RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 12 AGOSTO 2021

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RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI

12 AGOSTO 2021

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

Il grande dolore non viene nemmeno dal potere, ma dal vicino di casa: pensa davvero che tu sia una specie di squilibrato, un mitomane, un esibizionista presuntuoso, un originalone. Non solo non approva il tuo ostinato diniego, di fronte alle imposizioni sempre più surreali e illogiche, soffocanti e dispotiche, ma prova nei tuoi confronti anche una sorta di sordo risentimento, che potrebbe persino sfociare in ostracismo aperto non appena il direttore d’orchestra dovesse alzare nuovamente il volume della sirena d’allarme, facendo correre i topolini a rintanarsi, pieni di paura per la loro sorte (e di veleno, per chi rifiuta di sottomettersi).

(Giorgio Cattaneo, 11 agosto 2021)
FONTE: https://www.libreidee.org/2021/08/fine-del-mondo-perche-proprio-adesso-e-proprio-a-noi/

 

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SOMMARIO

IL GELATO AI BAMBINI AL VALENTINO DI TORINO
Piemonte: un gelato per un vaccino. Meluzzi: “che ridicola vergogna!!!”
Fine del mondo: perché proprio adesso, e proprio a noi?
Benvenuti nell’Era della Catastrofe
La fattoria dei sorci
DAISY OSAKUE E IL BUONISMO NEOMACCARTISTA
LA PAROLA O IL SILENZIO?
Covid, vaccini e green pass
Questa volta è diverso
Draghi chiede il sacrificio di Isacco
Religione dei vaccini
L’esercito polacco sotto il protettorato tedesco-statunitense
DOPPIO AVVERTIMENTO A ISRAELE
In calesse con Calasso. Elogio di uno gnostico snob
Serpeggia la paura
Il Green Pass è pura e semplice sopraffazione
Ecco perchè non mi sottometterò
“Stato di emergenza” per le materie prime: i prezzi rischiano di salire su tutta la linea
Dovunque si smantella lo stato sociale
Bellofiore R. (2020), Smith, Ricardo, Marx, Sraffa. Il lavoro nella riflessione economico-politica
Capitalismo delle piattaforme, capitalismo della sorveglianza. Altre stupidaggini ne abbiamo?
DRAGHI & C. APRONO, DAL 2.8.2021, IL MATTATOIO FISCALE
COLPA PER COLPA, TUTTI I CARNEFICI DI MPS
Inestricabile
L’impero degli Stati Uniti dopo l’11 settembre monitora, saccheggia e uccide
Come la vede la Cina
Green Pass, la dittatura sanitaria diventa permanente
DEMOCRAZIA: POTERE DEL POPOLO!
Sulla coercizione liberale
La tecnica ci ha reso neo-primitivi
Vaccini senza sicurezza

 

 

 

EDITORIALE

IL GELATO AI BAMBINI AL VALENTINO DI TORINO

Manlio Lo Presti – 12 agosto 2021

 

Il Prof. Alessandro Meluzzi, ben noto per la sua tenace ed articolata critica alla cultura di morte che permea la società moderna mondiale, cita la riflessione di Alberto Cirio che riporta un manifesto dove è scritto che viene offerto un gelato ai ragazzi dai 12 ai 19 anni al parco del Valentino di Torino il 14 di agosto 2021. La prima impressione che suscita questo cartello è quella di maniaci che si aggirano in un parco e che offrono caramelle (adesso gelati) a ragazzi per ricevere favori non proprio condivisibili.

La attuale cultura di morte è costituita:

dal libero suicidio,

dal libero aborto,

dall’utero in affitto perché le madri non devono più fare figli propri ma li devono comprare o adottare. Un mondo, questo, prefigurato ottanta anni fa dal massone W. Disney in tutti i suoi cartoni dove la madre non esiste o è morta. Le figure femminili sono matrigne, sorellastre, figlie sperdute, addormentate, braccate, minacciate, umiliate. Mi sorprende come ancora non ci siano state censure da parte dei movimenti #metoo, Woke, Blm, Murgia, Saviano, Cirinnà, mentre sono finiti al rogo Dante, Shakespeare, Emily Dickinson, Colombo, intere case produttrici americane, gente carcerata per reati sessuali avvenuti 30/40 anni fa, ecc. ecc.;

dal compostaggio dei cadaveri a fini alimentari, come da normative votate da nazioni del nord Europa;

dalla demolizione del nucleo familiare classico, padre, madre, figli. La famiglia è il primo nucleo di resistenza e quindi va eliminata per creare individui isolati, informatizzati, telelavorizzati e incapaci di opporsi, in nome di una società fluida ben descritta dal filosofo sociologo polacco Zygmunt Bauman in molteplici pubblicazioni;

dalla invasione programmata di cosiddetti migranti travestita da finto caos degli sbarchi. Il flusso di migranti, alimentato da Ong dove operano presunti “volontari”. Il sistema di sbarchi produce un immenso flusso di miliardi intermediati in gran parte nella ex-italia da una ben nota “Comunità” che presto sarà indagata per riciclaggio. Le Ong, inoltre, hanno nomi famosi nei rispettivi consigli di amministrazione: industriali, ex generali del Pentagono, parenti diretti e indiretti di politici di lungo corso, gente dei servizi segreti USA, israeliani, inglesi;

dalla demolizione del lavoro dignitoso, con remunerazioni da fame, precarietà selvaggia e ipocrita stupore degli imprenditori che dichiarano di non trovare manodopera accusando il c.d. reddito di cittadinanza. Il tutto narrato con scientifica, solerte e servile acribia dal giornalone economico in fogli rosa che ci irroga giornalmente dall’alto la narrazione neoliberista globalista dem neomaccartista di marca anglofrancotedescaUSA ma in salsa italica, assieme ai peana con le università economiche finanziate dai servizi segreti USA;

dalla diffusione della gratuità per qualsiasi azione umana. Il “volontariato” ne è la manifestazione più visibile. Le anime belle lavorano gratis e qualcuna, altrove, ne raccoglie i frutti in termini di soldi, tanti soldi! Ovviamente, nessuno ne parla in questi termini. Viene detto che il volontariato è un agire etico, costruttivo, ecc. ecc. ecc. La diffusione di tale forma di gratuità che nasconde l’ignobile sfruttamento a costo zero del lavoro umano è stata una invenzione delle fedi religiose occidentali rivestita di motivazioni etiche. Il volontariato viene usato per tutto: musei, ricostruzioni di aree terremotate, nella sanità, nella cultura, nei musei (il suo vastissimo uso lo abbiamo con la potente istituzione del F.A.I., con la Croce Rossa, con la Protezione Civile, ecc. ecc. ecc.). Il volontariato è la più plateale dimostrazione dell’inefficienza di uno Stato che pretende di definirsi moderno e all’altezza di soddisfare la richiesta di democrazia di cittadini sempre più vessati intimiditi, umiliati, saccheggiati da sprechi tipici di nazioni-bananas del terzo e quarto mondo;

dal terrore continuo a bassa intensità profuso da espertissimi ed oscuri tecnologi della sovversione sotto l’egida della emergenza per la quale ogni decisione deve essere rapida e pertanto ineluttabile (cfr. il famoso acronimo T.I.N.A tirato fuori dal superpretoriano Mario Monti, sempre nell’interesse degli italiani, ovviamente!!!!!!!!!!)

TUTTO CIO PREMESSO E CON TUTTO IL CONCEGUENTE CLAMORE OSSESSIVO

Cosa volete che sia un gelato, offerto con imbarazzante ambuiguità, ai ragazzi per indurli a vaccinarsi affermando che essi hanno facoltà di decidere in tal senso anche contro il parere dei genitori?

Emerge lentamente una minacciosa filosofia sottostante per la quale le famiglie non solo devono essere disciolte ma il processo va accelerato generando conflitti interni: figli contro genitori, fratelli contro genitori, coniugi contro figli (stante il martellante bollettino di guerra diffuso con micidiale tempismo dei femminicidi, mai maschicidi… mahhh). Deve serpe il sospetto nei legami sentimentali: tutte deve essere in continua ebollizione, secondo il disegno propagandistico degli alti comandi mondiali.

Quindi, cosa volete che sia pensare ad una offerta da maniaci sessuali quella del gelato offerto ai bambini da vaccinare!

Secondo il parere dei PADRONI DEL DISCORSO, chi lo fa notare è un terrapiattista demmerda che crea solo confusione e che deve essere internato in apposite aree dedicate alla rieducazione del fascista dissidente no-vax, semianalfabeta, anche se alcuni di questi dubbiosi-minus-habens sono perfino riusciti ad ottenere un diploma e nientedimeno una laurea!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

LA MENZOGNA IMPERA E GLI AFFARI SONO AFFARI, BELLEZZA

 

 

 

 

IN EVIDENZA

Piemonte: un gelato per un vaccino. Meluzzi: “che ridicola vergogna!!!”

meluzzi

Il Piemonte offre un gelato ai giovani che la vigilia di Ferragosto si vaccinano. La Regione ha organizzato uno speciale Open Day, al Valentino di Torino, per i 12-19enni. Mille i posti disponibili: cinquecento ad accesso diretto e cinquecento da prenotare su www.ilPiemontetivaccina.it.

Un gelato per un vaccino

A tutti coloro che saranno vaccinati verrà consegnato un buono per gustare un cono gelato. L’iniziativa è promossa dalla Regione Piemonte, in partnership con l’Azienda ospedaliero universitaria Città della Salute e della Scienza di Torino e la collaborazione di Asl Città di Torino, Epat Torino e Provincia, Ascom Confcommercio e Comitato Gelatieri del Piemonte.
Resta sempre valida anche per questo open day la possibilità di accesso diretto per il personale scolastico e i cittadini over60. (ANSA)

Il commento del prof. Meluzzi: “Che ridicola vergogna povero Cirio e C. Che vi abbiamo votato a fare… mai più!!!!!!!!!!!”

FONTE: https://www.imolaoggi.it/2021/08/11/piemonte-un-gelato-per-un-vaccino/

Fine del mondo: perché proprio adesso, e proprio a noi?

Il grande dolore non viene nemmeno dal potere, ma dal vicino di casa: pensa davvero che tu sia una specie di squilibrato, un mitomane, un esibizionista presuntuoso, un originalone. Non solo non approva il tuo ostinato diniego, di fronte alle imposizioni sempre più surreali e illogiche, soffocanti e dispotiche, ma prova nei tuoi confronti anche una sorta di sordo risentimento, che potrebbe persino sfociare in ostracismo aperto non appena il direttore d’orchestra dovesse alzare nuovamente il volume della sirena d’allarme, facendo correre i topolini a rintanarsi, pieni di paura per la loro sorte (e di veleno, per chi rifiuta di sottomettersi).
C’è chi la chiama “speciazione”: è il bivio evolutivo terminale tra due umanità differenti, diverse nel sentire e nell’agire, che il Dominio riesce a separare irrimediabilmente, rompendo tutti i ponti del dialogo e della reciproca, amichevole comprensione. Altra tristezza: insieme alla Francia, l’Italia è l’altro paese europeo che ha imboccato la strada della coercizione violenta.
C’è da piangere, appena ci si mette ad ascoltare medici indipendenti, scienziati e liberi ricercatori: non una, di tutte le misure imposte a partire dalla primavera 2020, ha mai avuto il minimo significato, in termini di contenimento di un problema sanitario. Tutto ha avuto sempre un altro sapore: quello della vessazione, dell’arbitrio autoritario, e con un’estetica sinistramente affine a quella dei totalitarismi del Novecento. Tutto vi si è piegato: la burocrazia sanitaria, la medicina ufficiale, la politica, l’industria, il sistema mediatico, il mondo culturale e quello dello spettacolo. Pochissime le voci dissonanti, immediatamente bollate come eretiche e colpite senza pietà: con l’irrisione, la censura, la denuncia e la radiazione, l’esilio, l’esecrazione pubblica. Chi avrebbe mai potuto pensare, seriamente, anche solo un paio d’anni fa, che i presunti non-dormienti avrebbero dovuto far ricorso a parafrasi e sinonimi, sui celebrati social, evitando le parole “Covid” e “vaccino” per non incorrere nell’immediata ghigliottina del censore?
Di fronte a questo, è come se l’intera categoria della politica – la politica democratica occidentale, larvatamente affacciatasi alla fine del 1700, poi cresciuta nell’800 e infine fiorita nel “secolo breve”, sia pure con i drammatici contraccolpi delle dittature e delle guerre mondiali – fosse giunta a uno stadio terminale, alla fine di un ciclo storico, riguardo alla sua reale possibilità di riflettere l’umano, nella sua libera vita sociale. La devastazione è antropologica: quando si corre a subire un inoculo di materiale imprecisato, per obbedire a un ordine che si racconta impartito allo scopo di prevenire un malanno curabilissimo in modo ordinario, forse siamo arrivati oltre il civile e il consueto, oltre l’orizzonte conosciuto del ragionevole, del plausibile. Se poi si accetta di subire un simile ricatto per andare in pizzeria o in palestra, o allo stadio, la verità diventa esplosiva: un conto è sottoporsi a un’angheria inquietante per salvare in modo drammatico il proprio stipendio (all’ospedale, a scuola); un altro è apprestarsi anche a strisciare a terra, se richiesti, solo per poter continuare a frequentare un bar, una trattoria, con gli amici di sempre.
Il trionfo del Dominio sull’umanità dormiente è totale, apocalittico: lo testimonia splendidamente la vile improntitudine degli imbecilli, i mentalmente devastati, che arrivano ad accusare i renitenti di avere “paura del vaccino”, mostrando così di detestare la loro residua libertà. Gonfi di livore, indifferenti alle notizie verificabili (e alle morti eccellenti, come quella di Giuseppe De Donno), i più miseri utilizzano con disinvoltura quella parola nobile, nella storia della medicina, come se la pozione-Covid fosse davvero un vaccino. Ma soprattutto: dopo un anno e mezzo di eccellenti terapie domiciliari, i poveretti preferiscono fingere di credere (o magari credere davvero, sinceramente) all’obbligatoria necessità di una profilassi di massa, assolutamente fondamentale, per arginare il terribile contagio di un ipotetico virus (mai isolato in laboratorio) la cui letalità è stata definita quasi irrisoria dai più eminenti epidemiologi del pianeta, rigorosamente messi fuori dalla porta (come i luminari della Great Barrington Declaration, pionieri della lotta contro una minaccia ben più temibile, l’Ebola).
E’ durata meno di 24 ore, sul web, l’esposizione del filmato in cui il professor Stefano Scoglio (candidato nel 2018 al Nobel per la Medicina) spiegava come lo stesso virus Hiv fosse poco più che immaginario, frutto di un semplice “sequenziamento”, anziché di un “isolamento” biologico vero e proprio. Scoglio era intervenuto alla trasmissione “L’Orizzonte degli Eventi”, dopo aver firmato un prezioso contributo nell’esemplare libro-denuncia “Operazione Corona”, edito da Aurora Boreale e curato da Nicola Bizzi e Matt Martini. In particolare, Martini – chimico farmaceutico, esperto in modellazione cellulare – insiste sul punto: persino gli Usa, attraverso il Cdc, hanno ammesso che l’ipotetico virus responsabile della sindrome Covid (quella sì, reale) non è mai stato isolato, in nessuna sede scientifica. Nonostante ciò, una parte dell’informazione – di ogni specie: mainstream, “gatekeeper” e reporter in buona fede – già sta raccontando del “virus manipolato”, sfuggito al laboratorio di Wuhan o addirittura diffuso intenzionalmente dai perfidi cinesi, con i loro complici occidentali.
Se poi l’inventore del test Pcr raccomanda di non superare i 20-22 “cicli di amplificazione” del campione biologico, e invece i sanitari sottopongono il tampone anche a 45 “amplificazioni” (andando così a pescare tracce molecolari di virus antichi, residui di influenze stagionali del passato, contrabbandati per Covid), ecco che la “pandemia di asintomatici” supera di gran lunga la follia, entrando in quella che alcuni configurano come una dittatura in piena regola. Una tirannide che manipola la verità per suscitare allarme e imporre comportamenti normalmente inaccettabili, puntando a revocare – per sempre – i diritti umani e le libertà a cui la popolazione (occidentale) era abituata. Vero: davamo per scontati i nostri lussuosi privilegi, frutto in realtà di una precisa “finestra” storica, quella in cui si affermò – faticosamente e sanguinosamente – il tipo di regime politico chiamato democrazia. Un sistema che ovviamente non è il paradiso, ma è decisamente meno peggiore di qualsiasi altro possibile regime.
A cosa doveva servire, l’infarto della democrazia? A pervenire infine al Green New Deal, cioè il Grande Reset imposto in modo fraudolento con l’alibi bugiardo dell’emergenza climatica, venduta anch’essa come dogma religioso da un clan di scienziati reclutati dall’Onu e pagati a peso d’oro per fare dichiarazioni a comando? Dove ci vorrebbero portare, i tagliatori seriali di alberi che dal 2019 hanno raso al suolo i parchi pubblici italiani per impedire alle fronde – come documentato dal governo britannico – di ostacolare la trasmissione delle onde 5G, la cui innocuità non è ancora stata dimostrata? Come tutti sanno, un semplice indizio non costituisce una prova; una somma di inidizi, invece, forse sì. Tutto punta verso l’essere umano, o meglio: il corpo umano. Secondo alcuni teorici, siamo di fronte alla cosiddetta biopolitica: archiviato il Giuramento di Ippocrate, dopo aver chiesto agli stessi medici di abdicare alla loro missione, è il nostro organismo – corpo e mente – il vero target della grande operazione in corso, che manifesta la sua intenzione di violare l’integrità dell’habeas corpus, il più sacro dei diritti della persona.
Niente di nuovissimo, peraltro: la nostra civiltà proviene da millenni di dispotismo brutale, nudo e crudo. E i lampi migliori della gloriosa democrazia occidentale novecentesca, di marca anglosassone, secondo il memoriale di Giacomo Rumor (pubblicato dal figlio, Paolo Rumor, nel libro “L’altra Europa), provenivano dal cosiddetto “contingente americano”, che l’esoterista e gollista francese Maurice Schumann faceva discendere anch’esso dalla fantomatica Struttura che reggerebbe il mondo ininterrottamente, indossando le maschere più svariate (imperi, religioni) da qualcosa come 12.000 anni. Fantascienza? Fino a ieri, lo erano anche gli Ufo: oggi invece li sdogana il Pentagono, ribattezzandoli Uap, mentre il generale israeliano Haim Eshed parla di basi extraterresti e di alleanze spaziali, tra umani e non, nell’ambito di una Federazione Galattica. E alcuni illustri massoni, improvvisamente loquaci, parlano di storici accordi nel dopoguerra tra la dirigenza degli Usa e imprecisate entità aliene, per la governance condivisa del pianeta.
Come sperare di raccontarlo, tutto questo, ai poveri ipnotizzati che – in pieno agosto – vanno ancora in giro, all’aperto, con quella ridicola pezzuola sul volto? Sono la prova vivente del pieno successo del Dominio: aveva ragione, l’ipotetico grande regista, nel ritenere che la gran parte dei sudditi avrebbe creduto proprio a tutto. Come dargli torto, del resto? Siamo riusciti a credere che un solitario fanatico saudita abbia potuto mettere in ginocchio gli Stati Uniti agendo da una grotta afghana, fino a beffare le difese della superpotenza, grazie a un manipolo di pecorai e talebani. Siamo riusciti a credere che due piccoli aerei di linea potessero abbattere due mostri d’acciaio come le Torri Gemelle, per la cui eventuale demolizione controllata era stato reputato (dal Comune di New York) che l’unica soluzione potesse essere il ricorso a mini-atomiche, da collocare in appositi vani predisposti nelle fondamenta. Abbiamo anche creduto che potesse essere autentico, tra le macerie di Ground Zero, il ritrovamento “fortunoso” dei passaporti dei misteriosi, feroci attentatori.
Aveva visto giusto Giulietto Chiesa: da quel Rubicone non sarebbe stato facile, tornare indietro. Convalidando una falsità così mostruosa, avremmo finito per credere a qualsiasi frottola. E infatti: abbiamo steso il tappeto rosso al signor Mario Monti, venuto a disastrare l’economia nazionale per produrre crisi e afflizione sociale, dopo aver creduto che il debito pubblico fosse davvero un dramma, e che la Bce fosse una specie di forziere con capacità limitate, da cui la necessità di risparmiare – in modo oculato e parsimonioso, “come un buon padre di famiglia” – il tesoretto dell’euro-moneta, appannaggio di cosche finanziarie privatissime. In parallelo, era sorta la prima contro-narrazione, in Italia splendidamente interpretata da un lottatore come Paolo Barnard, vero pioniere in una trincea che poi si è affollata di illustri compagni di strada, dal sociologo Luciano Gallino all’eurocrate pentito Paolo Savona. E noi dov’eravamo? Al solito posto, davanti al televisore: ipnotizzati dalla finta guerriglia tra pseudo-destra e pseudo-sinistra; un film (comico) aperto dalla Berlusconimachia e proseguito, in un crescendo irresistibile, fino all’epica disfida tra Savini e le Sardine.
E ora eccoci qui, dopo un anno e mezzo, ancora a contare “casi” e “contagi”, dentro la narrazione del Grande Male che falcia lo zero-virgola della popolazione mondiale e da noi minaccia gli ottantenni, ma solo a patto che vengano abbandonati per giorni a marcire a casa, da soli, senza cure, in modo che poi possano davvero arrivare all’ospedale fuori tempo massimo, alle prese con problemi respiratori e la compromissione funzionale di vari organi. Eccoci qui, a sputare in faccia a chi non la pensa come noi: a chiamare “no-vax” i renitenti alla follia, a definire “negazionisti” i poveretti che si ostinano inutilmente a pretendere spiegazioni. Siamo maestri, nell’arte della manipolazione spicciola: arriviamo tranquillamente a insultare i dissidenti e a deridere chi dà voce agli incubi, chiamando “complottista” chi vede una cospirazione in atto.
Naturalmente ci sono, i visionari: ma difficilmente continuerebbero a esistere, se dall’alto giungessero informazioni precise, corrette e trasparenti. Dall’alto invece piovono solo bugie, insieme alle minacce (ogni giorno più inquietanti); ma noi facciamo finta che i “cospirazionisti” siano dei malati di mente, dei mentecatti in vena di protagonismo, anche se – cent’anni fa – un personaggio come Rudolf Steiner, per primo, aveva profetizzato l’avvento di “vaccini” specialissimi, in grado di “separare il corpo dall’anima”, depotenziando l’emotività. Il chimico Corrado Malanga la chiama “zombizzazione”, osservando il dilagare di persone ormai inebetite dalla paura, rassegnate a non pensare più. Nella sua visione spiritualistica di matrice steineriana, Fausto Carotenuto (già analista d’intelligence) sostiene che l’attacco in corso sia frutto di apprensione: come se il Dominio temesse un grande risveglio, e sapesse di avere le ore contate. Un altro esponente della cultura alternativa italiana, l’alchimista Michele Giovagnoli, preferisce sforzarsi di guardare al bicchiere mezzo pieno: un cittadino su tre si sta letteralmente sottraendo alle grottesche imposizioni quotidiane.
Questo stesso blog, che ha ormai esaurito la sua missione (fornire informazioni e analisi non facilmente rintracciabili, dieci anni fa) ormai ha acquisito la piena consapevolezza della fine di un ciclo, e la completa inutilità dell’insistere su determinati temi. E’ vano indugiare nella narrazione politologica, visto che da un lato la maggioranza resta sorda a ogni richiamo alla ragione, e dall’altro la minoranza dispone finalmente di strumenti più adeguati per misurare la realtà. Tra le convinzioni raggiunte, c’è anche la seguente: è perfettamente inutile scommettere ancora sulle possibilità di redenzione della politica, nel momento in cui è irrimediabilmente mutata la stessa antropologia della platea. Per contro, è proprio la brutalità della crescente coercizione ad accelerare l’evoluzione dell’umanità trainante, che giustamente diffida di ogni forma associativa convenzionale, partiti e movimenti, avendo compreso l’essenziale valore della vicinanza tra esseri umani, non più mediata da alcuna struttura, e la necessità di procedere nell’espressione virtualmente contagiosa di onde benefiche, di narrazioni parallele orientate non al presente, ma al futuro prossimo.
Il Novecento, severissimo maestro, ha mostrato come può essere facile manipolare milioni di individui, fino a scatenare le peggiori carneficine (mondiali) dell’era industriale. Ha anche allevato schiere di avanguardisti coraggiosi, pronti a rischiare la propria vita pur di resistere alla tirannia. Primo Levi, uno dei massimi scrittori contemporanei, ha spiegato quanto sia sempre invisibile, all’inizio, il recinto che viene silenziosamente steso, giorno per giorno, allo scopo di intrappolare le vittime senza allarmarle. Finestra di Overton, o Teoria della Rana Bollita: la differenza, rispetto a ieri, è che oggi il pentolone è planetario. E vorrà pur dire qualcosa, nei giorni in cui i militari statunitensi pubblicano le prove dei loro incontri ravvicinati con i simpatici Uap. E noi, qui, nel frattempo che si fa? Ce ne stiamo quieti, in attesa dell’Alieno Buono che ci verrà a salvare, come l’Extraterrestre della canzone di Finardi? Ci allineiamo “in fila per tre”, come chiede il governo e come cantava Edoardo Bennato? Continuiamo a credere a Babbo Natale, cioè al Telegiornale, o seguitiamo a torturarci con le atrocità quotidiane che i medici-coraggio denunciano, da ormai un anno?
Cari amici, viene da dire, io tolgo il disturbo: qui non resto un attimo di più; perché mi sento soffocare, in questo grappolo di narrazioni e contro-narrazioni. Quello è davvero il nocciolo della questione: in base a decisioni prese chissà quando, qualcuno ha stabilito che – dai primi mesi del 2020 – non si dovesse più parlare d’altro. Il mondo andava semplicemente fermato, rintronato, ipnotizzato, piegato. Non tutto il mondo, in realtà: l’Occidente. Paesi-continente come la Russia e India, per esempio, non si sono lasciati sottomettere. Esiste sempre, una quota considerevole di renitenti: anche se oggi può sembrare difficile accettarlo, la cosiddetta “fine della storia” resta un mito, una suggestione ideologica. Un caposaldo della strategia militare, in ogni tempo, è questo: mai accettare di combattere una battaglia nelle modalità indicate dallo sfidante, che ha scelto il giorno e il luogo. E’ un vantaggio che, per l’aggressore, rappresenta un regalo clamoroso. La domanda di fondo, però, resta inevasa: perché è capitato proprio a noi, oggi, di vivere l’incubo di una tempesta come questa?

