RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 13 LUGLIO 2021

https://www.maurizioblondet.it/presidenti-no-vax-uccisi/

RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI

12 LUGLIO 2021

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

Il nostro equipaggiamento più importante è dentro di noi. Sta in questa attitudine alla conservazione più che al cambiamento, nel timore di perdere qualcosa, di rischiare.

LUCIANO ZIARELLI, Manuale di sopravvivenza all’incertezza, Fazi, 2008, pag. 108

 

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SOMMARIO

CHING SHIH, L’IMPERATRICE DEI MARI
Presidenti no vax? Uccisi
Covid, rivelazione choc: “Nei dati pure chi non è morto per il virus”
Nausea terminale, di fronte all’Impero della Menzogna
CARO CITTADINO, STARAI DAVVERO MEGLIO SENZA DI ME, IL TUO MEDICO DI FAMIGLIA?
Che triste il nazionalismo che si accontenta di qualche successo nel calcio, nel tennis, nello sport in generale.
Euro 2020: Figliomeni (Fd’I), italiani danno una lezione di calcio e stile agli inglesi
Milanesi al buio? Ringrazino l’austerità. Però tranquilli, in futuro sarà peggio
I contractors cinesi in Africa al servizio della Belt & Road Initiative
Franz Kafka secondo Giorgio Manganelli
“LE COSTITUZIONI”: LA GIUSTIZIA CORANICA DELL’IRAN (VIDEO)
Youtube paga 100 mila euro di sanzione per aver censurato un video di protesta sulla pandemia
I problemi e i rischi del riconoscimento facciale tra Cina e resto del mondo
IL VIROLOGO DEL TERRORE (VIDEO)
Cabras: l’Occidente esalta i diritti ma perseguita Assange
Società italiana di economia critica le nomine di Draghi
L’ultraliberismo al governo
Tutte le bugie del neoliberismo
Le disuguaglianze sono un problema politico (e di teoria economica)
Dall’Ue subito 6 miliardi a Erdogan. Per la Libia forse 2 e non ora
Londra, guerra agli scafisti. Rischiano anche l’ergastolo
Illusione
VERSO IL GOVERNO GLOBALE
Il 40% degli inglesi vuole mascherine per sempre. Che sta succedendo?
Vorrei farvi notare l’ipocrisia coVVetta
“I vaccini aiutano il virus, ma sarà caccia ai non vaccinati”
The Great Big ‘Delta’ Scariant
PRINCIPI DI ETICA E LE ORIGINI DELLA MANIPOLAZIONE GENETICA
All’orlo della storia: W.I. Thompson e la critica della tecnocrazia

 

 

EDITORIALE

CHING SHIH, L’IMPERATRICE DEI MARI

Ching Shih, l’imperatrice dei mariNasce nel 1775 a Guangdong nella provincia di Canton. Vive di espedienti finché non diventa una prostituta. Intelligente, la più alta e la più bella. Di lei non si conosce il vero nome, ma solo quello di Ching Shih che significa semplicemente “la vedova di Ching” che sposa a 26 anni. Si narra che lei chiede al futuro sposo di dividere a metà il bottino e il comando degli uomini. La richiesta impossibile viene accolta dallo stupito ma divertito capitano. Ching Ho riunisce molte bande in un’unica organizzazione conosciuta come la “flotta della bandiera rossa”. Ching Shih, intelligente e determinata, succede al comando della flotta al marito morto all’improvviso in circostanze poco chiare. Vestita di rosso fiammante, salta sulla spianata della barca e si autoproclama comandante davanti a tutti i capitani delle flotte pirata. L’azione delle armate piratesche colpisce le coste della CinaL’imperatore non riesce a fermarle e ordina alle popolazioni di bruciare i villaggi prima di fuggire nell’entroterra. Si rivela una decisione dannosa perché le armate piratesche si concentrano sull’assalto delle imbarcazioni commerciali provocando danni maggiori.

In sei anni, Ching Shih e il marito passano da duecento a millecinquecento imbarcazioni. Il balzo di tali dimensioni è frutto della creazione di una confederazione di bande. Pur essendo rispettata e temuta Ching Shih è pur sempre una donna e alla morte misteriosa del marito è esposta a pericolo. Prende rapidamente la decisione di sposare Chang Pao, il figlio adottivo del suo defunto marito, e lo nomina capo delle sue truppe. La mossa è perfetta! La colossale flotta estende il suo campo d’azione fino in Corea. Le navi arrivano ad essere duemila con ottantamila pirati. Il tutto suddiviso in sei raggruppamenti. Ching Shih comanda le sue truppe con mano d’acciaio. L’esercito deve seguire poche regole semplici il cui mancato rispetto avrebbe provocato la morte immediata.

La prima: non stuprare le donne sequestrate nei campi; la seconda: non rubare il bottino conquistato; la terza: non usare violenza alla propria sposa; la quarta: nessun torto o angheria sui contadini soggetti a tributo. Riesce a tenere a bada e a sconfiggere gli eserciti dell’imperatore, dei portoghesi, degli inglesi e della Compagnia delle Indie Orientali. Sotto il suo comando, la flotta della bandiera rossa non viene mai sconfitta! L’imperatore le offre l’amnistia. Sia pure assente alla firma di accettazione dell’indulto, nel 1810 lei accetta purché sia applicabile ai suoi soldati. A lei viene conferito un titolo nobiliare e il possesso di tutte le sue ricchezze. Al marito viene assegnato il comando di venti navi imperiali. Senza subire punizione, Ching Shih si ritira dai mari.

Gestisce un bordello e una casa di scommesseMuore a 69 anni in perfetta tranquillità. Rimane la sua fama in film come Cantando dietro i paraventi di Ermanno Olmi, in racconti e nell’immaginario popolare dei cinesi. La sua storia è immortalata dalla straordinaria narrazione di Jorge Luis Borges nel libro Storia universale dell’infamia. Come nella migliore tradizione cinese, la vita di Ching Shih è la parabola dell’intelligenza, dell’avventura, della capacità di organizzare e, infine, della riconciliazione e del perdono.

FONTE: http://opinione.it/cultura/2021/07/12/manlio-lo-presti_cina-ching-shih-sposa-pirata-prostituta-chang-pao-guangdong-corea-flotta-della-bandiera-rossa/

 

 

 

IN EVIDENZA

Presidenti no vax? Uccisi

FONTE: https://www.maurizioblondet.it/presidenti-no-vax-uccisi/

Covid, rivelazione choc: “Nei dati pure chi non è morto per il virus”

La frase misteriosa nella nota dell’Avvocatura che difende il governo. Ma è il contrario di quanto dichiara l’Iss. Chi ha ragione?

Covid, rivelazione choc: "Nei dati pure chi non è morto per il virus"

Le opzioni sono due. O mente l’Iss, oppure ad essere caduta in fallo è l’Avvocatura dello Stato. In entrambi i casi il fatto sarebbe grave, nonché incredibile. Perché dopo un anno passato a far polemiche sul conteggio dei morti (“per Covid o con il Covid?”), ora si apre un nuovo incredibile capitolo. Gli avvocati di Palazzo Chigi e del ministero della Salute si sono fatti sfuggire un’ammissione dalla portata esplosiva: in Italia, scrivono, i dati registrano tra le vittime “tutti coloro i quali avevano il virus al momento del decesso” e non, come avviene “negli altri Paesi”, solo “coloro i quali sono deceduti a causa del virus stesso”. Capito? In sostanza nel calderone ci sarebbe finito un po’ di tutto, non solo i morti per colpa di Sars-CoV-2 ma anche altro.

La rivelazione si trova all’interno della nota di trattazione, che ilGiornale.it ha potuto visionare, depositata al Tribunale Civile di Roma in merito alla causa intentata da oltre 500 familiari delle vittime del Covid. Sul banco degli “imputati” ci sono il ministero della Salute, Palazzo Chigi ai tempi di Conte e Regione Lombardia. Sulla sostanza della difesa del governo i lettori del Giornale.it sono già informati (leggi qui), ma è sui dettagli che a volte occorre soffermarsi. A pagina 22, l’Avvocatura cerca di sostenere che se anche l’esecutivo avesse aggiornato il piano pandemico, il numero dei decessi non sarebbe comunque diminuito. E a sostegno della tesi mostra degli (sballati) confronti con altri Paesi, secondo cui “il rapporto tra casi confermati e vittime in Italia non si discosta da quello esistente nel resto del mondo”. Insomma: mal comune, mezzo gaudio. Il bello però arriva qualche riga dopo: “Gli stessi dati riferiti all’Italia – si legge – devono essere valutati con le dovute precauzioni” in quanto quei numeri “classificano tra deceduti tutti coloro i quali avevano il virus al momento del decesso e non – come avvenuto da altri Paesi (…) – soltanto coloro i quali sono deceduti a causa del virus stesso”.

Quanto scritto sembra però cozzare a pieno con le posizioni ufficiali dell’Istituto Superiore di Sanità. La polemica sul numero di morti è vecchia come il mondo, infatti lo scorso 8 giugno l’Iss si preoccupò di scrivere un rapporto per spiegare per filo e per segno la faccenda. Il testo è abbastanza chiaro. A pagina 2 si precisa che “per definire un decesso come dovuto a Covid-19” occorre che si verifichino diverse condizioni. Primo: il morto deve essere un caso confermato, dunque con test molecolare positivo. Secondo: deve esserci un “quadro clinico” tipico della malattia. Terzo: non deve comparire una chiara causa di morte diversa da Covid-19, tipo un incidente stradale. Infine: non deve esserci un “periodo di recupero clinico completo” tra la malattia o il decesso, ovvero se ho avuto il Covid e muoio dopo 4 mesi non posso dare la colpa al virus.

Certo, poi ci sono dei casi limite, ma il punto è chiaro: non basta essere positivi per finire nel calderone dei morti per coronavirus. E chi aveva un tumore o malattie pregresse? L’Iss spiega: in questo caso vengono considerati casi Covid se i malanni già presenti “possono aver favorito o predisposto ad un decorso negativo dell’infezione”. Ecco un esempio: “Se l’infarto avviene in un paziente cardiopatico con una polmonite Covid-19, è ipotizzabile che l’infarto rappresenti una complicanza del virus e quindi il decesso deve essere classificato” come coronavirus. Se invece gli prende un colpo senza avere febbre, polmoniti o altri sintomi, anche se positivo, non viene comunque annoverato nel bollettino quotidiano.

Chi ha ragione, dunque? L’Iss, che assicura di conteggiare solo i reali decessi “per” Covid, oppure l’Avvocatura secondo cui nei bollettini rientra chiunque avesse il virus al momento dell’ultimo respiro? Cercasi chiarezza.

FONTE: https://www.ilgiornale.it/news/politica/covid-rivelazione-choc-nei-dati-pure-chi-non-morto-virus-1961071.html

 

 

 

Nausea terminale, di fronte all’Impero della Menzogna

Menzogne, menzogne, menzogne. E poi ancora menzogne. Come sempre, più di sempre. Con una differenza: se esiste, un Piano-B, non è politicamente rappresentato, alla luce del sole, da nessuna forza politica di qualche peso, in Parlamento. Il mondo sembra dormire, traumatizzato dalla farsa pandemica e narcotizzato dalla farsa terapeutica, la recita della profilassi definita “vaccinale”. Uno spettacolo con risvolti mediatici anche inquietanti e minacciosi, messo in piedi – si dice – per difendersi dai rischi di un contagio provocato da un virus che ora è di moda raccontare che sia “scappato” dal laboratorio cinese di Wuhan, ma – come ha clamorosamente ammesso lo stesso Cdc, l’istituto superiore di sanità americano – non è mai stato neppure isolato, cioè misurato biologicamente, identificato con certezza. E’ stato solo sequenziato, “spiato” nel suo apparente comportamento, ma non certificato nella sua reale, incontrovertibile esistenza. Dunque: esiste davvero, il Sars-Cov-2, o invece è solo un equivoco? E’ una sorta di frode scientifica? E’ un colossale abbaglio? E’ il replay del famosissimo virus Hiv che negli anni ‘80 fece da battistrada, a livello mondiale, nell’imporre un drastico congelamento della socialità, all’insegna della paura?

Sul canale YouTube di “Border Nights”, ne ha parlato recentemente a “L’orizzonte degli eventi” il dottor Stefano Scoglio, candidato al Premio Nobel per la Medicina nel 2018 e co-autore del notevolissimo instant book “Operazione Corona” (Aurora Boreale), curato da Nicola Bizzi e ScoglioMatt Martini. Risultato: YouTube ha rimosso il video della trasmissione, e ha imposto a “Border Nights” una settimana di oscuramento. Il vero problema – dice Gianfranco Carpeoro, altra voce della galassia “Border Nights” – non è neppure YouTube, ma sono gli Stati: che consentono a un soggetto privato (che quasi non paga tasse) di fare quello che vuole, dello spazio – pubblico – alla base del suo business planetario. Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt (nel quale milita lo stesso Carpeoro) segnala che, all’ultimo G7, sia Mario Draghi che Joe Biden hanno spinto per mettere fine allo strapotere delle multinazionali come quelle di Big Tech, che accumulano fantastiliardi grazie al dumping fiscale e utilizzano slealmente il loro enorme peso finanziario per imporre le politiche che vogliono, o meglio che vuole l’élite “malthusiana”, quella che sogna la decrescita forzata dell’umanità, da imporre con ogni mezzo.

Il terrorismo stragista e le guerre dei Bush, il terrore finanziario e quello climatico, ora anche il terrore sanitario. Il paradigma è granitico, a vocazione totalitaria. E’ evidente che una parte dell’élite vi sta opponendo, cercando di declinare il “qui e ora” anche attraverso una complessa, ambivalente geopolitica a doppio fondo, dove nessuno dice la verità perché probabilmente non può dirla. Certo non la dice Romano Prodi, che – come annotava il sempre efficace Paolo Barnard – ha criticato le “cicale sovraniste” europee mentre lodava le “cicale” cinesi, che fanno esattamente quello che, da noi, lo stesso Prodi non voleva si facesse: deficit spending, creazione di denaro a costo zero per supportare la domanda, cioè l’economia reale. E’ quel deficit spending (dare, anziché prendere) sul quale ha impegnato la sua ultima scommessa il “nuovo” Mario Draghi, in un’Italia massacrata dai lockdown, dove tiene ancora banco il cabaret grottesco di due figure come Conte e Grillo, tallonate dal grottesco Letta, senza che il mitologico Berlusconi e gli impalpabili Salvini & Meloni riescano a dire che, prima Giovagnolidi inventarsi qualsiasi incresciosa Green Card, bisognerebbe innanzitutto preoccuparsi di assicurare alla popolazione la certezza di cure domiciliari, attraverso un normale protocollo terapeutico nazionale, evidentemente proibitivo perché proibitissimo, visto che distruggerebbe la statura semi-divina del “vaccino genico” come unica soluzione possibile.

Menzogne, allora: ipocrisia e menzogne, ancora e sempre, più che mai, a reti unificate, in mezzo alla follia del secolo. Un luminare genovese il lunedì spiega che la terribile Variante Delta è solo un raffreddore, ma il martedì ipotizza possibili lockdown autunnali selettivi, riservati cioè a quella parte di popolazione che rifiutasse ancora di sottoporsi alla profilassi sperimentale genica che il mainstream si ostina a chiamare “vaccino”, ben sapendo che di vaccino non si tratta (intendendo per vaccino l’inoculo di un agente patogeno depotenziato). Di fronte allo tsunami che stava per manifestarsi, nella primavera 2020, una figura originale come l’alchimista Michele Giovagnoli osò offrire un suggerimento: state fermi, o sarete travolti. Intendeva dire: non puoi arrestare un’alluvione, con mezzi convenzionali (politici, ragionevoli), perché la forza della piena travolgerà comunque tutto. Se alla fine i danni sono stati in qualche modo limitati, non lo si deve alla politica visibile: lo si deve a Mancinisegmenti di élite che hanno remato contro il disegno totalitario, e tuttora si stanno giocando percentuali tattiche di relativo successo, nella misura in cui riescono a sfruttare l’emergenza – da altri provocata – per contrastare i dogmi del dominio di ieri, quello finanziario, antesignano di quello sanitario.

Anni fa, lo stesso Barnard raccontò un episodio curioso: a tarda notte, in una birreria di Bologna, ricevette una stretta di mano da un personaggio famosissimo, che però Barnard non riconobbe. Era Roberto Mancini, non ancora allenatore della nazionale di calcio: gli disse che lo stimava, ammirava il suo coraggio e apprezzava la sua opera di divulgatore giornalistico politico-economico. Oggi Mancini è un po’ l’eroe degli Europei azzurri, mentre Barnard è letteralmente scomparso dai radar. Lo si può capire: non ha retto. Il suo ultimo Capodanno pubblico lo spese sotto le finestre dell’ambasciata londinese dell’Ecuador, dove Julian Assange – da rifugiato scomodo, perseguitato dai democraticissimi Stati Uniti – era diventato un prigioniero, pronto per essere tradotto nel carcere dove si trova tuttora. Tra l’altro: non era ancora esploso lo tsunami definitivo, lo spettacolo del Covid, e il Pentagono non si era ancora messo a parlare di Ufo. C’era già grande amarezza, per l’assenza di politica, ma la politica non era ancora clinicamente morta, di fronte all’enormità (sociale, psicologica, antropologica) di quanto va accadendo oggi, al punto da rendere problematico e frustrante anche l’aggiornamento di un semplice blog. Non basta aver ragionato di tutto e ascoltato chiunque: il risultato è davvero scoraggiante. Dopo tanti anni, scegliere il silenzio può rivelarsi una necessità fisiologica.

FONTE: https://www.libreidee.org/2021/07/nausea-terminale-di-fronte-allimpero-della-menzogna/

 

 

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

CARO CITTADINO, STARAI DAVVERO MEGLIO SENZA DI ME, IL TUO MEDICO DI FAMIGLIA?

D.ssa Carla Bruschelli – 12 luglio 2021

L’ho pubblicato DUE anni fa, ma è ancora più attuale…

FORSE E’ BENE TU SAPPIA COSA STA ACCADENDO AL SSN…SFATIAMO LE FAKE NEWS SULLA MEDICINA GENERALE!

