto piuttosto impone la necessità di valutare con debita attenzione le gravi conseguenze nelle relazioni diplomatiche e per la sicurezza dello Stato che derivano da tali eventi.

In Italia il legislatore impone il divieto assoluto di pagamento di riscatti a seguito di rapimenti (legge nr.82/1991), e ciò, oltre alla introduzione di rigorose pesanti misure detentive nei confronti dei rapitori, ha permesso allo Stato di sconfiggere negli scorsi decenni una piaga gravissima, economicamente molto fruttuosa, tanto è vero che la cosdidetta “industria dei rapimenti” fu appannaggio della Mafia e della N’drangheta.Ciò non è avvenuto nel caso Romano, anzi: la politica di acquiescenza prona del governo Conte ai diktat delle organizzazioni politiche islamiche che hanno rapito la cooperante italiana non fa che incentivare l’aggressività dell’attività terroristica, mettendo in serio pericolo la libertà dei cittadini italiani impegnati all’estero. E’ molto istruttivo leggere quanto scrive al riguardo il giornalista del Corriere della Sera Massimo Alberizzi, inviato di guerra nei fronti caldi africani, a sua volta vittima di un tentativo di sequestro anni orsono. Alberizzi riconosce che il rapimento dei cooperanti è senza dubbio un “business” per le organizzazioni terroristiche, ma ancor più denuncia come le organizzazioni di volontariato non siano in grado di garantire tutela per i loro membri.La necessità di una maggiore responsabilizzazione personale di chi si esponga a imprudenti missioni umanitarie contro gli indirizzi dello Stato si rende sempre più impellente, al fine di evitare che tali condotte possano ricadere sul bene comune della sicurezza dello Stato, costretto non di rado a pericolosi compromessi in scenari geopolitici ad alta tensione.

Secondo capo di accusa nei confronti del governo Conte: la liberazione di Silvia Romano è avvenuta per il tramite del coinvolgimento dei servizi segreti turchi. Infatti, il ruolo della Turchia del Premier Recep Tayyip Erdogan nella gestione dell’affaire Romano è confermato dai maggiori organi di stampa, senza smentita alcuna da parte del governo. L’immagine diffusa dall’agenzia di stampa turca Anadolu, che ritrae la giovane italiana dentro un veicolo militare turco con addosso un giubbotto antiproiettile, ripresa dal Corriere della Sera è un duro colpo all’immagine del premier Conte: il ruolo dell’intelligence turca è assai pericoloso, in quanto la Turchia appare sempre più come una “scheggia impazzita” in seno al sistema di sicurezza e politica estera occidentale della NATO, determinando forti criticità nelle relazioni con USA, Gran Bretagna, Germania.

Lo Stato turco da anni ha sviluppato una propria geopolitca molto temeraria ed aggressiva, mirata a divenire nuovamente il principale “global player” regionale nel Mediterraneo, sulle orme dell’imperialismo ottomano, il cui collante ideologico è la comune fede islamica come strumento di “revanche” contro l’Occidente.Il tentativo politico militare di estendere la propria influenza sulla Libia, su Cipro, oltre che su Siria e paesi turcofoni dell’ex Unione Sovietica da parte della Turchia ha suscitato molto malumore in seno alla NATO, che considera oramai Erdogan un convitato molto scomodo se non pericoloso. La stessa Cancelliera Merkel, solitamente molto prudente e cauta, non ha esitato a qualificare la politica turca come antieuropeista.Gli USA hanno manifestato esplicito disappunto nei confronti della diplomazia italiana per l’appoggio richiesto ai servizi segreti turchi in questa vicenda, in quanto nei territori somali e kenioti si trovano ad operare le forze armate speciali USA che combattono il Jihad islamico, le cui milizie che hanno rapito la cooperante Silvia Romano spesso hanno collaborato con il governo di Erdogan in territorio libico, siriano, nel Corno d’Africa. Insomma, qual è la linea diplomatica di politica estera del govenro giallorosso? Il Premier Conte oscilla da parecchio, troppo tempo tra Pechino e Washington, tra la NATO e i Paesi arabi islamisti, in un quadro di stolta e pericolosa incertezza strategica, che rischia di porre in crisi scelte storichepolitiche, economiche, militari atlantiche stabili. Le oscillazioni puerili da dilettanti allo sbaraglio usate nelle ultime dichiarazioni ufficiali da parte della diplomazia italiana pongono il nostro Paese in un rischioso ambiguo limbo, in cui l’oscillazione sembra pericolosamente propendere verso regimi totalitari, fondamentalisti, terroristici.

Infine, last but not least, terzo capo d’accusa, nei confronti del governo italiano, forse il più grave in termini di ricaduta di consensi, ma soprattutto di coerenza morale nella lotta al terrorismo di matrice islamica, sono le modalità di comunicazione delle immagini, del rimpatrio della cooperante, che paiono aver ignorato del tutto la dannosissima valenza profondamente strategica della simbologia cerimoniale utilizzata. L’arrivo della Romano, vestita con un abbigliamento somalo di donna musulmana, con il capo coperto, è risultato uno straordinario successo propagandistico per il rafforzamento del Jihadismo. Gli analisti di intelligence e politica estera denunziano da tempo in reports ufficiali quanto potente sia l’effetto distorsivo della propaganda terroristica presso le masse nel mostrare una pretesa superiorità religiosa, ideologica e morale. I criminali terroristi islamici traggono dunque dal rapimento della cooperante Romano un duplice vantaggio a causa della sciagurata condotta diplomatica tenuta dal governo Conte: un notevole introito finanziario a sostegno delle operazioni militari del Jihad, e l’enorme successo mediatico presso i popoli di fede islamica e occidentale, presentando una giovane italiana “infedele” che, nonostante sia stata segregata per diciotto mesi, mostra formalmente di aderire con gioia ad un ripugnante modello di fede imposto in regime di privazione della propria libertà personale. Al riguardo la deprecabile “sceneggiata” mediatica, accettata dalla diplomazia italiana, si scontra violentemente con le regole oramai adottate da anni nei Paesi anglosassoni, i cui governi non trasmettono assolutamente più immagini e filmati del rientro in patria di ostaggi liberati onde evitare proprio strumentali tattiche pubblicitarie psicologiche a vantaggio dei sequestratori. Tutte codeste cerimonie hanno un indubbio valore di messaggio politico, militare, ideologico della debolezza dell’Occidente, e di questo le cancellerie e le diplomazie dei principali Paesi, occidentali e non, ne sono ben consapevoli. Ben altra cosa sarebbe stata il rientro della connazionale se gestito con understatement, in forma riservata, senza clamori, trombe e folklore massmediatico, per il rispetto del supremo interesse nazionale e dei cittadini tutti.

La superficialità, la leggerezza, l’inettitudine della Presidenza del Consiglio e del Ministero degli Affari Esteri italiani non sono una novità purtroppo in questa stagione di profondi cambiamenti politici internazionali: comprendere e definire quale sia la strategia politico economica e militare del nostro Paese è esercizio che purtroppo pare al di sopra delle capacità di questa arruffata maggioranza.

FONTE:https://www.corrispondenzaromana.it/silvia-romano-e-la-disfatta-diplomatica-del-governo-italiano/

 

 

 

De Donno, le fake news di regime e il bullismo contro Feltri

Cerebrolessi o teppistelli? Analfabeti democratici? Come definire i buontemponi che ancora si divertono a manganellare squadristicamente Vittorio Feltri e il suo giornale, più volte messo all’indice come indegno di appartenere all’eletta schiera della sacra stampa nazionale? Beati e felici di militare nel branco indiscutibile dei migliori, ignorano sistematicamente le nefandezze quotidiane commesse dai principi dell’informazione padronale, cartacea e radiotelevisiva. Tutti campioni rispettati e amati dall’erede del fascistissimo Ordine dei Giornalisti, residuato cenozoico solo italiano, fondato – si può immaginare con quale intento – dall’onorevole cavalier Benito Mussolini nel 1925, e da allora mummificato in vita a beneficio del sonno eterno dell’opinione pubblica benpensante e conformista, allineata al non-pensiero unico. Uno di questi fuoriclasse, Massimo Giannini (allevato da “Repubblica” e dalla televisione, prima di approdare ora alla “Stampa”), osa proporre ai lettori – il 6 maggio 2020 – la seguente titolazione: “Coronavirus, Salizzoni contro le fake-news sul plasma miracoloso: chi le diffonde è un lestofante”.

Fake news?! Ebbene, sì: “fake news” le guarigioni – vere, purtroppo per i detrattori – ottenute a Mantova e Pavia. L’intento, in questo caso: colpire la reputazione – pericolosamente in ascesa – del professor Giuseppe De Donno, primario mantovano diGiuseppe De Donnopneumologia, colpevole di aver salvato il 100% dei pazienti dal micidiale, spaventoso, apocalittico coronavirus. Come? Nel modo più semplice: iniettando nei malati il plasma estratto dai pazienti guariti, pieno di anticorpi. Costo, irrisorio: una vita umana, in questo caso, vale solo 160 euro. Troppo poco, per gli ambigui “impresari” del Covid? Troppo banale? E poi, se davvero fosse finita qui, la Grande Paura – se davvero si guarisse in modo ormai sistematico – a che scopo imporre ancora l’infame Distanziamento Sociale? Perché insistere con l’attesa messianica di un improbabilissimo vaccino? E perché infliggere il cataclisma economico firmato Conte, se dovesse emergere che ormai dal Covid-19 si guarisce in 48 ore? E allora, tutti zitti: De Donno? Non ci risulta.