La grande amarezza non viene nemmeno dal potere, ma è provocata dal vicino di casa: pensa davvero che tu sia una specie di squilibrato, un mitomane, un esibizionista presuntuoso? Non solo non approva il tuo ostinato diniego, di fronte alle imposizioni sempre più surreali e illogiche, soffocanti e dispotiche, ma prova nei tuoi confronti anche una sorta di sordo risentimento, che potrebbe persino sfociare in ostracismo aperto non appena il direttore d’orchestra dovesse alzare nuovamente il volume della sirena d’allarme, facendo correre i topolini a rintanarsi, pieni di paura per la loro sorte (e di veleno, per chi rifiuta di sottomettersi). C’è chi la chiama “speciazione”: è il bivio evolutivo tra due umanità differenti, diverse nel sentire e nell’agire, che il Dominio riesce a separare irrimediabilmente, rompendo tutti i ponti del dialogo e della reciproca, amichevole comprensione. Ulteriore tristezza: insieme alla Francia, l’Italia è l’altro paese europeo che ha imboccato la strada della coercizione violenta.

C’è da piangere, appena ci si mette ad ascoltare medici indipendenti, scienziati e liberi ricercatori: non una, di tutte le misure imposte a partire dalla primavera 2020, ha mai avuto il minimo significato, in termini di contenimento di un problema sanitario. Tutto ha avuto Fearsempre un altro sapore: quello della vessazione, dell’arbitrio autoritario, e con un’estetica sinistramente affine a quella dei totalitarismi del Novecento. Tutto vi si è piegato: la burocrazia sanitaria, la medicina ufficiale, la politica, l’industria, il sistema mediatico, il mondo culturale e quello dello spettacolo. Pochissime le voci dissonanti, immediatamente bollate come eretiche e colpite senza pietà: con l’irrisione, la censura, la denuncia e la radiazione, l’esilio, l’esecrazione pubblica. Chi avrebbe mai potuto pensare, seriamente, anche solo un paio d’anni fa, che i presunti non-dormienti avrebbero dovuto fare ricorso a parafrasi e sinonimi, sui celebrati social, evitando le parole “Covid” e “vaccino” per non incorrere nell’immediata ghigliottina del censore?

Di fronte a questo, è come se l’intera categoria della politica – la politica democratica occidentale, larvatamente affacciatasi alla fine del 1700, poi cresciuta nell’800 e infine fiorita nel “secolo breve”, sia pure con i drammatici contraccolpi delle dittature e delle guerre mondiali – fosse giunta a uno stadio terminale, alla fine di un ciclo storico, riguardo alla sua reale possibilità di riflettere l’umano, nella sua libera vita sociale. La devastazione è antropologica: quando si corre a subire un inoculo di materiale imprecisato, per obbedire a un ordine che si racconta impartito allo scopo di prevenire un malanno terrificante (ma in realtà curabilissimo in modo ordinario, come sappiamo), forse siamo arrivati oltre il civile e il consueto, oltre l’orizzonte conosciuto del ragionevole, del plausibile. Se poi si accetta di subire un simile ricatto per andare in pizzeria o in palestra, o allo stadio, la verità diventa esplosiva: un conto è sottoporsi a un’angheria inquietante per salvare in modo drammatico il proprio stipendio (all’ospedale, a scuola); un altro è apprestarsi anche a strisciare a terra, se richiesti, solo per poter continuare a frequentare un bar, una trattoria, con gli amici di sempre.

Il trionfo del Dominio sull’umanità dormiente è totale, apocalittico: lo testimonia splendidamente la vile improntitudine degli imbecilli, i mentalmente devastati, che arrivano ad accusare i renitenti di avere “paura del vaccino”, mostrando così di detestare la loro residua libertà. Gonfi di livore, indifferenti alle notizie verificabili (e alle morti eccellenti, come quella di Giuseppe De Donno), i più miseri utilizzano con disinvoltura quella parola nobile, nella storia della medicina, come se la pozione-Covid fosse davvero un vaccino. Ma soprattutto: dopo un anno e mezzo di efficaci terapie domiciliari, i poveretti preferiscono fingere di credere (o magari credere davvero, sinceramente) all’obbligatoria necessità di una profilassi di massa, assolutamente fondamentale, per arginare il terribile contagio di un ipotetico virus (mai De Donnoisolato in laboratorio) la cui letalità è stata definita quasi irrisoria dai più eminenti epidemiologi del pianeta, rigorosamente messi fuori dalla porta (come i luminari della Great Barrington Declaration, pionieri della lotta contro una minaccia ben più temibile, l’Ebola).

E’ durata meno di 24 ore, sul web, l’esposizione del filmato in cui il professor Stefano Scoglio (candidato nel 2018 al Nobel per la Medicina) spiegava come lo stesso virus Hiv fosse poco più che immaginario, frutto di un semplice “sequenziamento”, anziché di un “isolamento” biologico vero e proprio. Scoglio era intervenuto alla trasmissione “L’Orizzonte degli Eventi”, dopo aver firmato un prezioso contributo nell’esemplare libro-denuncia “Operazione Corona”, edito da Aurora Boreale e curato da Nicola Bizzi e Matt Martini. In particolare, Martini – chimico farmaceutico, esperto in modellazione molecolare – insiste sul punto: persino gli Usa, attraverso il Cdc, hanno ammesso che l’ipotetico virus responsabile della sindrome Covid (quella sì, reale) non è mai stato isolato, in nessuna sede scientifica. Nonostante ciò, una parte dell’informazione – di ogni specie: mezzibusti del mainstream, “gatekeeper” e reporter in buona fede – già sta raccontando del “virus manipolato”, sfuggito al laboratorio di Wuhan o addirittura diffuso intenzionalmente dai perfidi cinesi, con i loro complici occidentali.

Se poi l’inventore del test Pcr raccomanda di non superare i 20-22 “cicli di amplificazione” del campione biologico, e invece i sanitari sottopongono il tampone anche a 45 “amplificazioni” (andando così a pescare tracce molecolari di virus antichi, residui di influenze stagionali del passato, contrabbandati per Covid), ecco che la “pandemia di asintomatici” supera di gran lunga la follia, entrando in quella che alcuni configurano come una dittatura in piena regola. Una tirannide che manipola la verità per suscitare allarme e imporre comportamenti normalmente inaccettabili, puntando a revocare – per sempre? – i diritti umani e le libertà a cui la popolazione (occidentale) era abituata. Vero: davamo per scontati i nostri lussuosi privilegi, frutto in realtà di una precisa “finestra” storica, quella in cui si affermò, faticosamente e sanguinosamente, il tipo di regime politico chiamato democrazia. Un sistema che ovviamente non è il paradiso, ma è decisamente meno peggiore di qualsiasi altro possibile regime.

A cosa doveva servire, l’infarto della democrazia? A pervenire infine al Green New Deal, cioè il Grande Reset imposto in modo fraudolento con l’alibi bugiardo dell’emergenza climatica di origine antropica, venduta anch’essa come dogma religioso da un clan di scienziati reclutati dall’Onu e pagati a peso d’oro per fare dichiarazioni a comando? Dove ci vorrebbero portare, i tagliatori seriali di alberi che dal 2019 hanno raso al suolo i parchi pubblici italiani per impedire alle fronde – come documentato dal governo britannico – di ostacolare la trasmissione delle onde 5G, la cui innocuità non è ancora stata dimostrata? Come tutti sanno, un semplice indizio non costituisce una prova; una somma di indizi, invece, forse sì. Tutto punta verso l’essere umano, o meglio: il corpo umano. Secondo alcuni teorici, siamo di fronte alla cosiddetta biopolitica: Paolo Rumorarchiviato il Giuramento di Ippocrate, dopo aver chiesto agli stessi medici di abdicare alla loro missione, è il nostro organismo – corpo e mente – il vero target della grande operazione in corso, che manifesta la sua intenzione di violare l’integrità dell’habeas corpus, il più sacro dei diritti della persona.

Niente di nuovissimo, peraltro: la nostra civiltà proviene da millenni di dispotismo brutale, nudo e crudo. E i lampi migliori della gloriosa democrazia occidentale novecentesca, di marca anglosassone, secondo il memoriale di Giacomo Rumor (pubblicato dal figlio, Paolo Rumor, nel libro “L’altra Europa), provenivano dal cosiddetto “contingente americano”, che l’esoterista e gollista francese Maurice Schumann faceva discendere anch’esso dalla fantomatica Struttura che reggerebbe il mondo ininterrottamente, indossando le maschere più svariate (imperi, religioni) da qualcosa come 12.000 anni. Fantascienza? Fino a ieri, lo erano anche gli Ufo: oggi invece li sdogana il Pentagono, ribattezzandoli Uap, mentre il generale israeliano Haim Eshed parla di basi extraterresti e di alleanze spaziali, tra umani e non, nell’ambito di una Federazione Galattica. E alcuni illustri massoni, improvvisamente loquaci, parlano di storici accordi nel dopoguerra tra la dirigenza degli Usa e imprecisate entità aliene, per la governance condivisa del pianeta.

Come sperare di raccontarlo, tutto questo, ai poveri ipnotizzati che – in pieno agosto – vanno ancora in giro, all’aperto, con quella ridicola pezzuola sul volto? Sono la prova vivente del pieno successo del Dominio: aveva ragione, l’ipotetico Supremo Regista, nel ritenere che la gran parte dei sudditi avrebbe creduto proprio a tutto. Come dargli torto, del resto? Siamo riusciti a credere che un solitario fanatico saudita abbia potuto mettere in ginocchio gli Stati Uniti agendo da una grotta afghana, fino a beffare le difese della superpotenza, grazie a un manipolo di pecorai e Talebani. Siamo riusciti a credere che due piccoli aerei di linea potessero abbattere due mostri d’acciaio come le Torri Gemelle, per la cui eventuale demolizione controllata era stato reputato (dal Comune di New York) che l’unica soluzione potesse essere il Giulietto Chiesaricorso a mini-atomiche, da collocare in appositi vani predisposti nelle fondamenta. Abbiamo anche creduto che potesse essere autentico, tra le macerie infernali di Ground Zero, il ritrovamento “fortunoso” dei passaporti dei misteriosi, feroci attentatori.

Aveva visto giusto Giulietto Chiesa: da quel Rubicone non sarebbe stato facile, tornare indietro. Convalidando una falsità così mostruosa, avremmo finito per credere a qualsiasi frottola. E infatti: abbiamo steso il tappeto rosso al signor Mario Monti, venuto a disastrare l’economia nazionale per produrre crisi e afflizione sociale, schiacciando un popolo al quale era stato fatto credere che il debito pubblico fosse davvero un dramma, e che la Bce fosse una specie di forziere con capacità limitate, da cui la necessità di risparmiare – in modo oculato e parsimonioso, “come un buon padre di famiglia” – il tesoretto dell’euro-moneta, appannaggio di consorterie finanziarie privatissime. In parallelo, era sorta la prima contro-narrazione, in Italia splendidamente interpretata da un lottatore come Paolo Barnard, vero apripista in una trincea che poi si è affollata di illustri compagni di strada, dal sociologo Luciano Gallino all’eurocrate pentito Paolo Savona. E noi dov’eravamo? Al solito posto, davanti al televisore: ipnotizzati dalla finta guerriglia tra pseudo-destra e pseudo-sinistra; un film (comico) aperto dalla Berlusconomachia e proseguito, in un crescendo irresistibile, fino all’epica disfida tra Salvini e le Sardine.

E ora eccoci qui, dopo un anno e mezzo, ancora a contare “casi” e “contagi”, dentro la narrazione del Grande Male che falcia lo zero-virgola della popolazione mondiale e da noi minaccia gli ottantenni, ma solo a patto che vengano dimenticati e abbandonati per giorni a marcire a casa, da soli, senza cure, in modo che poi possano davvero arrivare all’ospedale fuori tempo massimo, alle prese con problemi respiratori e la compromissione funzionale degli organi vitali. Eccoci qui, a sputare in faccia a chi non la pensa come noi: a chiamare “no-vax” i renitenti, a definire “negazionisti” i poveretti che si ostinano inutilmente a pretendere spiegazioni. Siamo maestri, nell’arte della manipolazione Steinerspicciola: arriviamo tranquillamente a insultare i dissidenti e a deridere chi dà voce agli incubi, a chiamare “complottista” chi vede una cospirazione in atto.

Naturalmente ci sono, i visionari: ma difficilmente continuerebbero a esistere, se dall’alto finalmente giungessero informazioni precise, corrette e trasparenti. Dall’alto invece piovono solo bugie, insieme alle minacce (ogni giorno più inquietanti) di mettere fine a quel che resta delle libertà civili; ma noi facciamo finta che i “cospirazionisti” siano dei malati di mente, dei mentecatti in vena di protagonismo, anche se – cent’anni fa – era stato un personaggio come Rudolf Steiner, per primo, a profetizzare l’avvento di “vaccini” specialissimi, in grado di “separare il corpo dall’anima”, depotenziando l’emotività. Il chimico Corrado Malanga la chiama “zombizzazione”, osservando il dilagare di persone ormai inebetite dalla paura, rassegnate a non pensare più. Nella sua visione spiritualistica di matrice steineriana, Fausto Carotenuto (già analista d’intelligence) sostiene che l’attacco in corso sia frutto di apprensione: come se il Dominio temesse un grande risveglio, e sapesse di avere le ore contate. Un altro esponente della cultura alternativa italiana, l’alchimista Michele Giovagnoli, preferisce sforzarsi di guardare al bicchiere mezzo pieno: un cittadino su tre si sta letteralmente sottraendo alle grottesche imposizioni quotidiane.

Questo stesso blog, che ha ormai esaurito la sua missione (fornire informazioni e analisi non facilmente rintracciabili, dieci anni fa) ormai ha acquisito la piena consapevolezza della fine di un ciclo, e la completa inutilità dell’insistere su determinati temi. E’ vano indugiare nella narrazione politologica, visto che da un lato la maggioranza resta sorda a ogni richiamo alla ragione, e dall’altro la minoranza dispone finalmente di strumenti più adeguati per misurare la realtà. Tra le convinzioni raggiunte, c’è anche la seguente: è perfettamente inutile scommettere ancora sulle possibilità di redenzione della politica, nel momento in cui è irrimediabilmente mutata la stessa antropologia della platea. Per contro, è proprio la brutalità della crescente coercizione ad accelerare l’evoluzione dell’umanità trainante, che giustamente diffida di ogni forma associativa convenzionale, partiti e movimenti, avendo compreso l’essenziale valore della vicinanza tra esseri umani, non più  Primo Levimediata da alcuna struttura; un’umanità che oggi comprende la necessità di procedere nell’espressione virtualmente contagiosa di onde benefiche, di gesti e narrazioni parallele orientate non tanto al presente, quanto piuttosto al futuro prossimo. da incubare con il pensiero e la volontà.

Il Novecento, severissimo maestro, ha mostrato come può essere facile manipolare milioni di individui, fino a scatenare le peggiori carneficine (mondiali) dell’era industriale. Ha anche allevato schiere di avanguardisti coraggiosi, pronti a rischiare la propria vita pur di resistere alla tirannia. Primo Levi, uno dei massimi scrittori contemporanei, ha spiegato quanto sia sempre invisibile, all’inizio, il recinto che viene silenziosamente steso, giorno per giorno, allo scopo di intrappolare le vittime senza allarmarle. Finestra di Overton, o Teoria della Rana Bollita: la differenza, rispetto a ieri, è che oggi il pentolone è planetario. Vorrà pur dire qualcosa, nei giorni in cui i militari statunitensi pubblicano le prove dei loro incontri ravvicinati con i simpatici Uap. E noi, qui, nel frattempo che si fa? Ce ne stiamo quieti, in attesa dell’Alieno Buono che ci verrà a salvare, come l’Extraterrestre della canzone di Finardi? Ci allineiamo “in fila per tre”, come chiede il governo e come cantava Edoardo Bennato? Continuiamo a credere a Babbo Natale, cioè al Telegiornale, o seguitiamo a torturarci con le atrocità quotidiane che i medici-coraggio denunciano, da ormai un anno?

Cari amici, viene da dire, io tolgo il disturbo: qui non resto un attimo di più; perché mi sento soffocare, in questo groviglio di narrazioni e contro-narrazioni. Quello è davvero il nocciolo della questione: in base a decisioni prese chissà quando, qualcuno ha stabilito che – dai primi mesi del 2020 – non si dovesse più parlare d’altro. Il mondo andava semplicemente fermato, rintronato, ipnotizzato, piegato. Non tutto il mondo, in realtà: l’Occidente. Paesi-continente come la Russia e India, per esempio, non si sono lasciati sottomettere. Esiste sempre, una quota considerevole di renitenti: anche se oggi può sembrare difficile accettarlo, la cosiddetta “fine della storia” resta un mito, una suggestione ideologica. Nella strategia militare, in ogni tempo, un caposaldo pare sia questo: mai accettare di combattere una battaglia nelle modalità indicate dallo sfidante, che ha già studiato e scelto il giorno e il luogo; equivarrebbe a concedere all’aggressore un vantaggio incolmabile. La domanda di fondo, però, resta inevasa: perché è capitato proprio a noi, oggi, di vivere l’incubo di una tempesta come questa?

(Giorgio Cattaneo, 11 agosto 2021)

 

FONTE: https://www.libreidee.org/2021/08/fine-del-mondo-perche-proprio-adesso-e-proprio-a-noi/

 

 

 

 

Benvenuti nell’Era della Catastrofe

Da oggi saremo costretti ad accettare ogni decisione politica. Il virus rende tutto “inevitabile”

Christian Frigerio

“Soltanto una crisi – reale o percepita – produce vero cambiamento. Quando quella crisi si verifica… il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile”. Così Milton Friedman, l’economista decano della “scuola di Chicago” e teorico della forma più fondamentalista del capitalismo, enuncia una dottrina destinata a un fortunato collaudo negli anni successivi. Una quantità di usi della “strategia dello shock” – lo sfruttamento di una crisi per far accettare alla plebe le peggiori porcate – è studiata dalla giornalista Naomi Klein nel suo Shock economy: il caos provocato da una catastrofe – naturale, sociale, politica – disgrega il tessuto di una società, facendone una tabula rasa su cui diventa possibile sperimentare nuove strategie di governo e di mercato senza alcuna resistenza. Il Cile di Pinochet sfrutterà lo stato di shock derivato dal colpo di stato per trasformarsi nel grande laboratorio del neoliberismo, applicando le dottrine dello stesso Friedman e disfacendo le (fragilissime) conquiste del governo socialista di Allende; i risultati della guerra delle Falkland permetteranno a Margaret Thatcher di sopprimere nel silenzio lo storico sciopero dei minatori inglesi. Non solo crisi politiche: la distruzione provocata dall’uragano Katrina sarà per l’amministrazione Bush l’espediente per la conversione del sistema scolastico di New Orleans in un sistema di scuole “charter” private, perfette per fomentare la disuguaglianza nelle nuove generazioni; il governo dello Sri Lanka allontanerà i pescatori dalle spiagge per plausibili motivi di sicurezza derivanti dallo tsunami del 2004, salvo poi cedere le stesse spiagge ad alberghi destinati a rendere lo stato uno dei paradisi turistici d’Asia.

La pandemia da Covid-19 è stata probabilmente il primo caso di uno shock globale, che non ha risparmiato alcun angolo del mondo. C’è poco da sorprendersi se, secondo il segretario generale dell’ONU, “il virus è stato usato come pretesto in molti Paesi per reprimere il dissenso, criminalizzare le libertà e mettere a tacere le notizie”. Cronache che paiono di paesi lontani e digiuni di democrazia.

Paiono a torto, però. Prendiamo la lettera che Margaret Thatcher scrisse nel febbraio del 1982 all’economista Friedrich von Hayek, in risposta alla proposta di quest’ultimo di trasformare l’Inghilterra in un laboratorio del neoliberismo come già accaduto per le teorie di Friedman in Cile:

“Sono certa che converrà con me che, in Gran Bretagna, con le nostre istituzioni democratiche e la necessità di un elevato margine di consenso, alcune misure adottate in Cile risulterebbero del tutto inaccettabili. La nostra riforma dovrà essere in linea con le nostre tradizioni e la nostra costituzione. A volte il processo sembrerà dolorosamente lento”.