 

LA POLITICA SANITARIA NON ELIMINERA’ MAI IL MEDICO DI BASE, ANCHE SE SERVE A POCO: DOPPIO FALSO, da oltre un decennio, e recentemente ancora di più, si sta minando la professionalità del Medico di famiglia vessandolo di burocrazia, negandogli la libertà clinica indispensabile per fare diagnosi e limitando la prescrizione dei farmaci, a fronte di una reperibilità giornaliera come NESSUN altro Medico, a meno che ci si rechi in Pronto Soccorso ( infatti nei giorni festivi scoppiano perchè i Medici di famiglia non ci sono…), negando (UNICIII!) il rinnovo del contratto professionale, ostacolando la FORMAZIONE SPECIFICA dei giovani che dovrebbero costituire il ricambio professionale a breve, forse proprio perchè non dovranno più esserci i Medici di Famiglia…

IL MEDICO DI BASE SERVE A COPIARE LE RICETTE DEGLI ALTRI MEDICI, POTREMMO FARNE A MENO: FALSO, il Medico di Famiglia è l’unico che tutti i giorni è in grado di valutare la PERSONA con la sua storia personale, familiare, clinica, l’unico che può fare in una stessa Persona prevenzione, orientarsi in diagnosi di acuzie, in cura delle cronicità, in revisione dei farmaci che spesso sono tanti, affrontare in qualche modo qualsiasi problema anche, se occorre, delegando ma scegliendo a chi rivolgersi…

IL MEDICO DI FAMIGLIA E’ PRIVILEGIATO RISPETTO AGLI SPECIALISTI PERCHE’ LAVORA DOVE, COME E QUANDO VUOLE: FALSO, a causa proprio della cattiva politica sanitaria sono oggi migliaia i Colleghi colpiti dal Burn Out, una malattia causata da stress negativo lavorativo condizionato dalla difficoltà ad ESSERE e FARE il Medico, a causa dello svilimento professionale abilmente manovrato dai mezzi di informazione e sostenuto da una politica che spinge alla privatizzazione, a causa dei controlli dei Direttori Generali, a causa delle continue richieste assurde fatte da molti Cittadini (tutto gratis e subito) definibili come MALAUTENZA, come suggerito da Alberto, un caro Collega campano,  ma riferite come MALASANITA’ da chi ha interesse a distruggere il SSN…

IL SERVIZIO PRIVATO E’ SEMPRE MIGLIORE, INUTILE RIVOLGERSI AL MEDICO DI BASE: FALSO, il privato è gestito da IMPRENDITORI che non fanno opere di carità, talvolta offre qualità ma più spesso offre solo RAPIDITA’ e certamente ha interesse a far eseguire IL MAGGIOR NUMERO POSSIBILE DI ESAMI, specie se pagate da polizze assicurative…Chi lavora nel Sistema Pubblico ha maggiori probabilità di lavorare secondo ETICA, senza voler generalizzare sul Privato che ha anche ottime eccezioni. Eccezioni, appunto…Siete sicuri che la Politica non abbia mire sul privato per sanare il grande deficit sanitario o, peggio, per interessi privati? Siete sicuri che le liste di attesa dipendano dai Medici negligenti, o c’è volontà politica di renderle tali?

IL MEDICO DI FAMIGLIA LAVORA POCO E GUADAGNA MOLTO: FALSO, siamo tra i meno pagati in Europa, affrontiamo TUTTE le spese degli studi a nostro carico, non abbiamo nè ferie nè malattia, lavoriamo tante ore al telefono, al computer per le ricette, nelle domiciliari, nello studio ben oltre gli orari previsti…Esistono Colleghi più negligenti o poco etici, come in ogni ambito, ma quelli fanno notizia, non le migliaia di formiche operose…

IL MEDICO DI FAMIGLIA NON E’ SPECIALISTA ED E’ MENO PREPARATO: FALSO, anche qui ci sono eccezioni negative, ma da ormai decenni il Medico di famiglia insegna, fa studi scientifici, pubblica, scrive progetti manageriali, e da molti anni esiste una FORMAZIONE SPECIFICA con borsa di studio ottenibile tramite concorso…

SERVONO MEDICI ANCHE DI BASE, APRIAMO LE ISCRIZIONI ALLA FACOLTA’ DI MEDICINA A TUTTI: FALSO, abbiamo ogni anno circa DIECIMILA Medici a spasso dopo la laurea, molti vanno all’estero: si deve investire in BORSE DI STUDIO PER SPECIALISTI E MEDICI DI FAMIGLIA, Medici ne abbiamo, SERVONO SOLDI DA INVESTIRE NEL SSN!!! Certo se non si recuperano fondi, vuol dire che NON SERVONO MEDICI PUBBLICI, magari li riversiamo nel privato, che ne dite?

MEDITATE CITTADINI, PRIMA DI TROVARVI SENZA ASSISTENZA PUBBLICA, E SENZA DI ME…

D.ssa Carla Bruschelli

 

 

 

 

Medico chirurgo

Specialista in Medicina Interna e Consigliere SIMI Lazio

Master Universitario in Ipertensione Arteriosa

Master Universitario Internazionale in Fitoterapia

Medico di Medicina Generale

Tutor Universitario Medicina Generale

Docente a contratto Master Internazionale Clinical Pharmacy, Cagliari

Esperta in Metodologia della ricerca, Sperimentazione del farmaco,

Pneumologia, Farmacia clinica, Comunicazione scientifica

Che triste il nazionalismo che si accontenta di qualche successo nel calcio, nel tennis, nello sport in generale.
Francesco Erspamer – 11 07 2021
Roba da popolo colonizzato e pronto a rinunciare alla propria lingua (per sentirsi fichi, giovani e adulti ostentano anglicismi mal compresi e mal pronunciati), alla propria cultura e tradizioni, alla propria sovranità e indipendenza economica in cambio di qualche giocattolo di plastica e di un po’ di intrattenimento. Per tenere buona la plebe romana servivano panem et circenses; per quella italiana sono sufficienti i circenses.
Stanno per regalare l’Alitalia ai tedeschi e a quelli che stasera metteranno il tricolore sul balcone non gliene importa nulla, come nulla gli è importato della svendita della Fiat e dello spostamento della sede in Olanda; del resto per risparmiare pochi euro comprano inutili prodotti stranieri su Amazon, salvo poi spendere di più da Starbucks per fa’ l’americani. Quelli con un po’ di soldi sono ancora più anti-italiani: tutti con la BMW e l’iPhone e tutti a organizzare vacanze all’estero (o a farci studiare i figli).
Certo, abbiamo una squallida classe dirigente e i nostri giornalisti e intellettuali sono i più servili e inetti del pianeta. Ma non era così e non c’è alcuna ragione per cui debba essere così: non si tratta di un destino bensì di una scelta collettiva, di una resa incondizionata ai peggiori per paura di perdere qualche insignificante privilegio o, ancora più desolante, per amore del quieto vivere, benché miserabile. Vi hanno convinti di avere dei diritti? Bè, non ne avete. I diritti non si hanno; i diritti si conquistano lottando e si difendono lottando, con coraggio, con determinazione. Chi si rassegna, chi accetta le prepotenze e gli abusi, chi non è disposto a fare quache sacrificio (poi quando glieli impongono piega la testa), chi si è lasciato convincere che se il Mercato o l’Europa lo vogliono allora non ci sia niente da fare (almeno, un tempo, questa onnipotenza era riservata a un Dio intangibile, oggi basta un avido miliardario), chi scappa o si rifugia nell’indifferenza, si merita qualunque cosa gli capiti, anzi ne è complice.
FONTE: https://www.facebook.com/frerspamer/posts/4059690154147510 

 

 

 

Euro 2020: Figliomeni (Fd’I), italiani danno una lezione di calcio e stile agli inglesi

Roma, 12 lug – (Nova)

“Nel tempio del calcio, lo stadio di Wembley, i nostri calciatori hanno reso onore al nostro Paese e allo sport in generale”. Lo dichiara in una nota Francesco Figliomeni consigliere di Fratelli d’Italia e vicepresidente dell’Assemblea capitolina. “Questa vittoria ci dimostra che, quando vogliamo, non c’e’ n’e’ per nessuno, ma che soprattutto siamo un popolo che sa rialzarsi dopo le tempeste come la recente pandemia e dopo i fallimenti come la mancata qualificazione al mondiale di calcio. Questo non dobbiamo mai dimenticarlo – aggiunge Figliomeni -. E’ la lezione morale che la nostra Nazionale ci ha dato e pertanto vogliamo porgere le nostre piu’ sentite congratulazioni per il prestigioso risultato conseguito a tutto lo Staff tecnico, ai calciatori e ad ogni addetto. Ieri e’ stata una notte di pazza felicita’. Tricolori appesi ai balconi, clacson nonche’ bambini e adulti con le maglie azzurre per le strade. Un’euforia collettiva liberatoria. Non ce ne vogliano gli inglesi, ma oltre al calcio hanno molto da imparare anche in questione di stile e di fair play. Vergognosi quei fischi dello stadio all’inno nazionale italiano e imbarazzante e spiacevole e’ stato soprattutto vedere i calciatori inglesi sfilarsi dal collo la medaglia del secondo posto, per non parlare dei deplorevoli pestaggi nei confronti dei tifosi italiani. Ma nonostante cio’, sopra Londra il cielo e’ azzurro”, conclude Figliomeni. (Com) NNNN

 

 

 

BELPAESE DA SALVARE

Milanesi al buio? Ringrazino l’austerità. Però tranquilli, in futuro sarà peggio

Giugno 20, 2021 posted by Leoniero Dertona

A Milano ci sono stati 80 black out in tre giorni. Una situazione che dovrebbe essere normale in un paese in via di sviluppo, magari in Africa, ma che non dovrebbe succedere in Europa nel ventunesimo secolo. Peccato che una bella fetta del Vecchio continente, per tanti motivi, assomigli sempre di più ad un paese non sviluppato economicamente.

Di primo acchito, qual è la causa diretta di questi blackout? Cerca di spiegarlo A spiegarlo Unareti, l’associazione dei gestori di rete che cita uno  “stato di allerta” in corsa “Le alte temperature registrate in questi giorni a Milano hanno portato ad un aumento dei consumi di energia in città. Negli ultimi giorni, è stato infatti raggiunto il carico massimo del 2021 sulla rete elettrica, in crescita di circa il 25% rispetto alla scorsa settimana”, Il caldo ha portato all’accensione dei condizionatori anticipata e contemporanea, con un eccesso di domanda, almeno questa è la spiegazione ufficiale. Ma siamo sicuri? possibile che un po’ di caldo mandi in crisi una città, teoricamente moderna, del XXI secolo?

Unareti ammette che la colpa ce l’ha anche la rete: “Per superare i disservizi che possono verificarsi in presenza di aumenti di carico sulla rete, sono necessari ingenti investimenti che richiedono tempi lunghi per poter essere portati a termine”. Vero, i tempi sono lunghi, allora perché non sono stati fatti per tempo?

Parlare di crescita improvvisa è, per lo meno, azzardato: L’Italia non ha una crescita demografica e gli impianti di condizionamento si diffondono maggiormente, ma sono anche molto più efficienti rispetto a quelli di qualche anno fa. Il problema è che proprio non si è investito per sostituire e rendere più efficiente la rete. Da quando non si investe più?

Dalla crisi finanziaria del 2008 alla crisi del debito del 2011 gli investimenti sono andati a picco. Un regalo dei vincoli di bilancio europei: quando ti metto un tetto fisso e ti obbligo a fare dei forti avanzi primari quelli che tagli non sono le spese correnti, perché non puoi licenziare il personale o tagliare oltre un certo limite le pensioni, ma sono gli investimenti.

Qualcuno dirà che gli investimenti nella rete devono essere pagati dagli utenti: ma questi già pagano potentemente queste spese, come potete vedere leggendo una qualsiasi bolletta.

Tra oneri di trasporto, di sistema e tasse  dai 2/3 ai 3/4 della bolletta vanno al gestore di sistema ed allo stato, cioè a quegli enti che dovrebbero investire per rinnovare la rete. peccato che non l’abbiano fatto e che i ostri soldi siano finiti altrove, ad esempio a compensare le società di generazione private per i loro disinvestimenti (vedi nucleare) o, per la parte dello stato, in altre spese.

Il futuro sarà anche peggio: la retorica verde spingerà verso le famose fonti rinnovabili che ancora non ci sono, non sono sufficienti e , soprattutto, hanno due difetti:

  • non sono costanti (a parte in nucleare): le altre fonti dipendono da fattori atmosferici variabili e scarsamente prevedibili;
  • sono costosi

Quindi il futuro dei milanesi, ma non solo, è quello di pagare di più per avere meno servizi, meno elettricità, più black out. 

Buon divertimento.

FONTE: https://scenarieconomici.it/milanesi-al-buio-ringrazino-lausterita-pero-tranquilli-in-futuro-sara-peggio/

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

I contractors cinesi in Africa al servizio della Belt & Road Initiative

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Gli investimenti cinesi in Africa si sono moltiplicati negli ultimi anni, soprattutto dopo il lancio della Belt & Road Initiative (BRI) nel 2013. Le analisi prodotte circa la maggiore presenza cinese in Africa si sono finora concentrate sui progetti infrastrutturali che hanno indebitato i paesi ospitanti e sulla costituzione di alcune basi militari come quella di Gibuti.

Probabilmente, l’apertura della base navale a Gibuti nel 2017 è stata la risposta della Cina ad un ambiente che necessitava di maggiore sicurezza per i suoi concittadini ed i suoi interessi nel continente. Fino ad allora, la presenza cinese in Africa era stata quasi interamente dedicata al commercio e allo sviluppo economico, con gli Stati Uniti a fare la parte del leone nello sforzo militare e antiterrorismo.

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Nel 2018, durante il Forum sino-africano sulla Sicurezza e la Difesa, Pechino cominciò a promuovere una serie di colloqui su temi quali le nuove capacità per le forze di sicurezza africane, cooperazione in materia di difesa e rafforzamento delle relazioni militari afro-cinesi.

Pechino aveva capito che sarebbe stato un errore affidare sicurezza e sviluppo al solo commercio, così come i limiti e gli errori dell’integrazione in materia di sicurezza, risoluzione dei conflitti e sviluppo economico.

Dall’inizio del 2018 si è riscontrato un aumento di eventi legati alla pirateria lungo le coste africane, sia nell’Oceano Indiano che nel Golfo di Guinea.

Una tendenza che ha riacceso la necessità di cooperazione pubblico-privato nel settore sicurezza. È qui che una nuova generazione di compagnie cinesi ha trovato un mercato di nicchia: dall’accompagnamento di VIP alla fornitura di contractors paramilitari a bordo sulle rotte marittime ad alto rischio. Al momento, ci sono solo poche società (20-25) con le capacità necessarie, ma ci danno alcuni indizi sul futuro del settore della sicurezza privata cinese in Africa.

Per cominciare, occorre separare quella che è una società di sicurezza privata (Private Security Company – PSC) da una società militare privata (Private Military Company – PMC), così da usare termini comuni. Una PSC fornisce servizi di sicurezza passiva, come il controllo degli accessi e/o la protezione contro furto e violenza. Oltre a tutto questo, una PMC è in grado di offrire anche servizi di consulenza e addestramento di forze locali, raccolta informazioni, salvataggio e, occasionalmente, missioni di combattimento. Tuttavia, la differenza si sfuma quando una PSC impiega armamenti preventivi o offre formazione sulla sicurezza.

 

Le PSC di Pechino

Occorre tener ben conto del ruolo del Partito Comunista Cinese e della burocrazia statale nella regolamentazione del settore. La legislazione cinese si basa sulla struttura economica del mercato socialista e quindi, dal punto di vista occidentale, risulta talvolta difficile distinguere tra privato e pubblico. Ne è prova il fatto che una legge cinese del 1993 limitava il pool dei dirigenti delle PSC ai comandi militari e di polizia. Il Regolamento dell’Amministrazione dei Servizi di Vigilanza e Sicurezza del 2009 aggiornò le linee guida della precedente legge per il mercato cinese.

Sebbene non abbia determinato una chiara catena di comando o procedura per fornire sicurezza all’estero, questa legge diede vita al Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Consiglio di Stato quale unico ente responsabile della supervisione e dell’amministrazione dei servizi di sicurezza in Cina.

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Non appena le PSC cinesi iniziarono ad operare all’estero, il Consiglio di Stato, il Ministero degli Affari Esteri, la Corte Suprema, la Commissione Statale per la Supervisione e Amministrazione dei Beni, la Commissione per lo Sviluppo Nazionale e persino l’Esercito di Liberazione Popolare (PLA – People Liberation Army) cominciarono a competere per una quota di autorità nella vigilanza del settore.

Data la domanda di sicurezza in BRI, c’erano grandi prospettive di profitti e località all’estero.

La norma del settore, sia in Cina che all’estero, è ancora quella di dover impiegare ex militari e/o agenti di polizia sia per lealtà al governo cinese, che per la gestione di informazioni classificate o affinità culturale. Solo le grandissime aziende hanno assunto consulenti stranieri esperti, ad esempio Erik Prince (nella foto sotto) , ex CEO della famosa Blackwater e ora presidente di Frontier Services Group.

Sebbene il quadro giuridico per le società di sicurezza private in Cina sia ben definito, non esiste una legislazione specifica per la loro selezione ed impiego all’estero. Il settore domestico è composto (dati 2017) da circa 5.800 aziende di varie dimensioni che impiegano circa cinque milioni di persone, con una crescita annua di circa il 20%, che lo rende uno dei settori di più in forte espansione in Cina.

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Ci sono diversi motivi per cui così pochi PSC cinesi hanno ottenuto certificazioni internazionali. Uno su tutti è rappresentato dalla barriera linguistica e difficoltà tecniche, ma la ragione principale è il costo associato. Il mercato della sicurezza cinese cerca costantemente di minimizzare i costi, il che si traduce in aziende cinesi che non sono disposte a pagare troppo per dei servizi in materia di sicurezza privata di qualità.

Ed anche se dall’inizio del 2019, si è registrata una riduzione del numero di società, che ha portato ad una domanda di maggiore novità professionale, è prassi comune per le PSC più piccole non pagare alcuna previdenza sociale per i propri lavoratori ed offrire, così, prezzi più bassi.

A ciò va ad aggiungersi il carattere temporaneo dei contratti professionali, con un turnover del personale che arriva fino al 65% ogni annualità. Molte delle guardie giurate vedono quindi il loro impiego come mal pagato, precario e una soluzione temporanea in attesa di migliori opportunità.

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In un mercato saturo e in una costante ricerca di abbattimento dei costi, molte società vedono la BRI come un’opportunità per contratti redditizi e una espansione internazionale, ma le loro carenze sono ancora evidenti sul campo. Ad esempio, nel 2018 cinque cittadini cinesi sono stati arrestati in Kenya perchè tentarono di costituire una società per visti turistici e senza alcuna licenza locale.

La Hua Xin Zhong An (HXZA) è una delle prime società di sicurezza private cinesi a fornire vigilanza armata alle navi cinesi che solcano la costa africana. Si avvale di consulenti stranieri e si è dimostrata in grado di raggiungere ed implementare gli standard riconosciuti a livello internazionale (ISO-28000). Haiwei è l’altro gigante cinese in materia di sicurezza, con numerose certificazioni di qualità, che fornisce sicurezza ad imprese di logistica e costruzioni cinesi in diversi paesi africani, dalla Tanzania all’Etiopia. Entrambe le PSC sono membri dell’International Code of Conduct Association (ICOCA).

 

Il mercato della sicurezza privata in Africa

Questo mercato è caratterizzato da diversi fattori, e principalmente:

  • l’immagine radicata del mercenario del periodo postcoloniale;
  • l’esistenza di numerose organizzazioni paramilitari che offrono i propri servizi, comprese società cinesi anche prima della BRI;
  • il ritorno delle società militari private (PMC) altamente competenti che supportano vari governi locali o servono interessi non africani.

A queste, si aggiungono le carenze delle forze di sicurezza locali e la generale riluttanza di aziende cinesi ad investire in una sicurezza di qualità. Non sorprende quindi che queste ultime abbiano talvolta assunto (e persino armato) milizie locali per la protezione dei propri interessi. Il più delle volte, questa scelta, sicuramente più vantaggiosa economicamente rispetto ad una sicurezza privata di qualità, ha avuto risvolti tragici, come nel caso dei minatori illegali in una miniera di proprietà cinese in Zambia.

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È tuttavia necessario sottolineare che nonostante sia idea diffusa che il terrorismo rappresenti la principale causa di morte violenta in Africa, in realtà è la criminalità ad essere responsabile del numero maggiore di perdite umane ed economiche; da sola o in combinazione con il jihadismo, la realtà dei fatti è che resta una minaccia crescente. E la crescita del commercio, in combinazione con Stati falliti o fragili, sta favorendo una certa espansione di nuove reti criminali transnazionali che vanno dalla tratta di esseri umani al saccheggio delle risorse naturali.