E’ stato il web a rendere onore a questo medico italiano. Non certo una star: uno scienziato serio e schivo, composto, defilato. Unica missione: trovare il modo di salvare vite umane, mettendo fine alla leggenda del Male Incurabile (che intanto ha falciato anche medici e infermieri). Silenti, come i giornaloni, anche i militi delle squadracce nere dei detrattori di Feltri: sordomuti, di fronte al silenzio dei grandi media. Afoni, gli haters del direttore di “Libero”, anche di fronte allo sconcio del potere Rai (servizio pubblico) che – senza aver mai parlato di De Donno, in nessun telegiornale – impone a Fabio Fabio di intervistare per la centesima volta il profeta Burioni, quello che a febbraio assicurava il “rischio zero” per l’Italia, impegnato stavolta a mettere in dubbio l’efficacia, la sicurezza e la praticabilità della sieroterapia sperimentata a Mantova. E dov’era, nel frattempo, il mitico Burioni da FazioOrdine dei Giornalisti ripetutamente invitato ad espellere Feltri? Stava in Corea del Nord, a prendere lezioni di libertà di stampa?

Non ha del vomitevole, questo mediocre regime di piccoli censori pidocchiosi? Un umile documentario indipendente come quello di Massimo Mazzucco sulla possibile origine manipolata del virus ha registrato in un battibaleno due milioni di visualizzazioni, senza che i talksow nazionali avessero trovato un briciolo di dignità per indagare su giallo-Wuhan, che non è solo cinese, e su cui oggi (in modo ovviamente unilaterale) si abbattono gli strali dell’amministrazione Trump. Dormono, i morti viventi, quando si tratta di difendere la libertà di essere informati. Si svegliano, ma solo per insultare, non appena Feltri “sbraca” con un uno dei suoi titoli balordi e provocatori, indigesti, discutibili. Si strugge, il branco dei censori, se Feltri usa l’espressione “terroni”, o se parla di “sostituzione etnica” abusando della polemica sulla speculazione, tutta italiana, che trasforma in business ipocrita l’immigrazione clandestina. Naturalmente Feltrinon c’è pericolo che i bulletti ostili a Feltri si accorgano dell’unica, vistosa grande pecca – questa sì, davvero grave – che caratterizza l’anziano giornalista: in tanti anni di gloriosa carriera, quasi sempre vissuti controcorrente, Feltri non sembra aver trovato il tempo di rettificare vecchie idee, sbagliate, sull’origine del debito pubblico e sul suo vero significato.

Spesso, il direttore di “Libero” sembra accodarsi alla vecchia vulgata (menzognera) del mainstream neoliberista, che fabbrica del Balpaese un’immagine comodissima e criminalizzante, facendone la patria delle cicale irresponsabili, su cui è ovvio poi che cadano le tegole, i tagli, i “niet” di Berlino e di Bruxelles. E’ la canzone – stonata, fuorviante, pericolosa – che hanno ripetuto per anni i vari Travaglio, mai “accortisi” che forse c’era un problemino, a monte, chiamato Unione Europea. Ma non lo vedono, il guaio, neppure i soavi insultatori: a loro basta ragliare (da soli, in coro) contro il cattivone Feltri che ce l’ha coi migranti, che fa il razzista, e che per giunta tiene bordone a quell’infame di Salvini (altro essere sub-umano che andrebbe possibilmente fucilato o almeno radiato dall’Ordine dei Politici, se solo esistesse). A questo, siamo. Sicché, gli asfaltatori di De Donno – il medico che salva gli italiani dal coronavirus – procedono in carrozza, senza che i Conte-boys, le sentinelle della carcerazione universale, trovino nulla da ridire.

Ho pianto, ha detto il primario mantovano, quando m’hanno chiamato il responsabile della sanità dell’Onu e poi vari governi, incluso il ministero della salute degli Stati Uniti. Muto invece l’Istituto Superiore della Sanità di Roma: dà così fastidio, alle autorità governative momentaneamente commissariate dall’Oms, avere a Mantova un medico che il mondo ci invidia? Muto infatti anche il ministero di Speranza, che non si è precipitato a Mantova – come chiunque altro avrebbe fatto, al posto suo – per sincerarsi dell’efficacia di una cura che potrebbe metter fine al potere spaventoso del virus che tiene in ostaggio il mondo. Del resto, si sa: il problema dell’Italia si chiama Vittorio Feltri. E chissà se l’immanente, metafisico Ordine dei Giornalisti si è Gianniniaccorto che il quotidiano torinese diretto da Massimo Giannini chiama “fake news” le notizie provenienti da Mantova, e “lestofanti” chi le diffonde. Lo fa prendendo a prestito un medico, uno dei tanti che non apprezzano De Donno. La domanda dovrebbe essere: su che pianeta siamo finiti?

Le televisioni, a reti unificate, si arrogano il diritto di svolgere sfacciatamente la funzione di Grande Fratello. Messaggi martellanti: non avrete altra verità fuorché la nostra, tutto il resto è fake. C’è anche una commissione governativa appositamente istituita per vigilare sulle notizie da somministrare al popolo bue: e anche qui, non un fiato (né dall’Ordine dei Giornalisti, né dai bullizzatori di Feltri, figurarsi). Muti, tutti quanti, anche di fronte alla notizia che ha cambiato l’assetto di potere dell’editoria giornalistica nazionale, con l’acquisto di “Repubblica” ed “Espresso” da parte di John Elkann, l’imprenditore che ha traslocato l’ex Fiat in Olanda, il paradiso fiscale che massacra l’Italia. Ma certo, è tutto normale, va bene così: è persino divertente, abitare la follia. E magari chiamare impunemente “fake news” le uniche, vere buone notizie in tema di coronavirus, da tre mesi a questa parte, in un’Italia ridotta in mutande – come mai prima, dal 1945 – da un premier-fantasma, mai eletto, e il cui nome fino a ieri non diceva niente a nessuno. Tu chiamale, se vuoi, allucinazioni.

(Giorgio Cattaneo, “De Donno, le fake news della Stampa e il bullismo contro Feltri”, dal blog del Movimento Roosevelt del 9 maggio 2020).

FONTE:https://www.libreidee.org/2020/05/de-donno-le-fake-news-di-regime-e-il-bullismo-contro-feltri/

 

 

 

DIRITTI UMANI

“L’esperimento” titola in altro a sinistra l’articolo del Corriere della Sera a firma di Valentina Santarpia, che parla della iniziativa di una scuola dell’infanzia paritaria nel Varesotto, a Castellanza per l’utilizzo da parte dei bambini di braccialetti elettronici.

Perché in effetti di esperimento di ingegneria sociale si tratta.

 

Un esperimento di cui non si possono prevedere le conseguenze né le reazioni e che si applicherebbe ai più piccoli come se fossero cuccioli da istruire. Anzi, da addestrare.

Per tornare a scuola “in sicurezza”, i bambini tra i 4 e i 6 anni dovranno munirsi di un braccialetto hi-tech ai polsi per rispettare il distanziamento sociale.

Una volta impostata la misura di un metro minimo di distanza tra loro, leggiamo nell’articolo, i braccialetti vibrano e si illuminano se si supera il limite consentito di vicinanza fisica.

Immaginate i bambini che imparano tramite riflesso incondizionato, a mantenere sempre il metro di distanza. Così come i celebri cani di Ivan Pavlov.

L’esperimento classico di Pavlov, infatti, dimostrò come si possa provocare un reazione involontaria, (riflesso o stimolo incondizionato) in una creatura. Gli organismi (animali e umani) imparano ad associare uno stimolo con un altro. Pavlov comprese che uno stimolo era in grado di provocare una risposta incondizionata e che quindi si poteva far apprendere al cane un determinato comportamento se il suo sistema nervoso veniva sottoposto più volte alla presenza dello stimolo.

Qualcosa di molto simile si vuole sperimentare oggi sui bambini.

Non sono mancate le polemiche da parte degli psicologi che ricordano come i bimbi non siano “cagnolini”. Non possiamo infatti sapere quali potranno essere le reazioni sui più piccoli di questi esperimenti di distanziamento sociale.

 

Il terrore sanitario sta riprogrammando la psiche collettiva e legittimando esperimenti di ingegneria sociale che si vogliono persino appliccare ai più piccoli.

 

I bimbi e noi tutti cittadini non siamo i cani di Pavlov da istruire per divenire perfetti burattini da controllare ed eterodirigere.

FONTE:https://enricaperucchietti.blog/2020/05/14/esperimento-in-una-scuola-bimbi-con-braccialetto-elettronico-per-distanziamento-sociale-come-i-cani-di-pavlov/

 

 

 

ECONOMIA

Decreto, Cdp sosterrà Enel, Eni, Poste e Leonardo con Patrimoio Rilancio?

di 

Tutti i dettagli sull’idea del Tesoro su un patrimonio ad hoc per Cdp. Obiettivo: sostenere le medio-grandi imprese (nulla è deciso ancora se nel perimetro ci saranno Enel, Eni, Poste e Leonardo). Le bozze del decreto Rilancio

Cdp potrà sostenere anche Enel, Eni, Poste e Leonardo con Patrimonio Rilancio?

E’ quello che si chiedono osservatori e addetti ai lavori dopo le ultime bozze del decreto Rilancio circolate a ridosso dell’approvazione del provvedimento nel consiglio dei ministri. Ecco su cosa verte la domanda.