Il modello cileno non è considerato incompatibile con la forma della democrazia: il problema sono i mezzi, che non verrebbero mai accettati in un paese con una tradizione democratica tanto robusta. Il dispositivo retorico che Thatcher usò per colmare questa lacuna e rifilare agli inglesi una politica economica non molto diversa da quella di Pinochet è oggi uno degli slogan più famosi della storia: There is no alternative”. La retorica dell’inevitabilità è spesso usata a complemento dello stato di shock provocato dalle catastrofi quando persiste la necessità di giustificarsi di fronte a una platea abituata alla democrazia. Proprio come diceva Friedman: il politicamente impossibile, ciò che sarebbe stato impensabile attuare in circostanze normali, diventa col pretesto di una situazione eccezionale il politicamente inevitabile.

“Inevitabile” è tra le parole che ricorrono più spesso nei dibattiti sul Green Pass: si tratta per molti dell’unica soluzione percorribile per mantenere questa fase della pandemia entro limiti gestibili. Soluzione che nessuno avrebbe accettato in condizioni normali, per almeno tre motivi.

Primo, si tratta di una discriminazione di fatto, basata su una scelta che la legge dice essere libera: non solo una fetta più che consistente della popolazione (ad oggi, quasi il 40%) viene esclusa da gran parte dei luoghi pubblici, ma, con una politica comunicativa i cui responsabili sarebbero imputabili di incitamento all’odio, si crea deliberatamente un clima di caccia alle streghe verso i non vaccinati (senza bisogno di scomodare la Shoah suscitando l’indignazione dei più, il precedente storico più prossimo sarebbe forse quello del maccartismo: la designazione e la persecuzione di una categoria pericolosa, forse comprensibile nel suo contesto – in ambito di guerra fredda, avere dei comunisti in casa propria poteva davvero esser pericoloso – ma ricordata oggi come una delle peggiori isterie di massa della storia recente).

Secondo, non sono solo i non-vaccinati a essere colpiti dalla misura: per accedere a luoghi pubblici, chiunque dovrà palesare la propria identità. Ristoratori, responsabili di musei e gestori di palestre vengono forzosamente trasformati in funzionari statali, non pagati e senza qualifica, rendendo il potere sempre più capillare; e soprattutto, si fa così passare come naturale la massima approssimazione alla società del controllo perfetto, spingendo la popolazione a una rinuncia quasi totale a un diritto alla privacy che, in una società basata sull’informazione, costituisce un autentico mezzo di resistenza al potere.

Infine, il Green Pass consiste per molte categorie in un obbligo di fatto a sottoporsi a un vaccino i cui rischi a lungo termine sono ignoti – e la campagna comunicativa in favore della vaccinazione sta puntando soprattutto su quelle fasce di popolazione che statisticamente, per motivi d’età, non rischierebbero quasi nulla dall’infezione (“it’s always the old to lead us to the wars, it’s always the young to fall”, si cantava sessant’anni fa). Tutto questo senza che alcuna parte politica voglia assumersi la responsabilità di eventuali problemi futuri, continuando a far firmare consensi informati che sgravano il potere di ogni conseguenza.

Emarginare chi – a ragione o a torto – si sottrae ai dettami del governo, far percepire come normale un crescente controllo sulla popolazione, rendere illocalizzabile la responsabilità politica. Se i casi studiati da Klein si concretizzavano in “raid orchestrati contro la sfera pubblica”, la gestione della pandemia pare orientarsi non a una soppressione del pubblico, ma a un suo mantenimento in essere, salvo interdirlo a chi non si attenga alla linea governativa. Si tratta di un’appropriazione del pubblico da parte del politico, un politico sempre più difficile da vedere, e che, più che collaborare con la medicina, se ne appropria al fine di assumere il volto della scientificità – il volto dell’inevitabile.

Sarebbe ingenuo pensare che questo possa restare un caso isolato. Anzitutto perché è improbabile che gli effetti delle misure prese in questi mesi cessino insieme allo stato d’emergenza – come ricordano Agamben e Cacciari, la Cina ha già espresso l’intenzione di mantenere le misure di tracciamento anche dopo la fine della fase d’emergenza, e non è impossibile che le future manovre dei governi europei stiano a quelle cinesi come l’Inghilterra di Thatcher è stata al Cile di Pinochet (dopotutto, la situazione attuale mostra come i più, ammaestrati dallo shock, non avrebbero difficoltà ad accettare qualcosa di simile, purché gli venga presentata nelle vesti mitigate e ineluttabili dell’inevitabile). Ma è un altro il motivo più determinante. Ursula von der Leyen ha definito l’epoca in cui stiamo entrando come l’“era delle pandemie”, e i presupposti ci sono tutti, col nostro sistema globalizzato in cui il più insulso dei virus ha la possibilità di viaggiare, moltiplicarsi, mutare, e tramutarsi in un disastro globale. Sarebbe però meglio generalizzare: siamo ormai entrati nell’epoca delle catastrofi. L’interconnessione delle strutture politiche ed economiche rende ogni sbilanciamento in qualche angolo del mondo la potenziale scintilla di una crisi mondiale. Il cambiamento climatico risulta in disastri sempre più frequenti, lo sfruttamento di risorse esauribili si concretizza in guerre per assumerne il controllo, che generano a loro volta ritorsioni terroristiche e risposte a catena.

Rispetto al complottismo di chi pensa di scorgere dietro la pandemia qualche congiura globale – complottismo su cui l’odierna campagna comunicativa sta magnificamente appiattendo chiunque faccia lo sforzo di porsi qualche domanda di troppo – la verità è insieme meno sinistra e più pericolosa. È verissimo che, permettendo al potere di scavalcare la legge a causa di una crisi, si incita il potere a creare una crisi per poter scavalcare la legge, trasformando l’emergenza da una situazione provvisoria in un metodo permanente di governo. Il punto è che, probabilmente, verrà meno la necessità di tale creazione. Approfittando ancora delle parole di Naomi Klein:

“Date le temperature bollenti, sia climatiche sia politiche, i futuri disastri non avranno bisogno di cospirazioni segrete. Tutto laccia pensare che, se le cose restano come sono ora, i disastri continueranno a presentarsi con intensità sempre più feroce”.

Abbiamo posto le condizioni perché normalità e crisi, quotidiano e catastrofico vengano a coincidere sempre più.

Abbiamo, di conseguenza, creato le condizioni che permetterebbero di travestire da “inevitabile” qualunque provvedimento politico. L’inevitabile sarà la forma normale dell’arbitrarietà politica nell’era delle catastrofi. Per questo è soprattutto l’inevitabile che servirà identificare e smascherare, è contro l’inevitabile che servirà resistere e lottare. A costo di combattere contro ciò che dà forza a questa pretesa di inevitabilità, sia pure la scienza o la medicina – o piuttosto, con lo sforzo di ricondurre entrambe a una consapevolezza critica che le potrebbe sottrarre a un ruolo tutt’altro che scientifico di giustificazione del potere.

FONTE: https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/societa/retorica-inevitabile-virus/

La fattoria dei sorci

05 agosto, 2021

Even with the best intentions of making heaven on earth
it only succeeds in making it a hell –
that hell which man alone prepares for his fellow-men.

(K. Popper)

***

C’è solo una parola per descrivere ciò che sta accadendo in questi giorni: cattiveria. Un’ondata di cattiveria che monta dai tempi della reclusione sanitaria e oggi prorompe contro chi, rifiutandosi di ricevere un’iniezione nel braccio, spezza la continuità di un comando che non tollera circostanze, identità, pensieri. Mai si era conosciuta una tale ferocia, mai come ora sembra accompagnarci «quell’essere senza occhi seduto al tavolo di fronte [che] se l’era bevuta con l’entusiasmo del fanatico e avrebbe snidato, denunciato e vaporizzato come una furia chiunque avesse» messo in dubbio l’aritmetica di regime (G. Orwell, 1984). Solo nelle ultime ore un famoso professore di medicina ha salutato l’idea «che senza green pass si sta chiusi in casa come sorci», un’altrettanto famosa veterinaria ha proposto di far pagare ai «no vax» (che non sono più i critici delle vaccinazioni, ma chiunque esprima dubbi su un determinato vaccino, per qualsiasi motivo) la degenza negli ospedali pubblici, un conduttore radiofonico ha suggerito che i fattorini sputino nel cibo destinato ai non vaccinati, l’ex presidente della Consob di aumentar loro le tasse del 5%, la direttrice generale di Confindustria di privarli del lavoro e dello stipendio. Sui social network alcuni operatori sanitari parlano di lager, camere a gas e altri metodi di tortura e soppressione fisica dei renitenti. È una gara al massacro, un vulcano di idee per rendere la vita degli altri – di chi cioè osa essere altro – un inferno.

Perché tanta cattiveria? Innanzitutto perché si tratta di una cattiveria istituzionale, che non si alimenta cioè da sé e che anzi morirebbe nel volgere di pochi giorni se sul suo fuoco non soffiassero proprio i custodi della decenza e della pace sociale. I grandi mezzi di informazione forgiano il bersaglio: a chi si defila va data la «caccia» come agli evasi o alle bestie, è un minorato da mettere sotto tutela o anche un «vigliacco» e un «disertore» che, chiosa disinvoltamente un altro professore, «a suo tempo veniva fucilato sul posto». In America «la pazienza di chi si è vaccinato è finita», ammonisce un giornale. Tracciato il solco, le autorità ci si infilano e lo ripassano prima con le parole e poi con gli atti. Secondo il nostro Presidente del Consiglio chi non si vaccina si ammala e muore e, ammalandosi, fa morire gli altri. Ma se invece chi si vaccina non muore, come può allora morire a causa di chi non lo fa? E se nei mesi di massima diffusione della profilassi quel morire è rimasto numericamente identico all’anno scorso, quando i vaccini neppure esistevano, non si sta semplificando un po’ troppo il messaggio? Non sarebbe più prudente sciogliere i dubbi espressi in Italia e all’estero prima di dare in pasto decine di milioni di persone al sospetto di omicidio colposo?

Con affermazioni di questo tenore si è accompagnata l’introduzione di una forma di apartheid estranea al nostro ordinamento e alla nostra cultura, tappa sinora ultima di un percorso inaugurato con l’esperimento del decreto Lorenzin, di subordinare il godimento di alcuni diritti alla ricezione di un farmaco, poi aggiornato con la sospensione dal lavoro e dal reddito di alcuni lavoratori resistenti alla pozione. Smaniosi di cacciare i sorci dalla casa comune i cittadini hanno accettato, anzi reclamato la demolizione di questo o quel tronco dell’edificio costituzionale eretto sui cadaveri degli antenati, resi ignari nella loro ferocia che le sue travi non ospitano le tane dei temuti roditori, ma sorreggono la vita e la dignità di tutti. Non paghi di decimare il già scarso e oberato personale sanitario da cui dipendono per curarsi, salutano l’olocausto di una lunga serie di attività economiche che danno prosperità e lavoro, i salvacondotti civili e penali a beneficio di pochi «più uguali degli altri», la reclusione stragiudiziale, la schedatura elettronica à la chinoise, la censura, la discriminazione, il mobbing, la purga accademica, la liquidazione del diritto alla riservatezza o, per i più frettolosi, dello «stato di diritto». È troppo facile prevedere che in questo incendio brucerà anche chi oggi lo ammira con gli occhi iniettati di sangue.

Politicamente, decisioni così enormi emanano da un partitone unico ammucchiato al governo come non se ne vedevano dal 1924. Parlare di democrazia rappresentativa quando tutte le forze politiche dichiarano guerra a un terzo della popolazione è roba da quarto mondo, una barzelletta che non fa neanche sorridere. Questa uniformità ha prodotto nei restanti due terzi l’illusione che l’obiettivo trascenda le bandiere ideologiche e che i sorci non meritino neanche di esprimersi nelle assemblee legislative. Da qui l’idea, imprevedibile come il Natale a dicembre, di escluderli anche dall’elettorato attivo e passivo. Si intravede un altro inedito, quello della società castale in cui milioni di paraiyar si aggirano invisibili e senza voce. Con una differenza però importante, che nella declinazione nostrana non valgono i diritti di genealogia ma le condotte e i pensieri. Lo stato di intoccabile può così estendersi a chiunque e in qualsiasi momento, secondo il canone di volta in volta fissato da chi imbocca gli ologrammi parlamentari. Il ghetto del futuro non ha muri, ma pareti mobili.

***

Molti si chiedono in queste ore come sia possibile che tutto ciò avvenga in una repubblica che si dice risorta dalle ceneri del totalitarismo, i cui giovani commemorano le persecuzioni del passato ripetendo «mai più» e si indignano rileggendo le cronache manzoniane della caccia all’untore. Che questa fiumana d’odio attraversi lo stesso Paese in cui si istituiscono commissioni speciali contro l’odio, che queste discriminazioni diventino legge mentre si impone il rispetto di ogni diversità e minoranza, che le semplificazioni più grossolane si esprimano nel nome della scienza e gli insulti più irripetibili sgorghino dalle labbra di chi predica la correttezza politica. Per capire queste contraddizioni bisogna capire il pensiero che le ha partorite, quella modernità di cui l’Occidente di oggi è il campione più sgangherato e caricaturale, e applicare al caso i suoi due cardini fondamentali: progressismo e laicismo.

Per il progressista la storia è una successione irreversibile di superamenti dove il peggio è sempre passato, il meglio di là da venire. Negli errori commessi dalle generazioni precedenti egli non cerca lezioni, ma conferme della propria superiorità, di ciò che ha saputo lasciarsi alle spalle. Quegli errori sono come il buio che prepara la luce, gli antecedenti di un racconto a lieto fine che va difeso non già dal rischio (impossibile, in premessa) che si ripetano, ma dai tentativi di mettere in discussione la loro funzione narrativa. Non si tratta più di fatti, ma di miti fondativi che bisogna cristallizzare nella loro iconicità tutti interi e senza le sfumature e i distinguo che li restituirebbero alla realtà, e quindi anche all’oggi. Per respingerli basta allora respingerne le icone: delle guerre di religione le religioni, ma non le guerre; delle persecuzioni razziali le razze, ma non le persecuzioni; dei regimi nazionalistici le nazioni, ma non i regimi; delle discriminazioni sessuali l’identità sessuale biologica, ma non le discriminazioni; del totalitarismo chi compra la grappa a Predappio, ma non chi rinnova certi metodi del suo cittadino più famoso.

Questo simbologismo portato all’estremo, in cui gli aggettivi storici diventano sostanza e i sostantivi si eclissano, è a sua volta uno dei sottoprodotti del «credo» laicista. Rifiutando il Cielo, i moderni hanno dato a Cesare anche ciò che è del Cielo e riversato nelle creazioni degli uomini il proprio bisogno di un aggancio che trascenda la finitezza delle creature. Questo sforzo così evidentemente assurdo e paradossale, in cui l’Apostolo vedeva un castigo inflitto agli empi (Rm 1,25), sfregia non solo la divinità ma anche gli idoli che la dovrebbero sostituire perché li ingessa in una dimensione assoluta a sé estranea e ne rende così impossibile l’evolversi. È difficile non osservare come l’atto taumaturgico con cui oggi si segna il discrimine tra perseguitanti e perseguitandi sia vissuto come un sacramento laico che purifica e spalanca le porte dell’huius mundi. Il virus è un tentatore diabolico che colpisce gli increduli e i gaudenti, la scienza che fino a ieri raccomandava il dubbio una manciata di certezze in cui «credere», gli scienziati predicatori di buoni costumi, i medici santi, martiri o eroi, i giornalisti evalgelizzatori. Mancando una prospettiva oltre la morte, la vita biologica usurpa quella eterna e la sopravvivenza coincide con la salvezza dell’anima. I precetti di chi governa sono i comandamenti che colmano il bisogno orfano di un’etica oltremondana, sicché chi li critica non è nemico dell’ordine, ma del bene. In breve, il laicista ritualizza tutto, intende tutto come un rimando ai valori senza tempo e senza compromessi di cui si è privato. Non deve allora stupire che reagisca con rabbia a ogni tentativo di restituire i suoi simboli all’incertezza e alla complessità: è la rabbia di chi si vede privato di un senso.

Fissato l’orizzonte della trascendenza nell’immanenza, tutto si gioca qui e ora, non esiste un altrove dove si faranno i conti. La credenza laica e progressista di poter realizzare il «paradiso in terra» (Christopher Lasch) produce per simmetria il bisogno di preparare anche l’inferno per chi si sfila dalla marcia gloriosa. Per costoro non esiste un castigo abbastanza severo, vanno soppressi possibilmente soffrendo per fissare un esempio e sgomberare per sempre l’immaginata via delle sorti magnifiche. Questa escatologia anticipata è la premessa di tutti gli stermini perpetrati nel nome del progresso. Nel vangelo di Matteo è raffigurata dalla tentazione dei servi sciocchi di estirpare la zizzania prima della mietitura, rovinando così il raccolto, le piante buone con le piante cattive, e di fare un deserto dove si è tutti sorci. Senza distinzioni.

FONTE: http://ilpedante.org/post/la-fattoria-dei-sorci

 

 

 

DAISY OSAKUE E IL BUONISMO NEOMACCARTISTA

Tonio de Pascali 1 08 2021

Daisy Osakue è l’atleta italiana di colore finalista del lancio del disco. Su di lei s’è subito buttata la melensa e retorica Stampa di Regime ricordando come l’atleta giunga al successo dopo il vile attentato razzista che la colpì nell’estate del 2018 .
Stampa di Regime non solo ma  Stampa colpevolmente ciuccia ed in malafede.
Nell’estate del 2018, era come in questi giorni, la ragazza fu colpita all’occhio da un uovo lanciato da un’auto in corsa. Immediatamente i cani di regime iniziarono ad abbaiare: urlavano al vile attentato razzista e nazista, stigmatizzavano che la povera ragazza, dopo il lancio dell’uovo nell’occhio, aveva subìto danni alla cornea.
Lei che piangeva mostrando l’occhio ad ogni cretino con la telecamera che s’avvicinava.
Poi la vertà venne a galla.
A lanciarle l’uovo dall’auto erano stati quattro ragazzotti del posto con un’azione teppistica che nulla aveva a che fare con il razzismo. Solo uno scherzo che avevano fatto a tanti.
Ma al danno si aggiunse la beffa: il papà del ragazzo che guidava l’auto era il segretario della locale sezione Pd, candidato sindaco Pd di Vinovo, Comune del Torinese di oltre 20mila abitanti, sconfitto dal candidato del centro-dx.
Appena si seppe tutto la ragazza scomparve dai pianti allo schermo ed i giornalisti dimenticarono  tutto.
Caccia al razzista va bene ma se il teppista è figlio del candidato sindaco Pd tutti zitti. E mosca,
Ora, sperando che la gente abbia dimenticato, la Stampa di regime torna all’attacco e Daisy ridiventa la povera ragazza di colore vittima di un vile attentato razzista.
Poverina.
FONTE: https://www.facebook.com/100015824534248/posts/1031608094043332/

 

 

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

LA PAROLA O IL SILENZIO?
AUGUSTO SINAGRA 4 08 2021
Nell’anima di ogni spirito indipendente c’è sempre una venatura anarchica, comunque non fine a sé stessa ma rivolta al bene comune. Tuttavia, sempre vindice di ingiustizia, sopraffazione e violenza.
Io non so come finirà in Italia. Ho il sospetto che si voglia provocare forse inconsapevolmente ma irresponsabilmente qualcosa di inquadrabile in scenari da guerra civile.
Nessuna Istituzione si sente responsabile della volontà popolare e di quella sacra sovranità che solo al Popolo appartiene.
Il Parlamento che dovrebbe essere il rappresentante e la cinghia di trasmissione della volontà popolare in larga misura, se non rappresenta interessi lobbistici, non rappresenta più nessuno se non il miserevole interesse di percepire e normi compensi mensili in spregio del Popolo lavoratore e dei poveri.
Comincio ad avvertire il senso dell’impotenza.
Quel che ho scritto non è mai stato rivolto a provocare disordini o divisione, ma è sempre stato rivolto a provocare in ciascuno l’esercizio di un elementare senso critico per il bene comune e nel pieno rispetto di ogni libertà individuale.
Oscillo tra un senso personale di inutilità e il ricordo di figure pur molto discusse e certamente non irreprensibili, come Danton o Robespierre. Ma era la Rivoluzione.
Il senso crescente della mia irrilevanza e l’eco del grido anarchico “Compenseremo sulle barricate piombo con piombo”, mi suggerisce al momento di tacere nel silenzio del Claustro francescano dove ogni anno vado a recuperare non solo il senso della fede ma anche il senso della ragione e della vita.
FONTE: https://t.me/radiofognahttps://www.facebook.com/100070758812209/posts/116328784069082/

Covid, vaccini e green pass

FONTE: https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=4486518974699677&id=100000248554468

 

 

 

Questa volta è diverso

28 luglio, 2021

I numeri, è vero, non coincidono con la realtà. Ma conoscerli per ordine di grandezza aiuta a difendersi dalle distorsioni proprie e degli altri. Una paginetta ospitata sul sito del Governo riporta i numeri di una persecuzione del secolo scorso. Nell’Italia del 1938 gli ebrei italiani censiti erano circa 47.000, pari a poco più dello 0,1% della popolazione dell’epoca. Dopo l’introduzione delle leggi razziali circa 200 insegnanti, 400 dipendenti pubblici, 500 dipendenti privati, 150 militari e 2.500 professionisti persero l’impiego. L’interdizione alla frequenza delle scuole del Regno costrinse 200 studenti universitari, 1.000 liceali e 4.400 alunni delle scuole elementari ad abbandonare gli studi. Cinque anni dopo ebbero inizio le deportazioni. Con la stipula dell’armistizio dell’8 settembre 1943 e l’occupazione tedesca quasi 7.000 persone furono trasferite nei campi di prigionia. Solo 837 fecero ritorno.

Come ogni volta, anche questa volta è diverso. Le persecuzioni di Stato differiscono assai nei moventi, meno nelle traiettorie. Possono prendere di mira una condizione (censo, disabilità, etnia ecc.) o una scelta (orientamento politico, credo, stili di vita ecc.) che si devono perciò prima definire, istituzionalizzare, certificare. Affinché a questa fase propedeutica e discriminante ne seguano altre più violente e propriamente persecutorie occorre però soddisfare anche una seconda premessa, che cioè il gruppo-bersaglio sia minoritario. Non sarebbe altrimenti possibile colpirlo senza intaccare la struttura chiamata a rendersi complice o almeno indifferente.

Molti si chiedono in queste ore come resistere. Non credo ci sia un modo «giusto» di farlo, agisca ciascuno secondo ciò che sente e che sa, nelle piazze, nei tribunali, nelle assemblee, sui giornali, in famiglia, dal pulpito. È forza anche la varietà dei registri, la capacità di tenere aperti più fronti. Ma non serve dilungarsi sul come se non si coltivano i quanti. Non serve l’unità senza la quantità.