Si evince in tal modo come l’Africa sia diventata un mercato importante in materia di sicurezza privata per le aziende locali e straniere.

Ora, quelli che forniscono tale sicurezza in Africa vanno dalle milizie locali come il Koglweogo alle PMC di alto livello come l’Academi (ex Blackwater). Il tipo di protezione richiesto dalle aziende (pubbliche e private) nella maggior parte dell’Africa non è molto diverso da quello necessario in altre regioni ma nelle aree africane ad alto rischio come il Sahel o la Libia, la sicurezza deve essere portata ad un altro livello. Ciò richiede addestramento, abilità e conoscenza dell’area che poche PSC cinesi hanno allo stato attuale.

Per cominciare, la legge cinese proibisce ai propri cittadini il porto d’armi, sia dentro che fuori il suo territorio. Con pochissime eccezioni. L’idea è semplice: impedire alle PSC cinesi di diventare PMC che operino al di fuori del controllo di Pechino e finiscano per diventare attori regionali a sé stanti, come all’epoca Executive Outcomes. O che queste compagnie si considerino un’estensione governativa come nel caso della Wagner (Russia).

Gli appaltatori russi in Africa offrono supporto anche ad alcuni governi alleati senza essere ufficialmente parte delle forze armate, garantendo a Mosca un’alleggerimento plausibile di responsabilità dirette e un tipo di assistenza militare con modalità sicuramente più convenienti. Gli occidentali (soprattutto US) forniscono servizi concreti alla ricerca di una migliore economicità in aree specifiche, dalla logistica all’intelligence. I cinesi, nuovi arrivati, devono colmare il divario crescente tra la sicurezza di cui hanno bisogno le loro aziende e ciò che possono ottenere a livello locale.

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Inoltre, il mercato della sicurezza privata africana è grosso modo suddivisibile per zone. Per progettare soluzioni su misura per ogni minaccia, la prima cosa di cui tener conto sono le caratteristiche di base dell’area operativa:

  • Nord Africa (eccetto Libia): protezione di ambasciate, porti e infrastrutture, rischio rapimenti e cooperazione con PSC e forze di sicurezza locali;
  • Africa occidentale: crescente insicurezza marittima nel delta del Niger e nel Golfo di Guinea; minaccia di Boko Haram;
  • Sahel, Libia e Sud Sudan: uso massiccio di PMC, sebbene le PSC siano utilizzate per la protezione di aziende ed individui; zone ad alto rischio, con una moltitudine di gruppi armati;
  • Centrafrica: presenza combinata di PSC e PMC, a volte difficili da differenziare in conflitti come la Repubblica Centrafricana o la Repubblica Democratica del Congo;
  • Africa orientale: PSC specializzate nella lotta al dirottamento e sicurezza marittima (pirateria recrudescenza), principalmente in Somalia; minaccia di Al Shabaab;
  • Sudafrica: settore della sicurezza privata ampia e ben regolamentata; preponderanza di aziende sudafricane, con esportazione di servizi di alto livello;

Il mercato della sicurezza privata africana è evoluto da vero e proprio oligopolio di società con sede a Washington, Londra o Cape Town ad un vero mercato libero con una moltitudine di società a diversi livelli. Le nuove società di sicurezza private che operano in Africa presentano nuove capacità nate dalla fusione tra società militari private e consulenze di intelligence private che impiegano talvolta anche personale di agenzie come CIA, MI-6 o Mossad. Inoltre, non è raro trovare giornalisti trasformati in faccendieri o investigatori dediti alla raccolta di informazioni.

 

Appaltatori cinesi in Africa

Data la propensione della Cina nel tenere un basso profilo per i suoi militari e PSC di stanza in Africa, c’è in genere una certa tendenza a percepire questo approccio come negligenza nel proteggere i propri lavoratori/interessi all’estero. In parte, Pechino ha cercato di colmare questa percezione con la creazione di milizie locali o accordi con quelle già esistenti. Il settore minerario ha subito il peso di questo approccio inadeguato a seguito di diversi incidenti: come ad esempio sparatoria avvenuta in Zambia o la deportazione dei minatori in Ghana.

Ma fin dall’attacco al Blue Radisson Hotel di Bamako nel 2015, in cui tre dirigenti della China Railway Corp vennero uccisi insieme ad altri cittadini stranieri, il governo cinese cominciò a compiere gli sforzi necessari per proteggere i lavoratori cinesi all’estero, modificando al contempo la nozione dell’assoluta mancanza di protezione diplomatica.

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I recenti attacchi dei pirati avvenuti nel Golfo di Guinea e al largo della Somalia contro vettori navali cinesi hanno rivitalizzato la domanda di servizi di sicurezza marittima. Solo nell’agosto 2019, nove marinai cinesi e otto ucraini vennero rapiti nel corso di attacchi a due navi mercantili al largo della costa del Camerun. Il Golfo di Guinea rappresenta oggi il 73% dei dirottamenti e il 92% delle prese di ostaggi in mare in tutto il mondo, in particolare al largo delle coste del Benin, del Camerun, della Guinea, della Nigeria e del Togo.

In generale, le grandi società di sicurezza cinesi hanno iniziato ad espandersi lungo le direttrici relative ai propri clienti lungo la BRI. L’espansione della società HXZA, ad esempio, diede origine all’internazionalizzazione dei propri clienti: principalmente aziende pubbliche nel settore petrolchimico e del gas. Oggi il suo core business è la sicurezza marittima, principalmente al largo delle coste dell’Africa orientale.

Se la HXZA è il gigante della sicurezza marittima cinese, Haiwei Dui è probabilmente il suo equivalente di terra. Conosciuta anche come Overseas Service Guardian International Co., venne fondata nel 2015 dalla fusione di diverse PSC in risposta alla domanda di servizi di protezione per investitori cinesi d’oltremare.

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Oggi Haiwei conta ben 18 filiali estere (la prima in Tanzania), 11 basi di scorta marittima, circa 2.000 dipendenti e opera in 51 paesi.

Il caso di Haiwei è abbastanza rappresentativo per quanto attiene l’espansione cinese in questo tipo di mercato, i cui dirigenti affermano di non aver fin’ora riscontrato gravi minacce terroristiche nelle loro aree di operazioni, se non i furti.

La maggior parte dei propri clienti in Etiopia sono società di logistica e costruzioni. Ad ogni modo, sembrano continuare a monitorare attentamente il fenomeno del terrorismo lungo tutta la BRI: “La raccolta di informazioni relative alle minacce terroristiche attraverso i nostri canali fa parte della nostra routine e condividiamo tali informazioni con le parti interessate per ulteriori elaborazioni e intraprendere azioni contro la fonte di tali minacce “.

Una delle principali problematiche per queste società cinesi in Africa è il poter fornire l’utile conoscenza locale (ed un network consolidato di contatti fondamentali) al proprio personale, così come le necessarie competenze in materia di sicurezza. I clienti cinesi sono ancora riluttanti a pagare per servizi di un certo livello in materia di sicurezza, ma aziende come HXZA, Haiwei o Frontier Services Group hanno già acquisito le certificazioni accreditate a livello internazionale per l’addestramento, come Close Protection Operative Level III.

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Un altro problema è rappresentato dal fatto che i militari cinesi (e quindi il pool di personale per i PSC) non hanno ancora l’esperienza dei russi e degli occidentali, sebbene siano coinvolti da anni in varie missioni a guida U.N. Ciò include l’integrazione di dipendenti cinesi e stranieri in ambienti multiculturali, con esigenze e sensibilità diverse. L

a lingua rimane una barriera per molte PSC, specialmente nell’Africa francofona. Ciò porta a un ulteriore problema di trattenimento delle proprie risorse e talenti, poiché le poche persone con la giusta formazione, esperienza e certificazione finiscono per unirsi ad altre aziende.

In ultimo, sarebbe necessario investire nelle disponibili nuove tecnologie sulla sicurezza in grado di abbattere i rischi e la probabilità di errore: fotocamere con riconoscimento facciale, body scanner, database, lettori di codici a barre, simulatori, strumenti ISR, ecc.

Per il momento, le PSC cinesi sembrano operare in modo semi-autonomo, orientate verso mercati di nicchia come il contenimento dei dirottamenti, la protezione delle strutture o la sicurezza marittima. E per il momento non agiscono come un’estensione governativa, a differenza di diverse PMC russe.

A causa della stretta relazione tra i gestori delle maggiori PSC cinesi e della loro progressiva proiezione internazionale, non si può escludere la possibilità che l’interazione tra aziende pubbliche e private diventi in futuro meno trasparente.

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Inoltre, è da tenere bene a mente che in Cina questo settore ha stretti legami con l’Esercito Popolare di Liberazione e la Polizia Armata Popolare.

La maggior parte dei fondatori e dei dirigenti dei PSC erano in precedenza comandanti delle forze armate o di polizia: in Cina i settori pubblico e privato sono perlomeno intrecciati. Questa considerazione, comunque, non indica che tutti i PSC cinesi in Africa operino per volere del loro governo o nel migliore interesse del loro paese.

Quando (e se) Pechino definirà il quadro giuridico per le compagnie di sicurezza private d’oltremare, una delle aree più importanti da capire sarà se la regolamentazione diventerà più chiara e trasparente nei contratti. Ciò non solo promuoverebbe l’efficienza e la prevenzione della corruzione, ma dissiperebbe anche i sospetti sui rapporti del settore con lo Stato.

Per motivi di trasparenza o meno, diverse aziende pubblicano su Internet le loro offerte di lavoro per l’Africa. Inoltre, non è difficile trovare informazioni sui PSC cinesi in Africa. Non dimentichiamo che queste aziende, operando all’estero e richiedendo certificazioni internazionali, sono esposte anche a audit finanziari da parte di agenzie e società estere, certificazioni ISO e ICOCA, conformità Lloyds e tutta una serie di ispezioni.

 

Conclusioni

L’espansione economica della Cina ed i maggiori investimenti effettuati in Africa hanno messo i propri connazionali, e i relativi interessi, sotto i riflettori USA ed Europei. E l’Africa include l’intero spettro di minacce che le aziende cinesi dovranno affrontare lunga tutta la BRI, dall’estorsione agli attacchi jihadisti. Le lezioni che Pechino trae dall’uso delle sue PSC possono quindi essere di fondamentale importanza.

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L’esperienza della Cina in Africa negli ultimi anni ha dimostrato che lo sviluppo sostenibile, pur essendo necessario, non è sufficiente per la stabilizzazione ed è tutt’altro che una panacea per i problemi del continente.

Le aziende cinesi operano in alcune delle aree più problematiche del continente africano e le PSC aiutano a colmare il deficit cinese (ed africano) in materia di sicurezza, ma se ciò non viene fatto professionalmente, correttamente, responsabilmente, potrebbe catturare l’attenzione di gruppi armati, milizie o organizzazioni terroristiche con conseguenze indesiderabili.

In Iraq, la rapida espansione della sicurezza privata unita alla mancanza di un quadro giuridico adeguato portò ad una spirale di contratti ambigui, violenza incontrollata, corruzione e traffico di armi che compromise la ricostruzione nazionale e causò inutili sofferenze alla popolazione civile.

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Per non parlare del discredito di governi ed aziende. Dal momento che la maggior parte dei paesi africani (soprattutto il Sudafrica) dispone già di un sistema di controllo, autorizzazioni e regolamentazione circa i servizi di sicurezza, è essenziale promuovere le buone prassi e consuetudini tra le autorità governative cinesi/africane e le PSC per evitare episodi come in passato.

Anche associazioni come la China International Contractors Association[1] o la Security Association sono importanti per avere un feedback circa crisi attuali/passate e sui rapporti degli incidenti all’estero.

La Cina desidera mantenere una presenza militare discreta in Africa ed evitare a tutti i costi di essere vista come una nuova potenza coloniale. Le società di sicurezza private (PSC) possono essere lo strumento di cui ha bisogno per evitare che la difesa dei suoi concittadini e dei suoi beni la costringa in futuro ad interventi militari che, per il momento, rimangono fuori dalla sua portata. Ma c’è da temere che l’aumento degli aiuti militari e della sicurezza privata possa portare Pechino ad allontanarsi dal suo principio di non ingerenza.

Foto HXZA, Frontier Services Group e Twitter

Leggi anche:

 

Fonti:

  • ARDUINO, Alessandro. China’s Private Army: Protecting the New Silk Road, 2018
  • “Regulation on the Administration of Security and Guarding Services,” Chinalawinfo, 2012, http://www.lawinfochina.com/display.aspx?lib=law&id=7779 
  • ARDUINO, Alessandro. “China’s Private Security Companies: The Evolution of a New Security Actor, in Securing the Belt and Road Initiative,” in China’s Evolving Military Engagement Along the Silk Roads, Edited by Nadège Rolland, The National Bureau of Asian Research NBR special report no. 80, September 2019, https://www.nbr.org/wp-content/uploads/pdfs/publications/sr80_securing_the_belt_and_road_sep2019.pdf 
  • Xinhua
  • WATTS, Gordon. “China’s ‘Private Army’ prowls the ‘New Silk Road,’” Asia Times, August 20, 2018, http://www.atimes.com/article/chinas-private-army-prowls-the-new-silk-road/ ; GOH, Brenda; MARTINA, Michael; and SHEPHERD, Christian, “Local, Global Security Firms in Race Along China’s ‘Silk Road,’” US News & World Report, April 23, 2017, https://money.usnews.com/investing/news/articles/2017-04-23/local-global-security-firms-in-race-along-chinas-silk-road
  • DUCHÂTEL, Mathieu; BRÄUNER, Oliver; and HANG, Zhou. “Protecting China’s Overseas Interests: The Slow Shift away from Non-interference,” SIPRI Policy Paper no. 41, June 2014, 54, https://www.sipri.org/publications/2014/sipri-policy-papers/protecting-chinas-overseas-interests-slow-shift-away-non-interference ; MCFATE, Sean The Modern Mercenary: Private Armies and What They Mean for World Order (New York: Oxford University Press, 2014), 153-54
  • AGUTU, Nancy “Threat to security? Five Chinese nationals arrested in Lavington,” The Start, October 5, 2018, https://www.the-star.co.ke/news/2018-10-05-threat-to-security-five-chinese-nationals-arrested-in-lavington/
  • ISO-9001(Quality Management), ISO-14001(Environment Management), OHSAS-18001 (Occupational Health & Safety Assessment), ISO28007 (Ships and Marine Technology)
  • https://carnegietsinghua.org/2020/10/08/chinese-security-contractors-in-africa-pub-82916
  • HAUER, Neil. “Russia’s Favorite Mercenaries: Wagner, the elusive private military company, has made its way to Africa-with plenty of willing young Russian volunteers,” The Atlantic, August 27, 2018, https://www.theatlantic.com/international/archive/2018/08/russian-mercenaries-wagner-africa/568435/ 
  • MCFATE, Sean. The New Rules of The Modern Mercenary Private Armies and What They Mean for World Order (Oxford University Press: 2015). P. 15.
  • United Nations Security Council, Final report of the Panel of Experts on Libya established pursuant to Security Council resolution 1973 (2011), December 9, 2019, https://undocs.org/S/2019/914
  • Interview by Alessandro Arduino, research fellow at the Middle East Institute, National University of Singapore, with Haiwei, Hangzhou and online. December 2019
  • http://www.chinca.org/EN 

FONTE: https://www.analisidifesa.it/2021/07/i-contractors-cinesi-in-africa-al-servizio-della-belt-road-initiative/

 

 

 

CULTURA

Franz Kafka secondo Giorgio Manganelli

Kafka è una sorta di presenza deforme nel nostro mondo culturale, letterario, fantastico. Una presenza deforme che insiste ad agire. E che per quanto possa determinare malesseri, disagi opposizioni inquietudini, continua proprio in forza della sua straordinaria meravigliosa deformità, ad agire, a muoversi, a ipnotizzare. Questa deformità nasce da una specie di duplicità nella sua visione del materiale su cui lavora. È una duplicità mentale, filosofica, linguistica che è anche il fascino della sua straordinaria maniera di fare letteratura.

Mi pare di vedere in Kafka da un lato un mondo che chiamerei di stemmi. Uno stemma. Un labirinto. Un disegno estremamente severo, molto preciso, molto astratto, duro, arcaico. Ma questo disegno non gli esce, non può. Gli si vieta di diventare un disegno fisico, carnale, quotidiano perché è un mondo su cui si proietta è un mondo totalmente deforme, intimo, sordido, losco. La intensità di Kafka nasce proprio da questa sproporzione eroica, tragica tra l’esattezza labirintica del disegno originario e la povertà industriosamente patologica del mondo su cui questa immagine si esercita.

Dal contatto fra lo stemma e la miseria nasce un attrito, una densità faticosa, minuta e direi in qualche modo noiosa di una noia ipnotica, volontaria, calcolata. La noi con cui Kafka riproduce, trascrive la sordidezza del quotidiano su cui il labirinto esercita inutilmente il suo tentativo di ordine enigmatico e definitivo.

Trascrizione fedele dal video visionabile qui:

https://www.raicultura.it/letteratura/articoli/2018/12/Franz-Kafka-raccontato-da-Giorgio-Manganelli-e-Franco-Fortini-63f65998-b515-407c-99af-59feb638b826.html

 

 

 

 

“LE COSTITUZIONI”: LA GIUSTIZIA CORANICA DELL’IRAN (VIDEO)

Nella nuova puntata de “Le Costituzioni”, Manlio Lo Presti ci presenta l’Iran.

La forma di governo è quella della Repubblica islamica sostenuta dal popolo iraniano sula base dell’antica fede nella sovranità della verità e nella giustizia coranica.

Buona visione!

VIDEO QUI: https://youtu.be/0_1Ih0B6nAA

FONTE: http://opinione.it/cultura/2021/07/07/redazione_le-costituzioni-manlio-lo-presti-repubblica-islamica-iran/

 

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

Youtube paga 100 mila euro di sanzione per aver censurato un video di protesta sulla pandemia

Luglio 12, 2021 posted by Guido da Landriano

YouTube è stato multato di 100.000 euro dal tribunale regionale tedesco di Dresda dopo aver cancellato erroneamente il video di un utente nel quale si  mostravano massicce proteste contro la pandemia in Svizzera. La multa è stata comminata tra l’altro perché la piattaforma non è riuscita a  e poi non è riuscito a ripristinare il video “immediatamente” dopo l’ordine del tribunale datato 20 aprile.  Invece, la società ha aspettato quasi un mese per far tornare online il video, che ha portato alla multa della scorsa settimana, emessa il 5 luglio, secondo WELT.de.

L’avvocato Joachim Steinhöfel, che rappresenta l’operatore dell’account che aveva visto il video cancellato, considera la decisione del tribunale una linea guida per la libertà di espressione su Internet. “Con la multa storicamente elevata, l’Alta Corte Regionale chiarisce che le decisioni del tribunale devono essere osservate senza restrizioni, indipendentemente dal fatto che YouTube ritenga o meno una violazione delle sue linee guida”, ha affermato Steinhöfel. -Welt.de (tradotto)

YouTube, tuttavia, non sembra comprendere la lezione. Un portavoce ha dichiarato a WELT: “Abbiamo la responsabilità di mettere in contatto i nostri utenti con informazioni affidabili e di combattere la disinformazione durante il Covid-19. Questa è una decisione caso per caso che rispettiamo e che esamineremo di conseguenza”.