IL PATRIMONIO AD HOC PER CDP

Da Patrimonio Destinato a Patrimonio Rilancio ma la sostanza non cambia: un maxi fondo da 50 miliardi del capitale di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) a favore di imprese medio-grandi con oltre 50 milioni di fatturato annuo (escluse quelle dei settori bancario, finanziario e assicurativo) per sostenere e rilanciare il sistema economico produttivo italiano.

L’ultima bozza del decreto Rilancio prevede un cambio di nome per il fondo che, secondo indiscrezioni del quotidiano Repubblica – sarebbe nato da un’idea del direttore generale di Via XX Settembre, Alessandro Rivera, appoggiato dal ministro Roberto Gualtieri.

Da notare che Patrimonio Rilancio opererà nelle forme e alle condizioni previste dal quadro normativo Ue sugli aiuti di Stato per fronteggiare l’emergenza coronavirus ma occorreranno quattro decreti del ministero dell’Economia e delle Finanze per attuare tutte le norme previste dall’articolo 30 del decreto.

COSA DICE L’ARTICOLO 30 DEL DL RILANCIO

Intanto partiamo dall’ammontare, per ora fissato a 50 miliardi, e dalla durata dell’operazione, indicata in 12 anni dalle prime bozze del decreto ma ancora oggetto di valutazione secondo il Sole 24 Ore visto che il perimetro del fondo andrà modulato in base alle indicazioni fornite dal Temporary Framework dell’Unione europea sugli aiuti di Stato. Di sicuro al momento nell’articolo della bozza del provvedimento si stabilisce che la durata “può essere estesa o anticipata con delibera del consiglio di amministrazione di CDP S.p.A., su richiesta del Ministero dell’economia e delle finanze”.

Il fondo sarà costituito soprattutto da titoli di Stato emessi dal Tesoro ma anche da contributi di altri soggetti pubblici. Per finanziare le attività di Patrimonio Rilancio Cdp potrà anche emettere obbligazioni o altri titoli di debito sui quali “in caso di incapienza del Patrimonio medesimo, è concessa di diritto la garanzia di ultima istanza dello Stato” secondo “criteri, condizioni e modalità di operatività della garanzia dello Stato” che verranno stabiliti da un decreto del Mef. Il fondo potrà intervenire sotto forma di prestito obbligazionario convertibile o di aumento di capitale oppure di acquisto di titoli azionari sul mercato secondario.

L’articolo 30 prevede pure per “assicurare l’efficacia e la rapidità d’intervento e di rafforzare i presidi di legalità” che il gruppo guidato da Fabrizio Palermo stipuli “protocolli di collaborazione e di scambio di informazioni con istituzioni e amministrazioni pubbliche, ivi incluse le autorità di controllo, regolazione e vigilanza e con l’autorità giudiziaria”.

Patrimonio Rilancio “è costituito con deliberazione dell’assemblea di CDP S.p.A. che, su proposta del consiglio di amministrazione, anche in deroga alla normativa vigente, identifica, anche in blocco, i beni e i rapporti giuridici compresi” nel fondo i cui “requisiti di accesso, condizioni, criteri e modalità degli interventi sono definiti con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze in conformità con il quadro normativo dell’Unione Europea in materia di aiuti di Stato. Qualora necessario, gli interventi sono subordinati all’approvazione della Commissione europea ai sensi dell’articolo 108 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea”.

Per quanto riguarda i rapporti con la società controllata dal Mef, Patrimonio Rilancio “non contribuisce al risultato di CDP S.p.A.” che “non sopporta il relativo rischio”. Per il fondo “è redatto annualmente un rendiconto separato predisposto secondo i principi contabili internazionali IFRS e allegato al bilancio di esercizio di CDP S.p.A.”.

SU QUALI SOCIETA’ POTREBBE PUNTARE GLI OCCHI IL MEF

Sempre dalla bozza del provvedimento si evince che è prevista l’esenzione anche dalle clausole legate al cambio di controllo e dagli obblighi di “comunicazione, notifica, dichiarazione e autorizzazione”, compresi quelli previsti dal Testo unico sulla finanza e quelli sulla tutela della concorrenza oltre che all’esercizio del golden power. Dunque, come scriveva ieri Mf/Milano Finanza, si potrebbe avere il risultato che lo Stato salga nel capitale di gruppi strategici per l’economia del Paese come Enel, Eni, Poste e Leonardo, peraltro senza dover lanciare un’offerta pubblica di acquisto. Ovviamente però l’intervento si determinerebbe solo nel caso in cui questi campioni nazionali dovessero subire fortemente gli effetti della pandemia.

L’ultimo orientamento del governo però, secondo il Sole 24 Ore, sarebbe quello di tener fuori, dal novero delle aziende target, le società partecipate dal Mef e da Cdp, quindi proprio Enel, Eni, Poste e Leonardo.

Comunque nulla è ancora deciso e definitivo, fanno notare ambienti governativi. Anzi, le ultime indiscrezioni parlano di un ambito allargato anche alle società partecipate o controllate sia dal Mef che dalla Cdp. Vedremo.

TENSIONI TRA MEF E  CDP?

Una delle questioni più rilevanti riguarda proprio le imprese da aiutare tramite Patrimonio Rilancio. Al momento il provvedimento lascia un’ampia discrezionalità e questo, secondo Repubblica, avrebbe destato “qualche scetticismo” nei corridoi del ministero dello Sviluppo economico, della Cassa e anche della “maggioranza politica”.

FONTE:https://www.startmag.it/economia/patrimonio-rilancio-cdp-enel-eni-poste-leonardo-mef-tesoro-bozze-decreto/

 

 

FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI

Come la garanzia dello Stato non dà liquidità all’azienda.

Storia esemplare di una banca che rema contro
di Giuliano Cazzola

mes Cazzola Inps 600 quota 100 Covid-19
Giuliano Cazzola racconta il caso di un’azienda che, dopo aver chiesto di usufruire del prestito fino a 25mila euro con la garanzia dello Stato prevista dal decreto Liquidità, si è vista subissare di richieste di documenti da parte della banca…

Ho ricevuto una mail da un piccolo imprenditore, il quale mi ha raccontato – fornendomi la relativa documentazione – della via crucis a cui sono sottoposte tante persone come lui che si recano in banca a chiedere il prestito che dovrebbe essere erogato in breve tempo e senza problemi perché garantito dallo Stato fino a 25mila euro. Ovviamente non faccio nomi né dell’imprenditore né dell’istituto di credito. Convinto come sono di vivere in un regime autoritario è bene essere cauto. Conservo, ad ogni buon conto, le mail che mi sono pervenute. Ora la storia.

Si tratta del titolare di una piccola azienda meccanica attiva dal 2018 che produce macchine per pasta fresca. La ditta lavora in esclusiva per una società commerciale di una grande città a cui hanno ceduto i brevetti. Attenzione, però: non siamo in presenza – come si diceva una volta quando i sindacati contrastavano i processi di decentramento produttivo – di un “reparto distaccato” di un’impresa più grande.

L’azienda partner semplicemente commercializza quei prodotti in esclusiva, in forza di un contratto stipulato lo scorso anno. Si noti che il fatturato 2019 si è attesto intorno ai 392mila euro. Poi è arrivata la pandemia e i nostri sono stati fermi quasi 2 mesi e mezzo.

Il titolare, alla data fatidica indicata dalle legge, si è recato in banca e ha presentato la domanda compilando i moduli semplificati previsti. Poco dopo lo ha chiamato il direttore della filiale sciorinandogli un sacco di obiezioni: 1) l’azienda ha un solo cliente (i motivi sono stati ricordati prima); 2) non avendo affidamenti la banca non sa come l’azienda gestisce i debiti (per fortuna non ce ne stanno); 3) nonostante il buon cash flow la giacenza è sempre molto bassa (per forza – obietta il titolare – non avendo debiti i soldi si usano per tirare avanti la baracca…); 4) quanto alla garanzia dello Stato la direzione dell’Istituto ha deciso di non essere interessata.

Tutto ciò premesso, il titolare potrà avere accesso solo ad un prestito, in pratica normale, corredato della necessaria documentazione e della fornitura di garanzie reali (immobiliari, ecc.). Il bello, a proposito della semplificazione, emerge, ‘’dalla cintola in su’’, dall’elenco dei documenti richiesti (NB: per un prestito che fino a 25mila euro dovrebbe essere garantito dallo Stato). Eccolo di seguito.

*modello unico dell’amministratore e dei soci della società. (2017-2018-2019)

*bilancio della società 2018 (anche parziale)

Passa a Fibra a 27,90€ + 6 mesi di Amazon Prime con Prime Video inclusi
Esclusiva Vodafone
Contenuti sponsorizzati da
*esiste un piano strategico o business plan visto che la società è da poco costituta? In tal caso occorre produrne una copia

*elenco dei clienti/fornitori

*elenco delle eventuali proprietà immobiliari della società con relativo valore indicativo

*elenco delle proprietà immobiliari dei soci della società con relativo valore indicativo

Ovviamente non si tratta della documentazione richiesta agli stranieri extracomunitari attestante il loro patrimonio in patria, onde poter accedere al reddito di cittadinanza; ma questa documentazione richiesta alle imprese è tale da accendere qualche preoccupazione in chi chiede il prestito. Pare che la banca sia costretta ad agire con queste cautele per non trovarsi un domani a concorrere in un reato di bancarotta se l’investimento è andato male.

Non si dimentichi la dura campagna scatenata contro gli istituti di credito quando, dopo la crisi iniziata nel 2008, venne presentato il conto delle insolvenze.