Ciò a cui si assiste da mesi è il tentativo in grandissima scala, senza parsimonia di mezzi e di espedienti, di creare una minoranza contro cui finalmente accanirsi. Non si aspetta altro. Ma fino ad allora la macchina indugerà nei preparativi della propaganda e dell’odio, delle blandizie e degli annunci, delle minacce e degli allarmi, del colpirne pochi per educarli tutti. Senza consenso non c’è maggioranza e senza maggioranza non c’è minoranza, non c’è il semaforo verde per scatenare la caccia.

Questa volta è davvero diverso. E occorre che continui a esserlo e che lo sia sempre di più, al costo di ogni sacrificio possibile. Non c’è altra salvaguardia, decenza politica, remora giurisprudenziale, memoria, non c’è altro diaframma. Occorre anche che di questa diversità si abbia coscienza, che non ci si creda, magari gloriandosene, solitari e accerchiati. Non servono eroi, ma una massa lorda, anonima e bovina che stacchi gli occhi dal vertice e dallo specchio dipinto, dalla magia di incatenare i rappresentati incatenandone le rappresentazioni e i rappresentanti.

I numeri sono questi, non quelli dell’altra volta. Se resteranno tali potrà forse succedere altro, forse anche di peggio, ma dovranno farlo da soli.

FONTE: http://ilpedante.org/post/questa-volta-e-diverso

 

 

 

BELPAESE DA SALVARE

Draghi chiede il sacrificio di Isacco

di Anna Lombroso

Più che l’età dell’incertezza, ormai superata grazie alle granitiche convinzioni dei pensatori, dei sacerdoti e dei decisori imperiali, questa pare essere l’età dei paradossi.

Uno di questi consiste nell’aspirazione generalizzata all’immortalità ben rappresentata dal mito dell’eterna giovinezza di levigati e tiratissimi Highlander, conquistata per via chirurgica o chimica e riservata a chi può permettersela tanto di essere indenne anche da rischi pandemici, cui però fa riscontro l’accelerazione alla crescita dei figli e nipoti, promossa addobbandoli in estrose repliche dei outfit genitoriali, favorendo faticose carriere competitive nello showbusiness o nel campetto di calcio, occupando le loro giornate con corsi, lezioni, attività sportive, in modo da non subire la frase fatidica: mamma mi annoio, cosa faccio?, allestendo fin dall’infanzia il loro futuro di ceto dirigente avido e ambizioso.

Così a ragazzini costretti precocemente ad essere adulti in competizione per assicurarsi le prerogative promesse al capitale umano, corrispondono “grandi” che si aspettano l’indulgenza dovuta agli adolescenti.

Non si sa ancora come l’incidente della storia interverrà su queste relazioni messe alla prova da distanziamenti, isolamento, coabitazione coatta, smartworking e Dad.

Ma c’è da sperare che i genitori di tutti i ragazzi che hanno più di 12 anni, leggendo le misure forse non “obbligatorie”, ma fortemente raccomandate, all’origine del Green Pass, riacquistino il necessario senso di responsabilità difendendo i figli da una costrizione indiretta ma incontrastabile, se le licenze ammesse dal lasciapassare prevedono che il salvacondotto debba essere esibito già dai tredicenni per accedere a eventi sportivi, fiere, congressi, musei, parchi tematici e di divertimento, centri termali, sale bingo e casinò, teatri, cinema, concerti, per sedersi ai tavoli al chiuso di bar e ristoranti e a piscine, palestre, sport di squadra, centri benessere, limitatamente alle attività al chiuso, pena essere legati fuori alla catena prevista per il migliore amico dell’uomo.

Tanti si sono sottoposti al vaccino specificamente caldeggiato per gli anziani, dopo aver compiuto una valutazione del rapporto tra rischi e benefici, contando sul fatto che gli effetti indesiderabili si possano verificare dopo anni e che, in considerazione del fatto che dopo un anno e mezzo non esiste un vero e proprio protocollo terapeutico per la cura del Covid, toccava prestarsi a una sperimentazione i cui effetti avversi potevano presentarsi quando il prodotto aveva avuto successo e il paziente era già morto.

Ma ora si costringono alla vaccinazione ragazzini che, a detta di una vasta platea di clinici, non subiscono danno dal Covid, che qualora si manifesti è in forma lieve e senza conseguenze, con un vaccino genomico sperimentale di cui non si conoscono gli effetti avversi sul medio e lungo periodo.

Ma ora si vogliono persuadere i genitori a una decisione dalle ricadute imprevedibili per proteggere adulti e anziani che sono già stati sottoposti alla vaccinazione e che quindi dovrebbero essere “protetti” e al riparo.

Ma ora ci vogliono convincere della bontà di una esistenza medicalizzata, di una salute conservata a patto di essere eterni potenziali malati che si aggiudicano l’immortalità promessa dal progresso grazie al ripetersi di somministrazioni, al reiterarsi di altri rischi resi necessari dal contrasto imperfetto di quello originario.

Anche misurando in un’infima percentuale le vittime di reazioni avverse nell’immediato – sugli anni a venire è arduo fare ipotesi- si vuole davvero correre il rischio che sia il proprio figlio o nipote quello zero per cento sfortunato?

Non è un paradosso che per la prima volta nella storia dell’umanità, si metta a repentaglio la salute e la vita delle giovani generazioni per proteggere quelle più anziane che a sentire la comunità scientifica autorizzata a comunicare all’unisono con le autorità politiche e militari, sarebbero già tutelate dai vaccini?

Dal primo giorno sono restia a impiegare le figure retoriche in auge presso i disobbedienti che parlano di dittatura sanitaria alla pari con i sostenitori delle misure governative che applicano le antiche procedure tiranniche per via dell’emergenza sanitaria: da anni subiamo le conseguenza di un totalitarismo che ha impiegato una crisi economica per convertirla in apocalisse sociale, da gestire con pratiche eccezionali, leggi speciali, in nome di una necessaria austerità che condannava alla rinuncia di diritti e garanzie, al sacrificio di gran parte dei benefici conquistati con le lotte dei lavoratori per assicurarsi il minimo sindacale di assistenza, cura, servizi e previdenza.

Da anni veniamo persuasi dell’ineluttabilità del sacrificio per meritarci la sicurezza, del bene della precarietà per conservarci un reddito, dell’abiura della dignità per tenerci il posto.

Ma non è chiedere troppo prestarsi al sacrificio biblico dei propri figli per andare in pizzeria, per mandarlo a fare ginnastica in palestra, per portarlo al museo di storia naturale, per andare in vacanza? perché ormai il messaggio del presidente, che ha voluto mostrarci il suo sorprendente istinto istrionico regalandoci una performance nei panni di un Savonarola e di un piagnone bigotto e ricattatore che esige l’obolo, ha perso gran parte del suo contenuto morale per arrivare al cuore dei possessori di seconde case, a chi si lamenta perché ha pagato un anno di fitness anticipato e adesso pretende zumba e pilates, a vuole mangiarsi i canederli dentro alle confortevoli salette di una baita cortinese.

Chissà se chi ha rinunciato tante volte e ben prima del Covid al rispetto di se stesso, sarà capace di rispettare e far rispettare i suoi figli.

FONTE: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/20885-anna-lombroso-draghi-chiede-il-sacrificio-di-isacco.html

 

 

Religione dei vaccini

Giovanni Preziosa 5 08 2021

Non sono né  virologo ne no vax, premessa per un piccolo punto sulla nuova ideologia , anzi “religione” dei vaccini, citando solo dati certi.
1) questi farmaci( che non possono definirsi vaccini) sono ancora nella fase sperimentale 3, quella che prevede la sperimentazione sull’uomo, infatti nel 2023 le big farma, dovrebbero consegnare le documentazioni, ad oggi mancanti, in base alle quali potrebbero ricevere le autorizzazioni definitive.
( ma già la Pfizer ha comunicato che non potrà’ più fare valutazioni sulla efficacia avendo “perso”, perché alla fine si sono vaccinati tutti, il gruppo di cavie cui era stato somministrato un “placebo” , quindi nessun raffronto tra gruppo di vaccinati e non.
2) questi farmaci, quindi, sono stati autorizzati provvisoriamente alla luce della “emergenza sanitaria”,  a metà insomma del loro percorso di studio naturale.
3) questi farmaci (vaccini) è ormai dato certo ( lo dice persino il più talebano dei virologi, Galli) NON rendono immuni dalla infezione cioè ci si contagia e si contagia gli altri, e (Fauci) almeno per la variante Delta la carica virale dei vaccinati è identica a quella dei non vaccinati.
4) proprio perché non rendono “immuni” non servono a bloccare la circolazione del virus e, sempre Galli & soci , non porteranno mai alla cd immunità di gregge.
5) che però questi farmaci, nonostante non rendano immuni continuano, stranamente, ad essere nella informazione “politicamente corretta” dominante ma lontana dalla realtà scientifica ad essere definiti “solidali” e indispensabili per l’eliminazione del virus, non solo ma questa visione solidale del farmaco viene posta alla base della campagna di odio e alle limitazioni aberranti delle libertà fondamentali dei non vaccinati.
6) in tutto questo tempo a tempo di record si sono spesi miliardi per i cd vaccini e invece ne tempo ne danaro si è speso per la ricerca, più semplice, delle cure della malattia del covid 19, anzi a tal proposito il pensiero mi corre al “divieto di autopsie” della prima ondata.
7) questi farmaci,certo riducono singolarmente la possibilità se contagiati di incorrere in esiti letali o molto gravi, ma nessuno per stessa ammissione delle case farmaceutiche produttrici, conosce gli effetti negativi nel medio lungo periodo e le reazioni avverse conosciute sono solo quelle segnalate nell’immediato, è così impossibile compiere una valutazione “ costi/benefici” che deponga a favore o contro i farmaci in questione, e ciò nonostante si vuole, anzi si inoculano anche i ragazzi, i bambini ed i giovani che proprio per per la loro età (che li rende peraltro assolutamente non a rischio di malattia grave),  di una valutazione di sicurezza di lungo periodo avrebbero bisogno.
Molto altro ci sarebbe da dire, sospettare, indignarsi o protestare ma sarebbero solo “opinioni” personali, quelli invece su descritti sono fatti incontestabili facilmente verificabili solo rileggendo dichiarazioni ufficiali o interviste di medici delle istituzioni, insomma il pensiero dominante e consacrato, nessuno stregone o no vax.
Ognuno tragga le conclusioni che vuole ma utilizzando il suo pensiero critico  e non l’adesione fideistica alla propaganda di regime, riprendiamoci la libera scelta qualunque essa sia.
FONTE: https://www.facebook.com/groups/209056506174846/permalink/1248801088867044/

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

L’esercito polacco sotto il protettorato tedesco-statunitense

L’esercito tedesco allestisce a Rostock il quartier generale della Nato incaricato di coordinare un’eventuale guerra navale contro la Russia (foto), nonché il quartier generale congiunto delle flotte tedesca e polacca.

La Polonia, che ha una costa sul Mar Baltico, ha affidato alla Germania la gestione della propria marina.

La tedesca ThyssenKrupp Marine Systems dovrebbe vendere tre nuovi sottomarini alla Polonia per un valore di circa 2,4 miliardi di euro. Tuttavia, le regole di gara europee obbligano Varsavia a prendere in considerazione le proposte francesi (Naval Group, ex-DCNS) e svedesi (Kockums, sussidiaria di Saab).

Nel 2002, grazie alla consulenza dell’avvocato Christine Lagarde dello studio Baker & McKenzie, la Polonia ha interrotto le trattative con Airbus e Dassault a favore di Boeing e Lockheed-Martin. I fondi europei concessi per elevare l’agricoltura polacca al livello dell’Unione europea erano stati utilizzati per l’acquisto di aerei e per pagare il contingente polacco per l’operazione statunitense contro l’Iraq.

Alla fine del 2016, l’esercito polacco ha interrotto improvvisamente le trattative con gli elicotteri Airbus per l’acquisto di 50 Caracal. Ha poi favorito la Boeing degli Stati Uniti. Considerando l’offerta truccata, Airbus aveva portato la questione all’Istituto di Arbitrato della Camera di Commercio di Stoccolma.

FONTE: https://www.voltairenet.org/article199977.html

DOPPIO AVVERTIMENTO A ISRAELE

Minacce da Iran e Hezbollah, che si dicono pronti alla guerra

Il cerchio attorno a Israele si stringe sempre più, e la regione del Medio Oriente inizia a sentire il fiato sul collo. In principio furono gli scambi molto poco pacifici, dato che si parla di razzi, con Hezbollah dal sud del Libano. Successivamente un viaggio a Teheran del vice-capo dell’organizzazione libanese di corrente sciita per tirare le somme assieme a Hossein Salami, leader dei Guardiani della Rivoluzione. In ultimo il doppio avvertimento pervenuto allo stato di religione ebraica: sia Salami sia Hassan Nasrallah, comandante di Hezbollah, si sono dichiaranti pronti ad una guerra. Dal canto suo Naftali Bennet, premier israeliano, ammonisce che “Israele non accetta che si spari contro il suo territorio, lo stato del Libano e l’esercito libanese devono assumersi la responsabilità di ciò che sta accadendo nel loro cortile di casa. Per noi è meno importante che si tratti di un gruppo palestinese o di ribelli indipendenti”. Dalle sue parole traspare poi alquanto chiaro un attacco diretto contro Iran e Hezbollah: “Nella grave crisi economica e politica che sta attraversando il Libano coinvolgono molti civili in un fronte comune contro Israele”.

Tutto questo proprio mentre “si nota un risveglio importante da parte di molti cittadini libanesi contro Hezbollah e contro le ingerenze iraniane”, afferma Bennet. Il leader dei Guardiani della Rivoluzione dell’Iran Hossein Salami ha ricevuto il generale di Hezbollah Naim Qassem e conferito con lui, lanciando un avvertimento cristallino: “Basta che Israele faccia un errore e sarà la loro morte”, con tanto di “l’Iran ha le capacità per annientare Israele”. Patti chiari amicizia lunga, praticamente. O, meglio, stato avvisato mezzo salvato.

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Durante il meeting con in comandante in pectore dei Pasdaran, Hossein ha tessuto le lodi del movimento libanese, complimentandosi per la loro intelligenza e capacità strategica: “L’enorme potere di Hezbollah nelle battaglie di terra ha dimostrato che se il motore di Hezbollah si accende, i sionisti dovranno fuggire dai territori occupati” ha commentato. Hassan Nasrallah, numero uno del “Partito di Dio”, ha ottenuto il sostegno di Teheran e ha rivendicato in un discorso televisivo i razzi lanciati contro Israele: “Non vogliamo la guerra ma siamo anche pronti per ogni guerra futura e saremo vittoriosi” avverte. “Tutte le conquiste della guerra del 2006 sono state conservate e confermate dai combattenti di Gaza nel maggio 2021, il più importante successo della guerra del 2006 è stato raggiungere una deterrenza contro Israele, questo è il strategico e storico più importante”.

Francesco Bulzis

FONTE: https://www.internationalwebpost.org/contents/DOPPIO_AVVERTIMENTO_A_ISRAELE_22778.html#.YRNlTYgzbIU

 

 

 

CULTURA

In calesse con Calasso. Elogio di uno gnostico snob

Calasso è morto, viva l’Adelphi. La casa editrice, fondata da Luciano Foà e da Roberto Olivetti insieme a Bobi Bazlen, è stata il suo autentico capolavoro. Nato nel 1941, aveva 21 anni quando Bazlen lo coinvolga nella creazione della casa editrice. “Andai a Bracciano dove stava Roberto Bazlen con Liuba Blumenthal, la famosa Liuba della poesia di Montale, e lì lui mi disse: «Sta per cominciare una casa editrice dove finalmente potranno uscire i libri che ci piacciono», e mi mise in mano i primi libri da leggere, come accade in qualsiasi casa editrice, dove si vagliano centinaia di libri. Poi conobbi Luciano Foà, Claudio Rugafiori, Sergio Solmi, Giorgio Colli, persone essenziali all’inizio della casa editrice”. Cinquant’anni fa Calasso è diventato direttore editoriale di quella casa editrice, Adelphi: i romanzi – i suoi – li pubblicava per la sua casa editrice. Franco Battiato ricorda, in una intervista, i suoi anni milanesi. “Ero un ragazzo alle prime armi. Gaber si prese cura di me. Ci siamo divertiti da pazzi nelle balere dell’hinterland. Giocavamo a poker io, lui, Ombretta Colli, Roberto Calasso e Fleur Jaggy”. Sembra la trama di una canzone paradossale di Battiato, che ora, chissà, riprenderà a giocare a poker con Calasso.

Calasso, l’Unico

Troppi ricordano l’affinità tra Roberto Calasso e Franz Kafka. Banalità quadrupla. Su Kafka Calasso ha scritto un libro – non il più bello – K. (2002), di Kafka ha curato gli Aforismi di Zürau (2004): come di consueto, entrambi i libri sono usciti per la sua casa editrice, Adelphi. In verità, intorno a Kafka è meglio leggere altro (Elias Canetti, ad esempio). Piuttosto, la vera coincidenza è tra Calasso e Max Stirner, autore de L’unico e la sua proprietà. La copertina dell’edizione Adelphi del “libro più scandaloso della filosofia moderna” ricorda (con caratteri potenti) che è accompagnato da “un saggio di Roberto Calasso”. Tra l’altro, Calasso scrive: “Già pochi anni dopo la pubblicazione si parlava dell’Unico come di un libro ‘famigerato’ (F.A. Lange, Geschichte des Materialismus, Iserlohn, 1866, p.292; il giudizio appare poi acquisito, così leggeremo: ‘L’unico, libro famoso o per meglio dire famigerato’, in W.Ed. Biermann, Anarchismus und Kommunismus, Leipzig, 1906, p.52). Tale in certo modo è rimasto: come cercheremmo invano nelle storie letterarie esaurienti trattazioni su alcuni grandi testi pornografici, così non troveremmo nulla di adeguato su Stirner nelle storie della filosofia. Eppure, L’unico ha avuto, e ha, numerosissimi lettori, sparsi in ogni parte del mondo, disparati per livello, qualità, cultura, intenzioni. I più fedeli, quelli che costantemente hanno sentito l’attrazione di Stirner, sono gli autodidatti e i farneticanti. Più incerti i professori, che sembrano paventare una caduta del loro rango, a occuparsi di Stirner”.

Cavalleri, l’anti-Calasso

Con costante pazienza, Cesare Cavalleri, direttore di “Studi Cattolici” e delle Edizioni Ares, ha smontato i giochi gnostichi che stanno alla foce dei romanzi di Calasso, nient’altro che “calchi… simulacri di simulacri” (così una stroncatura del 1989, scritta intorno al celebratissimo Le nozze di Cadmo e Armonia). Nel 2017, sulle colonne di “Avvenire”, Cavalleri stronca L’innominabile attuale (come sempre Adelphi): si tratta delle star wars dell’editoria e del pensiero, per questo, per il lettore, la lotta procura godimento. Qui uno stralcio da quella stroncatura: “Il titolo del nuovo libro di Roberto Calasso, L’innominabile attuale, è un’autocitazione da La rovina di Kasch (1983) dove figurava a p. 318, preceduto e seguito da spazi bianchi. Nel nuovo libro è come in esergo, preceduto da una quasi spiegazione: «La sensazione più precisa e più acuta, per chi vive in questo momento, è di non sapere dove ogni giorno sta mettendo i piedi. Il terreno è friabile, le linee si sdoppiano, i tessuti si sfilacciano, le prospettive oscillano. Allora si avverte con maggiore evidenza che ci si trova nell’“innominabile attuale”». Per come conosciamo Calasso dai suoi libri, questa sensazione dovrebbe fargli piacere, essendo egli, con Léon Bloy – suo autore di riferimento –, auspice di una dissoluzione (culturale e sociale) che faciliterebbe l’irruzione di un’Età dello Spirito che potrebbe anche essere l’avvento dell’Anticristo. Invece quell’esergo, tutto in corsivo, sembra esprimere un disagio: forse Calasso si è accorto di essersi spinto troppo in là, e concede al lettore un accenno di autocritica?… Calasso prende le distanze dal secolarismo, anzi, irride l’homo secularis, «raffinato e complicato prodotto dell’evoluzione e della storia. Ma ciò non vuol dire che sappia chi è né cos’è il mondo davanti a lui». Ed è sarcastico con chi si riconosce nell’acrostico SBNR (Spiritual but not religius; spirituale ma non religioso): come si può essere spirituali prescindendo dal religioso? Lo stile di Calasso è molto affascinante e non procede per argomentazioni logiche o filosofiche: è un mosaico di citazioni coltissime, debitamente virgolettate, elencate come “Fonti” nelle note: si va da Nietzsche all’amato Burckhardt, a Simone Weil, a Leibniz, Céline, Malebranche, Benjamin, Brasillach, Vassiltchikov, con sopravvalutazione (o disprezzo) del lettore che ben difficilmente andrà a controllare gli originali. Insomma, la scrittura di Calasso è all’insegna dell’ambiguità, perché non si capisce mai bene fino a che punto Calasso condivide le sue devote citazioni. Recensendo La rovina di Kasch sulla “London Rewiew of Books” il 26 gennaio 1995, Malcom Bull così concludeva: «Forse il brivido che si prova alla lettura non è tanto quello di una storia poliziesca, quanto di un romanzo del genere horror: alla fine ci si rende deliziosamente conto che ciò che il tuo affascinante ma elusivo compagno vuole è affondare i suoi denti nel tuo collo». Non si potrebbe dir meglio, e vale anche per L’innominabile attuale”.

Calasseidi: una vita a scrivere “quarte”. Antologia spiccia

Sant’Ignazio di Loyola, Il racconto del pellegrino. “Come in altre grandi autobiografie religiose, ci viene così presentata l’immagine di una esistenza spezzata in un prima e in un dopo incommensurabili e discontinui”.

Christopher Marlowe, Teatro completo. “Ci siamo andati ravvicinando sempre più all’opera di Marlowe. E ce n’è ragione: troppe componenti, in quel repertorio dell’incandescenza e dell’eccesso, corrispondono ad altrettanti punti scoperti e affini del nostro presente… In questo grande poeta, dotto e speculativo, agiva una furiosa carica arcaica; il fasto del suo verso si presenta come uno sfrenato sacrificio, una autocombustione delle parole, uno sperpero propiziatorio; la sua enfasi è preistorica e cerimoniale”.

Jirí Langer, Le nove porte“Personaggi favolosi e bizzarri che celebrano la gloria dei loro cenci, questi dotti amano spesso presentarsi come uomini rozzi, sconcertano i giovani discepoli con aforismi, apologhi, gesti sorprendenti. La loro vita è assorbita nel contatto continuo con le gerarchie divine: il cielo chassidico… non è, infatti, un al di là indefinitamente allontanato, ma, al contrario, un luogo familiare, attraverso cui ogni azione e ogni parola si apre la strada verso il divino”.

Matthew P. Shiel, La nube purpurea“Immaginate un Robinson Crusoe che abbia per scena, invece di un’isola sperduta, il mondo intero; in cui il protagonista, invece di sperimentare tutte le risorse del raziocinio, passi per tutti i deliri di una solitudine allucinante, affollata di cadaveri e di relitti…”.

Antonin Artaud, Eliogabalo. “Imperatore-dio a quattordici anni, ucciso e gettato nelle fogne a diciotto, sacerdote e depravato, amministratore consapevole della disgregazione e dell’anarchia in seno all’ordine politico più grandioso che il mondo classico abbia creato, tutto ciò che sappiamo della sua vita si presenta già di per sé sotto il segno della esasperazione di tutti i contrasti, una biografia fatta solo di eccessi. Questi elementi e altri ancora… divennero per Artaud un formidabile reagente in un momento insidioso della sua vita, gli anni 1933-34, già pieni di quella radicale insofferenza per il mondo dell’epoca che poi si sarebbe sempre più dichiarata in lui”.