Il video di protesta è stato cancellato alla fine di gennaio, con YouTube che ha citato la sua “Politica sulla disinformazione medica su COVID-19”, tuttavia il tribunale ha respinto il loro ragionamento, concludendo in parte che le linee guida modificate non erano una norma sufficiente  e che si sarebbe dovuto chiedere , se mai, al cliente di firmare un nuovo accordo generale . La semplice indicazione che potrebbero verificarsi cambiamenti intorno alle loro politiche COVID-19 non è sufficiente.

Il problema di applicare norme simili in Italia si chiama “Tempi dell Giustizia”. In Germania la sanzione con la sentenza è arrivata in tre mesi, in Italia, se va bene in due anni. Con questa giustizia non ci può essere giustizia.

FONTE: https://scenarieconomici.it/youtube-paga-100-mila-euro-di-sanzione-per-aver-censurato-un-video-di-protesta-sulla-pandemia/

 

 

 

I problemi e i rischi del riconoscimento facciale tra Cina e resto del mondo

 

di Bruno Saetta @brunosaetta bruno@valigiablu.it – 18 maggio 2019

Jiangxi, Cina sudorientale. 7 aprile 2018. Ao ha guidato per circa 100 chilometri per seguire, insieme alla moglie, il concerto dell’idolo pop Jacky Cheung. È tranquillo perché sa che all’International Sports Center di Nanchang ci sarà tantissima gente. È buio quando inizia il concerto, e Ao è seduto a godersi lo spettacolo: un’orchestra live di 31 elementi, 30 ballerini ed acrobati, e un palco visibile a 360 gradi. Mentre il pubblico intona insieme a Cheung il ritornello di un pezzo romantico, un paio di agenti si fanno largo tra le persone accalcate con passo deciso. Si avvicinano al trentunenne Ao e lo afferrano. L’uomo è visibilmente sorpreso. Forse un errore? No, sanno perfettamente chi è e che è ricercato per crimini economici. E lo hanno scovato tra 60mila persone. Di notte

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Sharp Eyes Il sistema di riconoscimento facciale della Megvii Inc. è la tecnologia che ha consentito l’arresto del trentunenne cinese (accusato di non aver pagato un carico di patate) nonostante egli si sentisse relativamente sicuro in una vasta folla. Ma non è l’unico già attivo in Cina. Una delle aziende più quotate del settore è SenseTime (Shangtang in cinese), la startup di intelligenza artificiale più promettente, stimata nel 2018 circa 4,5 miliardi di dollari. Un “unicorno”, cioè un’azienda con valutazione superiore al miliardo, con una crescita del 400% in appena tre anni. La sede principale di SenseTime si trova a Pechino. Gli uffici sono eleganti. All’ingresso un pannello funge da specchio digitale, una telecamera analizza il tuo viso per stimare l’età e assegnare un rating di attrattiva. Un secondo schermo trasforma il tuo viso come un filtro, snellisce la figura, allarga gli occhi, e così via. Un terzo schermo mostra le immagini del vicino incrocio stradale. Alle persone e ai veicoli sono sovrapposte delle etichette: maschio, adulto, pantaloni grigi, ecc… . Il personale non usa badge, le telecamere riconoscono lo staff e aprono le porte automaticamente. L’intero edificio sembra una prova di ciò che dovrebbe essere la Cina del futuro. SenseTime lavora a stretto contatto con il governo. Il sistema utilizza milioni di foto per riconoscere in tempo reale le persone in the wild, cioè in situazioni “non collaborative”, per capirci nella vita reale quando non si mettono “in posa”. Ma il sistema non si limita alle persone, analizza anche i veicoli. Su uno schermo vengono sovrapposti i dettagli riconosciuti alle immagini. Il software può abbinare un sospetto con un database criminale, e se il livello di somiglianza supera una certa soglia il soggetto può essere arrestato direttamente.

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SenseTime non si occupa solo di riconoscimento facciale (SenseFace), ma esplora le varie possibilità dell’AI: SenseMedia è una piattaforma in grado di moderare video e immagini inappropriati, SenseFoundry è una piattaforma dedicata per Smart City, SenseDrive una soluzione per la guida autonoma. SenseTime è considerata uno dei campioni nazionali, una delle cinque aziende cinesi più importanti. In Cina ci sono oltre 180 milioni di telecamere. L’idea è di porre il riconoscimento dei volti al centro di tutti i sistemi, da quelli di sicurezza a quelli di acquisto: non è necessario avere un documento di identità, non serve avere denaro con sé, né una carta di imbarco, tutto quello che occorre è mostrare il proprio volto. Il governo cinese e i funzionari di polizia sperano di utilizzare la tecnologia di riconoscimento facciale non solo per rintracciare i sospetti, ma anche per prevenire i reati, perfino per prevederli. Il punto di arrivo sarà un sistema di sorveglianza totale che tracci costantemente e in tempo reale i movimenti di 1,4 miliardi di cinesi, negli aeroporti e nelle stazioni, per le strade, nei negozi, nei centri commerciali, anche nei bagni pubblici. I poliziotti saranno dotati di occhiali con tecnologia di riconoscimento facciale. Questo è Sharp Eyes (Xue Liang in cinese), “occhi acuti”, come nello slogan del partito comunista: il popolo ha gli occhi acuti. È la base del sistema di credit score cinese, un sistema di controllo pervasivo ed onnisciente che raccoglierà i dati dei database criminali, medici e accademici, dei PNR (prenotazioni di viaggio), degli acquisti, dei commenti sui social media, tutti riuniti in un unico profilo con i dati anagrafici e comportamentali dell’individuo. Tracciare chiunque, dovunque: dove sono, con chi sono, cosa fanno, cosa pensano.

VIDEO QUI: https://youtu.be/eViswN602_k

L’essenza di Sharp Eyes è la riprovazione sociale. Un cittadino appicca il fuoco a un cumulo di rifiuti, una telecamera lo riprende e un altoparlante gli ordina di spegnere l’incendio. Il suo nome poi verrà pubblicato sugli schermi agli incroci più trafficati. Tutti sapranno chi è il colpevole, così non oserà farlo di nuovo. L’obiettivo è di ridurre i reati, eliminare la corruzione. Ma ovviamente il rischio è di colpire i dissidenti, le voci fuori dal coro. La sorveglianza a livello locale è facilmente abusata, diventa una forma di controllo sociale. Parteciperesti ad una protesta di piazza sapendo che il tuo volto sarà scansionato e registrato e inserito nei database della Polizia? Anche i cittadini che attraversano la strada quando non devono (jaywalker) vedono i loro nomi pubblicati sui tabelloni di riprovazione. E nei bagni pubblici il sistema è utilizzato per impedire il furto della carta igienica. Un altro punto di Sharp Eyes sta nel mobilitare i comitati di quartiere, residenti che possono accedere alle telecamere dai loro televisori oppure dagli smartphone, e fungere da occhi per il governo stesso. Nel caso, possono allertare la polizia direttamente. Una rivisitazione tecnologica del “See something, say something” americano, la campagna del Dipartimento di Homeland Security basato sulla “responsabilizzazione” dei cittadini, incitandoli a controllare gli altri. A denunciare gli altri.

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Far West Perché se in Cina il sistema di sorveglianza e controllo è voluto e regolamentato direttamente dal governo, ed è palese per quali scopi il governo lo usa, in altri paesi il riconoscimento facciale è utilizzato ugualmente. Ma talvolta senza regole certe, senza una “direzione” dall’alto, senza trasparenza. Il primo arresto di un americano basato esclusivamente sul riconoscimento facciale è del 2013. Nel febbraio aveva rapinato un uomo su un treno della Chicago Transit Authority, e il suo volto era stato catturato dalle telecamere di sorveglianza, e poi confrontato con il database del Dipartimento di Polizia di Chicago. Infine, riconosciuto dai testimoni è stato condannato a 22 anni di carcere per rapina a mano armata. Il riconoscimento facciale nasce come tecnologia militare, ed è stato testato dagli americani in Afghanistan e Iraq. I dati biometrici di oltre 1,5 milioni di afghani sono stati inseriti in banche dati gestite da americani. In Iraq è stata registrata una fetta ancora più ampia della popolazione. L’FBI americano utilizza almeno dal 2011 il riconoscimento facciale per confrontare le immagini delle scene del crimine con un database nazionale di foto segnaletiche. Le forze di polizia degli Stati Uniti utilizzano software di AI da diversi anni per allocare le risorse e prevedere i crimini, e da qualche anno tali sistemi sono affiancati da software di riconoscimento facciale. L’NSA americana almeno dal 2010 estrae immagini dal flusso Internet che poi utilizza nel suo sistema di riconoscimento facciale. A tali immagini vengono associate delle informazioni, ad esempio se il soggetto si trova nelle NoFly list, lo status del passaporto, i visti, eventuali associazioni con sospetti o legami terroristici, oltre i report delle agenzie di intelligence. L’Autorità Portuale di New York e gli altri azionisti del World Trade Center hanno installato un sistema di sorveglianza di grado militare, incluso sistemi di riconoscimento facciale, scanner e telecamere automatizzate per rilevare “movimenti insoliti” e prevenire attentati. Il riconoscimento facciale è stato usato per le persone che si trovano fuori i cancelli della Casa Bianca. Anche nel settore privato questa tecnologia sta facendo proseliti. I casinò di Las Vegas sono stati tra i primi ad abbracciare le tecnologie di sorveglianza, le telecamere sono presenti anche nelle camere di AirBnb. Nel 2018 la cantante Taylor Swift ha usato il riconoscimento facciale durante i suoi concerti. Nel 2016 gli USA potevano contare su circa 62 milioni di telecamere di sorveglianza, secondo l’ACLU 9mila nella sola Lower Manhattan. Uno studio del 2016 del Center on Privacy & Technology della Georgetown Law evidenzia come 18 Stati degli Usa consentono all’FBI di utilizzare tecnologie di riconoscimento facciale. Non solo, i dipartimenti di polizia statale e locale stanno costruendo i propri sistemi di riconoscimento facciale, dei quali si sa ben poco. Non si sa come affrontano i problemi di accuratezza, non si sa come influenzano le minoranze etniche e razziali. Il riconoscimento facciale delle forze di polizia influisce su oltre 117 milioni di americani ed è per lo più non regolamentato.

Negli USA, però, il riconoscimento facciale suscita forti discussioni nell’opinione pubblica, da parte dei sostenitori dei diritti civili, fino a dibattiti al Congresso sulle problematiche di privacy, e di tutela dei diritti dei cittadini. Addirittura, a San Francisco hanno vietato l’uso di questa tecnologia, nonostante la fiera opposizione della polizia. Ma non è chiaro quali ne siano i limiti. Quando i dati biometrici possono essere utilizzati per scovare dei sospetti? Quando sono sufficienti per arrestare persone? E nel settore privato, quando le aziende possono utilizzare tali tecnologie? La tendenza è ad aprire la strada allo sviluppo di enormi database di immagini, casomai con associate informazioni contestuali per identificare meglio le persone. La giustificazione è che senza i dati contestuali il riconoscimento sarebbe meno accurato e potrebbe portare ad identificazioni erronee. Il resto lo fanno le aziende private sviluppando una tecnologia sempre più precisa, sempre più efficace, sempre più intrusiva. Negli Usa le attuali norme sono definite da una serie di casi, a partire dal famoso Katz vs. Stati Uniti dove la Corte Suprema ha dichiarato che ciò che accade in pubblico o viene consapevolmente esposto al pubblico non è soggetto alla protezione del Quarto emendamento. Quindi, una persona che cammina per strada, in un parco pubblico, in aree soggette al pubblico, non può ragionevolmente aspettarsi di non essere osservato. La posizione è stata confermata poi da altri casi, come Sherman contro Stati Uniti. Insomma, non ci sono praticamente regole che proibiscano alla polizia o agli enti privati di raccogliere, archiviare, o trasmettere liberamente immagini catturate da una telecamera di videosorveglianza. Il mondo della sorveglianza digitale è ancora una sorta di selvaggio West dove ognuno può fare (quasi) quello che gli pare. Non c’è modo di sapere se si è controllati. Anche molte aziende usano questa tecnologia, si scambiano anche i database di immagini collegate al sistema, per impedire che un taccheggiatore possa fare danni in altre catene di negozi. E il pubblico spesso non ne è a conoscenza. È una sorta di credit score. Solo che la gente non lo sa. Il riconoscimento facciale è in rapida espansione dovunque. Anche in Europa, nonostante il quadro normativo renda più difficile l’utilizzo di questa tecnologia, la tendenza è di incrementarne l’uso, quanto meno a fini di sicurezza e di ordine pubblico, quindi lotta al terrorismo e prevenzione dei reati. È utilizzato dalla polizia del Galles. In Gran Bretagna hanno utilizzato il sistema giapponese NeoFace Watch della NEC per individuare un ricercato in mezzo alla folla. Secondo la British Safety Industry Authority (BSIA) nel 2013 nel Regno Unito erano attive 5,9 milioni di telecamere di sorveglianza. In Germania sono stati avviati i primi test per l’utilizzo del riconoscimento facciale nelle stazioni ferroviarie. Per il momento in Francia il CNIL ha autorizzato il riconoscimento facciale solo negli aeroporti di Orly e Roissy, e presso la Gare du Nord per l’imbarco a bordo dell’Eurostar, ma una proposta di legge del 2016 ne suggerisce l’utilizzo per la lotta al terrorismo. La tecnologia di riconoscimento facciale è in pieno boom. Secondo un rapporto del 2016 di Frost & Sullivan il mercato di riferimento varrà 6,15 miliardi di dollari nel 2019. NEC stima che nel prossimo decennio raggiungerà i 20 miliardi di dollari. Un mito creato da Hollywood Si tratta, però, di una tecnologia ancora soggetta ad errori. Se i successi vengono enfatizzati, come in Cina, a dimostrarne l’efficienza, in realtà ci sono molti casi nei quali la tecnologia ha fallito. I primi problemi sono venuti a galla dalla caccia all’uomo per gli attentatori della maratona di Boston.

VIDEO QUI: https://youtu.be/M80DXI932OE  (Video dalla telecamera di sorveglianza di un rivenditore vicino a Copley Square)

I presunti colpevoli, Dzhokhar e Tamerlan Tsarnaev, erano entrambi nel database, ma il sistema non è riuscito a trovare alcuna corrispondenza, almeno fino a quando non sono stati identificati con altri mezzi. Poi ci sono i tanti casi di falsi positivi, quando a delle persone viene erroneamente attribuita un’identità, casomai di un criminale (studente americano identificato erroneamente come terrorista). Nel 2011 un’interrogazione del sistema con un’immagine di Osama Bin Laden portò a identificare quattro persone, ma nessuna di loro era Bin Laden, col quale condividevano solo la barba. Secondo uno studio di Big Brother Watch del 2018 sull’uso del riconoscimento facciale nel Regno Unito, le percentuali di errore arrivano, in certi casi, fino al 98%. La polizia comunque acquisisce e conserva la foto delle persone erroneamente identificate. In un recente rapporto, la Homeland Security americana si è vantata del fatto che il sistema di riconoscimento facciale ha confermato biometricamente “oltre 7000” persone che hanno lasciato il paese dopo la scadenza del visto. Su 2 milioni di passeggeri, si tratta di un tasso di successo di circa lo 0,0035 percento. Il riconoscimento facciale non è un processo magico come ci ha erroneamente portato a credere Hollywood. I film glorificano i detective che salvano l’umanità catturando i cattivi col riconoscimento facciale, rendendo la tecnologia “cool”. Ed è più che altro l’immagine hollywoodiana di questa tecnologia, infallibile, precisa, affidabile, veloce, che poi viene venduta dalle aziende ai governi e agli enti locali, polizie in primis. La scintillante promessa di facile identificazione, che rende non più necessario il contatto tra poliziotto e cittadini, è molto appetibile. Si risparmia tempo, lavoro, e non occorre nemmeno adoperarsi per formare delle relazioni umane con le comunità. Alla polizia basta guardare un asettico schermo. Così il riconoscimento facciale da ai governi la sensazione di poter raggiungere il massimo livello di controllo sulla vita delle persone.

Ma una telecamera, posta generalmente in posizione elevata, riprende una persona dall’alto, mentre si sta muovendo, casomai con gli occhiali, forse sotto la pioggia. L’illuminazione dell’ambiente, l’angolazione della telecamera, i riflessi e l’espressione facciale possono compromettere il processo di riconoscimento. La foto deve essere elaborata se non è presa, come spesso accade, di fronte. Occorre eliminare le sfocature, gli artefatti, occorre ruotare l’immagine per poterla poi mettere a confronto con le foto contenute nel database, in genere prese di fronte. Il software poi cercherà di identificare le caratteristiche facciali da utilizzare come punti di riferimento per estrarre il faceprint, l’impronta facciale. Il centro del naso, gli occhi, gli angoli della bocca sono generalmente i punti utilizzati, e se il sistema non è in grado di rilevarli occorre l’intervento di qualcuno che glieli indichi. A mano. Una volta impostati i punti di riferimento il software finalmente “normalizza” l’immagine per poterla poi mettere a confronto col database al quale accede. Il risultato è una percentuale che indica il livello di corrispondenza (matching). La donna invisibile La tecnologia ha fatto grandi passi in avanti negli ultimi anni, grazie alle migliorate capacità di calcolo, e ai sistemi di intelligenza artificiale che si occupano automaticamente delle varie fasi, ma la capacità di riconoscimento dipende ancora da troppi fattori, dall’angolazione, dalla luce, dalla risoluzione. Anche dalla razza. Joy Buolamwini è una ricercatrice del MIT di Boston quando scopre che un software di riconoscimento facciale non è in grado di rilevare il suo volto. Il software funziona sui compagni di classe, sulle altre persone, per lo più di pelle chiara, ma non su di lei.

Studiando il software, Buolamwini scopre che se indossa una maschera bianca il sistema riesce a “vedere” il suo volto. I sistemi di intelligenza artificiale “imparano” attraverso le immagini fornite durante la fase di addestramento. Se tali immagini sono esclusivamente o principalmente di persone di pelle chiara, il sistema imparerà a riconoscere i bianchi, ma farà fatica a identificare o differenziare i volti con tonalità differenti della pelle. Allo stesso modo, se il sistema viene addestrato su maschi, avrà difficoltà nell’identificare delle donne. Buolamwini e i colleghi del MIT realizzano uno studio sui principali programmi di riconoscimento facciale dell’epoca: Microsoft, IBM e Face++ (cioè la Megvii cinese). Pur con le loro differenze, i sistemi si sono rilevati tutti con un’accuratezza non troppo elevata con riferimento alle persone di colore e alle donne. Prima di rendere pubblica la ricerca, Buolamwini ha inviato i risultati alle aziende. IBM ha risposto immediatamente, cercando di risolvere i problemi. Il risultato è stato un enorme miglioramento. L’accuratezza del sistema nel riconoscere i maschi neri è passata dall’88% al 99,4%, per le donne nere dal 65,3% all’83,5%, per le donne bianche dal 92,9% al 97,6%. Per i maschi bianchi l’accuratezza è rimasta invariata al 97%. Buolamwini ha commentato affermando che ciò che era cambiato è che il problema era diventato una priorità dell’azienda. Forse prima non lo era.