Durante la crisi le banche erano state accusate di stringere i cordoni della borsa; passata la buriana furono messe alla gogna per aver fatto dei prestiti rischiosi, naturalmente – si disse – agli amici degli amici. Perché così va il mondo nel Belpaese.

Siamo arrivati al punto che ogni operazione deve essere coperta da uno scudo penale; altrimenti per non sbagliare è saggio non fare.

FONTE:https://www.startmag.it/economia/come-la-garanzia-dello-stato-non-da-liquidita-allazienda-storia-esemplare-di-una-banca-che-rema-contro/

 

 

 

GIUSTIZIA E NORME

Pensare la fase 2 delle lotte. Incostituzionalità e contraddizioni giuridiche delle norme anti-Covid

di Alessandro Mustillo

scioperi 1 maggio 660x4002xL’attività dell’Ordine Nuovo è iniziata nel pieno della pandemia, in un contesto di riduzione dell’attività politica tradizionale e in preparazione di una fase di lotte alle porte. Tra i compiti che ci siamo assegnati c’è quello di contribuire al dibattito fornendo materiali di analisi utili anche sotto un profilo tecnico (sia esso economico, storico, giuridico ecc…) che facciano avanzare parallelamente alla coscienza di classe, le capacità effettive di lotta dei lavoratori e delle organizzazioni di classe. Fornire dunque strumenti e contributi per delineare percorsi di lotta in una fase di grande arretratezza soggettiva e allo stesso tempo di necessaria riorganizzazione dei comunisti e di un fronte di classe.

Il compito di oggi è abbastanza ostico e risponde alle richieste di molti compagni. Abbiamo detto più volte che esiste un punto di incontro tra la responsabilità nell’evitare la diffusione del contagio e la crescita della curva della conflittualità sociale per il carattere di classe delle scelte governative sulla gestione della crisi. In questo contesto diviene fondamentale comprendere quali sono le “forzature” possibili al sistema di chiusura dell’attività politica e in particolare delle manifestazioni. La premessa necessaria quando dall’ambito politico si entra in quello giuridico è che per noi comunisti questi due elementi non comunicano: le categorie del primo non sono quelle del secondo, che non è elemento neutrale, ma espressione degli interessi della classe dominante. Quando si parla del conflitto di classe il diritto è prevalentemente strumento della repressione. Non bisogna quindi cedere all’idea di fare la lotta di classe con le norme, perché questo è semplicemente impossibile.

Altro – e questo è l’ambito in discussione oggi – è interrogarsi su come utilizzare le contraddizioni del diritto borghese, per trovare spazi di maggiore copertura legale del conflitto sociale. In questo ci assistono due elementi: la contraddizione formale tipica di ogni ordinamento liberale che enuncia formalmente dei principi generali per poi tradirli nella sua applicazione pratica, generando con ciò una contraddizione ben nota ai marxisti. La seconda tipica della nostra condizione è la presenza di una Costituzione, fonte gerarchicamente sovraordinata ad ogni legge ordinaria, che seppure rientrante in una visione liberal-democratica, è espressione di rapporti sociali più avanzati di quelli odierni ed ha affermato alcuni principi particolarmente avanzati nel contesto di una società capitalistica, che entrano spesso in contraddizione con le esigenze nazionali e internazionali del capitale nella nostra fase.

Lo scopo dell’analisi è politico: fornire strumenti di lettura per concepire forme di lotta che comportino il minore spazio alla repressione possibile. L’ottica che sarà utilizzata – attenendo a un’analisi di diritto – non è politica, ma necessariamente giuridica e quindi svolta sulla base di categorie tipiche di un sistema di carattere liberal-borghese. In poche parole un’analisi finalizzata a uno scopo di classe, ma svolta sul terreno dell’avversario di classe.

A scanso di equivoci, ciò non esclude la scelta – politica – e consapevole di forme di lotta che oltrepassano i limiti della legalità in questo contesto. Questa è una questione di scelte politiche, che esula da questa trattazione, il cui unico scopo è ragionare su quali “forzature” siano possibili sulla base delle norme costituzionali, delle contraddizioni del sistema delineato dalle norme del Governo per la gestione della pandemia, dando spunti utili per chi voglia promuovere forme di conflitto in una fase iniziale di ritorno alla “normalità” evitando che la scure della repressione possa agire con più forza.

Ovviamente le norme per la pandemia non sono le uniche che incidono sulla limitazione del conflitto sociale: i decreti sicurezza ad esempio restano pienamente in piedi. Quindi tutte le normative precedenti e gli strumenti già ampiamente affinati per il contrasto del conflitto sociale, dovranno essere considerati oltre la riflessione su questo singolo aspetto.

 

Il sistema delineato dai DPCM non è affetto da incostituzionalità in generale

Molto si è detto circa la presunta incostituzionalità delle norme emanate dal Governo. Il dibattito sta interessando anche autorevoli giuristi ed ex presidenti della Corte Costituzionale tra cui Cassese e Zagrebelsky, ed è ovviamente stato al centro della polemica politica tra maggioranza e opposizioni.

Senza dubbio l’esecutivo ha svolto una funzione accentratrice in questa fase, sotto un profilo politico, comunicativo e anche giuridico. Non è questa la sede per un giudizio politico su questo aspetto, ma di interrogarsi sulla validità giuridica delle scelte del governo nel nostro ordinamento, quindi da un’ottica interna. È essenziale farlo perché se davvero l’intero sistema messo in piedi dal Governo attraverso l’art. 16 della Costituzione, i decreti legge, i DPCM e i decreti ministeriali fosse tout court incostituzionale, ogni singola previsione contenuta nei decreti sarebbe viziata a monte. A parere di chi scrive non è così, mentre è assai possibile che singole norme contenute finiscano per eccedere rispetto ai poteri attribuiti e attribuibili all’esecutivo, generando eccessi di discrezionalità nel bilanciamento dei diritti costituzionali non ammissibili nel nostro ordinamento.

Ma andiamo per ordine. È vero che la libertà di circolazione è un principio costituzionalmente riconosciuto e tutelato dall’articolo 16 della Costituzione. È però altrettanto vero che lo stesso articolo 16 prevede che la libertà di circolazione possa essere limitata «in via generale per motivi di sanità o di sicurezza». Questa possibilità di derogare a diritti costituzionali, anche di rango primario come la libertà di circolazione, è spesso prevista sia dalle norme costituzionali che dai Trattati Europei – che hanno carattere di norme costituzionali interposte nel nostro ordinamento – quando sussista la necessità di proteggere diritti, anch’essi costituzionalmente riconosciuti e di rango ancora più elevato. Il diritto alla salute collettiva e alla vita deve essere considerato formalmente[1] all’apice assoluto della piramide dei diritti costituzionali, quindi la temporanea limitazione di un diritto costituzionale può ben essere giustificata, nel nostro ordinamento, dalla necessità di tutelare questo diritto superiore.

L’articolo 16 prevede però quella che in gergo tecnico viene definita riserva di legge[2] e cioè che la limitazione possa avvenire solo ed esclusivamente attraverso una legge – o un atto avente forza di legge (decreto legge, decreto legislativo) – con ciò sottraendo a semplici atti amministrativi, o fonti normative secondarie la possibilità di limitare libertà costituzionali. Su questo punto si è generato un equivoco dovuto alla prevalenza dell’utilizzo da parte del Governo di decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) e Decreti Ministeriali (DM) dei Ministeri interessati (Salute, Giustizia, Interno..). Si discute in dottrina se tali decreti siano da considerarsi fonti normative secondarie o atti amministrativi: quel che è certo è che i DPCM e i DM non rientrano nel concetto di “legge”, non sono fonti normative primarie e come tali non possono derogare norme costituzionali. Su questa verità oggettiva si è costruita l’ipotesi di una incostituzionalità delle previsioni contenute nei decreti proprio perché fonti secondarie e quindi non idonee a limitare diritti costituzionali.

Il Governo Conte, prima di agire con DPCM e DM, ha emanato all’inizio dell’emergenza un decreto legge[3] (DL) successivamente convertito in legge, che costituisce una copertura di legge, costituzionalmente valida dell’operato dell’esecutivo. Il decreto legge rientra infatti nell’ampio concetto di legge previsto dall’art. 16 della Costituzione: sebbene adottato per ragioni d’urgenza dal Governo – mai come in questo caso realmente sussistenti – il DL è soggetto alla successiva approvazione da parte del Parlamento da effettuarsi entro i 60 gg successivi. È pertanto a tutti gli effetti una legge. Le accuse di quanti si concentrano sull’utilizzo di DL e non di leggi ordinarie sono davvero prive di consistenza. È noto a tutti gli operatori del diritto l’utilizzo strumentale dei decreti legge avvenuto in questi anni e generalmente ammesso anche in assenza di ragioni di straordinarietà ed urgenza, che invece ben sono presenti in questa fase. Se astrattamente esiste un momento per emanare decreti legge nel nostro ordinamento, oggettivamente si tratta proprio di questo. Quindi una tale critica è oggettivamente priva di fondamento giuridico e priva di riscontro nella prassi di questi anni.

Tornando al contenuto, il decreto era stato concepito inizialmente per le zone colpite ma prevedeva già una possibilità di estensione generale. L’articolo 1 prevedeva un ampio ventaglio di misure limitative nei comuni nei quali fosse certificato almeno un contagio. Il successivo articolo 2 stabiliva «Le autorità’ competenti possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia da COVID-19 anche fuori dai casi di cui all’articolo 1, comma». Erano poi già presenti nell’ordinamento leggi previgenti come l’articolo 117 del decreto legislativo n. 112 del 1998 che afferma: «In caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco. Negli altri casi l’adozione dei provvedimenti d’urgenza, ivi compresa la costituzione di centri e organismi di referenza o assistenza, spetta allo Stato o alle Regioni in ragione della dimensione dell’emergenza».