La citazione dissidente 

Adelphi è un’aura spirituale esclusiva e ineludibile posta a guardia di lettori che nel piacere della lettura cerchino una salvezza in questo e in altri mondi; lettori che più che di conoscenza accumulabile siano affamati di qualche patria perduta.

Guido Ceronetti, “La Stampa”, 10 marzo 2013

FONTE: L’Intellettuale Dissidente lintellettualedissidente@gmail.com6 agosto 2021, 14:07

Oggetto: Dissipatio #35. In calesse con Calasso. Elogio di uno gnostico snob 

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

Serpeggia la paura

Ricevo e giro:

Paolo Mieli ieri sera sulla 7 a un certo punto interrompe tutti e dice: “la convinzione sul vc che tutti voi sbandierate pubblicamente è molto superiore a quella che esprimete in privato, ammettetelo. Anche voi avete parecchi dubbi. Diciamoci la verità, in privato, alle nostre cene tra amici emergono molti dubbi, non c’è tutta questa convinzione”. Panico in studio.

La De Gregorio va in confusione e inizia a dire che lei per carità conosce moltissime persone intelligenti e acculturate che non si vogliono inoculare e che con queste persone bisogna dialogare. Mieli la corregge: si deve dire obbiettori, non no vax. Per qualche minuto all’osservatore attento si è mostrata la quinta del truman show.
B.R.

Si sono fatte ipotesi complottiste su questa uscita di Paolo Mieli: chissà quale strategia c’è dietro. Secondo me, un esponente così in alto nel grado dei padroni del discorso pubblico, ha ovviamente qualche grado di libertà che non spetta ai Parenzo e alla Conchita; e sta esprimendo paura.

Paura privatissima per la propria vita e quella dei propri cari. La paura serpeggia nel loro ambiente mediatico obbligato – a scanso di licenziamento – a cantare le lodi dell’innocuità dei mRNA.

Ormai persino Repubblica ammette che ci sono gli effetti avversi.

Sono state 84.322 le segnalazioni arrivate dal 27 dicembre 2020 al 26 luglio 2021 su un totale di 65.926.591 dosi somministrate di cui l’87,1%logo-rep

https://www.repubblica.it/cronaca/2021/08/04/news/report_aifa_sui_vaccini_16_eventi_gravi_ogni_100_mila_dosi-312959953/

Avvenire:

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FONTE: https://www.maurizioblondet.it/serpeggia-la-paura/

 

 

 

Il Green Pass è pura e semplice sopraffazione

di Costantino Ceoldo

Dov’è Hannah Arendt quando serve? E, soprattutto, dove sono i suoi estimatori, quelli che vanno sempre in deliquio nel commentare, nel citare, nel prendere ad esempio la sua “banalità del male”?

Li vedo nelle piazze ogni 25 aprile, ogni 2 giugno e in tutte le altre feste laiche di questa nostra Repubblica delle banane. Commemorano. Discettano. Parlano. Commuovono e si commuovono. Gli alti valori della resistenza. I partigiani. L’Olocausto. Democrazia. Libertà.

Tante belle parole ma sono bastati pochi mesi di pandemia e lorsignori hanno accantonato senza ritegno tutti i bei princìpi di cui erano usi riempirsi la bocca e tediare il loro prossimo. Come era tragicamente naturale, sono stati svelti ad accantonarli in favore di un regime sanitario che giorno dopo giorno assume sempre di più un volto sinistro, disumano e crudele.

Proviamo a ricordare le cose dal principio.

All’inizio del 2020 scoppia una epidemia simil-influenzale localizzata in Cina. In breve tempo peggiora al punto da spingere Pechino a sigillare una zona con 60 milioni di abitanti. Ma in realtà è già troppo tardi: il virus si sta già spostando in altre parti del mondo.

Cosa fa il governo italiano in carica in quei giorni? Chiama razzista e fascista chi suggerisce di controllare la temperatura dei cinesi che atterrano negli aeroporti italiani, un primo e comunque fin troppo blando tentativo di prevenire i contagi. Si sentono slogan idioti: “abbraccia un cinese!”, “mangia un involtino primavera!”, “nessuna discriminazione!”. Chi di noi non ricorda il segretario del PD, Nicola Zingaretti, intento a Milano a farsi un apericena antifascio? O il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, con la sua gentile consorte, impegnato in un ristorante cinese della sua città a dimostrare tutto il suo antidiscriminante antirazzismo?

In pochi giorni, però, gli ospedali di Bergamo e Brescia diventano un carnaio di malati COVID, a dimostrazione che un virus molto infettivo se ne infischia delle preoccupazioni razziali del PD e dei suoi afecionados.

Curiosamente, Bergamo e Brescia avevano visto, pochi mesi prima dell’esplodere dell’epidemia, due enormi campagne vaccinali, contro l’influenza e la meningite ma, curiosamente ancora, nessuno prova interesse ad investigare se vi sia un nesso tra la mattanza da COVID e le vaccinazioni pregresse, un non voluto ed imprevisto effetto di sovraeposizione del sistema immunitario. Non interessa alla “Destra” come non interessa alla “Sinistra”. Anzi, è proprio la Sinistra italiana a manifestare uno slancio decisionista, facendo l’unica cosa che riesce bene ai comunisti: imporre una dittatura.

Viktor Orban chiede poteri speciali al parlamento ungherese per contenere l’epidemia. Li ottiene, ma condizionati: per pochi mesi e comunque sotto controllo di un comitato che riferisce al parlamento. È il parlamento ungherese che decide di concedere poteri speciali al presidente Orban, non Orban che se li prende sentiti i suoi compagni di merenda. E comunque li restituisce dopo pochi mesi. Il meglio del pattume giornalistico italiano però chiama Viktor Orban fascista, dittatore, lo dichiara un pericolo per l’Europa. Ma i media italiani tacciono quando il governo Conte Bis decide di imporre una gigantesca quarantena a tutta Italia e dichiara uno stato di emergenza che, in virtù dell’ultima proroga decisa dal governo di Mario Draghi, durerà fino al 31 dicembre 2021. Il parlamento italiano è consultato poche volte, di fatto quasi di malavoglia e i risultati sono scontati. Le decisioni più importanti vengono prese da pochissimi ministri, con l’aiuto di una “cabina di regia” che ad alcuni sembra davvero avere caratteristiche surreali.

Al 31 dicembre 2021 saranno quasi due anni di stato di emergenza, con possibilità di ulteriore estensione. Hitler fece proprio così: Hitler non abrogò mai la costituzione della Repubblica di Weimar ma la accantonò dichiarando, poco dopo la nomina a cancelliere avvenuta con regolari elezioni, uno stato di emergenza che durò fino alla caduta del Terzo Reich. E sappiamo tutti come è caduto.

Ora, in questo agosto soleggiato, nel mezzo di una campagna vaccinale con sieri anti-COVID sperimentali e che non possono essere imposti alla popolazione senza violare la nostra Costituzione, viene introdotto l’obbligo di un documento ufficiale per poter entrare in una palestra, sedersi al ristorante, usare mezzi pubblici. Lo si può avere solo se vaccinati o si è negativi ad un tampone COVID, risultato che comunque è valido per poche ore.

Lo hanno chiamato “Green Pass” perché “lasciapassare” faceva troppo nazista ma questa è la sua vera natura discriminatoria. È contrario al regolamento europeo che l’Italia ha sottoscritto ma la cosa non costituisce un problema per questo governo. Qualcuno già chiede di impedire ai non vaccinati di poter entrare nei supermercati. Li si vuole prendere per fame. E presumo, vista l’aria che tira, che alla fine la richiesta verrà accolta e che saranno anche puniti quei vaccinati che si offriranno di fare la spesa per coloro che non lo sono. Come quei cittadini che aiutavano a sopravvivere gli ebrei perseguitati.

Ci dicono che i non vaccinati sono un pericolo per i vaccinati, i quali possono infettarsi e infettare a loro volta, finendo perfino intubati in ospedale. Non vedo nessuna logica nell’usare un vaccino che non ti protegge realmente, che a volte ti invalida subito o ti accoppa direttamente, come in una mostruosa roulette russa e i cui effetti collaterali a lungo termine non sono noti ma che potrebbero, invece, essere tragicamente spaventosi. Non vedo nessuna logica se non la logica dei soldi che arricchiscono multinazionali farmaceutiche. Ma la logica non interessa a chi controlla le informazioni e di sicuro non interessa a chi vuole arricchirsi sulla pelle degli altri e a quelli che sognano di riscrivere la società occidentale se non addirittura quella mondiale.

Chi sono coloro che ci impongono ora il Green Pass, ipocritamente ignorando quei regolamenti europei che loro, per primi, ci tirano sempre addosso?

Sono coloro che negli ultimi 20 anni ci hanno detto che con l’euro sarebbe stato come lavorare un giorno di meno e guadagnare come se lavorassimo un giorno di più. Che la “riforma del lavoro” avrebbe creato opportunità per tutti. Che la “riforma delle pensioni” avrebbe assicurato un futuro migliore a noi e ai nostri figli. Che la “riforma della scuola” avrebbe permesso di studiare meglio. Che la “riforma della giustizia” avrebbe difeso gli innocenti e garantito una pena equa ai colpevoli. Che la “riforma della sanità” avrebbe permesso di risparmiare denaro eliminando gli sprechi e fornendo cure migliori agli ammalati. E tutto in nome del “ce lo chiede l’Europa”. Si sono visti i risultati!

L’euro ha affossato la nostra economia. I nostri lavoratori sono stati ridotti a schiavi robot di carne e sangue, meno importanti di un martello o di un cacciavite e comunque prigionieri di contratti a scadenza. La scuola è di fatto quasi esclusivamente in mano alle donne, femminizzata e incapace di offrire una visione anche virile del mondo. I programmi scolastici sono oramai ridicoli e tutto il sistema scolastico non insegna ad imparare, cosa che è tra gli scopi primari di una vera Scuola. L’età della pensione si allontana sempre di più ottenendo l’effetto paradossale che i vecchi continuano ad occupare quei posti di lavoro che i giovani non riescono ad avere e i giovani vivono sempre più spesso di sussidi e impieghi occasionali. La Sanità pubblica è stata oramai ridotta ad una mangiatoia dove ognuno vuole la sua parte per gestire le proprie clientele politiche. E la giustizia italiana… beh, si potrebbero risolvere molti problemi grazie anche alla magistratura, se la magistratura italiana, purtroppo in molti casi, non fosse in realtà parte e causa dei problemi da risolvere.

E adesso anche un lasciapassare nazista. Con il plauso di quelli che hanno sempre parlato di democrazia e libertà.

La senatrice Liliana Segre, ebrea italiana sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, non ha nulla da eccepire: per lei è una cosa normale che ci sia il Green Pass, un lasciapassare da nazisti e anzi si è adombrata, lei ed altri, per il paragone tra l’Italia di adesso e la Germania nazista che tanto si impegnò nel cercare di accopparla. Non le passa nemmeno per la testa che proprio lei, ora, potrebbe essere usata per uno scopo nascosto e infame…

Solo Giorgio Agamben ha avuto il coraggio di esporsi fin dall’anno scorso per metterci in guardia contro gli sviluppi che puntualmente si stanno realizzando. Ma quale gregge di pecore, isteriche e terrorizzate, ascolterebbe mai un vecchio filosofo che dice cose sgradevoli?

La realtà è molto semplice: molti hanno vissuto come animali da compagnia e quando si vive così il passo per diventare bestie da macello è tragicamente breve.

Allora chiedo ancora: dov’è Hannah Arendt quando serve? E dov’è quell’altra voce, quella che da Radio Londra chiamava a raccolta gli uomini forti e liberi affinché si unissero in un ineludibile superiore scopo comune?

Ai lettori che hanno avuto la pazienza di arrivare fin qui, suggerisco questo video di Vera Sharav:

VIDEO QUI: https://youtu.be/kKZmJSPiTyg

https://www.youtube.com/watch?v=kKZmJSPiTyg

La radici del male sono spesso profonde e ben nascoste, ma il ricordare è una delle nostre armi. Oltre a resistere.

Costantino Ceoldo

Pubblicato da Tommesh per Comedonchisciotte.org

FONTE: https://comedonchisciotte.org/il-green-pass-e-pura-e-semplice-sopraffazione/

 

 

 

DIRITTI UMANI

Ecco perchè non mi sottometterò

Addison Reeves
off-guardian.org

Sono solo due settimane. È solo stare ad un metro di distanza. È solo stare ad un metro e mezzo di distanza. È solo non poter uscire. È solo non poter stringere la mano. È solo lavorare da casa. Sono solo le attività non essenziali ad essere chiuse.

Sono solo i bar. Sono solo i ristoranti. Sono solo i teatri. Sono solo i concerti. È solo la danza. Sono solo gli sport indoor. È solo il non poter cantare in coro.

Sono solo servizi medici non essenziali a cui si deve rinunciare. Sono solo gli articoli non indispensabili che non si possono comprare. È solo dover rinunciare all’attività fisica. Sono solo le palestre. È solo la chiusura della tua attività per un po’. È solo non poter guadagnare per un po’. È solo non essere in grado di pagare le bollette per un po’.

È solo un piccolo inconveniente. È solo non avere il permesso di condividere l’auto con gli amici. È solo non socializzare per un po’. È solo una mascherina. È solo non viaggiare per un po’. È solo non abbracciare le persone per un po’. È solo il sesso nella posizione del missionario ad essere rischioso.

È solo non vedere la tua famiglia e i tuoi amici per un po’. È solo non poter andare a trovare i nonni per un po’. È solo un compleanno che devi sacrificare. È solo una Festa del Ringraziamento da passare in solitudine. È solo un Natale senza la tua famiglia. Sono solo due compleanni che hai dovuto sacrificare. È solo non festeggiare nessuna ricorrenza per un anno e mezzo.

È solo una cosa temporanea.

È solo una misura di sicurezza.

È solo la tua capacità di pagare in contanti.

È solo un tracciamento dei contatti.

È solo uno screening sanitario.

È solo un controllo della temperatura.

È solo una scansione del tuo viso.

È solo una piccola perdita di privacy.

È solo un semestre.

Sono solo due semestri.

È solo un anno della vita di tuo figlio.

È solo un altro semestre.

È solo la consegna di un diploma di scuola superiore.

È solo la nascita di tuo nipote che ti sei perso. È solo non poter essere lì per i tuoi parenti quando sono malati o stanno morendo. È solo non avere un funerale. È solo non poter piangere insieme ai tuoi cari. È solo non poter partecipare ad un servizio religioso. È solo non poter praticare una parte della tua religione.

È solo la disinformazione che viene censurata. Sono solo i conservatori che vengono censurati. È solo una parte della scienza che viene censurata. Sono solo le persone che hanno opinioni opposte ad essere bandite online. È solo l’opposizione che la Casa Bianca prende di mira per la censura. Sono solo le cattive opinioni che vengono censurate.

È solo l’economia. Sono solo i piccoli imprenditori che soffrono finanziariamente. Sono solo i poveri che soffrono finanziariamente. Sono solo le persone di colore che soffrono finanziariamente. È solo sofferenza finanziaria. Sono solo alcune piccole imprese che hanno dovuto chiudere definitivamente. Sono solo alcune grandi imprese che hanno chiuso.

È solo non poter andare più lontano di qualche chilometro da casa tua. È solo un coprifuoco. È solo una questione di permessi. È solo essere soli per due settimane. È solo essere socialmente isolati per un anno.

È solo un vaccino. È solo una serie di richiami. Sono solo regolari richiami ogni sei mesi. Sono solo altre due settimane. È solo un’altro lockdown. È solo una volta alla settimana – due volte al massimo – che dovrete dimostrare di essere in grado di partecipare alla società. Sono solo i non vaccinati che saranno segregati dalla società. È solo un test medico.

Abbastanza semplice, no?

Fatelo e basta, cazzo.

Ma quando si sommano tutti i “solo,” si arriva a tutta la nostra vita.

Per oltre un anno e mezzo siamo stati derubati della capacità di vivere pienamente le nostre vite, di fare scelte significative per noi stessi e di esprimere i nostri valori nel modo che riteniamo opportuno.

È “solo” l’incapacità di esprimere la nostra umanità e la negazione totale del nostro stesso io. Tutte queste misure sono servite come un divieto di esprimere all’esterno la propria valida e complessa realtà interna. Questo tipo di soppressione è una violenza alla propria anima.

Tutti questi “solo,” presumibilmente piccoli e di breve durata, ci hanno messo in una condizione di totalitarismo di cui non si riesce a vedere la fine.

A New York, in California, in Australia, dappertutto, abbiamo permesso ai governi di prendere un tale controllo sulla nostra vita quotidiana che ora dobbiamo chiedere il permesso di gestire i nostri corpi, di muoverci liberamente, di praticare la religione, di educare da soli i nostri figli, di protestare, ecc.

Presto Biden, Trudeau e gli altri leader mondiali metteranno un freno alla nostra capacità di esprimerci e di associarci online, così che non potremo più discutere, obiettare o organizzarci contro le azioni del governo. È la distruzione della democrazia.

Mi stupisce che i miei amici progressisti, gli stessi che affermano di sostenere la “giustizia sociale,” stiano accogliendo a braccia aperte una società fascista, in cui il governo schiaccia qualsiasi opposizione e gli individui non possono fare scelte che riguardano la propria vita.

Io non mi adeguerò, perché non voglio vivere in una società plasmata da una straordinaria sottomissione al governo. Non voglio essere complice delle atrocità di quest’epoca.

Che senso ha vivere se si esiste solo per obbedire all’élite, e [per di più] a proprio danno? È vivere se non si ha la possibilità di controllare la propria vita? Mi sono già sottomesso, contraddicendo ai miei stessi valori, in misura vergognosa. Si potrebbe dire: “Beh, cos’è un altro compromesso,” ma non sarà solo un altro compromesso. Sarà solo il prossimo taglio, in una lenta morte per mille tagli.

Sottomettersi convalida solo queste tiranniche dimostrazioni di potere e assicura che ce ne saranno altre in futuro.

E cosa si ottiene scendendo a compromessi? Semplicemente l’appartenenza ad una società che ti accetterà solo se ti immolerai e diventerai un mero riflesso dei desideri della classe dirigente.

Se in una società non si può essere veramente se stessi, vale la pena aggrapparsi a quella società? Io penso di no. Per quanto lasciare la stabilità della mia zona di comfort mi terrorizzi, continuare a rimanervi significa continuare a tacere e a diventare sempre più insignificante, in cambio di un falso sentimento di accettazione. In questo modo, è soprattutto una zona di disagio.

Ogni volta che esprimevo le mie paure sulla direzione futura della società, i miei amici dicevano “non succederà.” Ogni volta che succedeva, alzavano le spalle e mi ricordavano che la conformità è un’opzione.

A questo punto, se il governo mi rinchiudesse in un campo di concentramento (e non è una cosa del tutto inverosimile, visto che è già successo in passato) per essere un pericoloso dissidente, sono certo che i miei amici e la mia famiglia non farebbero una piega e direbbero che è stata colpa mia per non essermi conformato.

Non sono più capaci di riconoscere l’umanità dell’opposizione o di mettere in discussione il governo.

Non mi sottometterò perché non voglio vivere in un mondo in cui i miei presunti alleati sarebbero felici di vedermi perseguitato dal governo.

Non mi sottometterò perché il clima politico è diventato così censorio, autoritario e comunque tossico che i miei punti di vista non saranno mai rappresentati nel processo politico attuale. Senza rappresentanza, i miei valori e le mie convinzioni verranno violati in continuazione da una politica che considera come non valida ogni deviazione dalla linea ufficiale. Così, la mia conformità non mi darà alcuna garanzia di un trattamento migliore in futuro.

Non mi piegherò perché non sono un conformista.

Non mi arrenderò perché non voglio premiare la manipolazione e la coercizione del governo.

Non mi arrenderò perché potrei morire in qualsiasi momento e non voglio che i miei ultimi ricordi siano quelli di una vile sottomissione ad una tirannia da cui deriverebbero solo miseria e odio per me stesso.

Non mi adeguerò perché non è la prima volta che il governo si intromette nel mio corpo, nella mia mente e nel mio spirito e, se ci adeguiamo, non sarà sicuramente l’ultima. Tutto ciò che otterrò con la mia sottomissione sarà convalidare le pretese del governo sul mio corpo e sulla mia vita.

Non mi sottometterò perché questa è una guerra e non regalerò la vittoria al nemico.

Non mi sottometterò perché la ricompensa per la conformità sarà ancora l’essere trattato dalla società come un cittadino di seconda classe.

Non mi arrenderò perché sono un obiettore di coscienza.

Non cederò perché le misure di contenimento sono inutili e l’unico effetto pratico sarà quello di aumentare il potere del governo.

Non mi adeguerò perché non voglio essere un semplice schiavo nel mondo futuro che stanno creando, facendo solo quello che mi viene ordinato e dovendo mendicare l’accesso alle necessità basilari della vita, a cui ho diritto come essere vivente su questa terra.

Non cederò perché la loro religione non è la mia religione e mi rifiuto di adorare un falso idolo.

Non capitolerò perché non voglio tradire i miei antenati e i miei predecessori che hanno lottato per la mia libertà.

Non mi arrenderò perché la libertà è più importante della convenienza e del quieto vivere.

Non mi adeguerò perché, se lo facessi, sarei pieno di rabbia contro la società, di risentimento verso i miei amici e la mia famiglia e di un odio verso me stesso che mi mangerebbe vivo. Diventerei amaro e dal cuore chiuso, e, per me stesso, non voglio una cosa del genere.

Tutto questo è il motivo per cui “non lo farò e basta.”

Addison Reeves

Fonte: off-guardian.org
Link: https://off-guardian.org/2021/08/07/its-just-why-i-wont-submit/
07.08.2021
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

FONTE: https://comedonchisciotte.org/ecco-perche-non-mi-sottomettero/

 

 

 

ECONOMIA

“Stato di emergenza” per le materie prime: i prezzi rischiano di salire su tutta la linea

da  dwn:

I manager del settore sono molto preoccupati: l’offerta è scarsa e il prezzo è alle stelle. I consumatori devono essere preparati a prezzi più alti per prodotti molto diversi.
I preprodotti industriali come il legno, l’acciaio o la plastica sono scarsi e questo mette sotto pressione l’industria e l’artigianato. Secondo gli esperti, i prezzi, che sono già aumentati in modo significativo, continueranno a salire – non c’è fine in vista. “Magazzini vuoti, offerta limitata e domanda costantemente elevata portano a un uso eccessivo a lungo termine dei mercati delle materie prime”, afferma Danilo Zatta della società di consulenza Horváth. Il presidente della Camera di commercio e industria tedesca, Peter Adrian, parla di un “grande problema”. Una panoramica delle materie prime attualmente scarse – e risposte alla domanda su quali prodotti il ​​consumatore finale potrebbe sentire l’aumento di prezzo.