VIDEO QUI: https://youtu.be/TWWsW1w-BVo

Anche l’FBI, in uno studio congiunto, ammette che il riconoscimento facciale potrebbe essere meno accurato sugli afroamericani. Inoltre, i sistemi che si basano su database di foto segnaletiche includono probabilmente un numero sproporzionato di afroamericani (come gli attivisti, i partecipanti alle proteste), ed è difficilissimo ottenere di essere cancellati dal database. Nonostante ciò, non esiste un regime di test indipendenti per i tassi di errore razziale. Perché proprio il database delle immagini con le quali vengono confrontate le immagini riprese dalle telecamere, è un elemento essenziale per una corretta identificazione. Da dove sono state prese quelle immagini? Le foto inserite nei database spesso sono risalenti nel tempo, le persone cambiano col passare degli anni. La foto di uno dei due attentatori di Boston risaliva ai suoi 16 anni, ma un ragazzo cambia velocemente la struttura facciale, per questo non era stato riconosciuto. Le immagini contenute nel database di controllo potrebbero provenire da una serie di fonti differenti, e non includere solo immagini di persone con precedenti penali o persone sospettate di illeciti penali. Ad esempio, potrebbe includere le immagini di persone che sono semplicemente venute a contatto con le forze dell’ordine per controlli di routine, potrebbero venire dalle registrazioni delle manifestazioni di piazza o di proteste pacifiche, potrebbero provenire dai social media, ecc. Chi è il criminale? Il riconoscimento facciale non è accurato come l’utilizzo di altri dati biometrici, ad esempio le impronte digitali. Tuttavia, il volto è considerato l’indicatore più importante nella nostra società, è il volto che campeggia sui passaporti, sulle carte di identità, sulle patenti e gli altri documenti. È il volto che troviamo sui profili dei social. Generalmente nella società non è considerato accettabile coprire il volto, in alcuni paesi è addirittura illegale. Questo perché se fino al XXI secolo i governi usavano l’identificazione biometrica in modo discreto, mirato nei confronti di individui specifici, e quindi trasparente necessitando della cooperazione della persona, oggi la tecnologia biometrica è usata per identificare le persone da lontano (Remote Biometric Identification) in modo non collaborativo, senza il loro consenso, senza trasparenza. Il volto è catturato dalle telecamere quando cammini, anche se non ti accorgi della loro presenza.

L’utilizzo delle tecnologie di riconoscimento facciale segna, quindi, un cambiamento radicale nelle forme di sorveglianza consentendo un controllo continuo e generalizzato su tutti gli individui, anche se non sospettati di alcun crimine. In maniera invisibile. Questo impatta particolarmente sulle minoranze o sulle categorie normalmente discriminate. Sia perché tali categorie sono da sempre soggette a maggiori controlli, ed arresti, sia perché i sistemi di intelligenza artificiale hanno maggiori problemi nell’identificare persone appartenenti a tali categorie (perché addestrati sulla maggioranza, bianchi, maschi, ecc.). Il dataset Labeled Faces in the wild (LFW), utilizzato da molti sistemi di riconoscimento facciale, contiene più di 15mila immagini, di cui solo il 7% di persone di colore. All’epoca della realizzazione, ai primi del 2000, il dataset rispecchiava le posizioni di potere dei media e le celebrità. Per lo più bianche. Il gigante cinese IT e delle telecomunicazioni Huawei afferma che la tecnologia Safe Cities ha già aiutato il Kenya a ridurre i tassi di criminalità urbana. Ma chi è un criminale? I documenti del progetto Police Cloud cinese elencano i “petizionisti”, le persone che si lamentano del governo per le ingiustizie percepite, e in genere chiunque “mina la stabilità” o ha “pensieri estremi”. Altri documenti indicano come sospetti alcuni comportamenti, come il “non socializzare coi vicini”, oppure le minoranze etniche (es. gli Uiguri dello Xinjiang, un gruppo minoritario musulmano) come soggetti di controllo. La tecnologia di riconoscimento facciale integrata nelle reti di telecamere di sorveglianza, riporta il New York Times, guarda agli Uiguri esclusivamente in base al loro aspetto, etichettando le persone per etnie, e tiene traccia dei loro movimenti. La pratica rende la Cina un pioniere nell’applicare questa tecnologia per controllare i suoi cittadini, potenzialmente inaugurando una nuova era di razzismo automatizzato. Clare Garvie, del Centro di privacy e tecnologia della Georgetown Law, ha detto: «Prendi l’applicazione più pericolosa di questa tecnologia, e ci sono buone probabilità che qualcuno la proverà». L’utilizzo del sistema di sorveglianza digitale non si ferma al riconoscimento facciale ma può andare molto oltre, rilevando i comportamenti, e tutto ciò che è deviazione dalla “normalità”, anche nel camminare (gait analysis). Una persona che utilizza un telefono non suo, che si allontana dal normale percorso casa-lavoro, tutti i comportamenti che sono reputati non normali possono finire per costituire micro-indizi da registrare in un profilo del cittadino. Le telecamere non possono rilevare i reati economici e dei colletti bianchi, in genere registrano, invece, i comportamenti devianti e i reati minori. Maggiore sicurezza, quindi, vuol dire riduzione dei reati, oppure controllo sociale? Il cittadino, etichettato come “deviante” (studio sul riconoscimento del comportamento umano anomalo), può essere sottoposto a interrogatorio senza alcun reale motivo, senza diritti, senza risarcimenti in caso di maltrattamenti. Per il momento accade in Cina (ed è spesso comunque in violazione delle leggi), ma è la tecnologia stessa che consente tali abusi. E la tentazione è forte, anche per i paesi ritenuti più “democratici”. Controllare tutti i comportamenti di routine per inferire comportamenti anomali, devianti, può essere facilmente giustificato con la necessità di prevenzione dei reati e di attentanti terroristici (come effettivamente succede in Cina). Il passo verso l’abuso è breve. Il punto di vista del giardiniere È la cooperazione tra esseri umani che ha portato a tantissime conquiste in tutti i campi, dalla tecnologia all’economia. Più si allarga la base di condivisione e cooperazione, più si allarga la varietà della base, e quindi delle possibili idee, più si alimenta il flusso di informazioni tra i soggetti, maggiori sono i benefici. Per tutti. Eppure, nonostante il numero di crimini sia in diminuzione praticamente ovunque (grafici relativi agli Usa), sia i governi che le aziende, che alcuni politici, enfatizzano costantemente il problema della sicurezza, con campagne di vero terrore verso i propri cittadini, obiettivo, il diverso, lo straniero, il migrante. L’utilizzo delle tecnologie di riconoscimento facciale a fini di “sicurezza” potrebbe invertire il processo di cooperazione tra le persone e di mettere in comune le idee e le soluzioni, alimentando le “paure” verso gli “altri”. Ciò favorirebbe il governo in carica, e massimizzerebbe i profitti delle aziende tecnologiche e della sicurezza, soldi e potere. Ma, nel contempo potrebbe avere un catastrofico impatto sul resto della società.

Lo spostamento del controllore dietro ad uno schermo,

l’utilizzo di forme di sorveglianza remote,

erode il legame tra controllore e controllato e alla lunga la stessa moderazione comportamentale.

Tutto quello che rimane è la visione di guerra del giardiniere (Neil Renic, A Gardener’s Vision: UAVs and the Dehumanisation of Violence) che lotta contro i parassiti. Non si tratta di una visione estrema da applicare solo agli scenari di guerra con droni e tecnologie automatizzate, ma un rischio concreto in tutti quei casi nei quali coloro che sono soggetti a un’azione sono separati dall’attore stesso. Senza la comunicazione, la connessione, l’empatia, si finisce per trattare i “soggetti al controllo” come separati, differenti, diversi, meno umani. Superato quel sottile confine, tutto è permesso.

VIDEO QUI: https://youtu.be/EVyJJXbHAgI 

Altri articoli sulle problematiche degli algoritmi e sistemi di intelligenza artificiale: Gli algoritmi e i mostri della tecnologia L’algoritmo che prevede chi commetterà un crimine, tra poca trasparenza e pregiudizi Il potere degli algoritmi sulle nostre vite Algoritmi, intelligenza artificiale, profilazione dei dati: cosa rischiamo davvero come cittadini?

FONTE: https://www.valigiablu.it/riconoscimento-facciale/

 

 

 

IL VIROLOGO DEL TERRORE (VIDEO)

Oggi analizziamo brevemente un agghiacciante messaggio, pubblicato su Twitter da Roberto Burioni, in cui invoca l’obbligo vaccinale, sostenendo che la variante Delta abbia reso il virus assai più pericoloso.

I numeri, però, sembrano smentirlo clamorosamente.

VIDEO QUI: https://youtu.be/dbk0JoAmC9c

FONTE: https://opinione.it/editoriali/2021/07/06/claudio-romiti_pandemia-sars-cov2-variante-delta-obbligo-vaccinale-roberto-burioni/?fbclid=IwAR3GlajYVVqme69RRnB2YQHeC7AkSYPYt3Z9KecYXHFuE0arzvpIFr0U5cA

 

 

 

DIRITTI UMANI

Cabras: l’Occidente esalta i diritti ma perseguita Assange

La prigionia e la libertà di JulianAssange costituiscono una questione cruciale del moderno Occidente. Quando Ernesto Balducci parlò dell’incontro dell’Europa con le popolazioni delle Americhe che c’erano prima di Colombo disse che «l’Uomo incontrò se stesso e non si riconobbe». Nacque cinque secoli fa una strana alienazione e doppiezza dell’Occidente, vero propulsore di meravigliose Carte dei diritti umani e capace nel contempo di perpetrare orribili genocidi. Anche oggi, con Assange, le libertà politiche occidentali incontrano se stesse e non si riconoscono. Il giornalismo occidentale incontra se stesso e non si riconosce. La giustizia democratica incontra se stessa e non si riconosce. Invece, riconoscere libertà politica, di parola, riconoscere la giustizia è ancora possibile. Da undici anni, Julian Assange è al centro di un caso diplomatico e giuridico. Nel 2006 aveva fondato il sito WikiLeaks con l’obiettivo di offrire uno spazio libero ai “whistleblower” disposti a pubblicare documenti sensibili e compromettenti, in forma anonima e senza la possibilità di essere rintracciati.

Il sito ha fatto da palestra per il più efficace giornalismo investigativo degli ultimi anni, rivelando segreti e scandali, relativi, tra gli altri, a guerre, loschi affari commerciali, episodi di corruzione e di evasione fiscale. L’uomo che oggi langue da troppo tempo in una prigione Assangebritannica ha contribuito ad aumentare la consapevolezza di larghi strati della pubblica opinione mondiale rispetto a governi, uomini di potere, grandi lobby, reti di relazioni ed eventi, ben oltre la narrazione ufficiale. La sua Wikileaks ha consentito alla democrazia contemporanea di superare e mostrare i limiti del giornalismo tradizionale. Lasciare che Assange sia soggetto alle sue dure condizioni carcerarie è l’attentato definitivo – oltre che alla sua persona – al giornalismo investigativo, in un mondo che vede le leve dell’informazione in sempre meno mani. Avere invece un’informazione coraggiosa aiuta i parlamenti nel correggere i comportamenti opachi di vari governi.

Parliamo di un dissidente che ha segnato a livello planetario un’epoca nuova nella tensione fra lo scrutinio democratico delle decisioni dei poteri di governo e la Ragion di Stato. La sua cattività pone un problema drammatico alla coscienza politica di tutto l’Occidente. Assange ha dato coraggio alla pratica del “whistleblowing” e dell’obiezione di coscienza, fino a farla riconoscere nelle leggi e nei codici etici a tutti i livelli. Niente retorica vuota sulla democrazia dal basso, Assange ha fatto una cosa pratica: un sistema che valorizzava il controllo dal basso e la democratizzazione dell’informazione nell’ambito di una rivoluzione tecnologica con un grande potenziale di liberazione per individui e popoli. La storia coraggiosissima di Julian Assange esige che sia riconosciuto il valore e il rango politico del suo attivismo, da sempre minacciato con ogni mezzo, che sia salvaguardata la sua incolumità, che non ci siano forzature politiche nelle procedure a cui sarà sottoposto.

Si è fatto molti nemici, certo. Anche fra i giornalisti. Ce ne sono che si proclamano perfino difensori dei diritti umani. Ma, siccome una parte di loro li viola tutte le sere, privando la gente di una informazione decente, ovviamente non ama i disturbatori della quiete del Potere. C’è quello che condanna Assange dicendo che «gli Stati hanno bisogno delle loro zone d’ombra». C’è chi lo condanna perché ha rivelato segreti di Stato. C’è chi lo qualifica come agente di potenze nemiche. Chi afferma che è un «personaggio ambiguo». Assange non piace insomma a quella parte di giornalisti che non fanno tanto i giornalisti, quanto gli addetti alle pubbliche relazioni del Potere. Figuriamoci se possono assolverlo. Insomma, in troppi stanno zitti e lasciano che la minaccia colpisca tutti coloro che vorranno dire la verità. È normale che i L'arresto di Assangegoverni e i potenti abbiano qualcosa da nascondere (che ci vuoi fare?); ma il compito dell’informazione, ineludibile, è quello di andare a scoprire i loro nascondigli e di rivelarli al pubblico, ai popoli. E se non lo fa, l’informazione, cessa di essere tale. Non è il momento di stare allineati e coperti.

In oltre 15 anni, WikiLeaks ha diffuso più di 10 milioni di documenti classificati. Possiamo dire che ci sono 10 rivelazioni di Assange che hanno cambiato il modo di vedere il potere e li voglio elencare per inquadrare l’esatta dimensione di questa opera: gli archivi di Guantánamo; le notizie segrete sulle guerre e le torture, dall’Afghanistan e all’Iraq; i dispacci diplomatici dello scandalo Cablegate; i video sui civili bersagliati a Baghdad; i documenti dell’agenzia Stratfor sulla sorveglianza totale; le rivelazioni sui negoziati dei grandi accordi commerciali che diminuivano il peso delle democrazie a favore delle multinazionali; le magagne di tante e fortissime corporation dominanti; l’uso dello spionaggio globale come strumento geopolitico che ha diminuito la forza delle cancellerie europee; la messa a nudo del potere del clan dei Clinton e delle sue connessioni saudite; l’analisi spietata e dati alla mano dello strapotere del Big Tech nel determinare la morte della privacy per miliardi di individui.

La mozione ricorda lo stato attuale delle condizioni di Assange. È una persecuzione contro una persona e una ritorsione contro il progetto WikiLeaks, ma rappresenta anche un brutto precedente per attivisti, giornalisti e “whistleblower” ovunque nel mondo. La sua detenzione – i cui presupposti erano già stati respinti nel 2015 dal Gruppo di lavoro dell’Onu sulla Detenzione Arbitraria e rivelatasi anche avvenire in condizioni gravosamente severe – nonché le eventualità di estradizione e persecuzione a vita negli Usa, sono uno scandalo denunciato dalle organizzazioni per i diritti umani. Nel novembre 2019 il relatore Onu sulla tortura ha dichiarato che Assange avrebbe dovuto essere rilasciato e la sua estradizione negata. Il Consiglio d’Europa ha fatto propria la dichiarazione. Nel dicembre 2020 lo stesso relatore Onu sulla Pino Cabrastortura, oltre a rinnovare l’appello per l’immediata liberazione di Assange, ha chiesto, senza esito, che questi venisse almeno trasferito dal carcere ad un contesto di arresti domiciliari.

Il 5 gennaio 2021 la giustizia britannica ha negato l’estradizione di Assange agli Stati Uniti per motivi di natura medica. Nonostante tutto, Assange è ancora detenuto in durissime condizioni nella prigione di Belmarsh. La mozione è semplice e impegna il governo a fare di tutto – anche in aderenza alle convenzioni internazionali e specificatamente alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – affinché le autorità britanniche garantiscano la protezione e l’incolumità di Julian Assange e non procedano alla sua estradizione. Questo significa, di fatto, riconoscergli lo status di rifugiato politico e la protezione internazionale. Sarà un contributo alla libertà in grado di trovare le giuste vie diplomatiche senza morire di troppa prudenza. Viva la libertà! Viva Julian Assange!

(Pino Cabras, “Riconoscere a Julian Assange lo status di rifugiato politico”; intervento alla Camera il 14 giugno 2021. Stretto collaboratore di Giulietto Chiesa, eletto deputato nel 2018 con i 5 Stelle, Cabras è oggi esponente del movimento “L’Alternativa c’è).

 

 

 

ECONOMIA

Società italiana di economia critica le nomine di Draghi

Anche il presidente della Società italiana di economia, Alberto Zazzaro, scrive ufficialmente a Draghi criticando la composizione della task force di economisti per la gestione del Pnrr e suggerisce di riequilibrarla con altri “economisti e economiste” non solo di università del Nord.

Non si smorza la polemica sulle nomine del governo Draghi per la gestione tecnica centrale dei fondi legati al Piano di ripresa e resilienza (PNRR). Dopo la lettera aperta pubblicata da Sbilanciamoci e da altri media e quotidiani e firmata inizialmente da 65 economisti (le firme sono nel frattempo diventate oltre 190), con atto inconsueto, è arrivata anche una lettera a Draghi firmata in calce e su carta intestata dal presidente della Società italiana di economia, il professor Alberto Zazzaro. La lettera, che riportiamo integralmente qui sotto,  sottolinea in particolare la provenienza degli esperti della task force unicamente da atenei e enti di ricerca del Nord del paese, una composizione oltretutto tutta maschile che viene definita squilibrata e non idonea a confrontarsi con i nodi che il piano post pandemico dovrà affrontare in un contesto caratterizzato da forti debolezze strutturali del paese soprattutto nel Mezzogiorno. Il presidente della Società di economia suggerisce pertanto al premier almeno di allargare la rosa dei nomi, in modo che il “nucleo tecnico per il coordinamento della politica economica” – questo è il nome ufficiale della struttura varata dal governo – sia “ integrato con economiste ed economisti che  apportino una visione più ampia, maggiormente rappresentativa delle aree e  dei temi centrali del PNRR”.

FONTE: https://sbilanciamoci.info/societa-italiana-di-economia-critica-le-nomine-di-draghi/

L’ultraliberismo al governo

Il governo ha appena nominato cinque consulenti per monitorare la realizzazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Tutti accomunati da una matrice culturale di stampo liberista e tecnocratico. Una scelta precisa, che indica chiaramente la direzione che si intende perseguire con il PNRR: quella sbagliata.

Il governo ha nominato cinque consulenti per la realizzazione del PNRR, una squadra dove il marchio liberista è ben evidente.

Carlo Stagnaro è direttore del comparto ricerche e studi del sancta sanctorum del liberismo italiano: l’Istituto Bruno Leoni, dove possiamo trovare interventi contro l’acqua pubblica, l’imposta di successione e l’intervento pubblico in economia. Niente di strano per un istituto che ha per titolo “idee per il libero mercato”. In uno dei suoi ultimi interventi Stagnaro fa le pulci alla proposta G7 sulla tassazione delle multinazionali che evadono. Altro liberista è Riccardo Puglisi. Ha un blog dove campeggia il post “In lode di Alberto Alesina”, il capostipite (scomparso) insieme a Giavazzi dei liberisti italiani. Un tributo scontato. Nei suoi tweet se la prende con la Mazzucato e il keynesismo. Promotore del think thank molto mainstream Tortuga è Francesco Filippucci, che ritwitta lo stesso Puglisi, Calenda e Cottarelli. E poi ci sono Carlo Cambini (Politecnico di Torino) e il bocconiano Marco Percoco, favorevole alla liberalizzazione dei trasporti. Un pezzo di Percoco per la voce.info ha per titolo “L’unica via per la mobilità urbana è la competizione”. Largo ai privati.