Stesso dicasi per il lato penalistico, poi ridotto dal Governo con esplicita deroga all’applicazione dell’art. 650 c.p. e delle norme di tutela sanitaria, sostituite in larga parte con un sistema di sanzioni amministrative dal successivo Decreto Legge 69/2020. Nonostante la successione di leggi e decreti, con abrogazioni e revisioni anche nel processo di conversione in legge dei DL, il quadro complessivo che si delinea gode di copertura costituzionale. Pertanto la pretesa avanzata da alcuni settori di considerare tout court incostituzionale l’impianto legislativo delineato dal Governo tramite decreti legge e successivi decreti ministeriali o DPCM – a parere di chi scrive – non è giuridicamente fondata. Non lo è neppure la critica per l’utilizzo dei DPCM al posto dei decreti dei singoli ministri, perché se è vero che il primo ministro è un primus inter pares è altrettanto vero che al premier spetta una funzione di coordinamento della direzione dell’esecutivo, e che l’utilizzo del DPCM consente di emanare norme che coinvolgono più settori dell’esecutivo (salute, difesa, istruzione ecc). Tutti i DPCM sono poi controfirmati dal Ministro della Salute. Quindi anche questa critica formale, risulta poco fondata.

Le misure emanate con i DPCM da Conte, si inseriscono nell’ambito della normale delega che fonti primarie concedono a fonti secondarie e atti amministrativi per precisare ambiti e modalità di applicazione delle misure stabilite dalle norme di legge.

Si delinea così un sistema di deroghe e deleghe in cui la legge – anche in forma di DL – deroga a un diritto costituzionale in nome della difesa di un diritto costituzionale prevalente come previsto dalla Costituzione, e allo stesso tempo delega le autorità predisposte all’emanazione di provvedimenti attuativi che nei limiti stabiliti dalla legge stessa, dispongono le modalità di attuazione delle misure astrattamente previste.

Questo sistema è costituzionalmente previsto fintanto che questa catena di deroghe e deleghe non oltrepassa i limiti stabiliti tanto dal dettato costituzionale, quanto dalle previsioni di legge.

Insistere quindi sulla presunta incostituzionalità dell’intero sistema delineato dal Governo è seguire una strada che, a parere di chi scrive, conduce in un vicolo cieco, perché priva di fondamento giuridico e perché insiste su aspetti prettamente formali-interi, per lo più sul piano della gerarchia delle fonti che non risultano lesi nel complesso. Su questo il parere espresso da Zagrebelskj appare condivisibile, più di quanto sostenuto da altri pure importanti giuristi.

Infine è certo che anche per ragioni di politica generale e tenuta del sistema nel complesso – e qui usciamo dal campo giuridico, per andare in quello dei rapporti sostanziali – la Corte Costituzionale non potrebbe mai in conseguenza di un evento come quello della pandemia mettere in discussione il sistema di decreti nel suo complesso. Le conseguenze di una scelta del genere sarebbero devastanti per il Paese. Quindi la carta dell’incostituzionalità generale dell’insieme delle norme, è una strada da scartare a priori sia per ragioni giuridiche, sia per evidenti questioni politiche.

 

La questione dell’applicazione delle singole norme in concreto

Spostandosi dal piano meramente formale e sistematico a quello più sostanziale e, se vogliamo, parziale dell’applicazione in concreto, si possono invece argomentare ragionamenti più utili alla nostra indagine. La questione è infatti quella di valutare in concreto la sussistenza delle ragioni che sono a monte delle limitazioni dei diritti costituzionali e che giustificano l’adozione delle misure di restrizione. Ogni limitazione di diritti costituzionali è frutto di un bilanciamento di interessi contrapposti tutti meritevoli di protezione, ma a diverso livello: un interesse può essere prevalente – come in questo caso il diritto alla salute – o equiparato, o subordinato – come in questo caso avviene per la libertà di circolazione. Ma in ogni caso, all’origine di questo bilanciamento, quando ad essere subordinato è un interesse di rango primario, devono sussistere ragioni concretamente apprezzabili nel caso in specie.

Molto interessante è stata a riguardo la presa di posizione di un gruppo di giudici di Aosta. Interessante sia per le considerazioni svolte in punto di diritto – per certi versi di carattere politico seppur in senso lato – sia per il fatto che riflessioni del genere provengono da settori della magistratura, ossia da chi sarà poi chiamato a valutare nel concreto, sanzionando o eventualmente assolvendo per le condotte incriminate.

Scrivono i magistrati aostani: «Con estremo sconforto – soprattutto morale – abbiamo assistito – ed ancora assistiamo – ad ampi dispiegamenti di mezzi per perseguire illeciti che non esistono, poiché è manifestamente insussistente qualsiasi offesa all’interesse giuridico (e sociale) protetto»

Il primo punto che evidenziano è quindi il principio di offensività per cui non esiste una lesione concreta – soprattutto nell’ambito dei cd. Reati di pericolo[4], come quelli relativi alla diffusione di epidemia – se un atteggiamento, astrattamente previsto da norme come vietato sia idoneo a ledere in concreto l’interesse protetto, cioè se dalla violazione sussista o meno un pericolo reale. Farsi una passeggiata nei boschi, in modo isolato – dicono i giudici – non costituisce alcun pericolo concreto.

Ricordando che l’impianto delle misure emanate dal Governo pone limitazioni a diritti costituzionali primari, i magistrati sostengono che «le norme che vengano ad incidere e sacrificare diritti costituzionalmente garantiti, anche a tutela di altri diritti di pari rango che vengano a confliggervi, sono comunque sempre soggette a stretta interpretazione e perdono ogni legittimazione laddove le condotte sanzionate siano prive di lesività per il bene preminente salvaguardato»

Nella lettera[5] – di cui consiglio la lettura – i giudici concludono esprimendo preoccupazioni per l’impatto politico dell’impianto repressivo messo in atto che rischia di «lasciare sul tappeto libertà fondamentali e diritti primari di libertà che oggi vengono seriamente posti a rischio da condotte repressive non adeguate rispetto ai fini perseguiti».

Seguendo questo, che è il ragionamento giusto per delineare i margini legali – e le possibili “forzature” connesse – dell’azione politica e di lotta in tempi di coronavirus il ragionamento si sposta quindi sul piano sostanziale del dettato costituzionale, che è anche per certi versi espressione di un ragionamento politico insito nell’ordinamento, fortunatamente prodotto di rapporti sociali più avanzati che hanno cristallizzato nella nostra Costituzione alcuni principi che oggi capitalisti e governanti si guarderebbero bene dal concedere e che fanno di tutto per limitare nella reale applicazione.

In primis dunque difficilmente potranno essere considerate condotte idonee a generare pericolo in concreto quelle condotte che prevedano un distanziamento e l’utilizzo di presidi di protezione (mascherine, guanti). Mano a mano che la riapertura di tutti i settori produttivi avverrà sarà più complesso giustificare la differenza di trattamento tra interessi economici e diritti costituzionali di rango primario, come la libertà di manifestazione.

Se è vero che gli assembramenti sono certamente condotte idonee a generare un pericolo di diffusione del virus, è altrettanto vero che la disparità di trattamento con quanto previsto all’interno dei settori produttivi non può non porre a lungo andare un problema di violazione di diritti costituzionali. Nel concedere la riapertura a tutto il settore manifatturiero e ad alcune attività lavorative – e quindi uscendo dalla logica, invero molto derogata, dei settori “necessari” – restano in vigore le norme che prevedono addirittura deroghe per luoghi di lavoro dove non si riesca a rispettare la distanza interpersonale di un metro, configurando le mascherine chirurgiche come dispositivi di protezione individuale idonei. Perché la stessa logica non dovrebbe avvenire per un sit-in, dove peraltro sarebbe assai più facile assicurare il rispetto della distanza? Quale pericolo in concreto costituirebbe una protesta con una forma di distanziamento disciplinato da parte dei partecipanti, superiore a quella di lavoratori costretti per esigenze produttive anche di settori non necessari a non poter mantenere tale distanziamento? In questo esiste una oggettiva contraddizione, su cui è possibile ipotizzare delle apparenti “forzature” di quello che sembra un quadro cristallizzato. Senza dubbio proprio nei luoghi di lavoro è possibile “forzare”: come si può colpire uno sciopero e sit in, manifestazioni, effettuate con distanziamento se lo stesso distanziamento non è neppure sempre attuato in fabbrica o in magazzino?

Gli scioperi e le dimostrazioni attuate sul luogo di lavoro non potranno essere punite in presenza di una eventuale disparità di trattamento rispetto alla quotidianità di ciò che è richiesto nello stesso luogo ai lavoratori. Neanche a dirlo che azioni e condotte individuali, prive di pericolosità in concreto non saranno sanzionabili per le misure covid.