Acciaio

Per anni, l’industria siderurgica europea si è lamentata dei problemi di vendita a causa delle importazioni asiatiche a basso costo. È finita. Alla Thyssenkrupp, il più grande produttore di acciaio d’Europa, si parla di un “collo di bottiglia dell’acciaio in Europa”. Il risultato: l’acciaio è diventato significativamente più costoso. Il forte aumento dei prezzi “ha superato anche le nostre aspettative molto ottimistiche”, afferma David Varga di Bankhaus Metzler. I prezzi più alti dell’acciaio non colpiscono solo l’edilizia, l’industria automobilistica o l’ingegneria meccanica. Anche prodotti relativamente semplici come le lattine per alimenti sono diventati molto più costosi. L’Associazione federale dell’industria di trasformazione di frutta, verdura e patate (BOGK) ha recentemente lamentato un supplemento dal 30 all’80 percento per lattine e coperchi.

Anche la mancanza di imballaggi in banda stagnata, ovvero acciaio laminato sottile, non può essere esclusa nel settore. La situazione dell’offerta è complessivamente tesa, afferma Sibylle Vollmer della Metal Packaging Association. Tuttavia, i produttori potrebbero fornire le quantità concordate contrattualmente. Anche i birrifici seguono lo sviluppo con preoccupazione. Secondo il capo di Veltins, Michael Huber, ci sono strozzature nel mercato della banda stagnata, indispensabile per i tappi a corona. Veltins si era assicurata la fornitura di tappi a corona a lungo termine.

La banda stagnata per lattine non è l’unico materiale di imballaggio che è diventato più costoso. Secondo l’associazione di settore BOGK, c’è una chiara tendenza dei consumatori ad abbandonare la plastica e tornare al vetro, quindi anche i costi per le conserve e i vasetti di marmellata sono aumentati. Quindi i consumatori devono adeguarsi a prezzi più alti? La risposta dei produttori di cibo in scatola è chiara: i trasformatori di alimenti non sono stati in grado di assorbire da soli l’aumento dei costi, perché la crisi della corona aveva esaurito le loro riserve finanziarie. È quindi difficile immaginare che “gli sconvolgimenti alla fine non avranno un impatto anche sui prezzi al consumo”.

gomma da cancellare

Anche con gli pneumatici per auto, i consumatori devono essere preparati a costi più elevati, ha recentemente avvertito la Federal Association of Tire Trade and Vulcanization Crafts (BRV). Si presume che nei prossimi mesi, ad esempio quando si passa agli pneumatici invernali, ci saranno “notevoli aumenti di prezzo” in tutti i segmenti. Perché i costi per materie prime, energia e logistica sono aumentati. Il commercio specializzato di pneumatici deve “trasferire completamente gli aumenti di prezzo ai consumatori privati ​​e commerciali”, ha affermato il presidente dell’associazione, Stephan Helm.

Il costo della gomma naturale, uno dei principali materiali utilizzati nella produzione di pneumatici, è aumentato notevolmente. Il valore medio per la prima metà dell’anno è stato del 57 percento superiore all’anno precedente. E con l’aumento del prezzo del petrolio, anche le gomme sintetiche prodotte su base petrolchimica sarebbero diventate molto più costose. Inoltre, l’industria sta risentendo degli effetti dell’aumento delle tariffe di trasporto dei container nel commercio mondiale.

Una forte ripresa è iniziata anche nella produzione di gomma dopo la crisi del Corona. Se la produzione di gomma tedesca è crollata di circa il 20% nel 2020 a causa della pandemia, la produzione è rimasta al livello pre-crisi per alcuni mesi, ha riferito l’Associazione dell’industria chimica (VCI). Allo stesso tempo, la domanda è molto alta. Il VCI ritiene inoltre che i prezzi degli pneumatici potrebbero aumentare. Tuttavia, la situazione dovrebbe tornare ad attenuarsi nella seconda metà dell’anno.

Di legno

Per quanto riguarda il legno, esiste ancora una “situazione eccezionale” dovuta a interruzioni nella catena di approvvigionamento e conseguenti distorsioni del mercato, come afferma Denny Ohnesorge della Main Association of the German Timber Industry. La domanda nel settore delle costruzioni è elevata sia a livello nazionale che all’estero, con grandi quantità destinate agli Stati Uniti. Corona ha anche stimolato la domanda nel settore del “fai da te”, soprattutto nei negozi di ferramenta. Secondo il consiglio dell’industria del legno, il prezzo del legname da costruzione è aumentato del 38,4% a maggio 2021 rispetto allo stesso mese dell’anno scorso. l’anno, Ohnesorge prevede un leggero aumento Rilassamento della situazione.

La società di consulenza Horváth, d’altra parte, prevede un ulteriore aumento dei prezzi fino a un terzo per il legno entro la fine dell’anno e fa riferimento a un sondaggio di 1000 dirigenti di aziende manifatturiere in Europa.

Un portavoce della catena di negozi di ferramenta Bauhaus afferma in merito all’acquisto di materiali da parte dei fornitori che c’è stato “uno sviluppo dei prezzi altamente dinamico e tempi di consegna più lunghi”, soprattutto per la materia prima legno. Finora, il Bauhaus è stato in gran parte in grado di compensare questo, quindi il cliente ne ha notato solo una parte. “Se il mercato delle materie prime rimane così volatile in futuro, tuttavia, potrebbero verificarsi occasionalmente aumenti dei prezzi e ritardi nelle consegne”.

plastica

I produttori di imballaggi in plastica segnalano una carenza di materiali e costi più elevati a causa delle interruzioni della corona nel commercio mondiale e delle conseguenze della forza maggiore: quasi la metà di circa 100 aziende in Germania ha valutato la disponibilità di materie prime come scarsa o molto scarsa, come afferma l’Industrievereinigung Kunststoffverpackungen con riferimento a un’indagine di settore nei rapporti di giugno. I prezzi delle materie prime sono aumentati drasticamente da gennaio – per le plastiche ampiamente utilizzate, le poliolefine, fino all’80%. Ad esempio, si tratta di sacchetti di plastica, scatole per alimenti e pellicole.

semiconduttore

Per molte industrie, i semiconduttori sono un componente chiave e quindi una sorta di materia prima. Per più di sei mesi, la carenza di importanti componenti elettronici ha fatto perdere il ritmo alle case automobilistiche di tutto il mondo. La carenza di semiconduttori presso VW, Daimler, BMW e altre società provoca ripetutamente tempi di fermo della produzione e, dal punto di vista del cliente, allunga i tempi di consegna dei nuovi veicoli, a volte notevolmente. A causa del crollo della domanda legato alla corona nel 2020, le società hanno cancellato grandi contingenti di questi componenti di chip: nell’attuale ripresa, ora mancano le parti in abbondanza. I turni sono stati cancellati, il lavoro a orario ridotto è stato seguito nei singoli stabilimenti e centinaia di migliaia di automobili pianificate non potevano essere prodotte nei tempi previsti.

A causa delle condizioni meteorologiche estreme e degli incendi, anche le aziende di semiconduttori in Giappone e negli Stati Uniti hanno lasciato inutilizzate una parte delle loro capacità già limitate. In considerazione delle scarse risorse, le case automobilistiche si stanno attualmente accontentando del fatto che preferiscono equipaggiare i modelli più redditizi con le parti scarse – ad esempio, VW e Daimler sono state di recente in grado di riportare lauti profitti nelle loro attività quotidiane nonostante la crisi. Secondo gli esperti, tuttavia, la carenza dovrebbe continuare anche nel quarto trimestre.

FONTE: https://www.maurizioblondet.it/stato-di-emergenza-per-le-materie-prime-i-prezzi-rischiano-di-salire-su-tutta-la-linea/

Dovunque si smantella lo stato sociale

Ricevo dalla Francia:

Buongiorno Direttore,

mi sono accorto solo in questi giorni di una cosa incredibile che si è verificata in Francia quest’anno.

Nel mio studio un’assistente si è lamentata di guadagnare 800 euro al mese. Mi sono informato, perché in Francia il salario minimo (SMIC) è di 1500 euro al mese.

A gennaio 2021 hanno introdotto dei contratti pro che permettono al datore di lavoro di pagare 50 – 70 – 80 % dello SMIC ai dipendenti e senza pagare i contributi sociali. Chiaro che i responsabili delle imprese li adotteranno.

Con tutte le discussioni sul Covid hanno silenziosamente eliminato lo SMIC: il salario minimo.

Vi mando un link con i dettagli: https://www.alternance-professionnelle.fr/contrat-professionnalisation/

Questa crisi permette di demolire i diritti sociali come il salario minimo senza che le masse se ne accorgano.

Saluti Dr. C

Il Covid-terror  è in tutta Europa il pretesto per smantellare lo Stato sociale (oltre che lo stato di diritto). Con un brutalità senza precedenti. Sempre in Francia, la ministra del Lavoro Elisabeth Borne ha detto: i lavoratori sospesi perché privi di pass sanitario non avranno il sussidio di disoccupazione. Beneficio, si noti, che i lavoratori stessi si finanziano con ritenute sul salario.

In Germania stanno per aumentare l’età pensionabile, “taglio della pensione dalla porta posteriore>”, in Italia l’ammortizzatore sociale universale promesso dal notorio ministro del Lavoro Orlando, di fatto una cassa integrazione generale, viene negato col trucco del fare mancare i finanziamenti: pseudo- stanziati  1,5 miliardi recuperati “con lo stop anticipato al cash back” (niente denaro fresco) , ne occorrerebbero, secondo gli stessi calcoli del ministero del Lavoro, 6-7 miliardi in più. Che non arriveranno. Del resto, ho parlato di pseudo-finanziamento perché la gran riforma di Orlando è rimandata. Se ne parla a settembre, se va bene. E nulla in questa “riforma” è fatto per le “politiche attive del lavoro”; cioè per la formazione e riqualificazione dei disoccupati. Li si lascia diventare, da disoccupati, disoccupati di “Lunga Durata”, ossia che hanno perso anche le qualifiche e competenze che avevano, quindi si degradano in non-occupabili.

A mio parere si tratta di politiche deliberate, volute dal progetto Gran Reset  “per popoli superflui” di cui il governo Draghi è il puro esecutore: nessuna ripresa economica, anzi si stronchi ogni segno di vitalità, si obblighino i lavoratori a non entrare a mensa senza green card, ma niente ammortizzatori sociali; e ne frattempo hanno smantellato il sistema sanitario universale, non si curano più le malattie che uccidono davvero, esami e visite rimandati a calende greche improbabili,  ed abolito nei fatti la scuola pubblica: i ricchi soli potranno spendere per istruire i figli. Nulla fa lo Stato per i cittadini. SE Mario Draghi dice: ” il concetto di reddito di cittadinanza io lo condivido appieno”, è perché nel programma del Gran Reset è previsto di dare alle popolazioni un reddito universale di base , in cambio della cessione della proprietà immobiliare. Nessun progetto per gli uomini, nessun futuro. Sono superflui.

La UE spende solo per due miliardi di dosi di vaccini a prezzi maggiorati, quattro dosi per ciascuno di noi. E la BionTECH da sola fa aumentare il PIL della Germania dello 0,5% grazie ai vaccini che vende alla Von der Leyen…

Ma un popolo ipnotizzati non si accorge che gli stanno portando via tutto, privato di tutte le conquiste delle lotte sindacali – e di governo illuminati – di due secoli.

FONTE: https://www.maurizioblondet.it/dovunque-si-smantella-lo-stato-sociale/

 

Bellofiore R. (2020), Smith, Ricardo, Marx, Sraffa. Il lavoro nella riflessione economico-politica

Note bibliografiche

di Giorgio Rodano*

Bellofiore R. (2020), Smith, Ricardo, Marx, Sraffa. Il lavoro nella riflessione economico-politica, Torino: Rosenberg & Sellier, pp. vii+388, € 24, ISBN: 9788878858442

mistero concettuale 103497Il titolo del libro è un evidente (ed esplicito) omaggio a uno dei maestri di Bellofiore, Claudio Napoleoni, che negli anni Settanta del secolo scorso aveva scritto un libro quasi con lo stesso titolo, Smith Ricardo Marx. L’oggetto di questo lavoro – a parte il dialogo a distanza col vecchio maestro (che, tra parentesi, è stato anche uno dei miei maestri) – è dunque, in modo immediatamente evidente, il pensiero economico classico, cui viene assimilato, per i motivi che vedremo, anche Piero Sraffa. Ma vedremo che Bellofiore si cimenta anche con le idee e le tematiche di altri importanti protagonisti della storia del pensiero economico, in particolare John Stuart Mill e John Maynard Keynes.

All’origine del volume ci sono vari saggi scritti da Bellofiore tra il 1983 e il 2017 (uno in collaborazione). Per l’occasione essi sono stati rivisti e fusi per eliminare le ripetizioni (non tutte) fino a comporre un filo unitario; anzi – come cercheremo di mostrare (e come del resto suggerisce qua e là lo stesso Bellofiore) – un paio di fili che si rincorrono e si intrecciano per tutte le pagine del libro. Questo si articola in una premessa (in cui vengono sommariamente illustrati i contenuti dei vari capitoli e introdotti i temi principali che li legano), otto capitoli e due appendici. Sono capitoli di grosse dimensioni, ricchi di spunti e di annotazioni, in cui Bellofiore dà conto non solo del pensiero degli autori presi in esame, ma di tutto il dibattito che i vari temi considerati hanno suscitato tra gli studiosi. Il che rende il libro utile per orientarsi su questioni spesso assai intricate, ma lo rende al tempo stesso di lettura a volte piuttosto ardua e faticosa anche per chi, come me, su molte di quelle questioni ha avuto modo, in passato, di misurarsi.

Non ho motivo di nascondere, per esempio, che del capitolo quinto, in cui si esplorano i rapporti (dialettici) tra Marx e Hegel, sono lontanissimo dall’aver afferrato tutte le implicazioni e tutte le sottigliezze. Sempre per restare in quel capitolo, a un certo punto si affronta la questione dei problemi sollevati dagli errori e dalle imprecisioni delle traduzioni di Marx dal tedesco, ossia di quanto di Marx “sia stato lost in traslation” (p. 142). A causa di questi errori (particolarmente rilevanti, secondo Bellofiore, nella traduzione inglese), la discussione tra gli studiosi, anche tra i marxisti, ha finito talvolta con l’essere “un dibattito sul nulla” (ibid.). Quello delle cattive traduzioni è un tema cui sono sensibile. Ricordo che la prima volta che lessi, appunto nella traduzione italiana, Value and Capital di Hicks, avevo trovato alcune parti decisamente oscure, se non proprio incomprensibili. Tutto si chiarì quando anni dopo rilessi il libro nell’originale: non avevo capito perché la traduzione era fatta male. E del resto sono convinto che l’espressione “domanda effettiva”, ossia la versione in italiano dell’espressione inglese effective demand di Keynes, sia un evidente errore di traduzione (l’aggettivo inglese che corrisponde all’italiano “effettiva” è actual; l’aggettivo italiano che corrisponde all’inglese effective è “efficace”). Penso che una versione più corretta sia “domanda che conta”, il che renderebbe tante frasi di Keynes più trasparenti e più comprensibili); ma ciò non ha impedito che su di essa gli economisti italiani abbiano profuso montagne di inchiostro (un altro “dibattito sul nulla”?). Per tornare però alle traduzioni di Marx, debbo di nuovo confessare la mia totale incompetenza: non so il tedesco.

Ma veniamo al tema del libro di Bellofiore. In un certo senso, è sintetizzato nel sottotitolo del volume. Il quale recita: Il lavoro nella riflessione economico-politica. Qui ogni parola conta. Al centro di tutto il suo discorso viene collocato appunto il lavoro. Ma sono rilevanti anche le parole al contorno, dalle quali emerge con chiarezza che quello di Bellofiore non è semplicemente uno studio di storia del pensiero economico (classico). Certo è anche questo; ma la riflessione sulle idee e sui problemi economici su cui si sono tormentati i grandi economisti della tradizione che va da Adam Smith a Karl Marx (passando per David Ricardo), e che sono stati ripresi e riproposti in forme sui generis da Piero Sraffa, ha per Bellofiore una precisa finalità politica.

La finalità è quella – mi par di capire – di mettere a punto gli strumenti concettuali per una ripresa oggi, nell’economia e nella società dei nostri giorni, della lotta di classe, ossia del conflitto tra capitale e lavoro. Nelle sue parole, questa “ripresa di protagonismo conflittuale nel processo di produzione”, innervata dalle “lotte per un lavoro […] più ricco e protagonista”, deve avere la finalità di realizzare una “composizione della produzione socialmente decisa e sottratta all’arbitrio della finanza e degli interessi imprenditoriali” (p. 358). Insomma, per dirla in breve, Bellofiore si muove nel solco della grande tradizione marxista (con tutti i cambiamenti resi necessari dal fatto che ci troviamo nel XXI secolo): studiare l’economia e il pensiero economico con lo sguardo rivolto all’obiettivo di superare l’attuale assetto capitalistico (che – come Bellofiore sa bene – è per molti aspetti assai diverso da quello studiato dagli economisti classici, anche se ne conserva alcune essenziali caratteristiche) e di costruire un’economia e una società per la quale una volta avremmo usato il termine “socialismo”, anch’esso inevitabilmente declinato in forme diverse da quelle della tradizione del movimento operaio.

***

Dunque il lavoro. Ma soprattutto il lavoro nelle forme storicamente determinate che esso assume nel suo rapporto con il capitale. Questo ci conduce immediatamente al primo dei due temi dominanti che costituiscono il fil rouge del libro: la teoria del valore-lavoro. Di tale teoria, però, Bellofiore propone una “visione […] che riduce di molto l’enfasi con cui si è tradizionalmente sottolineata la sua dimensione di concettualizzazione della determinazione individuale dei prezzi, che ai [suoi] occhi, lungi dal non essere l’unica, non è neanche quella preminente” (p. 7). Rispetto a questo approccio della teoria del valore-lavoro, che potremmo chiamare ‘economico’, Bellofiore ne privilegia un altro, che per simmetria potremmo chiamare ‘filosofico’, secondo il quale il lavoro (astratto) rappresenta il fondamento costitutivo del capitale. Perciò rappresenta la base del capitalismo stesso e, di conseguenza, del “rapporto antagonistico tra le classi” (p. 8).

Confesso di fare fatica a seguire Bellofiore nell’esposizione di questo approccio filosofico alla teoria del valore-lavoro, in parte perché le mie conoscenze di filosofia sono inadeguate, e in parte per motivi che cercherò di illustrare più avanti. Temo perciò che la mia esposizione di questo punto cruciale della sua ricerca risulterà un po’ troppo sbrigativa e rozza. Molto in sintesi, e rinunciando a cimentarmi col complicatissimo rapporto tra Marx e Hegel (cui la versione filosofica della teoria del valore-lavoro sembra essere fortemente connessa), quella che Bellofiore chiama “la teoria (monetaria) del valore-lavoro (astratto)” (p. 209) può essere presentata esplicitandone innanzitutto il nucleo: “il ‘lavoro astratto’ – più precisamente, il lavoro vivo dei lavoratori salariati come lavoro produttore di (plus)denaro – è la fonte esclusiva del valore” (ibid.).

Come sappiamo, Marx appoggiava il fondamento di questa affermazione sulla teoria del valore-lavoro (contenuto). Tuttavia, come abbiamo appena visto, Bellofiore rinuncia alla teoria del valore-lavoro come teoria dei prezzi (secondo cui il prezzo di una merce è determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario per la sua produzione). Vi rinuncia anche perché sa bene che i prezzi (di produzione) divergono dai valori (lavoro), e che il cosiddetto “problema della trasformazione” (dai valori ai prezzi) non ammette soluzione; nelle parole di Bellofiore la ricerca della soluzione “viene giudicata problematica dalla maggior parte degli autori interni ed esterni al marxismo” (p. 220). Egli conclude perciò che, “[s]e si vuole recuperare una rilevanza di Marx, è altrove che bisogna rivolgersi, recuperando l’integrazione essenziale tra denaro e lavoro” (p. 221).

Sul punto del problema della trasformazione vale la pena spendere due parole per un chiarimento. Esso non richiede che si possano determinare i prezzi a partire dalle quantità di lavoro. Questo è possibile, è stato fatto, ed è, come osserva anche Bellofiore, del tutto irrilevante; ciò perché i “prezzi di produzione […] possono essere […] calcolati a partire dagli stessi dati da cui si derivano i valori-lavoro” (p. 256), sicché il passaggio per questi ultimi risulta “del tutto ridondante” (p. 263; vedi anche pp. 107-8). Il problema della trasformazione richiede, in un certo senso, di più e di meno, ossia che si possa mostrare che la divergenza tra prezzi e valori al livello delle singole merci scompare quando si passa al livello aggregato, nel senso, appunto che a quel livello si ritrova una doppia uguaglianza, quella tra pluslavoro totale e somma dei profitti e quella tra il totale del lavoro socialmente necessario e il valore della produzione complessiva. È appunto questo problema della trasformazione che non ammette soluzione, anche se una delle due uguaglianze può sempre essere scelta come unità di misura dei prezzi.

Per uscire da questo vicolo cieco, Bellofiore ritiene che si debba necessariamente andare “oltre Marx”. Secondo lui, una strada “promettente e significativa” è quella della cosiddetta Nuova interpretazione (cfr. Duncan Foley, 1986), che viene esposta in più punti del libro di cui ci stiamo occupando (per esempio, pp. 258 ss.). Il punto di partenza di tale interpretazione è il seguente: “Marx prende le mosse da un ‘postulato’ che stabilisce che a livello aggregato il ‘nuovo valore’ aggiunto nel corso del periodo, una volta scambiato nella circolazione mercantile contro denaro, si presenta come l’espressione monetaria del tempo di lavoro diretto che è stato socialmente necessario prestare” (pp. 258-9). Semplificando drasticamente, il “postulato” si articola in due affermazioni: (i) il lavoro vivo (quello acquistato dal capitale per produrre denaro) è la fonte del valore aggiunto; (ii) perciò si può assumere a livello aggregato l’eguaglianza tra lavoro vivo (astratto) e valore aggiunto. Chiaramente la parte decisiva del “postulato” è la prima (la seconda può essere sempre scelta come unità di misura dei prezzi utilizzati per l’aggregazione). Ci torneremo più avanti.

Prima, però, vediamo come prosegue la Nuova interpretazione. Il passo successivo (e qui si consuma il distacco da Marx) è la ridefinizione del “valore della forza-lavoro”. Questo non è più, come in Marx, il lavoro socialmente necessario per produrre i beni di sussistenza, ma è “il lavoro comandato dal salario monetario” (p. 260). A questo punto il gioco sembra fatto: a livello aggregato il valore della forza-lavoro corrisponde alla quota dei salari (sul valore aggiunto e perciò sul totale del lavoro vivo) e di conseguenza la quota dei profitti (sempre sul valore aggiunto) corrisponde al pluslavoro, misurato anch’esso in termini di lavoro comandato. Col semplice artificio di ridefinire il valore della forza-lavoro (riprendendo appunto la vecchia nozione smithiana di “lavoro comandato”), le proposizioni fondamentali di Marx sembrano riacquistare tutta la loro validità, ovviamente a livello aggregato. Confesso che nel modo di procedere della Nuova interpretazione c’è qualcosa che mi lascia perplesso. Per esempio, mi sembra abbastanza curioso assumere il lavoro “contenuto” per misurare il valore aggiunto totale e il lavoro “comandato” per valutarne una sua parte. Ma per ora sospendo il giudizio (riservandomi di dire qualcosa più avanti). Adesso devo introdurre nel quadro il contributo di Piero Sraffa.