Si tratta di una decisione molto grave, a fronte di un impianto del PNRR che collima in molti punti con l’impostazione e la filosofia liberista e tecnocratica: assenza di politica industriale, incentivi “orizzontali” alle imprese, privatizzazioni, allentamento dei vincoli e dei controlli, governance verticistica, monitoraggio con metodi McKinsey. Nel PNRR ci sono poi diversi “favori” a grandi gruppi industriali (come Leonardo ed Eni/Snam).

La politica economica del governo Draghi – e del PNRR – non solo strizza gli occhi ai liberisti, ma li recluta per controllare meglio la realizzazione dei progetti e delle iniziative previste nel Piano. Avevamo sperato che – come effetto della crisi gravissima che stiamo attraversando – ci fosse un ripensamento anche in Italia nelle politiche economiche, con l’archiviazione dell’austerità e dei vincoli europei, ma il nostro ottimismo è stato smentito. Si ritorna sulla vecchia strada: al governo Draghi vince la linea di Salvini (e di Forza Italia). PD, Cinque Stelle e LeU facciano sentire la loro voce.

In Italia non mancano esperti e consulenti competenti ed equilibrati, ma avere scelto proprio questi nomi è un segnale ben preciso sulla direzione in cui si vuole andare. Quella sbagliata.

FONTE: https://sbilanciamoci.info/lultraliberismo-al-governo/

Tutte le bugie del neoliberismo

“Il mercato rende liberi”, il nuovo libro di Mauro Gallegati, è un corpo a corpo con la teoria economica dominante per mostrarne tutti i limiti concettuali e metodologici, insieme alle gravi conseguenze sociali e ambientali prodotte dalla sua acritica e fideistica accettazione. Ma un’alternativa esiste.

Con il rigore e l’ironia di sempre, Mauro Gallegati torna nel suo ultimo libro a sfatare uno dei miti del nostro tempo: il mercato rende liberi. Lo fa attraverso una pars destruens che mostra le incoerenze logiche e le debolezze teoriche dell’approccio assiomatico marginalista – tutt’oggi dominante nella disciplina economica – e una pars construens che descrive l’approccio teorico e modellistico dei Sistemi Adattivi Complessi (SAC), sviluppato negli ultimi anni e considerato più idoneo a studiare il funzionamento dei sistemi economici contemporanei.

La critica dell’impianto modellistico e teorico dominante

La fede cieca nel funzionamento del mercato, così come descritto dagli assiomi che stanno alla base dei modelli economici di impianto marginalista, ha trasformato l’economia in una scienza inutile, incapace – per costruzione – di descrivere il funzionamento dinamico delle economie contemporanee e soprattutto di spiegare le crisi che negli ultimi decenni hanno afflitto le società in cui viviamo.

Ad oggi, l’impianto teorico dominante nella disciplina economica è ancora quello introdotto da Leon Walras alla fine del XIX secolo, in seguito esteso da Kenneth Arrow e Gérard Debreu tra gli anni ’40 e ’50 del secolo scorso, ossia l’impianto dell’Equilibrio Economico Generale (EEG), attualmente in voga nella sua versione dinamica e stocastica – i c.d. modelli Dinamici Stocastici di Equilibrio Generale (DSGE)[1]. Tale architettura teorica e modellistica è il frutto dell’applicazione della meccanica classica (o newtoniana) e dell’individualismo metodologico alla disciplina economica. È qui che avviene il passaggio cruciale dall’economia politica dei Classici (Adam Smith e David Ricardo), e della critica di Karl Marx, all’economics marginalista[2] (o neoclassica). La prima, un’economia intesa come scienza sociale, indissolubilmente legata alla storia e alla filosofia politica e morale, e rivolta allo studio di problemi cruciali quali la distribuzione del sovrappiù tra le classi sociali e il legame tra progresso tecnologico e sviluppo delle economie capitalistiche. La seconda, invece, come scienza neutra che tenta di fornire una descrizione ingegneristica o meccanica a fenomeni economici e sociali che per loro natura non posso essere descritti tramite un approccio riduzionista.

Questo significa che ridurre il comportamento del sistema economico nel suo complesso, ossia a livello macroeconomico, al comportamento microeconomico di un singolo agente rappresentativo (impresa o consumatore) – il c.d. homo oeconomicus – che è in grado di compiere, grazie all’ipotesi di razionalità perfetta, una scelta ottima (di consumo o produzione) su mercati perfettamente concorrenziali in cui l’interazione tra agenti economici avviene solo indirettamente attraverso i prezzi, potrebbe non descrivere quello che avviene nella realtà che ci circonda.

Gallegati ripercorre dunque, quella strada che ha portato parte della disciplina economica a decostruire, un pezzo alla volta, l’impianto modellistico e teorico dominante e i suoi assiomi, servendosi di contributi fondamentali della storia del pensiero e dell’analisi economica – quali, ad esempio, il teorema di Sonnenschein-Mantel-Debreu (SMD) o il “dibattito sul capitale” tra le due Cambridge – del tutto ignorati o scavalcati dai fautori dell’impianto marginalista. Le fondamenta del palazzo sono irrimediabilmente compromesse, ma si continuano ad aggiungere ulteriori piani e migliorie per evitare il crollo.

Alle difficoltà teoriche si aggiunge il duro scontro con la realtà dei fatti. L’impianto marginalistasia nella versione neoclassica che nella versione neo-Keynesiana, non può infatti rappresentare o contemplare – per costruzione – alcuni dei fenomeni che caratterizzano la dinamica dei sistemi capitalistici contemporanei quali, ad esempio, il conflitto distributivo tra le classi descritto dai classici e da Marx, l’instabilità finanziaria intrinseca teorizzata da Hyman Minsky, l’incertezza forte e la domanda effettiva al centro dell’opera di John Maynard Keynes, o la natura evolutiva del processo di innovazione tecnologica così come teorizzata da Joseph Schumpeter e dai suoi successori.

Dunque, sebbene la Grande Recessione del 2008-09 abbia irrimediabilmente messo a nudo le criticità teoriche dell’economica dominante, spingendo un numero crescente di economisti a ragionare intorno all’opportunità di utilizzare approcci teorici e modellistici più adeguati, ad oggi il nuovo fatica a consolidarsi e il vecchio è duro a morire. «In questo interregno – ammonisce Gallegati, citando Gramsci – si verificano i fenomeni morbosi più svariati». Nel caso delle politiche economiche ancora ispirate dall’impianto teorico marginalista, questo significa imporre ai Paesi della periferia dell’Eurozona ossimoriche ricette di austerità espansiva, politiche di deflazione salariale per ridurre la disoccupazione, stimolare la crescita attraverso la flat tax o invocare le forze del mercato per orientare prezzo e quantità dei dispositivi di protezione (le mascherine) durante una pandemia globale.

Da questo punto di vista, il libro di Gallegati è dunque impreziosito dal tentativo di affiancare alla critica dell’economia assiomatica marginalista la discussione dei risvolti pratici, e dannosi, che tale approccio ha avuto negli ultimi decenni come conseguenza dell’adozione di politiche economiche che dipendono in modo cruciale dall’impianto teorico sottostante[3].

La complessità come nuovo paradigma teorico

La teoria della complessità opera un cambiamento radicale di paradigma in termini epistemologici rispetto al riduzionismo marginalista, proponendo un approccio teorico alternativo in grado di comprendere al suo interno – per quanto possibile per una scienza sociale – quelle componenti teoriche necessarie a descrivere la realtà che ci circonda. Lo fa attraverso la rappresentazione del sistema economico come Sistema Adattivo Complesso (SAC), ossia non più il contenitore di monadi – l’impresa o il consumatore rappresentativo – avulso dal progredire del tempo storico (c.d. ipotesi di ergodicità) descritto dall’EEG di Walras, ma un ambiente dinamico e adattivo all’interno del quale hanno luogo fenomeni auto-organizzativi collettivi che emergono dall’interazione diretta tra un elevato numero di agenti eterogenei e l’ambiente circostante al di fuori dell’equilibrio.

Questo significa che le proprietà del sistema, a livello macroeconomico, non sono più riducibili alle proprietà di un singolo agente rappresentativo (impresa o consumatore) e, soprattutto, che lo studio dell’interazione dinamica e strategica tra gli agenti eterogenei che popolano il sistema di riferimento – continuamente esposti a processi di apprendimento, selezione e adattamento – è cruciale per studiare le configurazioni macroeconomiche come proprietà emergenti.

Uno degli strumenti attualmente più diffusi nella disciplina economica per descrivere l’economia come un SAC è la classe di modelli ad agenti eterogenei interagenti (c.d. agent-based models, ABM), cui Gallegati ha personalmente dedicato gran parte della propria attività accademica e di ricerca. Dunque, «il problema – come si chiarisce nel testo – non è certo la matematica ma l’uso che se ne fa» e, in particolare, quale matematica e quale “cassetta degli attrezzi” riteniamo più adatta a descrivere i fenomeni economici complessi che caratterizzano le società in cui viviamo.

La risposta per l’autore risiede nella costruzione di un paradigma alternativo che superi il riduzionismo dei modelli di EEG, e delle loro estensioni dinamiche e stocastiche, in favore di un approccio olistico che, sfruttando le tecniche modellistiche della moderna meccanica statistica e della biologia evolutiva – oggi utilizzate sia nelle scienze dure che in numerose scienze sociali – sia in grado di rappresentare con successo le caratteristiche intrinseche dei sistemi economici contemporanei e di confrontarsi con le problematiche e i temi del nostro tempo come, ad esempio, le disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza, l’impatto ambientale, la dinamica evolutiva del cambiamento tecnologico, o l’instabilità finanziaria.

Il mercato rende liberi propone il racconto di quest’avventura. La strada è ancora lunga – come chiarisce lo stesso Gallegati – ma solo intraprendendola potremo scoprire dove conduce. Questa è la convinzione che ha motivato e motiva la ricerca dei numerosi giovani ricercatori ed economisti che negli ultimi anni hanno deciso di dedicarsi allo studio dell’economia come sistema adattivo complesso, molti dei quali – come chi scrive – ispirati proprio dal lavoro di economisti come Mauro Gallegati.

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Note

[1] Sono due i filoni teorici che attualmente si contendono la scena dei modelli DSGE, ossia il filone neoclassico dei modelli di ciclo reale (Real Business Cycle, RBC) e il filone Neo-Keynesiano, frutto della c.d. “sintesi neoclassica” e, dunque, della rivisitazione del pensiero di Keynes all’interno di modelli di EEG che contemplano rigidità nominali (cioè di prezzi e salari) e concorrenza imperfetta sui mercati.

[2] Il nome deriva dall’applicazione della tecnica di calcolo infinitesimale per definire il concetto di utilità marginale del consumatore, ossia una misura dell’aumento di soddisfazione soggettiva ricevuta dall’individuo a fronte di un aumento del consumo di un bene (a parità del consumo di altri beni). La teoria del valore-lavoro dei classici e di Marx, secondo cui il valore dei beni prodotti risiedeva nella quantità di lavoro impiegata per produrli, viene dunque sostituita da una teoria del valore incentrata sul grado di soddisfazione soggettiva (l’utilità) derivante dal consumo dei beni.

[3] Si veda L. Fanti e M. Gallegati (2018), Gli incalcolabili danni dell’economia mainstream, Sbilanciamoci.info, https://sbilanciamoci.info/gli-incalcolabili-danni-delleconomia-mainstream/


Mauro Gallegati, Il mercato rende liberi. E altre bugie del neoliberismo, prefazione di Francesco Saraceno, LUISS University Press 2021, pp. 126, € 16,00

FONTE: https://sbilanciamoci.info/tutte-le-bugie-del-neoliberismo/

Le disuguaglianze sono un problema politico (e di teoria economica)

di Mattia Marasti

Da qualche anno le disuguaglianze sono tornate a essere un tema scottante tanto all’interno del dibattito politico quanto di quello economico. Negli Stati Uniti proposte come la wealth tax di Elizabeth Warren o l’aumento della tassa sulle plusvalenze proposto dall’amministrazione Biden vanno esattamente in questa direzione e rappresentano un chiaro segno di rottura rispetto al passato.

Così anche nell’ambiente più prettamente accademico il dibattito si è riacceso: lo dimostra una raccolta di interventi di recente pubblicazione (“Combating inequality”), curata da economisti del calibro di Rodrik e Blanchard. Lo stesso Rodrik che insieme a Zucman e Saez ha fondato il network Economics for Inclusive Prosperity: un gruppo di accademici che, riconoscendo il pericolo delle crescenti disuguaglianze, pone come obiettivo non soltanto l’allocazione ottimale delle risorse, un punto centrale della teoria economica, ma anche la loro distribuzione.

Questo problema era già stato evidenziato da Samuelson nel suo classico Economicsla teoria economica mainstream – si pensi ad esempio ai teoremi dell’economia del benessere – è più interessata a questioni di allocazione, appunto. Ossia descrive come gli agenti, all’interno di un sistema di prezzi dati, raggiungono un equilibrio paretiano. Un concetto, questo, criticato da Bowles proprio perché non tiene conto della distribuzione e dei suoi effetti sulla società sottostante all’economia e, di conseguenza, sulla crescita economica.

Per anni questa diffidenza nei confronti della distribuzione delle risorse si è trascinata nel dibattito politico ed economico. Gli alfieri del neoliberismo, come Margaret Thatcher, hanno sostenuto che le disuguaglianze non sono un problema quando il livello di prosperità è tale da garantire a tutti elevati standard di vita. Il vero problema, quindi, non sarebbero le disuguaglianze ma la povertà. Un concetto ripreso recentemente dagli alfieri del libero mercato, che sostengono che la ricchezza, poiché può essere creata, non è un gioco a somma zero.

La posizione più radicale, da questo punto di vista, è espressa dall’economista Bob Lucas, tra i padri della macroeconomia neoclassica e della teoria delle aspettative razionali. Nel 2004, egli https://www.minneapolisfed.org/article/2004/the-industrial-revolution-past-and-future“>dichiarò: “Tra le tendenze dannose per una sana economia, la più seducente, e secondo me la più velenosa, è quella di concentrarsi sulle questioni di distribuzione (…) Il potenziale per migliorare la vita dei poveri trovando modi diversi di distribuire la produzione attuale non è niente in confronto al potenziale apparentemente illimitato di aumentare la produzione”.

Quando questa ipotesi è stata testata, tuttavia, i risultati non sono stati soddisfacenti. In uno studio dell’IMF Cordoba e Verdier mostrano come i costi della disuguaglianza surclassino i benefici della crescita. Gli effetti negativi delle disuguaglianze sono ormai ben fondati, sia dal punto di vista teorico sia pratico.

Una survey dell’Ocse individua una correlazione tra disuguaglianze e una crescita economica più flebile: si stima che la crescita cumulativa in UK, USA e Italia sarebbe stata tra il 6 e i 9 punti percentuali più alta. E recentemente la stessa Ocse ha invitato il governo israelliano a prendere sul serio il problema: Israele è infatti un’economia trainata dalla tecnologia e quindi dal capitale umano. È proprio questo a essere danneggiato dalle disuguaglianze.

A livello teorico, è fondamentale il lavoro di Tabellini e Persson, così come quello di Acemoglu e Robinson: le disuguaglianze rappresentano il fondamento, de facto, del potere politico e possono generare, quando amplificate, istituzioni estrattive. Queste non puntano a un sistema economico-politico dinamico in grado di stimolare la distruzione creativa, quanto a una massimizzazione del loro controllo sulla società.

Tra i lavori che più di tutti hanno contribuito a stimolare il dibattito vi è sicuramente “Il Capitale nel XXI secolo” del matematico-economista Thomas Piketty. In questo suo lavoro mastodontico che studia l’andamento delle disuguaglianze nei paesi occidentali, Piketty nota che esse hanno seguito un trend discendente fra la II guerra mondiale e gli anni ‘70, per poi tornare a crescere raggiungendo i livelli dei primi del Novecento.

La spiegazione per questo fenomeno avanzata da Piketty si cela dietro la disuguaglianza r>g: il tasso di rendita del capitale (r) è maggiore della crescita economica (g). La rendita frutta di più rispetto ai redditi da lavoro. Questa dinamica, che si era parzialmente invertita nel dopoguerra, è ricomparsa dopo gli anni della crisi petrolifera e l’avvento del neoliberismo nei paesi anglosassoni.

Questa spiegazione, che vede quindi nelle dinamiche capitaliste l’emergere delle disuguaglianze, non tiene però conto di aspetti politici-istituzionali. Anzi, ricade nell’errore di vedere il mercato come un sistema naturale che deve essere snaturato per funzionare. Sul capitalismo si potrebbe infatti aprire una discussione simile a quella che Heidegger apre nell’incipit di Sein Und Zeit sull’essere. Il capitalismo è il sistema più generale ma questo non significa che sia chiaro, anzi: forse è il più oscuro di tutti. Una definizione di capitalismo rischia di essere approssimativa e forse, come l’essere, il concetto di capitalismo è indefinibile. Una posizione più moderata, cioè aristotelica, può passare dall’idea del capitalismo come genere prossimo a cui va aggiunta una differenza specifica.

Questa differenza specifica è appunto il framework istituzionale in cui si inserisce. Se con capitalismo intendiamo un sistema in cui vale la proprietà privata e il sistema dei prezzi, rischiamo appunto di finire in un cortocircuito che ci fa considerare capitalismo tutto ciò che è esistito fino ad oggi. Per questo è necessario rivolgere la nostra attenzione alle dinamiche istituzionali.

Appare evidente se consideriamo il trend delle disuguaglianze nei paesi anglosassoni e in Europa Occidentale. In Europa le disuguaglianze sono state in qualche modo tenute a bada dall’eredità del welfare state costruito nel dopoguerra. Si può dire lo stesso di Israele dove le disuguaglianze non dipendono soltanto dalle politiche di stampo neoliberista portate avanti dai governi della destra ma anche dalla situazione di apartheid nei confronti degli arabi israeliani.

I cambiamenti istituzionali giocano un ruolo fondamentale nel delineare la traiettoria di una nazione. La Grande Peste del ‘300 ci offre una panoramica interessante. L’elevato calo demografico dovuto alla diffusione del virus portò a sconvolgimenti economici dovuti alla mancanza di manodopera. Nacquero movimenti come quello delle jacqueries in Francia e i moti di protesta si diffusero in tutta Europa. Quei Paesi come Francia e Inghilterra che trovarono un accordo tra i possidenti terrieri e il proletariato ne emersero vincitori. Laddove invece la resistenza dei possidenti si fece più aspra, come nei paesi slavi, la situazione non fece che peggiorare.

Ma le istituzioni si appoggiano sugli individui. In questi ultimi anni, come reazione alla modellistica fine a se stessa dell’economia mainstream, ha preso piede il movimento dell’economia cosiddetta “https://en.wikipedia.org/wiki/Post-autistic_economics“>post-autistica“. Essa, considerando anche le motivazioni sociologiche dietro al mondo economico, ha fatto affidamento sempre di più sugli effetti della struttura dei network.

Quanto le disuguaglianze siano influenzate dalle reti sociali è emerso con forza durante la pandemia. Prendiamo ad esempio gli effetti della chiusura delle scuole per far fronte alla diffusione del virus e gli effetti sull’apprendimento.