Un punto problematico – anche se in apparente contraddizione – è la scelta del Governo di sostituire le sanzioni penali con sanzioni di carattere amministrativo (la comune multa), avvenuta a partire dal DL 19/2020. Un passaggio del genere – evidentemente giustificato da ragioni sistematiche tanto quanto di tenuta del sistema giudiziario penale – in realtà inserisce uno strumento molto più efficace per sanzionare condotte di violazione delle norme anti-covid, di quanto l’ingolfamento dei tribunali e l’applicazione dei principi penalistici avrebbe comportato in sede penale. Il Governo era ben cosciente dell’inevitabile prescrizione della gran parte delle sanzioni; era altrettanto cosciente dell’insostenibilità sociale di un sistema in cui ogni violazione fosse sanzionata penalmente; ha apprestato nei fatti una tutela più snella e effettiva, non soggetta al rigore dei principi penalistici che facilmente avrebbero escluso la rilevanza penale di gran parte delle violazioni. Paradossalmente infatti, nel sistema delineato dalla legge 689/81 che regola le sanzioni amministrative non esiste un principio di offensività, giustificato nel sistema penalistico dal carattere residuale dell’area del penalmente rilevante. Decine di multe da centinaia di euro sono un peso in concreto maggiore della prospettiva di un processo penale dall’esito scontato.

 

Il diritto di manifestazione nella fase 2 alla luce del DPCM 26 aprile

In realtà le maggiori contraddizioni sono emerse nero su bianco nelle norme che riguardano la c.d. Fase 2, andando ad acuire quel trattamento differenziato di diritti costituzionali che era già evidente nei primi decreti e che a mano a mano diventa sempre più difficile da giustificare anche sotto il profilo giuridico. In questo senso se non è incostituzionale il sistema complessivo, problemi di costituzionalità possono sorgere sulla base delle scelte discrezionali prese dal Governo, specialmente dove creino disparità di trattamento a parità di condizioni di “pericolosità” nella diffusione del virus.

L’art. 1 lettera i) del DPCM del 26 aprile, ha confermato la “sospensione” delle manifestazioni organizzate, già disposto su tutto il territorio nazionale dal DPCM del 4 marzo e successivamente confermato in tutti i decreti. In un sistema improntato ancora alla chiusura, l’esecutivo ha tuttavia previsto una serie di deroghe: la prima relativa ai luoghi di culto la seconda relativa alla celebrazione dei funerali. Si legge testualmente: «l’apertura dei luoghi di culto è condizionata all’adozione di misure tali da evitare assembramenti di persone […] tali da garantire ai frequentatori la possibilità di distanza tra loro di almeno un metro». Il concetto è replicato nelle misure relative ai funerali che dovranno svolgersi con la partecipazione di «massimo quindici persone, con funzione da svolgersi preferibilmente all’aperto, indossando protezioni delle vie respiratorie e rispettando rigorosamente la distanza di sicurezza interpersonale di un metro».

Queste previsioni, che riguardano due aspetti particolari, uno dei quali strettamente connesso con la libertà di culto che è diritto costituzionalmente garantito, insieme alle disposizioni sui luoghi di lavoro, sui trasporti e sulle riaperture degli esercizi commerciali delineano chiaramente un sistema coerente in cui il criterio di limitazione della libertà di circolazione viene ancorato al rispetto di una serie di dati oggettivi: distanza interpersonale che evita forme di assembramento, utilizzo di dispositivi di protezione individuale, maggiore flessibilità per le attività condotte all’esterno rispetto a quelle interne. I maggiori dubbi di costituzionalità dell’insieme delle norme varate dal Governo risiedono – a parere di chi scrive – proprio nella scelta operata attraverso il DPCM di consentire l’esercizio di alcune attività, spesso legate a diritti costituzionali primari, continuando a negarne formalmente altre, legate anch’esse a diritti costituzionali, con disparità di valutazione e trattamento che non è ammissibile, in quanto non giustificata da differenti condizioni oggettive.

Se è comprensibile che il Governo non possa autorizzare oggi una manifestazione di massa che si svolga nelle modalità tradizionali, che costituendo una forma di assembramento sarebbe veicolo idoneo di diffusione del virus, non lo è – e costituisce al contempo una forma di discriminazione – la mancata previsione della possibilità di esercitare ogni diritto costituzionalmente riconosciuto, tra cui quello di riunione, in forme tali da consentire il mantenimento del distanziamento interpersonale ed evitare forme di assembramento, al pari di quanto concesso per la libertà di culto. Se viene riconosciuta la differenza tra celebrare una messa con centinaia di fedeli stipati in una chiesa, e garantire il culto dei fedeli con distanziamento idoneo alle caratteristiche del luogo, per quale ragione lo stesso criterio non può essere utilizzato per una manifestazione organizzata? E ancora, se possiamo andare a lavoro, recarci in locali commerciali, utilizzare i mezzi di trasporto pubblico, mantenendo il distanziamento e utilizzando dispositivi di protezione, se molte attività sono possibili addirittura anche quando non sia possibile garantire tale distanziamento, per quale ragione ciò non può essere previsto lo stesso per le manifestazioni pubbliche, che continuano ad essere vietate?

Questa incoerenza del sistema creato dal DPCM 26 aprile, crea nei fatti una forma di discriminazione che non è idonea a rimuovere di per sé il divieto previsto e a impedire le eventuali sanzioni, ma può costituire una base giuridica valida per ottenere l’annullamento in sede giudiziaria delle sanzioni comminate, facendo leva proprio sulla disparità di trattamento nella compressione di diritti costituzionali a parità di condizioni oggettive, scelta che entra in un campo di discrezionalità che sfocia nell’arbitrarietà, risultando quindi potenzialmente incostituzionale.

La deroga a un diritto costituzionale è ammessa in virtù di un bilanciamento effettivo tra diritti, che deve essere ancorato ai medesimi criteri oggettivi, oltre i quali la compressione di un diritto costituzionalmente riconosciuto e di rango primario non può essere ammessa.

Una manifestazione condotta nelle forme utilizzate dal Pame in Grecia (nella foto in alto), per intenderci, con distanziamento dei partecipanti, utilizzo di dispositivi di protezione come guanti e mascherine, magari inizialmente limitata nel numero degli stessi, seppure vietata dalle norme in vigore e potenzialmente idonea a essere sanzionata, potrebbe non resistere facilmente a un successivo passaggio in sede giudiziaria. A fare da ombrello sarebbe la carenza di offensività rispetto all’interesse tutelato – evitare la diffusione del virus – e la ingiustificata differenza di trattamento rispetto a quanto previsto in altri ambiti e per diritti costituzionali spesso di grado addirittura inferiore a quello della libertà di manifestazione del pensiero e di riunione, che il Governo per evidenti ragioni di opportunità politica di gestione del conflitto sociale, ancora oggi intende negare.

Certo ciò che è possibile ottenere con questo ragionamento è pco più che simbolico: affermare una presenza. Ma in questo momento non è un fattore scontato, anzi è una tappa necessaria per riabituarci collettivamente a una dimensione diversa da quella della bolla informatica in cui siamo precipitati. Certo, il piano reale del conflitto sociale, quando esploderà nella sua forza, meriterà altre valutazioni.


Note
[1] Formalmente perché nei fatti l’ordinamento borghese deroga quotidianamente a questo diritto, non appena il dato formale lascia spazio a quello sostanziale della società capitalistica, nella quale il profitto privato dei grandi monopoli è la legge fondamentale. Ma questo giudizio di carattere politico, non muta il ragionamento svolto in termini formali e giuridici, rispetto ai principi dell’ordinamento.
[2] Il principio della riserva di legge rappresenta una garanzia liberale con la quale si sottopone al legislatore (ossia al Parlamento) un controllo politico delle limitazioni ai diritti costituzionali, impedendo che ciò possa accadere attraverso semplici atti autoritativi, ponendo così un limite formale a poteri arbitrati in relazione alla limitazione di diritti e libertà fondamentali.
[3] Si tratta del DL 6/2020 entrato in vigore il 23/02/2020 convertito con modificazioni dalla L. 5 marzo 2020, n. 13 (in G.U. 09/03/2020, n. 61).
[4] Tralascio per ragioni di sintesi la differenza tra reati di pericolo cd concreto o astratto, anche se utile a un approfondimento maggiore.
[5] Testo riportato dall’Ansa: https://www.ansa.it/valledaosta/notizie/2020/04/21/coronavirus-magistrati-aosta-passeggiate-non-sono-illeciti_57cfbed6-37c8-48b9-939f-208bb03fcced.html

FONTE:https://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/17757-alessandro-mustillo-pensare-la-fase-2-delle-lotte-incosituzionalita-e-contraddizioni-giuridiche-delle-norme-anti-covid.html

 

 

 

LA LINGUA SALVATA

Conciliante
con-ci-liàn-te

SIGNIFICATO Accomodante, aperto, flessibile, disposto all’accordo

ETIMOLOGIA participio presente del verbo conciliare, voce dotta recuperata dal latino conciliare ‘unire, congiungere’, che è da concìlium ‘assemblea’, derivato di calare ‘annunciare, chiamare’.

Se diciamo che una parola si trasforma molto nel tempo, di solito pensiamo a mutazioni morfologiche notevoli, a slittamenti di significato che la trasportano fra ambiti eterogenei e distanti. Ma ci sono trasformazioni profondissime che, oltre ad essere rapide, sui dizionari si notano appena.

Se ‘conciliare’ significa mettere d’accordo, il conciliante sarà conseguentemente chi ha la tendenza presente all’accordo, ed è perciò accomodante, aperto, flessibile. Questo è quello che pensiamo oggi, e solo alcuni dizionari più avanzati e aggiornati lo hanno iniziato a recepire.

Se andiamo a vedere come era inteso il conciliante dapprima (dopotutto è attestato solo dagli anni ’70 dell’Ottocento, non ha una storia millenaria), si vede subito che è irrimediabilmente stretto a concetti come arrendevole, cedevole, compiacente.