Il settimo capitolo del libro che stiamo recensendo è dedicato principalmente (anche se non esclusivamente) a una lettura degli inediti di Sraffa e alla sua “maratona” lunga e “solitaria” (p. 255) per arrivare a pubblicare, nel 1960, Produzione di merci a mezzo di merci. Al riguardo Bellofiore sostiene che la lettura di quegli inediti riserva parecchie interessanti “sorprese”. Essi mostrano infatti che, nonostante nel libro del 1960 gli argomenti che collegano sotterraneamente Sraffa a Marx siano accuratamente “nascosti” (cfr. p. 297), gli inediti suggeriscono invece che per una lunga fase Marx abbia rappresentato per l’economista italiano trapiantato a Cambridge un punto di riferimento essenziale.

Stando alla lettura degli inediti proposta da Bellofiore (che comunque nel suo libro fornisce anche un’ampia, dettagliata e argomentata rassegna delle altre letture che di quegli inediti sono state fatte), dalla fine degli anni Venti del secolo scorso Sraffa era convinto che “il risultato ultimo della sua ricerca” sarebbe stato “una riformulazione delle idee di Marx, sostituendo alla terminologia e metafisica hegeliana una terminologia e metafisica moderna”1. L’interpretazione di Bellofiore, “che Sraffa [fosse] allora convinto che il suo libro avrebbe rivendicato la sostanziale correttezza della teoria economica marxiana” (p. 268), appare convincente e condivisibile. Sempre leggendo gli inediti, emergerebbe che il punto culminante di questa linea di ricerca si sarebbe verificato all’inizio degli anni Quaranta, quando Sraffa lavorava sulle implicazioni di un’ipotesi (nei suoi appunti inediti abbreviata in “Hypo”) di cui Bellofiore segnala le interessanti somiglianze col “postulato” della Nuova interpretazione di cui abbiamo parlato sopra.

L’Hypo è che il saggio massimo di profitto (ossia, nelle parole di Bellofiore, “il rapporto fisico-materiale tra il prodotto netto e i mezzi di produzione impiegati” quando il salario viene posto uguale a zero) resterebbe immutato quando il salario diventa maggiore di zero, influenzando i prezzi e il saggio di profitto effettivo. Assumendo la validità di questa ipotesi, seguono due risultati: (i) i prezzi possono essere agevolmente derivati dai valori, pur tenendo conto che essi cambiano al variare del salario e della distribuzione del reddito; (ii) emerge una relazione decrescente e lineare tra saggio del profitto e salario: = (1 − ).

Sraffa si rese ben presto conto che l’Hypo non reggeva perché le composizioni del capitale nelle varie merci sono diverse, cosa che impedisce che il calcolo del saggio massimo di profitto possa essere effettuato in termini fisici. Si espresse su questo punto parlando di “disastro del modello” e abbandonò questa linea di ricerca. Essa però lasciò tracce importanti nella sua riflessione successiva e anche nel suo lavoro pubblicato. Per esempio, la standard commodity (la “merce tipo”) che viene ricavata in Produzione di merci a mezzo di merci consente di calcolare il saggio massimo del profitto in termini indipendenti dai prezzi e dalla distribuzione e permette anche di ricavare la stessa relazione lineare e inversa tra saggio del profitto e salario che abbiamo scritto sopra. D’altra parte, va subito aggiunto che per ricavare la merce tipo si deve per forza partire dagli stessi dati che servono a calcolare i prezzi di produzione (o i valori- lavoro), il che la rende (lungi dall’essere la misura invariabile dei valori invano cercata da Ricardo), “una costruzione puramente ausiliaria”, come ha sottolineato lo stesso Sraffa. L’italiano di Cambridge era però consapevole che i risultati da lui ottenuti non erano sufficienti per realizzare il suo programma originario di provare in modo rigoroso la sostanziale correttezza della teoria economica marxiana. Come scrive Bellofiore, restava vero “che il saggio del profitto non corrisponde al rapporto del plusvalore alla somma del capitale costante e del capitale variabile come computato da Marx: il saggio del profitto in prezzi di produzione di Produzione di merci diverge da quello in valori-lavoro del terzo libro del Capitale” (p. 298).

Forse proprio questo è il motivo per cui ogni riferimento a Marx viene accuratamente espunto da Sraffa nella versione del suo lavoro pubblicata nel 1960. E ciò anche se, in privato, “Sraffa rimase convinto di un forte parallelismo tra le proprie conclusioni e quelle di Marx, […] anche dopo la pubblicazione del libro nel 1960” (p. 298); e anche se quanto da lui affermato al riguardo (sia pure in privato) “non verrà mai smentito successivamente” (ibid.). A questo proposito Bellofiore cita le reazioni di Sraffa ad alcune recensioni che mettevano in dubbio la continuità tra i risultati del suo libro e Marx, e il dibattito triangolare che coinvolse in quegli anni Sraffa, Napoleoni e Raffaele Mattioli. Quest’ultimo aveva dato, tra l’altro, un fondamentale contributo alla versione italiana di Produzione di merci a mezzo di merci.

In un vecchio appunto inedito, polemizzando con Bortkiewicz (uno dei primi critici dell’approccio marxiano al problema della trasformazione), Sraffa aveva scritto “that commodities are produced by labour out of commodities” (citato da Bellofiore, p. 285). Meritano di essere sottolineate sia la somiglianza sia la cruciale differenza col titolo del libro pubblicato nel 1960: Production of Commodities by Means of Commodities. Il termine “labour” è sparito, e la scomparsa, appunto, non è casuale. Da quel che si è scritto nelle pagine precedenti appare chiaro che Sraffa restava convinto che le merci fossero prodotte dal lavoro, ma appunto non era in grado di provarlo. E perciò non poteva parlarne in termini scientifici. Il ruolo del lavoro nella produzione del valore poteva essere postulato ma non dimostrato.

Questo ci riporta inevitabilmente al ‘postulato’ su cui si fonda la Nuova interpretazione di Marx proposta da Duncan Foley (e apprezzata da Bellofiore). Ora, è vero che in matematica ci si serve di postulati (o, come si preferisce dire oggi, di assiomi) per ricavarne teoremi, ossia proposizioni che si dimostrano ‘vere’ dati i postulati che vengono assunti (se si cambiano i postulati, cambiano di conseguenza anche i teoremi che si possono dimostrare). Qui, però, non siamo in matematica. Invece che di postulato, perciò, sarebbe più corretto parlare di “congettura”, ossia di una proposizione il cui valore di verità non è assodato: potrebbe in seguito essere dimostrata vera oppure falsa; oppure possono essere portati argomenti a sostegno o a confutazione, anche se non conclusivi. Per esempio, se la teoria del valore-lavoro (contenuto) come teoria dei prezzi (o come base della teoria dei prezzi) fosse corretta, il postulato che il lavoro (astratto) è la fonte della valorizzazione del denaro e del capitale risulterebbe fortemente corroborato. Se però viene abbandonata, il postulato (la congettura) si indebolisce, e ha bisogno di altri argomenti a supporto. Tanto più che, come sappiamo, la teoria economica ha proposto anche postulati alternativi per quanto riguarda la natura del valore, inteso come la fonte della ricchezza.

Troviamo un tipico argomento a supporto, nello stile di Marx, nella seguente frase del libro di Bellofiore:

Da un punto di vista macroeconomico, è chiaro che la “valorizzazione” del capitale non può avere la propria origine nello scambio interno alla classe capitalistica, poiché qualsiasi profitto ottenuto da un produttore nel comprare a un prezzo più basso e rivendere a un prezzo più alto determinerebbe una perdita dello stesso ammontare per altri produttori. La “sorgente” del plusvalore deve essere rintracciata nel solo scambio che è esterno alla classe capitalistica, ovvero nella compera di forza-lavoro (p. 213).

La premessa del discorso è che nel corso del processo produttivo il capitale si valorizza, nel senso che alla fine del processo c’è una quantità di denaro maggiore di quella che c’era in partenza (è la famosa formula di Marx D-M-D′ che sintetizza il processo capitalistico). Questo è appunto un fatto. La frase della citazione precedente suggerisce l’unica fonte da cui questa valorizzazione può scaturire: l’acquisto del lavoro da parte del capitale. Perciò l’origine della valorizzazione non può essere che il lavoro. E questo chiude il discorso. Anzi, per Marx, lo apre: la sorgente del plusvalore è l’eccesso di lavoro prestato rispetto a quello che basterebbe a riprodurlo (la “sussistenza”); con tutto quel che segue, ossia le magnifiche pagine sul “plusvalore assoluto” e sul “plusvalore relativo” del primo libro del Capitale (ben raccontate da Bellofiore alle pp. 225 ss. del suo libro).

Ma siamo sicuri che le cose stiano così? Per sollevare qualche dubbio propongo un semplice esperimento mentale. Supponiamo che nel processo produttivo una unità di forza- lavoro venga sostituita da un robot che abbia la stessa produttività del lavoro sostituito (per ipotesi quella di una unità di lavoro socialmente necessario) e lo stesso costo unitario: un’ora di prestazione del robot costa quanto il salario orario (e perciò “comanda” la stessa quantità di lavoro). Cosa succede al plusvalore? Inteso come D′-D, rimane evidentemente invariato; e comunque rimane invariato il profitto. Eppure il lavoro vivo (il “capitale variabile” nella terminologia di Marx) è diminuito (il capitale complessivo, invece, è rimasto immutato). Di più: lo scambio da cui scaturisce il plusvalore che compensa quello perduto (perché c’è una unità di lavoro in meno) è interno alla “classe capitalistica”. L’esperimento mentale non ha alcuna pretesa di proporre un postulato alternativo, ma suggerisce che il postulato di Foley (che piace a Bellofiore) appare meno solido di quel che sembrava.

***

Per molti aspetti, l’esperimento del robot non è realistico (per questo è un esperimento mentale). Ma si collega a una tematica, questa sì importante e realistica, su cui si sono affaticati gli economisti classici (Ricardo e, soprattutto, Marx) e non solo (per esempio anche Keynes). È appunto la questione della sostituzione del lavoro con le macchine, con i connessi temi della disoccupazione tecnologica e del destino del lavoro. Questo ci conduce al secondo fil rouge che percorre il libro di Bellofiore, di cui nelle prossime pagine proverò a dar conto (nei limiti delle mie capacità). È un tema che può essere formulato in due parole (oppure col titolo di un vecchio libro curato negli anni Settanta del secolo scorso da Claudio Napoleoni e Lucio Colletti), la cui illustrazione rappresenta invece un ‘vasto programma’: qual è il futuro del capitalismo?

Per cominciare a illustrare questo tema si può, seguendo Bellofiore (ma prima di lui anche Claudio Napoleoni) partire da Adam Smith. Nel primo capitolo e, più in dettaglio, nel successivo (quello dedicato appunto al pensiero dell’economista e filosofo scozzese), Bellofiore illustra il nesso tra la teoria smithiana del valore-lavoro “comandato” e la teoria (sempre smithiana) dello sviluppo economico (capitalistico), “che agli occhi dell’autore scozzese configura addirittura una ‘giustificazione’ del capitalismo in quanto società progressiva” (p. 8)2. Smith riprende (da Locke) l’idea che la fonte della ricchezza sia il lavoro. Perciò per lui è scontato che “il lavoro è […] la misura reale del valore di scambio di tutte merci” (citato a p. 44). Questa affermazione è alla base della classica definizione smithiana di valore-lavoro comandato: “Il valore di una merce, per la persona che la possiede e che non intende usarla o consumarla lei stessa ma scambiarla con altre merci, è quindi uguale alla quantità di lavoro che essa la mette in grado di comprare o di comandare” (ibid.).

Nell’economia dei tempi di Smith – caratterizzata, come dice lui, dall’accumulazione del capitale e dall’appropriazione delle terre, e perciò dal fatto che compaiono due “deduzioni dal prodotto del lavoro”, i profitti e le rendite – il “comando” sul lavoro diviene una realtà effettiva, nel senso, appunto, che è esercitato dal capitale: i proprietari delle imprese, i “padroni” (masters) come dice Smith, acquistano il lavoro (pagando un salario a coloro che lo forniscono) e si appropriano del prodotto di questo lavoro, che si distribuisce appunto tra profitti e rendite. Tralasciamo ora le rendite e i meccanismi che consentono la loro appropriazione (un argomento che, come sappiamo, diventerà centrale nelle ricerche di David Ricardo). Per Smith la distribuzione del “prodotto del lavoro” tra salari e profitti è governata da due meccanismi: (i) il livello del salario dipende dal potere contrattuale delle due parti in conflitto, lavoratori e masters, e perciò viene spinto verso il basso (con un limite dato dal livello di sussistenza) a causa del superiore potere contrattuale dei secondi3; (ii) la concorrenza tra i masters spinge questi ultimi a reinvestire sistematicamente i propri profitti nella formazione di nuovo capitale. E, “dato che l’investimento è, per Smith, soprattutto fondo-salari” (p. 13), ne segue che l’accumulazione di capitale genera un aumento dell’occupazione e una crescita dei salari al di sopra del minimo. Ma non finisce qui: la crescita dei salari spinge le imprese a darsi da fare per aumentare la produttività. Scrive Smith che “il proprietario […] deve sforzarsi, nel suo stesso interesse, di organizzare una divisione e una distribuzione del lavoro tale da metterlo in grado di produrre quanto più è possibile. Per la stessa ragione egli si sforza di fornire ai lavoratori le macchine migliori che sia lui stesso sia loro possono escogitare” (citato a p. 56). E di questo processo finiscono col beneficiare anche i lavoratori, sia in termini di maggiore occupazione sia in termini di maggiori livelli salariali. Infatti, “se […] l’accumulazione procede e lo scarto tra salario di mercato e salario naturale permane abbastanza a lungo, è convinzione di Smith che la sussistenza stessa finirà con l’essere trascinata verso l’alto” (ibid.).

Per completare il discorso sulla teoria smithiana dello sviluppo capitalistico dobbiamo ancora segnalare un ultimo punto, che riguarda i consumi. Quello dei lavoratori (“i poveri”) è limitato dal salario e perciò dalla sussistenza, quello dei capitalisti (“i ricchi”) non incontra questo limite. Tuttavia anche

i ricchi […] [c]onsumano poco più dei poveri, e nonostante il loro egoismo e la loro rapacità naturali, benché pensino solo al loro interesse e il solo scopo che si prefiggono dalle fatiche delle migliaia di persone cui danno lavoro sia la gratificazione dei propri desideri vani e insaziabili, essi dividono con i poveri il prodotto di tutti i loro progressi. Sono portati da una mano invisibile a operare quasi la stessa distribuzione delle necessità della vita che avrebbe avuto luogo se la terra fosse stata divisa in parti uguali fra tutti i suoi abitanti; e così, senza volerlo e senza saperlo, fanno l’interesse della società.

Questo magnifico brano della Teoria dei sentimenti morali (citato da Bellofiore a p. 54) non solo dà conto in modo limpido che la simpatia di Smith non va certo ai masters (e tanto meno ai rentiers), ma, completando quanto detto in precedenza, illustra chiaramente quella che Bellofiore chiama la giustificazione smithiana del capitalismo. Per esprimerci in estrema sintesi (e sempre servendoci delle parole di Bellofiore), nonostante l’accumulazione sia fine a se stessa, “l’egoismo che spinge i capitalisti alla massimizzazione del profitto” non sarebbe altro che “un benefico ‘inganno’ che la Natura ha ordito per realizzare il suo ordine” (p. 65).

Secondo Bellofiore, l’ottimismo della visione smithiana sul futuro del capitalismo non è durato a lungo. Già nei primi decenni dell’Ottocento, sia il sistema capitalistico che la sua descrizione da parte degli economisti erano mutati profondamente. Questo riguardava la realtà economica, ossia i cambiamenti intercorsi nel modo di funzionare del capitalismo e la posizione del lavoro al suo interno. E riguardava anche le descrizioni che del funzionamento del capitalismo venivano facendo gli economisti; il riferimento è soprattutto ai contributi di Ricardo e di Malthus. Ma leggiamo Bellofiore:

Quaranta-cinquant’anni dopo [Smith] sarà tutto cambiato. Con Malthus e con lo stesso Ricardo […] la sussistenza, una sussistenza alquanto “biologica”, ovvero la riduzione della forza-lavoro a strumento di produzione da alimentare come le macchine, è diventata una trappola molto più rigida, da cui è difficile se non impossibile scappare. Non soltanto il discorso di Smith – dove l’accumulazione del capitale si fa mezzo per l’inclusione nella cittadinanza dei soggetti, e migliora la condizione di quelli che stanno in fondo alla scala sociale – recede sullo sfondo. Lavoratrici e lavoratori sono ora – e devono rimanere – soggetto puramente “passivo” (p. 14).

Di più. In quel periodo la sottomissione del lavoro al capitale si fa sempre più marcata. Tra il 1776 (l’anno in cui esce la Ricchezza delle Nazioni) e il 1821 (l’anno della terza edizione dei Principi di Ricardo) il mondo del lavoro subisce una serie di attacchi. Cito ancora Bellofiore:

la distruzione di qualsiasi retroterra che nel vecchio sistema consentisse a lavoratori e lavoratrici una parziale possibilità d’indipendenza dal meccanismo capitalistico; la promulgazione delle leggi sui poveri; la violenta riduzione del mondo del lavoro a pura e semplice forza-lavoro sfruttabile a piacimento, non soltanto prolungando nella misura più estesa possibile la giornata lavorativa, ma anche immettendo nel mulinello della produzione capitalistica donne e bambini. Ogni resistenza dentro i processi di produzione poteva e doveva essere stroncata: per il bene di chi lavora, ovviamente… Qualsiasi intralcio al meccanismo economico avrebbe comunque peggiorato, non migliorato, le loro condizioni (p. 15).

E Bellofiore conclude che, “a ben vedere, è l’idea ‘selvaggia’ di capitalismo che si è di nuovo imposta ai nostri giorni” (ibid.). Discuterò più avanti quest’ultimo statement, limitandomi a segnalare, per ora, che esso percorre sotterraneamente tutto il libro, riemergendo in superficie in varie occasioni; e rappresenta la giustificazione della pulsione rivoluzionaria che lo anima tutto (e di cui ho dato conto all’inizio di queste pagine).

Ci sono tre temi elaborati da Ricardo che contribuiscono a mettere in luce la profonda diversità tra il suo capitalismo e quello dei tempi di Smith. Quello su cui più insiste Bellofiore, probabilmente influenzato dalla lettura di Ricardo fatta da Sraffa (nonostante le sue riserve nei confronti di tale lettura), è il tema della riduzione del lavoro a mero elemento del capitale (e quindi, appunto, “la distruzione di qualsiasi retroterra che nel vecchio sistema consentisse a lavoratori e lavoratrici una parziale possibilità d’indipendenza dal meccanismo capitalistico”). Al riguardo Bellofiore riporta l’opinione di Napoleoni, secondo il quale “Sraffa andava interpretato […] in questo senso: che il capitalismo andrebbe visto come una ‘totalità’ che include il lavoro dentro di sé come sua ‘parte’, quale mero strumento di produzione al pari dei mezzi di produzione inanimati; che dunque il salario deve ridursi al minimo di sussistenza, e il capitale ha ‘diritto’ ad appropriarsi dell’intero sovrappiù” (p. 29).

Gli altri due temi sono la teoria ricardiana della rendita e la “questione delle macchine”. Ai fini delle problematiche esplorate da Bellofiore, la teoria della rendita è rilevante soprattutto, perché esplicita la presenza, all’interno del capitalismo, di un elemento ineliminabile di conflitto tra le classi (proprietari terrieri vs capitalisti) e poi perché prefigura un destino di lungo periodo del capitalismo stesso: la fine dell’accumulazione del capitale e l’avvento di uno stato stazionario, appunto quando la tendenza alla caduta del saggio del profitto avrà concentrato nelle mani dei proprietari terrieri tutto il sovrappiù. La rilevanza della tendenza alla sostituzione del lavoro con le macchine, oltre a far emergere un altro elemento di conflitto tra le classi, stavolta lavoratori e capitalisti, è connessa alla “relazione tra progresso tecnico e occupazione” e alla connessa questione della disoccupazione tecnologica. Di nuovo un’occasione di conflitto tra capitale e lavoro che però, come osserva Bellofiore, Ricardo tende a sottovalutare (cfr. p. 14).

Da questa cupa immagine del capitalismo che emerge dalle pagine di Ricardo si può uscire seguendo due strade. La prima è quella percorsa da Marx, che consiste nell’enfatizzare il carattere contraddittorio del capitalismo. Questo deriva innanzitutto dal fatto che il capitale ha bisogno del lavoro (ricordiamo che per lui, come per tutto il pensiero economico classico, il lavoro è la fonte esclusiva del valore), sicché esso non può mai essere “sussunto” senza residui nel capitale, “così che diventi l’equivalente di una macchina” (p. 15). Commenta al riguardo Bellofiore che i “capitalisti vivono in un mondo di incertezza: acquistano una forza-lavoro che potrebbe resistere” (ibid.). La tensione tra essenzialità e alterità del lavoro all’interno del capitalismo è all’origine dell’altro grande sviluppo proposto da Marx rispetto a Ricardo, ossia la teoria delle crisi capitalistiche: il conflitto tra lavoro e capitale è alla base non solo della spinta all’accumulazione (è la più volte citata tematica della produzione del “plusvalore relativo”), ma è alla base del meccanismo delle crisi ricorrenti cui l’economia del capitalismo è soggetta. Quando la crescita dell’economia e dell’occupazione provoca un aumento eccessivo del salario, l’economia va in crisi in conseguenza della caduta dei profitti (con conseguente ricostituzione dell’esercito industriale di riserva, che ha l’effetto di disciplinare i salari. D’altro canto, quando i salari sono troppo bassi, l’economia capitalistica può entrare in crisi per insufficienza di “sbocchi” per la propria produzione: anche se il controllo sulla forza-lavoro avvenisse con successo, le imprese producono merci che potrebbero non vendere (cfr. Bellofiore, p. 15). È il gran tema delle “crisi da realizzo” anticipato da Malthus e successivamente rilanciato, tra gli altri, da Rosa Luxemburg. Ovviamente, per Marx il destino di lungo periodo del capitalismo non è lo stato stazionario ma, semmai, il suo crollo (un punto su cui Bellofiore dissente da Marx), o comunque il suo superamento, con l’avvento del socialismo sulla spinta dell’azione rivoluzionaria del movimento dei lavoratori.

La seconda via di uscita dalla visione del capitalismo che emerge dai lavori di Ricardo è quella percorsa dai pensatori dell’economia neoclassica (marginalistica). Dal punto di vista delle tematiche trattate nel libro di Bellofiore (e sintetizzate in queste pagine), gli economisti neoclassici sviluppano una serie di temi presenti in Smith e in Ricardo, per costruire una visione dell’economia imperniata sul principio generale della teoria della scelta razionale. Nel loro approccio l’economia capitalistica perde ogni connotazione di sistema economico determinato. In un certo senso, la storia viene espunta completamente dal discorso economico. L’economia diventa una disciplina astorica (economics). Come è facilmente intuibile, gli interessi di Bellofiore sono piuttosto lontani dall’economia neoclassica, per cui l’argomento viene trattato poco, sporadicamente e in modo piuttosto svogliato. Per esempio troviamo a p. 42 un breve accenno alla tentazione di fare di Smith “il sostenitore della razionalità e naturalità del mondo che esce dalla rivoluzione industriale. Il capitalismo si configurerebbe, in questa lettura, come la fine della storia e la realizzazione della natura” (p. 42; ma sappiamo che Bellofiore respinge questa interpretazione). Il tema del capitalismo come economia naturale, corredato da una breve illustrazione delle caratteristiche generali dell’approccio neoclassico, viene ripreso all’inizio del terzo capitolo, quello appunto dedicato ad alcuni sviluppi del pensiero economico dopo Adam Smith. Ma, di nuovo, più che altro per ribadire le distanze da questo approccio.