In Olanda a essere più penalizzati dai test standardizzati sono stati proprio gli studenti e le studentesse che provenivano dai quartieri più poveri, ossia quelli che non hanno genitori o vicini con una formazione specifica in grado di aiutarli a svolgere i compiti, che vivono in spazi angusti e in contesti di degrado, spesso anche tecnologico.

Comprendere la natura incorporata e istituzionale delle disuguaglianze porta a conseguenze notevoli sulla politica economica. Se è condivisibile e anzi auspicabile una tassa mondiale sulla ricchezza come quella proposta da Piketty, allo stesso tempo ciò non basta. È necessario intervenire sulle istituzioni, soprattutto quelle riguardanti il mondo del lavoro. Potenziare gli strumenti di pre distribuzione. E ripensare il tessuto delle nostre città, evitando effetti di segregazione che sarebbero nefasti per l’ascensore sociale.

FONTE: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/20730-mattia-marasti-le-disuguaglianze-sono-un-problema-politico-e-di-teoria-economica.html

 

 

 

IMMIGRAZIONI 

Dall’Ue subito 6 miliardi a Erdogan. Per la Libia forse 2 e non ora

23/06/2021

Draghi domani al Consiglio Ue. In Parlamento ammette: “Tema divisivo”. Per l’Africa si attende l’autunno, ma i migranti non sono nell’agenda dei leader da qui a gennaio

Londra, guerra agli scafisti. Rischiano anche l’ergastolo

Di fronte agli sbarchi record dalla Francia saranno aumentate le pene pure per i migranti, fino a 4 anni

 

 

 

LA LINGUA SALVATA

Illusione
La strana coppia
il-lu-sió-ne

SIGNIFICATO Percezione errata della realtà; proiezione fondata solo su desideri e aspirazioni, vana speranza

ETIMOLOGIA voce dotta recuperata dal latino illusio, derivato di illudere, a sua volta da ludere ‘giocare, scherzare’, col prefisso in-.

“Povero illuso”: basterebbe questa locuzione commiserativa a testimoniare quanto, nel sentire comune, illudersi non sia una condizione invidiabile. L’illusione è una falsa rappresentazione, nell’ambito sensoriale – illusione ottica, tra le altre – come in quello delle idee e dei sentimenti, dove le illusioni sono aspettative infondate, speranze vane. Insomma: comunque un inganno. E a nessuno piace essere ingannato, no? Eppure, in spagnolo ilusión non è per forza una speranza vana e fallace, un’idea ingenuamente ottimistica, ma può essere anche un’aspettativa del tutto fondata e ragionevole, e per soprammercato significare ‘gioia’, ‘piacere’, ‘entusiasmo’. O bella! Forse che a costoro piace farsi ingannare? Oppure c’è qualcosa, nei penetrali di questa parola, che giustifichi cotanto ottimismo?

In teoria, sì: illudere è formato dalla preposizione in + ludere (in latino ‘giocare, scherzare, divertirsi’), quindi il suo significato letterale è ‘far entrare in gioco’, giocare con qualcuno o qualcosa. Ma dal gioco al prendersi gioco, dal ludus al ludibrio, il passo è breve. E infatti il latino illudere aveva anche il senso di ‘farsi beffe’ e ‘offendere’, mentre il sostantivo illusio, addirittura, era privo di qualsiasi innocenza: come termine tecnico della retorica significava ‘ironia, derisione’, e nel linguaggio ecclesiastico prese a significare ‘inganno, illusione’ – già: la derisoria fallacia delle promesse mondane. Nessuna sorpresa che a prevalere nelle lingue moderne sia stato quest’ultimo significato di matrice religiosa, tant’è che l’italiano antico identificava spesso l’illusione, in quanto scherno o raggiro, con le apparizioni fraudolente dell’Ingannatore per eccellenza, il diavolo. Così, dall’innocenza originaria del gioco, si è giunti al senso di rappresentazione ingannevole e speranza vacua.

Lo spagnolo ilusión, beninteso, condivide questi significati con le altre lingue europee: No te hagas ilusiones e Eres un pobre iluso corrispondono esattamente a Non farti illusioni e Sei un povero illuso. A maggior ragione stupisce che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, si siano imposte accezioni oggi comunissime: speranza legittima (se un atleta dice Tengo la ilusión de ir a los Juegos Olímpicos intende che spera di andare alle Olimpiadi, non che si illude di farlo); gioia, piacere (Me hizo mucha ilusión tu llamada vuol dire La tua chiamata mi ha fatto molto piacere); entusiasmo, positività (trabajar con ilusión è lavorare con entusiasmo). È davvero interessante come possano convivere accezioni così discordanti nella stessa lingua, ma lo è ancor più il modo in cui lo spagnolo ha trasformato le illusioni in gioia per il presente e fiducia nel futuro.

Solitamente non annoverato tra le lingue ‘filosofiche’, in questo caso però lo spagnolo rispecchia davvero un’intuizione fondamentale. «Il più solido piacere di questa vita» ha scritto Leopardi «è il piacer vano delle illusioni […], stante ch’elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura umana, (…) senza cui la vita nostra sarebbe la più misera e barbara cosa». Si dirà: Eh, il solito pessimismo leopardiano… Ma qui il pessimismo non c’entra proprio nulla: al contrario, crediamo alle illusioni non perché siamo dei gonzi, ma perché è l’unico modo per credere nella vita, posto che non ce ne sia un’altra migliore da qualche parte. Per dirla con Nietzsche, gli esseri umani hanno «una invincibile inclinazione a lasciarsi ingannare», e «cercano di evitare non tanto il fatto di essere ingannati, quanto l’essere danneggiati dall’inganno». E allora, con la ilusión, siempre: che sia una speranza fondata o inconsistente, ciascuno lo deciderà per sé.

Parola pubblicata il 06 Luglio 2021

FONTE: https://unaparolaalgiorno.it/significato/illusione

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

VERSO IL GOVERNO GLOBALE

Verso il Governo globaleAl G20 di Venezia appena concluso si è discusso di un tema centrale per il futuro di popoli e Stati, eppure ripreso solo di passata dal mainstream mediatico: s’è parlato di Governo globale e s’è iniziata la sua pianificazione.

Ngozi Okonjo-Iweala, direttrice generale della Organizzazione per il commercio internazionaleTharman Shanmugaratnam, ex ministro delle Finanze di Singapore e Larry Summers, ex ministro del Tesoro degli Stati Uniti, hanno presentato un documento illustrativo dell’architettura del Governo globale su finanza e salute pubblica da realizzare nei prossimi mesi. Il progetto prevede il rafforzamento dei poteri della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, così da farli diventare veri e propri centri di comando a livello planetario.

Non è ancora una nuova Bretton Woods, ma il solco è ormai tracciato: consacrare in un accordo internazionale la gestione globale dei settori, appunto, della finanza e della salute poiché strategici per lo sviluppo o la recessione globale.

Questo abbinamento non deve stupire, almeno nella logica globalista e i motivi non sono difficili da individuare.

La finanza muove trilioni e trilioni di dollari in un nano secondo. Questo fiume di denaro – o di elementi che in qualche modo lo rappresentano – non ha né territorio, né Stato di appartenenza. Su di esso la sovranità dei “vecchi” Stati, per come storicamente conosciuta, non ha più nessuna presa, non può più nulla. È un fiume carsico, lo scorrimento della cui acqua è regolata da mani apparentemente invisibili.

Questa massa gigantesca di ricchezza, però, non è virtuale, non sta solo dietro o dentro un computer. È ricchezza reale, pronta ad essere destinata ad economie ugualmente reali di uno Stato o di un Continente, piuttosto che di altri, di un settore merceologico piuttosto che di un altro, di un debito pubblico piuttosto che di un altro.

Oggi la finanza non incontra regole sufficientemente penetranti dettate da autorità sovranazionali o nazionali. Anche per questi motivi si è fatta essa stessa “Stato” e come tutti gli Stati ha anch’esso un esercito pronto ad entrare in azione. Certo, un esercito che maneggia armi non convenzionali, armi che si muovono nella rete, senza fare rumore, ma che di certo non sono meno distruttive delle “vecchie” bombe e dei “vecchi” carrarmati.

La necessità di avere regole comuni alle quali riportare la finanza, dunque, è ormai impellente. Le crisi del 2008, del 2012 e l’attuale dimostrano l’assoluta necessità di introdurre paletti entro i quali riportare la governance finanziaria.

La salute pubblica è l’altra faccia della globalizzazione e dello sfarinamento della sovranità degli Stati. Quello che si teme, o che i “20” riuniti a Venezia danno ormai per certo, è che altre pandemie seguiranno a quella in corso. Pandemie sempre più violente e sempre più planetarie, che i singoli Stati non saranno in grado di gestire in autonomia, sia nelle fasi di prevenzione e contenimento, sia e soprattutto nella fase della cura.

Come il ruzzolio dei soldi può essere frenato solo con misure globali, così il ruzzolio dei virus può essere fermato solo con vaccini globali.

Io non so dire se il Governo globale immaginato a Venezia sia un bene o un male, se dietro di esso vi siano interessi inconfessabili, non so dire chi ci guadagnerà e chi ci perderà, e neppure se sia uno strumento davvero efficace, in grado di guidare le dinamiche della finanza o arginare i cicli delle malattie.

Per ora ho una doppia, simmetrica certezza: che il Governo globale ci sarà e che esso si tradurrà in una costruzione di pura ingegneria istituzionale, lontana dai popoli, con tratti democratici solo apparenti.

George Orwell aveva visto lontano, molto lontano. La speranza è che abbia sbagliato il finale dei suoi romanzi. Già, romanzi?

FONTE: http://opinione.it/editoriali/2021/07/12/alessandro-giovannini_governo-globale-g20-venezia-pandemia-virus-globalizzazione/

 

 

 

Il 40% degli inglesi vuole mascherine per sempre. Che sta succedendo?

Luglio 12, 2021 posted by Guido da Landriano

 

Il mese scorso, il membro di spicco dei SAGE,  il comitato consultivo inglese sulla salute,  e  nota ex membro del partito comunista,  Susan Michie ha suscitato scalpore (almeno tra gli scettici) suggerendo che l’uso della maschera e il distanziamento sociale dovrebbero diventare parte del nostro comportamento di routine “normale” e rimanere sul posto “per sempre”. Sfortunatamente, il suo punto di vista non è così marginale  come persone sane di mente, nel regno Unito o altrove, potrebbero ritenere.

Un nuovo sondaggio di Ipsos MORI per l’Economist suggerisce che un’alta percentuale di britannici crede che un certo numero di restrizioni legate al lockdown dovrebbero rimanere in vigore “permanentemente”, inclusi coprifuoco notturno (19%), quarantena di viaggio (35%) e maschere per il viso (un enorme 40%!). Ben oltre il 40% degli inglesi ritiene inoltre che solo coloro che sono stati vaccinati contro il Covid – e sono in grado di dimostrarlo – dovrebbero poter viaggiare all’estero (“permanentemente”). Gli altri in galera!
Matthew Holehouse, corrispondente di politica britannica presso l’Economist, afferma che questo potrebbe essere un risultato anomalo perché stiamo vivendo “un periodo molto strano per l’opinione pubblica”: “Alcune persone fanno fatica a distinguere come si sentono ora da come ti senti una volta che il covid se n’è andato?” In ogni caso, i risultati sono allarmanti. La gente si lascia influenzare in modo così facile che, alla fine, bastano un paio di tizi in TV che dicono “Fidati” per riuscire a cambiare comportamenti che sembravano invece consolidati. Siamo diventati veramente così abituati alla libertà che non le diamo più peso?
FONTE: https://scenarieconomici.it/il-40-degli-inglesi-vuole-mascherine-per-sempre-che-sta-succedendo/

 

 

 

POLITICA

Vorrei farvi notare l’ipocrisia coVVetta

Rita Lazzaro – 11 07 2021

Ci bombardano giornalmente con temi indubbiamente nobili come, la difesa della donna ma contestualmente, ti marchiano di: omofobia, bifobia, transfobia e a breve chissà, rischiando anche la galera, se osi difendere il GENERE donna, marchiandoti con tanto di bigotto da medioevo se, osi difendere tutto ciò che è SOLO donna: dal ciclo alla maternità, dagli abiti agli accessori, dai luoghi allo sport, gridando altresi al sessismo se, i cavi audio li indichi coi termini più NATURALI che possano mai esistere come: maschio e femmina.
In nome della diversità, hanno introdotto lo:schwa, incentivato paradossalmente dalle stesse femministe, ovviamente quelle sempre “emancipatE e coVVettE.
In nome della diversità, stanno annientando la diversità per antonomasia, nonché motore del mondo:la diversità maschio/femmina,la bellezza unica e irripetibile di esssere uomo tanto unica e irripetibile come quella di essere Donna.
Ipicrisia coVVetta o semplicemente tanto vuota quanto squallida.
Da DONNA:
#NOnelmionome

FONTE: https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=1312359532516733&id=100012280962259

 

 

 

 

SCIENZE TECNOLOGIE

“I vaccini aiutano il virus, ma sarà caccia ai non vaccinati”

Pensate a cosa è stata, la sinistra: quella del “vietato vietare”, dell’Immaginazione al Potere, del Sessantotto, del pensiero libertario. Quelli che erano i seguaci di Michel Foucault e della bipolitica sono diventati gli sbirri della Big Pharma. E’ un ribaltamento incredibile: uno come Galli, che faceva il Katanga e che adesso fa lo sbirro, che cos’è? Cosa gli è successo, nella testa? Ai sessantottini che oggi fanno gli sbirri dell’Oms e delle multinazionali, cosa è successo? Me lo chiedo io, che sono un uomo di destra che è stato sessantottino. Si possono dare delle spiegazioni: il pensiero totalitario è rassicurante; non porsi domande è rassicurante. Nel caso dei vaccini e del Covid, non porsi domande è fondamentale: perché se io mi sono fatto il vaccino e comincerò ad ammalarmi, dovrò far parte delle squadre di sicurezza nazionale che andranno a cercare i non vaccinati.

Il cosiddetto untore della nuova “variante indiana”, o “Delta”, è un vaccinato con doppia dose? Non importa: verrà detto che il “vaccinato buono” si è preso la “variante Delta” da un non vaccinato, che l’ha portata da chissà dove. Quindi: i buoni vaccinati si ammalano, per colpa Meluzzidei non vaccinati che importano le varianti. Ovviamente è una farsa incredibile, ma sarà così: vi giuro che questa sarà la spiegazione, sono pronto a mettervelo per iscritto. Comparirà un Burioni, o un Rezza, che dirà: sono i non vaccinati, che importano le varianti e fanno ammalare quelli che, generosamente, si sono vaccinati. E quindi bisogna andarli a stanare e portarli nei campi di concentramento, nei container. Questo ci dirà, Figliuolo, tra poco: che i non vaccinati devono andare nei container per non far ammalare i vaccinati. La cosa si interromperà soltanto qualora la catastrofe diventasse totale. Però bisogna prepararsi, a questo.

Da vecchio medico, voglio aggiungere una cosa: dissi dall’inizio che non si è mai riusciti, a fare un vaccino a Rna, perché i virus Rna mutano continuamente. Nella loro mutazione, però, tendono a perdere potenza. Così è finita la Spagnola, insieme a tante influenze virali. E invece cosa succede, in questo caso? Succede che, anziché trasformarsi in una tranquilla, quieta endemia stagionale, questo virus viene continuamente ri-alimentato: l’hanno detto il professor Tarro, il professor Montagnier, il professor Raoult. Hanno spiegato: se continuiamo a cimentarlo, questo virus, attraverso nuove iniezioni anticorpali con tecniche diverse, questa cosa è fatta per non finire mai (che è quello che qualcuno vuole, evidentemente). Quindi: una vaccinazione di massa di ogni sei mesi, poi ogni tre: che è quello che accadrà. E noi non riusciremo a fermare tutto questo, perché il potere che lo sostiene è talmente forte, e la gente ormai talmente convinta, che i non vaccinati dovranno essere convinti per forza: dovranno essere terrorizzati.

(Alessadro Meluzzi a “Radio Radio” il 16 giugno 2021).

The Great Big ‘Delta’ Scariant

Tyler Durden's Photo

BY TYLER DURDEN
TUESDAY, JUL 06, 2021 – 05:00 AM

Authored by Raul Ilargi Meijer via The Automatic Earth blog,

Why the Delta scare?

As a virus mutates, it becomes more contagious and less lethal. And then eventually it mostly disappears. Many voices claim that Delta will be with us for a very long time, but we should be so lucky. It’s way more likely that it will soon be followed by a next variant that will in turn become dominant. And more contagious and less lethal.

And no, that’s not because of unvaccinated people, or at least there’s no logic in that. If most people are not vaccinated, the virus has no reason to mutate. If many people are, it does. So this CNN piece is suspect. Vaccinated people are potential variant factories, just as much, if and when the vaccines used don’t stop them from being infectious, as the present vaccines don’t, far as we know.

Unvaccinated People Are “Variant Factories,” Infectious Diseases Expert

Unvaccinated people do more than merely risk their own health. They’re also a risk to everyone if they become infected with coronavirus, infectious disease specialists say. That’s because the only source of new coronavirus variants is the body of an infected person. “Unvaccinated people are potential variant factories,” Dr. William Schaffner, a professor in the Division of Infectious Diseases at Vanderbilt University Medical Center, told CNN Friday. “The more unvaccinated people there are, the more opportunities for the virus to multiply,” Schaffner, a professor in the Division of Infectious Diseases at Vanderbilt University Medical Center, said. “When it does, it mutates, and it could throw off a variant mutation that is even more serious down the road.”

“Even more serious”? Well, yes, it can become more contagious, but then it loses lethality. Maybe that’s what we want. Maybe we want a virus that everyone can be infected by, and build resistance to, without serious consequences. Maybe that’s even what we should aim for. And also, maybe that’s what we already have, with survival rates of 99.99% among most people.

And maybe, just maybe, a one-dimensional “solution” in the shape of an experimental vaccine is the worst response of all. Because it doesn’t protect from anything other than more severe disease, while unleashing potential adverse effects for decades to come in the inoculated. Maybe one dimension simply doesn’t cut it. Maybe we should not refuse to prevent people from becoming infected, or to treat them in the early stages of the disease.

Maybe the traumatic effects of lockdowns and facemasks should be part of “benefits and risks” models. And maybe we should start trying vitamin D, ivermectin and HCQ on a very large scale. No research, you say? There’s more research for those approaches than for the vaccines. But it’s largely been halted in the west to maintain the viability of the one-dimension “solution”; the medical Siamese twin of the Trusted News Initiative, one might say. Of which The Atlantic is also a valued member, look at this gem:

The 3 Simple Rules That Underscore the Danger of Delta

2. The variants are pummeling unvaccinated people.

Vaccinated people are safer than ever despite the variants. But unvaccinated people are in more danger than ever because of the variants. Even though they’ll gain some protection from the immunity of others, they also tend to cluster socially and geographically, seeding outbreaks even within highly vaccinated communities.

The U.K., where half the population is fully vaccinated, “can be a cautionary tale,” Hanage told me. Since Delta’s ascendancy, the country’s cases have increased sixfold. Long-COVID cases will likely follow. Hospitalizations have almost doubled. That’s not a sign that the vaccines are failing. It is a sign that even highly vaccinated countries host plenty of vulnerable people.

[..] And new variants are still emerging. Lambda, the latest to be recognized by the WHO, is dominant in Peru and spreading rapidly in South America. Many nations that excelled at protecting their citizens are now facing a triple threat: They controlled COVID-19 so well that they have little natural immunity; they don’t have access to vaccines; and they’re besieged by Delta.