Ora, se diciamo che dopo un primo confronto rigido abbiamo ricevuto un’apertura conciliante, non ci figuriamo quell’apertura come arrendevole, fradicia, volta a lisciarci, condiscendente, compiacente. La vediamo possibilista, ci porge il rametto d’ulivo, ammette spazio e margine, è perfino cortese.

In altri termini, il conciliante ha trasformato un profilo un po’ debole e viscido in un profilo maturo e calmo. Non è più in antitesi alla rigida virilità con cui evidentemente un tempo s’intendeva dovessero essere condotti i confronti: è più astuto, mercanteggia, coopera. Nel bene è un atteggiamento che porta risultati più prosperi, nel male è eccezionalmente più pericoloso dell’inflessibile che grugnisce e stringe i pugni.

Torniamo dalla persona con cui non vogliamo litigare con delle parole concilianti e un piccolo regalo, il messaggio conciliante del politico copre il lancio del siluro, ed è conciliante la protesta ricca di aperture e di spunti propositivi.

Dopotutto, l’immagine su cui si regge il conciliare latino è l’unire, il congiungere — e anzi, più precisamente è il chiamare insieme. E il conciliante, pur conservando estrinseche doppiezze, racconta un atteggiamento che prendendo atto delle divergenze accomoda l’unità.

Parola pubblicata il 14 Maggio 2020

FONTE: https://unaparolaalgiorno.it/significato/conciliante

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

LA SENTENZA DI KARLSRHUE DEL 5 MAGGIO E L’EVOCAZIONE DELL’ESM

COSA VUOLE VERAMENTE LA GERMANIA?

9 MAGGIO 2020

Come già avvenuto per il precedente post, pubblichiamo un brano, del libro di prossima pubblicazione, concernente la più stretta attualità; si tratta di un estratto di alcune delle complessive considerazioni che derivano dall’analisi del contenuto e degli effetti della sentenza della corte costituzionale tedesca del 5 maggio 2020 (compiuta dopo la sua pubblicazione).

La parte qui riprodotta riguarda più direttamente il merito economico di tale effetti.

Ma, come vedremo, una disamina logicamente rigorosa fa emergere l’abile strumentalità (tattica), della presa di posizione ostentata con la sentenza, rispetto a un più ampio obiettivo: quello di restaurare la German dominance nell’Unione europea.

Un obiettivo che in realtà non esige neppure l’integrale recepimento da parte della BCE.

La Germania, infatti, alzando la posta in gioco nella contesa sulla flessibilità di applicazione delle regole dell’eurozona, si pone in una situazione win-win: da adesso in poi, la BCE e la Commissione dovranno assolvere un onere della prova molto più rigoroso riguardo alla necessità di interpretazioni flessibili ed “evolutive” del quadro normativo dell’eurozona.

E questo appesantimento delle cautele imposte per poter legittimare le varie forme di tolleranza nell’allentamento della morsa deflazionistica,  rafforzandosi la priorità di un pronto ritorno alla logica del consolidamento fiscale, è già una vittoria per la Germania.

Quantomeno nel suo impatto sulla visione che, già di suo, possiede la classe politica italiana.




  1. f)In coerenza con l’anomalia di quanto appena evidenziato, risulta pure il passaggio della pronuncia relativo alla specificazione degli effetti di politica economica il cui “proporzionale” accertamento sarebbe mancato da parte della BCE e che la CGUE sarebbe stata metodologicamente incapace di rilevare.

Questi effetti sproporzionati e malamente ”accertati” in via preventiva, ed è questo un punto cruciale, sono enunciati con una controvertibile affermazione di merito tecnico-economico che, in assunto, risulta però del tutto avulsa da un univoco e dimostrato collegamento con la lesione o compressione di interessi socio-economici tedeschi inclusi in un altrettanto ben individuato parametro costituzionale tedesco.

Eloquente, come vedremo nel brano sotto-riportato è l’assunto, peraltro formulato in termini condizionali, della possibile equivalenza di effetti del PSPP a quelli della concessione di una linea di credito nell’ambito del meccanismo europeo di stabilità (ESM).

La descrizione riguarda infatti, non la generalità, ma una selezione, dal punto di vista tedesco, delle conseguenze economiche e finanziarie che possono essere attribuite al PSPP nei riguardi di tutti gli Stati membri, senza che sia in alcun modo dimostrato che queste conseguenze siano evitabili nell’ambito di qualsiasi azione, intrapresa da qualsiasi banca centrale (al mondo), per tentare di reflazionare allorché il target inflattivo legalmente stabilito (dal trattato, nel caso), non sia riscontrato stabilmente nell’economia di riferimento di una qualsiasi banca centrale:

Il PSPP migliora le condizioni di rifinanziamento degli Stati membri poiché gli consente di ottenere il finanziamento sui mercati dei capitali a condizioni considerevolmente migliori di quanto non si sarebbero altrimenti ottenute; in tal modo ha un significativo impatto sulle condizioni di politica fiscale entro cui si trovano ad operare gli Stati-membri. In particolare, il PSPP potrebbe produrre gli stessi effetti degli strumenti di assistenza finanziaria contemplati dagli artt.12 e seguenti del Trattato ESM. Il volume e la durata del PSPP può rendere sproporzionati gli effetti del programma, ancorché questi effetti siano inizialmente conformi alla “legge primaria” (ndr; ossia alla norma europea che lo consente).

Il PSPP influisce anche sul settore delle banche commerciali, trasferendo elevate quantità di bonds governativi ad alto rischio nel bilancio del sistema dell’euro, cosa che migliora significativamente la situazione economica di rilevanti banche e ne accresce il rating di credito.

Inoltre, gli effetti economico-politici del PSPP includono il suo impatto economico e sociale virtualmente su tutti i cittadini, che ne sono quantomeno indirettamente influenzati, tra l’altro, quali azionisti, locatori, proprietari di immobili, risparmiatori o detentori di polizze assicurative. Ci sono, per esempio, perdite considerevoli per il risparmio privato.

Ed ancora, poiché il PSPP abbassa il livello generale dei tassi di interesse, consente a imprese economicamente dissestate di rimanere sul mercato. Infine, più a lungo il programma prosegue e più il suo volume totale aumenta, maggiore risulta il rischio che l’eurosistema divenga dipendente dalle politiche degli Stati-membri, in quanto non si può semplicemente terminare e “disfare” il programma senza porre in pericolo la stabilità dell’unione monetaria”.

Porre la questione nei termini sviluppati dalla corte tedesca, lungi dal costituire un sindacato giuridico (di costituzionalità), si presenta come una radicale contestazione, sul piano di una dottrina economica, del potere stesso di svolgere politiche monetarie volte a perseguire il target inflattivo; viene contestato non il modo – conforme a presupposti e termini comuni alle tecniche di intervento generalmente praticate dalle banche centrali -, ma la stessa adottabilità (efficace) del PSPP.

Rimarchevole, per la sua evidenza, è la radicale e decisiva differenza di presupposti tra il sostegno finanziario dato mediante il PSPP, (appunto: l’esigenza di ricondurre l’inflazione in prossimità del target inflattivo del 2%, in tutta l’eurozona), e la concessione di una linea di credito nell’ambito del meccanismo europeo di stabilità, (notoriamente la difficoltà di un singolo paese ad avere accesso ai mercati per rifinanziarsi, a causa di sue proprie difficoltà macroeconomiche; segnatamente dell’indebitamento prolungato con il settore estero; presupposto che, include, normalmente, semmai un mancato rispetto per eccesso, non per difetto, del target inflattivo).

Tale differenza è ignorata a piè pari dalla corte tedesca, che attribuisce forzatamente (come abbiamo visto) alla BCE il “colposo” (in quanto incautamente imprevisto) perseguimento di un preteso interesse estraneo a quello puramente reflattivo; vizio di “sviamento di potere” che, ad essere ragionevoli, sarebbe quasi impossibile non riscontrare in tutti i casi di c.d. Quantitative Easing (oltre a costituire, come abbiamo altrettanto visto, un vizio di eventuale mera illegittimità e non una radicale carenza di potere della BCE).

Ma la differenza evidenziata ha pure una sostanza nell’economia reale: la corte, scendendo nel merito della discrezionalità tecnico-economica della BCE (cosa che, sul piano del sindacato giurisdizionale, è da ritenere sempre un ultra vires) considera, appunto, selettivamente, gli effetti del PSPP, trascurando del tutto i risvolti occupazionali, e quindi sui livelli della crescita e della coesione sociale, del mancato stabile mantenimento, per difetto, del target inflattivo (pur stabilito al modesto limite del 2%).

Risulta invece evidente che un assessment degli effetti politico-economici del PSPP, correttamente compiuto, dovrebbe ponderare, con quelli relativi ai tassi di interesse eccessivamente bassi e ai prezzi degli asset inflazionati (in Germania), i risvolti sulla crescita ed occupazionali del PSSP stesso. A questi ultimi fini, le politiche fiscali, contrariamente a quanto afferma apoditticamente la corte tedesca, non sono state agevolate dal PSPP in direzione espansiva in una misura così “significativa”, quanto semmai mantenute ad un livello di “non asfissia”.

E a riprova di ciò sta l’immediata reazione, dei governi della stessa eurozona a fronte della crisi economica “da pandemia”, nel senso di sospendere il patto di stabilità e crescita e di riportare a livelli elevati i deficit pubblici, consci del fatto che, PSPP o meno, l’azione fiscale precedente era già in precedenza ridotta al lumicino; come, d’altra parte, comprovavano i livelli di inflazione, che mai hanno raggiunto stabilmente, pur dopo il primo programma di acquisti della BCE, avviato nel 2015, un livello prossimo al 2%.

Ed è pur vero, ed altrettanto non casualmente ignorato dalla sentenza tedesca in commento, che i livelli occupazionali strutturali e le dinamiche degli incrementi salariali nell’eurozona, ben prima della crisi pandemica, non erano affatto così floridi e si parlava, di conseguenza, di debolezza strutturale della domanda in un’area in prolungata e sostanziale stagnazione, proprio in quanto costretta dalla Germania ad un modello di crescita export-led intrinsecamente deflazionista.

E dunque, tutto si poteva dire, tranne che, in vigenza del fiscal compact, l’intervento fiscale fosse di carattere espansivo. L’esplicitazione delle preoccupazioni macroeconomiche della corte tedesca, dunque, peccano proprio di un preconcetto, di un bias, delimitativo degli effetti preventivabili del PSPP, che, nella sua considerazione, appaiono, paradossalmente, proprio il vizio (considerato inemendabile) imputato alla BCE.

  1. g)Ma, se pure la sentenza diKarlsruhe non risulta attendibile e coerente né dal punto di vista giuridico né da quello del “merito” economico, da essa traspare una forte determinazione ad ottenere una riaffermazione della German dominance, che, evidentemente, l’implicita clemenza fiscale (cioè nel contenimento del costo di finanziamento degli Stati-membri) instaurata dai programmi di acquisto della BCE, aveva in qualche modo posto in ombra.

La sentenza è dunque un’occasione per questa riaffermazione, lanciando un forte messaggio germanocentrico, così riassumibile:

– i trattati non si toccano e le regole dell’eurozona devono continuare ad essere osservate senza alcuna tentazione di aggiramento e, tantomeno, di riforma.

– La Germania, di fronte alla ipotizzata debolezza delle istituzioni Ue, si auto-dichiara custode di questa invariabilità delle regole, che escludono qualsiasi evoluzione verso una inaccettabile (per la Germania) dimensione federativa, dovendo tutto rimanere in termini di “associazione tra Stati sovrani”.

– La debolezza delle istituzioni UE rende la Germania legittimata a ripristinare direttamente l’ortodossia delle regole, anche sostituendosi all’azione carente di queste stesse istituzioni.

  1. h)Ma nel caso del PSPP,cosa vogliono veramente i tedeschi sotto le spoglie dell’accertamento degli integrali effetti economici e fiscali di misure di politica monetaria?

Molto semplicemente, abolire o rendere praticamente marginale ogni forma di politica monetaria espansiva, rendendo quasi impraticabile anche l’idea stessa che debba svolgersi un’azione della banca centrale di qualsiasi segno reflattivo (inclusa la politica dei tassi di interesse). Prova ne è il tentato decalogo che, presentato come un’esigenza di approfondimento istruttorio, la corte tedesca impone tra le righe (ma neanche troppo) alla BCE, infine al punto IV del comunicato, e che culmina in particolare in queste “prescrizioni”, che, affermate dalla CGUE, condizionano (più di ogni altra), il giudizio della corte tedesca sulla non elusione del finanziamento diretto degli Stati posto dall’art.123 TFUE. La corte le considera binding e perciò non derogabili:

“ – i bonds di pubbliche autorità possono essere acquistati soltanto se l’emittente sia accertato come in possesso di una minima qualità di credito che gli fornisca l’accesso ai mercato obbligazionari; e

– gli acquisti devono essere ristretti o interrotti, e le obbligazioni acquistate devono essere vendute sul mercato, se il proseguire l’intervento sui mercati si riveli non più necessario per raggiungere il target di inflazione”.

Ora l’accesso al mercato in funzione del “merito” del credito e la rivendita dei titoli acquistati non appena si riveli che la loro detenzione non sia più necessaria a fini reflattivi, sono la vera chiave del caveat tedesco per ribadire l’intangibilità dell’art.123 TFUE (cioè del divieto di finanziamento, anche indiretto, degli Stati ad opera della BCE).

La seconda condizione, nelle caratteristiche macroeconomiche divenute strutturali per via della “morsa” deflattivo-competitiva imposta dalla stessa Germania (completamente ignorata dalla sentenza in commento), pare di quasi impossibile realizzazione in concreto: cioè, proprio come situazione stabile e, sempre più, fisiologica, nell’eurozona.

Inoltre, al momento, mentre l’eurozona è alle prese con la profonda e repentina recessione determinata dalle conseguenze dei vari livelli di lockdown imposti nei vari paesi, risulta addirittura fuori dalla realtà. E lo rimarrà probabilmente per anni, considerata la ribadita immutabilità dei trattati e, con essi, delle regole dell’eurozona.

Non di meno, la ribadita prospettiva della rivendita dei titoli, intesa come obbligatoria assenza di qualsiasi vincolo implicito alla detenzione fino alla scadenza e al successivo reimpiego della liquidità in nuovi acquisti dei titoli dello stesso Stato-membro – meccanismo, per il momento, alla base della capacità costante di intervento della BCE e delle banche centrali “mandatarie” del SEBC, e divenuto de facto una garanzia del debito pubblico dell’eurozona, sia pure in un modo discontinuo e quantitativamente limitato -, si pone intanto un riferimento normativamente ineludibile.

Ma è la prima condizione, quella del merito del credito che diventa pregiudiziale de futuro: appare anzitutto rivolta all’Italia, che ha ormai un rating dei titoli bbb, al di sotto del quale gli acquisti diverrebbero non più consentiti.

La Germania sottolinea l’autonomia escludente di questa clausola: anche se uno Stato dell’eurozona fosse alle prese con la più persistente deflazione, (e quindi afflitto da un’elevata disoccupazione strutturale), il giudizio dei mercati sulla sua situazione macroeconomica, influenzato inevitabilmente dalla debole crescita derivante dalla sottoposizione alle regole fiscali, rigide e pro-cicliche, del patto di stabilità e crescita, diventerebbe preclusivo degli acquisti dei suoi titoli.

E posto che la Germania si attende, come vedremo, un accurato accertamento degli effetti economici e fiscali del PSPP da parte della BCE, in assenza del quale prenderebbe le distanze dal compartecipare ancora al programma con la sua banca centrale, la via dell’armonizzazione della disciplina del programma stesso mediante il futuro assessmentfa emergere la spinta ad un avvicinamento, se non proprio ad un’assimilazione, della disciplina stessa a quella che contrassegna ormai l’OMT e, più in generale, lo stesso ESM.

L’accesso al mercato, in funzione del merito del credito di uno Stato, un aspetto squisitamente fiscale e macroeconomico, diviene la discriminante invalicabile, a prescindere da ogni altra considerazione, anche per le misure di politica monetaria: non appena, in base a un sistema di valutazione della sostenibilità del debito, esistente o, meglio ancora, da introdurre, il merito di uno Stato fosse valutato negativamente, l’assistenza monetaria imperniata sull’acquisto dei titoli sarebbe sottratta alla BCE e devoluta a linee di finanziamento condizionale.

Ed infatti, in questa prospettiva si può meglio spiegare la nuova formulazione dell’art.3 del trattato ESM riformato, che prevede appunto una valutazione della sostenibilità del debito pubblico dei paesi dell’eurozona come attività preparatoria e “conoscitiva” dell’ESM stesso, a prescindere dalla effettiva richiesta di assistenza finanziaria che possa essere avanzata da uno Stato.

Si affaccia però un’altra concreta soluzione: nella regolazione dell’assessment per l’ammissione (eligibility) al Pandemic Crisis Support, pubblicata il 7 maggio 2020, si parla di una valutazione generalizzata di sostenibilità del debito pubblico per tutti i paesi dell’eurozona. L’allegato 1 relativo, appunto, all’accertamento del rischio alla stabilità finanziaria, in pari data, tende a confermare tale valutazione.

Ma, per l’appunto, si tratta di condizioni e direttive che sono legate al rebus sic stantibus, cioè alla valutazione transeunti (e come tale in futuro revocabile) dell’attuale permanere di una situazione eccezionale di crisi economica; ciò vale, specialmente, nel determinare l’evoluzione, altrettanto mutevole nel tempo, delle eventuali “condizionalità” che si collegano all’assoggettamento dello Stato membro dell’eurozona al finanziamento dell’ESM.

La BCE, in questo quadro di drammatizzazione della presente congiuntura, parrebbe doversi preparare a diventare un co-attore del finanziamento ESM; finanziamento che non avrebbe senso pratico ove i programmi di acquisto proseguissero con la flessibilità di condizioni che sono attualmente dichiarate dalla BCE stessa; perché, infatti, ricorrere a un finanziamento con obbligo di restituzione (a breve-medio termine) della sorte capitale se il finanziamento fiscale fosse ottenibile a condizioni più vantaggiose dalla BCE mediante il PSPP o il PEPP?

La BCE, invero, non avrebbe motivo di vendere i titoli, perdurando la segnalata situazione di inflazione largamente sotto il target del 2%, né di smettere di reimpiegare alla scadenza dei titoli la liquidità rimborsatagli dagli Stati. E inoltre, gli interessi maturati in corso di detenzione sono in larga parte accreditati, cioè restituiti, agli Stati mediante le rispettive banche centrali acquirenti per conto della BCE.

FONTE:https://orizzonte48.blogspot.com/2020/05/la-sentenza-di-karlshue-del-5-maggio-e.html

 

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°