First, the vaccines don’t confer immunity on the jabbed, there is no evidence of that. Second, a large majority of healthy people have an immune system strong enough to fight off the infection, even without ever being infected. So to suggest that unvaccinated people might “gain some protection from the immunity of” the vaccinated is simply nonsense.

As for “Delta’s ascendancy”, yes, cases are rising in the UK and Israel, two highly vaccinated countries. Not that anyone would acknowledge a possible connection there: it’s all despite the vaccines, not because of them. But as the graph below shows, while cases there are up a lot, hospitalization and deaths are not over the past month. They barely register.

On January 20, the UK had 1,823 deaths. Today, they had 15.

I even enlarged the hospitalizations a bit, or you wouldn’t see anything.

“Hospitalizations have almost doubled”, says The Atlantic. Yeah, but they’re still very low, as are deaths. And perhaps that’s not all that surprising, because the Delta variant doesn’t appear to be the big killer that everyone wants to close their borders and restaurants for again. There’s no conclusive evidence, it’s too early, but this is what we know today.

Rand Paul Cites 0.08% Delta Variant Death Rate Among Unvaccinated

Kentucky GOP Sen. Rand Paul is telling Twitter followers to not let the ‘fearmongers’ win, amid growing concerns about the newest delta variant of the coronavirus. Paul, who is a doctor with a degree in medicine from Duke University, cited a study of the strain that shows only a 0.08% death rate among unvaccinated people. “Don’t let the fearmongers win. New public England study of delta variant shows 44 deaths out of 53,822 (.08%) in unvaccinated group. Hmmm,” he tweeted Tuesday to his 3.2 million followers. The variant, which has caused virus outbreaks in Australia and other countries, has resulted in officials reimposing recently lifted health-safety orders including mask-wearing.

In another graph, the Delta variant Case Fatality Rate in the UK even appears 8 times higher among the fully vaccinated than the unvaccinated. Maybe the press should pay a little more attention to that, instead of the Great Big Delta Scare. All they do today is sell fear and vaccines, but that will backfire, promise.

And what goes for the press is also valid for politicians and their “experts”: there will come a day that people realize you could have focused on prophylactics and early treatment, but chose not to. And that this cost a lot of lives and other misery. What are you going to do then? Apologize?

Let’s not miss this from the past week: strong immune systems kill the virus before antibodies are formed. Which means an antibody test won’t show anything, but a PCR test will come back positive because there are dead virus bits. And everyone will cry: vaccinate! vaccinate!

Maybe it’s finally time for some real science, instead of clickbait and fear and gene therapy.

Pre-existing polymerase-specific T cells expand in abortive seronegative SARS-CoV-2 infection

Individuals with likely exposure to the highly infectious SARS-CoV-2 do not necessarily develop PCR or antibody positivity, suggesting some may clear sub-clinical infection before seroconversion. T cells can contribute to the rapid clearance of SARS-CoV-2 and other coronavirus infections1–5 . We hypothesised that pre-existing memory T cell responses, with cross-protective potential against SARS-CoV-26–12, would expand in vivo to mediate rapid viral control, potentially aborting infection.

We studied T cells against the replication transcription complex (RTC) of SARS-CoV-2 since this is transcribed first in the viral life cycle13–15 and should be highly conserved. We measured SARS-CoV-2-reactive T cells in a cohort of intensively monitored healthcare workers (HCW) who remained repeatedly negative by PCR, antibody binding, and neutralisation for SARS-CoV-2 (exposed seronegative, ES).

16-weeks postrecruitment, ES had memory T cells that were stronger and more multispecific than an unexposed pre-pandemic cohort, and more frequently directed against the RTC than the structural protein-dominated responses seen post-detectable infection (matched concurrent cohort). The postulate that HCW with the strongest RTC-specific T cells had an abortive infection was supported by a low-level increase in IFI27 transcript, a robust early innate signature of SARS-CoV-2 infection16.

We showed that the RNA-polymerase within RTC was the largest region of high sequence conservation across human seasonal coronaviruses (HCoV) and was preferentially targeted by T cells from UK and Singapore pre-pandemic cohorts and from ES. RTC epitope-specific T cells capable of cross-recognising HCoV variants were identified in ES. Longitudinal samples from ES and an additional validation cohort, showed pre-existing RNA-polymerase-specific T cells expanded in vivo following SARS-CoV-2 exposure, becoming enriched in the memory response of those with abortive compared to overt infection. In summary, we provide evidence of abortive seronegative SARS-CoV-2 infection with expansion of cross-reactive RTC-specific T cells, highlighting these highly conserved proteins as targets for future vaccines against endemic and emerging Coronaviridae.

FONTE: https://www.zerohedge.com/covid-19/great-big-delta-scariant

 

 

 

PRINCIPI DI ETICA E LE ORIGINI DELLA MANIPOLAZIONE GENETICA

Principi di etica e le origini della manipolazione geneticaNel 1931 Aldous Huxley pubblicò un romanzo di fantascienza dal titolo Il mondo nuovo che descriveva una società allora inimmaginabile, strutturata in caste: all’interno di ognuna gli individui avevano caratteristiche genetiche omogenee finalizzate al ruolo assegnato alla casta stessa. Gli alfa costituivano la classe dirigente; attraverso i beta, i gamma, delta, gli epsilon, si giungeva al livello più basso, ad una sorta di semi-uomini destinati a svolgere le mansioni più umili.

Il numero e la destinazione degli individui erano frutto di una programmazione precisa: “gli uomini”, prodotti artificialmente, venivano in seguito condizionati ad accettare il loro ruolo, affinché le caste convivessero pacificamente. Ogni problema era risolto: non più megalopoli violente e disperate, non più esplosione demografica, ma un pianeta spensierato e gioioso anche se non più umano.

Nel 1931, nell’America ancora con i postumi della grande recessione, il libro di Huxley fu solo un gradito diversivo e nessuno pensò che a circa venti anni di distanza sarebbero state gettate le possibili fondamenta del suo Mondo Nuovo.

Bastò attendere il 1953 quando James Dewey Watson e Francis Harry Crick decifrarono l’esatta struttura del Dna per scrivere la premessa di quel romanzo. Passarono appena dieci anni che, alla metà degli anni Sessanta, il premio Nobel Jacques Monod, insieme a David Perrin e Agnes Ullmann riuscì a realizzare i primi esperimenti d’ingegneria genetica. Furono così creati i presupposti di una grande rivoluzione che di lì a poco avrebbe avuto uno sviluppo incredibile.

Nel 1973 all’Università della California si effettua il primo esperimento d’ingegneria genetica: con la tecnica del Dna ricombinante un batterio, il cui Dna è stato modificato, diventa resistente agli antibiotici. Nel 1978 la General Electric ottiene il primo brevetto della storia per un nuovo essere vivente: un batterio in grado di digerire il petrolio. Poco dopo, nel 1982, si ha la prima importante acquisizione farmacologica: viene messa in vendita una insulina prodotta con biotecnologie. Negli Usa, nel 1984, nasce una bambina a seguito di un impianto d’embrione e nel 1987 viene individuato il gene che determina il sesso del nascituro. Sempre negli Stati Uniti viene concessa l’autorizzazione a effettuare trapianti di geni in cellule umane. In Europa, il 12 marzo del 1985 il Consiglio delle Comunità europee ha approvato lo sviluppo delle biotecnologie nell’agricoltura e nell’industria e ha stanziato ingenti fondi a tal fine.

La geneterapia è ormai diventata operativa per alcune malattie da immunodeficienza, per la talassemia e l’emofilia. Nella Penisola sono numerose le ricerche in questo campo. Dal 1982 (anno in cui il Cnr dette il via alle ricerche) si lavora in numerosi laboratori nel Paese per realizzare sonde molecolari per la diagnosi prenatale di malattie ereditarie, lo sviluppo farmaceutico per la produzione degli enzimi, per i vaccini e per la produzione di anticorpi monoclonali.

Morale ed etica rappresentano tema sempre in discussione. La trasformazione degli organismi, ottenuta attraverso la ricombinazione artificiale dei geni, pone problemi morali rilevanti; le frontiere di questa branca della Biologia sono in continua evoluzione e appare difficile stabilire un limite alla liceità della sperimentazione. La Bioetica, infatti, dalle origini ha indagato una molteplicità di problemi: oltre alla legittimità sostanziale dei vari esperimenti, anche la possibile pericolosità pratica degli stessi. Bisogna quindi calcolare che da anni si sta attuando una vera e propria rivoluzione culturale riguardo al concetto di vita.

Nel caso dell’uomo, comunque, vi sono pericoli d’altro genere, dovuti alla mappatura del genoma umano che consente d’individuare i difetti genetici degli individui. Il principale problema appare quello attinente alla privacy, in relazione agli esperimenti di genetica: il rischio è quello che nella società del futuro vi sia un controllo totale dell’uomo, che ci avvicinerebbe di molto alle allucinanti prospettive di Huxley.

Interrogativi inquietanti, viaggiano spontanei: la scienza pone gravi e seri problemi e compito dello scienziato è provare la bontà della sua ricerca. Appare evidente come siano proprio gli addetti ai lavori a porsi per primi problemi morali e a interrogarsi continuamente sul significato del loro lavoro. Tutti comunque rifiutano lo stereotipo della incontrollabilità della scienza e sottolineano come invece, con adeguati controlli, si possano ottenere enormi benefici che solo gli stolti potrebbero rifiutare. Certo è che i rischi vi sono, soprattutto se si pensa che il desiderio di agire in un modo o nell’altro sull’uomo, anche in modo sommario, è da sempre esistito: basti pensare al sogno vaneggiante di Adolf Hitler di costruire una razza eletta.

I punti di vista sono dunque diversi e spesso inconciliabili, da qui la necessità di un nuovo campo di ricerca e di studio: la Bioetica può essere definita come lo studio sistematico della condotta umana nell’area delle scienze della vita e della cura della salute, in quanto questa condotta è esaminata alla luce dei valori e dei principi morali.

Così è accettabile che l’uomo utilizzi le conoscenze biologiche per modificare le specie viventi? O attraverso le biotecnologie, realizzi nuove specie viventi? Queste domande possono essere applicate sia alla biosfera che, in particolare, all’uomo. Il punto nodale è che la ricerca non rechi danno all’uomo. Più difficile è rispondere alla prima domanda se il soggetto è l’uomo, se invece è il mondo nella sua globalità la risposta potrebbe essere positiva, specie se inquadrata in un’ottica utilitaristica. Si pensi ad esempio alla maggiore produzione agricola o all’uso di microrganismi per combattere alcune forme d’inquinamento. Assai più complesso appare il problema quando ci si riferisce all’intervento sulle cellule, sia somatiche che germinali. La seconda domanda appare legata alla precedente e da essa non scindibile.

Proviamo ora ad analizzare il problema partendo da un’altra ottica riferita solo all’uomo. Se da determinate cellule somatiche umane si preleva un tratto di Dna per trasferire un dato gene nel genoma di microrganismi, per trasformarli in produttori di sostanze di sintesi. I problemi sorgono quando queste tecniche mirano a modificare l’assetto genetico di un individuo già esistente, oppure in via di formazione. È questa la vera ingegneria genetica umana. Semplificando, possiamo distinguere due tipi: quella terapeutica o geneterapia e quella non terapeutica o alternativa.

Il medico interviene non per modificare la natura, ma per aiutarla a svilupparsi. Ma è più che mai necessario superare la separazione tra scienza ed etica, ritrovare la loro profonda unità, per la salvaguarda della dignità umana. Così il diritto alla malattia (nel senso di diritto a non essere discriminato soprattutto per malformazioni o predisposizioni genetiche), diritto di morire, diritto di morire con la sopra richiamata dignità. Non fermare dunque le ricerche, non favoleggiare oscurantismi privi di senso, ma non perdere mai di vista cos’è l’uomo, il suo irripetibile valore: operando in tal modo l’ingegneria genetica sarà solo una delle più grosse conquiste della stirpe umana e il libro di Huxley, semplicemente un curioso e inquietante romanzo di fantascienza.

In sintesi, il punto nodale è se la così detta manipolazione genetica è volta solamente alla cura delle malattie che oggi sono orfane di terapia, alla cura delle neoplasie, di malattie autoimmuni o da immunodeficienza o se viene utilizzata per il miglioramento della specie, per migliorare le performance fisiche dell’uomo. Il confine è in alcuni punti labile ma non si può oltrepassare.

FONTE: http://opinione.it/hi-tech/2021/07/08/pierpaola-meledandri_etica-manipolazione-genetica-huxley-geneterapia-dna/

 

 

 

STORIA

All’orlo della storia: W.I. Thompson e la critica della tecnocrazia

Il dibattito teorico attorno alla storia, in questo inizio del XXI secolo, è ancora attuale. Ciò è spiegabile se si tiene conto del fatto che, noi tutti, siamo, in modalità differenti, figli delle filosofie della storia e dei drammi che esse hanno determinato nel secolo scorso. Certo, nella fase attuale, diversi studiosi, più che interrogarsi sul senso e il fine della storia, hanno cominciato a chiedersi se sia mai possibile andare oltre la storia.Tra questi va annoverato lo statunitense W. I. Thompson, di cui è comparsa da poco nelle librerie per i tipi di Iduna editrice la nuova edizione di, All’orlo della storia. Per una critica della tecnocrazia, con prefazione di Luca Siniscalco (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 332, euro 24,00). Da un punto di vista generale è bene ricordare che, sul finire degli anni Novanta, la tesi della “fine della storia” di Fukuyama ha dettato il paradigma delle indagini in tema. Fortunatamente oggi è possibile sostenere che molto meglio sarebbe stato, lo ricorda opportunamente Siniscalco, riferirsi alla fine di una storia. Ecco, l’esegesi di Thompson, muove proprio da tale assunto. Egli pare, anzi, porsi in sequela della posizione che Ernst Jünger presentò in, Al muro del tempo, al fine di riconoscere quanto potesse darsi oltre l’età storica propriamente detta. Lo statunitense, con una strumentazione culturale archeo-futurista, tenta di rilevare: «nel presente le costanti del passato e i germi del futuro […] individua così alcuni snodi che ipotizza possano inverarsi nel futuro post-industriale e post-nichilista» (p. V). L’esperimento proposto richiede si resti sulla linea del nichilismo, in attesa di raggi di luce nell’ombra oscura del tempo presente, al fine di individuare il profilo di un possibile nuovo inizio. Non si tratta, quindi, di una delle tante lamentazioni passatiste relative allo stato presente delle cose, al contrario! Lo sguardo sulla storia trova la propria ragion d’essere nella constatazione dell’inanità del presente, ma essa non risospinge all’indietro, verso il passato, ma suggerisce il progetto di un’altra modernità. Una modernità non più costruita sul paradigma della ratio calcolante.

All’orlo della storia uscì in prima edizione negli USA nel 1971. Thompson ebbe una formazione poliedrica ed una carriera accademica immediata, anche se chiusa troppo presto. Formatosi sui testi di filosofia della scienza di A. N. Whitehead, non disdegnò la pratica yogica, lo studio dell’esoterismo ed ebbe interessi profondi per la biologia e l’ecologia, che lo indussero a mettere in discussione il “canone” moderno. Fu influenzato da Sri Aurobindo e frequentò David Spangler, personaggio rilevante del mondo New Age. Il suo antimodernismo lo si evince dalla constatazione del tramonto del liberalismo, non solo come dottrina politica, ma quale nucleo portante dell’immaginario dell’uomo occidentale. Egli ritiene che il liberalismo non potrà più porsi quale immagine-guida delle nuove generazioni. Rileva, inoltre, come il progressismo sia stato: «il mito più falso di tutti i veri e propri miti della nostra storia» (p. 126). Del resto, la “fine” della storia, come ha colto Massimo Cacciari, non è altro che l’in-finito procedere in se stesso del nostro tempo, che ha perso memoria di qualsivoglia sostanzialità. Un tempo deprivato di spessore, riempito dal consumo e dalla mercurialità della tecnologia informatica. Rispetto ad essa, non bisogna sperare nel ritorno idilliaco del buon selvaggio, ma mirare al: «superamento della cecità scientifica in un nuovo paradigma capace di conciliare il soddisfacimento della natura verticale […] dell’uomo con lo sviluppo tecnologico» (p. X).

Le certezze neopositiviste dovrebbero essere relativizzate attraverso un sano scetticismo gnoseologico. Per tali ragioni, Thompson dopo aver frequentato l’Istituto Esalen Big Sur, centro dapprima hippie e poi New Age, ne rimase deluso, avendone colto il tratto tipico caratterizzante i fenomeni di seconda religiosità. Nella post-modernità si mostra, in tutta evidenza, lo scontro, ricorda Siniscalco, intuito già da Jünger:la contrapposizione tra la potestas storica del processo civilizzazionale e le potestates archetipiche e titaniche emergenti nell’animus contemporaneo. Il ritorno degli dei è preceduto dal ripresentarsi, spurio e in forme diverse rispetto a quelle che lo connotarono in passato, del mito. Esso fonda i vincoli, i legami invisibili che tengono insieme il mondo egli uomini. In tale contesto, il nostro autore mostra interesse per il pensiero dell’antroposofo Rudolf Steiner che, a suo dire, offrirebbe una: «visione non dualistica, percependo l’essere umano come […] co-implicato in un universo che è psicofisico nella sua essenza» (p. XVIII). In queste affermazioni emerge, a nostro parere, la sua ambiguità teorica. A Giovanni Gentile bastò una recensione per mostrare come quello di Steiner fosse un pensiero nient’affatto monista, ma ancora dualista (cfr. G. Gentile, Ritrovare Dio, Mediterranee, pp. 191-196), per non dire delle critiche all’antroposofia di Evola! Comunque sia, la riemersione del mito nella contemporaneità si dà anche nella letteratura fantastica, letta dallo scrittore quale “nuova mitologia”.

Le suggestioni mitico-fantastiche potrebbero determinare una svolta anche nella scienza apodittica, che potrebbe recuperare in questo nuovo incontro, le sue lontane radici ermetiche. Heisenberg, padre della fisica quantistica, è stato il tipico esempio di scienziato aperto alla Sophia, capace di avere uno sguardo olista sulla realtà. Il progetto dell’altra modernità ha, a dire di Thompson, urgente necessità di sviluppare una logica non implicata nell’identarismo eleatico ma, semmai, di un’iper-logica. Egli pensa, addirittura, ad una nuova spiritualità, sintonica alla scienza “riformata”, il cui modello espressivo si mostrerà in un recupero del bello, in un’arte al servizio della nuova mitologia. La nuova scienza potrebbe, inoltre, dar luogo ad una tecnica “altra”, che dovrebbe rinunciare alla dimensione apprensiva propria del Gestell, dell’impianto della Tecno-Scienza positiva.

Al di là di alcuni tratti utopistici che si evincono dalle posizioni di Thompson, questo libro ci pone di fronte al problema annoso della sintesi di innovazione e tradizione. Tema che, chi voglia agire politicamente e culturalmente nella realtà contemporanea, per inverarla in nuovo inizio, non può eludere. All’orlo della storia è, per questo, un libro da leggere e meditare.

Giovanni Sessa

FONTE: https_www.ereticamente.net/?url=https%3A%2F%2Fwww.ereticamente.net%2F2021%2F07%2Fallorlo-della-storia-w-i-thompson-e-la-critica-della-tecnocrazia-giovanni-sessa.html

 

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