Leggendo quel capitolo, si scopre che Bellofiore è invece molto più interessato alle tematiche sviluppate da altri importanti protagonisti della storia del pensiero economico: Stuart Mill e, soprattutto, Keynes. Del primo si sofferma sulla sua visione dello stato stazionario cui tende il capitalismo, sul quale Mill, contrariamente a Ricardo, si esprime in termini improntati all’ottimismo. Bellofiore riporta (p. 70) questo brano di Mill che illustra in modo vivido il suo atteggiamento critico su alcuni aspetti cruciali della dinamica del capitalismo, della quale sottolinea l’esigenza che almeno essa sia temperata nella direzione di una maggiore uguaglianza:

Finché la ricchezza continuerà a rappresentare il potere, e il diventare più ricchi possibile continuerà a essere oggetto dell’ambizione universale, che la via per giungere alla ricchezza sia aperta a tutti, senza favori o parzialità. Ma la condizione migliore per la natura umana è quella per cui, mentre nessuno è povero, nessuno desidera diventare più ricco, né deve temere di essere respinto indietro dagli sforzi compiuti dagli altri per avanzare.

Proprio per questo, “mentre per ‘gli economisti delle ultime generazioni’ lo stato stazionario è una prospettiva spiacevole e scoraggiante, Mill si dichiara ‘propenso piuttosto a credere che, nel complesso, esso rappresenterebbe un considerevole miglioramento rispetto alle nostre condizioni attuali’” (p. 69). E spiega questa sua valutazione perché nello stato stazionario la fine della crescita della produzione materiale si accompagnerebbe a uno sviluppo culturale e a un flusso di innovazioni che “produrrebbero il loro effetto legittimo, quello di abbreviare il lavoro” (citato a p. 71, corsivo nell’originale). Questa prospettiva dello stato stazionario, e della connessa prospettiva di liberazione dal lavoro, andrebbe perseguita, secondo Mill, prima di esservi costretti dalla tendenza alla caduta del saggio di profitto. Per questo occorrono “giuste istituzioni” e la “guida di una saggia previdenza”. Solo così, conclude Mill,

le conquiste sui poteri della natura compiute dall’intelletto e dall’energia degli scienziati potranno diventare il retaggio comune della specie umana, e il mezzo per migliorare ed elevare la sorte dell’umanità (citato sempre a p. 71).

Non sorprende certo che, al di là della rispettosa considerazione e dello spazio che gli dedica nel suo libro, Bellofiore sia piuttosto scettico nei confronti di questa ripresa da parte di Mill del messaggio smithiano sul (positivo) ruolo storico del capitalismo. La cosa, del resto, è abbastanza scontata data la sua sintonia con le tesi di Marx. Ben più intrigante, per lui, è la posizione che viene presa su questo stesso argomento da Keynes, quasi un secolo dopo (i Principles of Political Economy di Mill escono nel 1848 mentre la pubblicazione della General Theory di Keynes è del 1936).

A Keynes Bellofiore dedica, oltre che alcune pagine del terzo capitolo (appunto in condivisione con Mill), gran parte del capitolo ottavo, l’ultimo, quello conclusivo del suo libro (non considerando le due appendici). Uno spazio così ampio si giustifica perché – come ci ricorda Bellofiore – “Keynes vuole salvare il capitalismo” (dal comunismo), ma “inizia a comprendere che, perché ciò avvenga, il capitalismo va salvato da se stesso” (p. 17).

Il capitalismo va salvato perché nel lungo periodo l’accumulazione del capitale è il mezzo che consente, in prospettiva, “il superamento della scarsità, e il passaggio a un’economia dell’abbondanza e dell’ozio”. Le parole appena citate sono di Bellofiore (p. 72) ma rendono correttamente la posizione di Keynes, che già nel 1919, nel suo pamphlet su Le conseguenze economiche della pace aveva scritto: “forse sarebbe venuto un giorno in cui ce ne sarebbe stato finalmente abbastanza per tutti e la posterità avrebbe potuto cominciare a godere il frutto delle ‘nostre’ fatiche” (ibid.). L’argomentazione di Keynes ricalca molto da vicino quella di Adam Smith. Sempre nello stesso pamphlet aveva scritto che, nell’economia dei decenni precedenti alla guerra,

la società era organizzata in guisa che una gran parte del reddito di nuova formazione veniva a cadere sotto il controllo della classe che era meno incline a consumarlo, […] Era precisamente la “ineguaglianza” di distribuzione della ricchezza che rendeva possibili quelle vaste accumulazioni di ricchezza fissa e di sviluppo di capitali che distinguono quel periodo da ogni altro. E qui sta, in fatto, la principale giustificazione del sistema capitalistico (ibid.).

Qualche anno dopo, nel saggio del 1930 sulle Prospettive economiche per i nostri nipoti (un testo alla cui discussione Bellofiore dedica molto spazio, sia nel terzo che nell’ottavo capitolo), Keynes si sarebbe spinto a prevedere che il traguardo dell’abbondanza era piuttosto vicino: “il problema economico può essere risolto, o per lo meno giungere in vista di una soluzione, nel giro di un secolo” (p. 73). Osserva Bellofiore che, nella descrizione che Keynes fa della società che ha risolto il problema economico, “a essere impressionanti non sono solo le corrispondenze con Smith, ma anche quelle con Mill” (ibid.), anche se, rispetto a quest’ultimo, vi è maggiore consapevolezza e minore ottimismo sulla complessità del processo che conduce a quel traguardo e sugli ostacoli da superare per raggiungerlo, primo tra tutti quello della disoccupazione tecnologica (da affrontare, secondo Keynes, riducendo sistematicamente l’orario di lavoro).

Sottolinea Bellofiore che qualche anno dopo Keynes avrebbe cambiato posizione su questo punto: mentre nel saggio del 1930 la prospettiva era quella della fine della scarsità e della liberazione dal lavoro, nella riflessione successiva, quella della General Theory, l’accento si sposta sul breve periodo e l’enfasi sull’esigenza di creare le condizioni per l’espansione del prodotto; un risultato tutt’altro che scontato, visto che, in condizioni di laissez-faire, è assai probabile il rischio che una crisi economica faccia precipitare la società in “una posizione di equilibrio nella quale l’occupazione sia abbastanza bassa e il tenore di vita abbastanza miserabile per ridurre a zero il risparmio” (citato a p. 339). Bellofiore attribuisce questo cambiamento d’accento al mutato quadro politico internazionale, e in particolare all’avvento del nazismo in Germania (una congettura che mi pare convincente).

Quanto appena detto aiuta a spiegare perché Keynes ritenga che il capitalismo vada salvato da se stesso. Il motivo lo abbiamo appena detto ed è sufficientemente noto perché ci si debba dedicare molto spazio: le economie capitalistiche di mercato, lasciate alle proprie dinamiche spontanee, sono fortemente esposte alle recessioni e, più in generale, al ristagno per l’insufficienza (sistemica) della domanda aggregata. Come troviamo scritto anche nei libri di testo, il risparmio non è domanda, ma solo astensione dal consumo, e diviene domanda solo se qualcuno lo trasforma in investimento, il che non è affatto scontato. Del resto, la Teoria generale di Keynes viene pubblicata negli anni della “grande depressione”, la più profonda, diffusa e prolungata crisi delle economie capitalistiche. Come abbiamo visto, il tema delle crisi e del ruolo della domanda era stato affrontato da importanti esponenti del pensiero economico del secolo precedente, da Malthus a Rosa Luxemburg, passando naturalmente per Marx. Keynes, però, non solo fornisce un solido quadro teorico per spiegarne i meccanismi ma identifica gli strumenti di policy per affrontarle, contenerle e risolverle rapidamente, consentendo alla crescita economica e all’accumulazione del capitale di riprendere il proprio cammino.

La lettura di Keynes proposta da Bellofiore mette in luce un altro elemento importante per cui il capitalismo ha bisogno di essere salvato da se stesso, ossia la perdita di consenso. Seguiamo il suo ragionamento, che prende le mosse da un lungo brano tratto da Le conseguenze economiche della pace (che fa seguito a quello citato alla pagina precedente). I capitalisti,

come api, […] risparmiavano e accumulavano a vantaggio anche della comunità, perché essi stessi avevano di mira fini più ristretti. […] Lo sviluppo di questo rimarchevole sistema dipendeva perciò da un doppio inganno. Da un lato le classi lavoratrici accettavano, per ignoranza o per impotenza, o erano costrette, persuase o indotte dal costume, dalla convenzione o dall’autorità e dal ben regolato ordine sociale, ad accettare una situazione per la quale esse potevano chiamare propria una ben piccola parte della torta che esse stesse e la natura e i capitalisti avevano cooperato a produrre. Dall’altro lato era consentito ai capitalisti di considerare propria la miglior parte della torta ed essi erano teoricamente liberi di consumarla, nella tacita, sottintesa condizione che in pratica ne avrebbero consumato una ben piccola porzione. Il dovere di “risparmiare” divenne celebrata virtù e l’ingrossamento della torta oggetto di vera religione (citato a p. 72).

Se però il dovere di risparmiare viene meno, se i proprietari del capitale, invece di investire i propri profitti, prendono a espandere i propri consumi, allora, dice Keynes, “l’inganno è rivelato; le classi lavoratrici possono non essere più disposte a così larghe rinunzie” (citato a p. 73). Per Keynes, la fine dell’epoca del risparmio (e della sua traduzione in investimento) matura a seguito della guerra. Una spiegazione più convincente, a mio avviso, può essere trovata nella crescente capacità delle imprese capitalistiche di sfuggire ai vincoli della concorrenza. Quale che sia la spiegazione, tuttavia, la rivelazione dell’inganno rischia di far suonare “l’ora della confisca” del capitale (il riferimento, implicito ma trasparente, è all’avvento del “comunismo”). E la cosa può essere evitata, appunto, a due condizioni: (i) che le economie capitalistiche riprendano a crescere; (ii) che i frutti della crescita vengano distribuiti anche ai lavoratori. A ben vedere sono gli elementi costitutivi della “tregua sociale tra capitale e lavoro dei primi trent’anni del secondo dopoguerra” (p. 76). Come sappiamo, sono stati gli anni della più sostenuta crescita economica mai conosciuta dal capitalismo, con ritmi di aumento del prodotto nazionale che non erano mai stati raggiunti, né prima né dopo. Non casualmente sono stati battezzati gli anni della golden age, l’epoca d’oro del capitalismo.

***

La golden age è finita oltre quarant’anni fa. Delle tante cause che sono state proposte per spiegare questa fine Bellofiore ne privilegia una, che sintetizza nella parola “conflitto”: conflitto tra Stati e tra capitalismi per l’egemonia sull’economia mondiale (Giappone vs USA; Europa, e soprattutto Germania, di nuovo vs Stati Uniti; oggi, come sappiamo, nello stesso tipo di conflitto l’avversario degli Stati Uniti è diventato la Cina); un conflitto alimentato dal gioco a tutto campo della finanza che tende a gestire l’allocazione dei capitali sul mercato mondiale. A questi conflitti Bellofiore aggiunge (privilegia) quello tra capitale e lavoro, del quale enfatizza non tanto la dimensione redistributiva (la lotta per gli aumenti salariali) quanto piuttosto l’aspetto “dell’organizzazione del lavoro e della prestazione lavorativa. Un antagonismo che si prolunga – certo, confusamente: ma non tanto confusamente da non essere discernibile – in una contesa sul come e cosa produrre” (p. 22).

Concordo solo in parte con questo tipo di spiegazione. Anche per me la crisi della golden age è stata innescata da una serie di conflitti: quello tra Stati Uniti e resto del mondo sviluppato, che si è concluso con la fine del sistema di cambi fissi stabilito a Bretton Woods nel 1944; quello tra paesi avanzati e paesi produttori di materie prime e di fonti di energia; e naturalmente quelli riguardanti il mercato del lavoro. Ma questi ultimi erano essenzialmente di carattere redistributivo (l’antagonismo segnalato da Bellofiore in merito al ruolo del lavoro sulla scelta di cosa e come produrre, mi pare francamente sopravvalutato; più un wishful thinking che un fenomeno reale). A loro volta, i conflitti erano la conseguenza dei successi degli anni della golden age. La grande crescita economica aveva determinato un rovesciamento dei rapporti di forza nei mercati del lavoro e delle materie prime, con conseguente passaggio, per servirci della terminologia di Artur Okun, da un quadro di “mercato del compratore” (in cui il “pallino” è in mano alle imprese e ai paesi avanzati) a uno di “mercato del venditore” (in cui il “pallino” passa in mano ai lavoratori e ai paesi produttori).

Dopo l’entrata in tensione dell’assetto della golden age è seguito un periodo turbolento, caratterizzato dall’esplodere dell’inflazione, che ha svolto il ruolo di rendere gestibili quei conflitti. Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso i costi economici e sociali dell’inflazione hanno cominciato a sopravanzare i benefici. Ed è solo allora che sembra sia tornata a imporsi quella “idea ‘selvaggia’ di capitalismo” di cui parla Bellofiore. Le principali caratteristiche del capitalismo degli ultimi quarant’anni sono ben note. La prima è il tramonto (l’eclisse?) del keynesismo. Esso viene criticato sul piano teorico (dagli economisti di scuola neoclassica), rifiutato sul piano delle politiche economiche (salvo però, nei momenti di crisi, ricorrere, per aggiustare le cose, all’arsenale di politiche economiche messo a punto nel corso dei decenni dagli economisti keynesiani) e sostituito da un’ideologia che affida al ‘libero’ mercato il compito di coordinare le scelte economiche. La seconda caratteristica è l’estensione a tutto il mondo della libertà di circolazione delle merci e della finanza, ma anche del decentramento delle produzioni e del lavoro, dando luogo a quel fenomeno complesso che si è soliti chiamare globalizzazione.

La terza caratteristica è quella che sta più a cuore a Riccardo Bellofiore, ed è la “destrutturazione del mondo del lavoro” (p. 18). Un paio di pagine prima aveva scritto che “la globalizzazione ci presenta un capitalismo sempre più organizzato e concentrato, ma con grandi imprese sempre più snelle e soprattutto con un lavoro sempre più frammentato”. Questo, per lui, è un chiaro segnale “che il progresso economico, riduttivamente inteso, non batte sempre la stessa strada del progresso sociale” (ibid.), sicché “l’accumulazione del capitale può procedere non riunificando naturalmente il mondo del lavoro ma segmentandolo e dividendolo” (p. 17). Insomma, per Bellofiore, nel capitalismo contemporaneo all’accumulazione del capitale non è più associata una corrispondente crescita di una “classe lavoratrice”, appunto perché l’impiego del lavoro da parte del capitale prende forme sempre più frammentate. Per servirci delle sue parole, “l’accumulazione del capitale nel mondo della globalizzazione tutto fa meno che riunificare il mondo del lavoro” (p. 20). E in questo quadro, in effetti, Smith e Keynes “hanno i loro problemi”, ma anche Marx “non sta molto bene” (ibid.)

Di nuovo, il mio accordo con questa tesi di Bellofiore è solo parziale, non tanto sul fenomeno della “destrutturazione del lavoro”, che è indiscutibile, quanto sulle sue cause. Non lo vedo, cioè, come una conseguenza della sconfitta del movimento dei lavoratori proprio nei decenni della golden age. In proposito Bellofiore scrive: “Se si cerca un’epoca in cui il lavoro comincia a recedere come dimensione totalizzante e assorbente della vita, una dimensione di cui i lavoratori finiscono con l’essere una semplice appendice, questa è l’era del fordismo- keynesismo” (p. 22). Io vedo invece la “destrutturazione del lavoro” come una conseguenza, sempre in quegli anni, del successo dei lavoratori, cui è stata però abbinata la mancata capacità di tradurlo verso direttrici strategiche più avanzate.

Nei decenni della golden age, era fortemente cresciuta l’occupazione e, soprattutto nell’ultima fase di quel periodo, erano cresciuti i redditi dei lavoratori ed erano fortemente migliorati gli aspetti normativi dei contratti. Le società si erano dotate di potenti istituti di welfare (salute, istruzione, anzianità, sicurezza). E, soprattutto nei paesi più avanzati, le decisioni politiche erano affidate a consolidate istituzioni democratiche. Anche i paesi delle parti più arretrate del mondo erano stati coinvolti nel processo generale di crescita. Il mondo stava cambiando, e in meglio. Per tutti, ma principalmente per i lavoratori. Certo, restava moltissimo da fare. Per riprendere (fuori dal contesto!) una frase di Bellofiore, non si vedeva ancora la fine della lunga fase della “lotta, non solo alla povertà, ma anche alla disoccupazione e all’ineguaglianza nella distribuzione del reddito” (p. 351), ma ci si era incamminati per la buona strada. Anche per il lavoro le cose stavano cambiando: l’accesso generalizzato all’istruzione stava aprendo possibilità di scelta che erano completamente impensabili anche solo per la generazione precedente.

Tutto ciò naturalmente costava. In parte è stato finanziato dalla crescita economica, finché è durata; in parte dalla tassazione (progressiva), anch’essa finché è durata; in parte dalla redistribuzione del reddito, che ha visto crescere la quota del lavoro come mai, nel capitalismo, prima e dopo quel periodo. Poi è subentrata l’inflazione; successivamente i debiti pubblici; infine la crisi. A questo punto ha cominciato a prendere corpo, nelle società capitalistiche avanzate, la tentazione da parte dei capitani d’industria di “dare una lezione ai lavoratori”, il cui potere, alimentato e sorretto da condizioni di pieno impiego stabile, prolungato e tutelato, veniva giudicato eccessivo e pregiudizievole per le sorti delle imprese. L’immagine è di Michal Kalecki, il quale, in un suo scritto del 1943, Political Aspects of Full Employments, argomenta i motivi per cui il compromesso keynesiano entra necessariamente in crisi quando la piena occupazione diventa una condizione stabile dell’economia (ne parla Bellofiore a p. 354).

Quella tentazione di fare i conti col lavoro, alimentata dall’esigenza di mettere fine all’inflazione e di riportare sotto controllo i conti pubblici, si è tradotta nella decisione di cambiare strada, o meglio di tornare indietro, ai meccanismi del mondo precedente. Un mondo molto più ingiusto, in cui la dinamica della distribuzione del reddito ha cambiato segno, in cui ha preso avvio un processo, sia pure contrastato, di smantellamento degli istituti del welfare state, in cui le stesse istituzioni democratiche sono state poste sotto pressione e sotto attacco. Ma anche un mondo più inefficiente, come dimostrano il rallentamento della dinamica del prodotto e i segnali, ancora sporadici ma sempre meno infrequenti, di secular stagnation. Ma non uno stato stazionario alla Mill e Keynes in cui si può provare a ragionare di liberazione dal lavoro (un tema a lungo discusso da Bellofiore su cui non intervengo, anche se mi piacerebbe); piuttosto una situazione in cui il problema di un futuro prossimo caratterizzato da una crescente disoccupazione tecnologica si fa sempre più pressante e angoscioso.

Come ho accennato prima, per Bellofiore la svolta neoliberista (con tutto quel che vi è associato) è stata la conseguenza di una sconfitta del movimento dei lavoratori, troppo schiacciato sulla posizione di lotta redistributiva che le era stata assegnata dal compromesso keynesiano. Io la vedo diversamente. Keynes era effettivamente riuscito a formulare un’analisi e una strategia capaci, se applicate, di salvare il capitalismo da se stesso. L’approccio keynesiano aveva creato le condizioni per cui si poteva approfittare delle circostanze favorevoli che si erano determinate dopo la fine della seconda guerra mondiale per far realizzare un grandioso balzo in avanti alle economie di tutto il mondo. Tuttavia le idee nuove, per quanto potenzialmente feconde, non sono mai sufficienti da sole. Hanno bisogno di politiche capaci di metterle in pratica; e a loro volta le politiche hanno bisogno di essere sorrette dal consenso. Gli anni della golden age sono stati il frutto della (fortunata?) combinazione di tutti e tre questi elementi. Poi quell’epoca felice per i sistemi economici di tutto il mondo si è esaurita, e non poteva che esaurirsi. Per andare avanti ci sarebbero volute idee nuove (il mondo era cambiato e quelle di Keynes non bastavano più), politiche nuove e un rinnovato sostegno popolare. Sono mancate tutte e tre, sicché siamo precipitati nell’inverno del nostro scontento.

***

Sono tante le cose di questo libro di Bellofiore su cui mi sono trovato in accordo e ce ne sono invece parecchie (di più? di meno?) su cui mi sono trovato in disaccordo. Di alcune ho parlato nelle pagine precedenti. Di altre non ho detto per motivi di spazio, così come, per gli stessi motivi, non ho trattato di molti argomenti del libro che meritavano di essere illustrati e discussi. Per esempio non ho detto praticamente nulla sulla questione della liberazione dal lavoro, cui Bellofiore contrappone, sulla scia del Marx dei Grundrisse, quella della liberazione del lavoro, una questione intricata, che occupa uno spazio importante (quantitativo e qualitativo) del libro. Così pure non ho dedicato lo spazio che avrebbe meritato al tema dell’origine filosofica (che si trova in Locke) del “postulato” che anima tutta la ricerca di Bellofiore, ossia che la fonte del valore è il lavoro, un’idea con cui talvolta sembra civettare lo stesso Keynes (cfr. p. 338). Ma sono contento di aver letto il libro. Nonostante la fatica che comporta il confronto con tematiche complesse e spesso ardue, si esce dalla sua lettura diversi da come ci si è entrati. Riccardo Bellofiore ha scritto un libro ricco di spunti di riflessione, alcuni discutibili ma sempre stimolanti. Un libro che fa pensare, e di questo lo ringrazio.


* Sapienza Università di Roma,
email: giorgio.rodano@gmail.com

Note
1 Cfr. p. 268 del libro di Bellofiore, anche se la frase dell’inedito di Sraffa cui si riferisce suona un po’diversa: “This would be simply a translation of Marx into English, from the forms of Hegelian metaphysics to the forms of Hume’s metaphysics”.
2 La frase citata nel testo prosegue con “e democratica”, una qualificazione che mi pare un tantino eccessiva.
3 Per una lettura più dettagliata di questo punto di Smith, rinvio a Rodano (2004, pp. 4 ss.).

Riferimenti bibliografici
Foley D.K. (1986), Understanding Capital: Marx’s Economic Theory, Cambridge (MA): Harvard University Press. Rodano G. (2004), “Il mercato del lavoro nella storia del pensiero economico”, Istituzioni e sviluppo economico, 2 (2), pp. 23-63; disponibile alla URL: http://www.storep.org/belgirate2004/docs/Rodano.pdf.

FONTE: https://www.sinistrainrete.info/marxismo/20956-giorgio-rodano-bellofiore-r-2020-smith-ricardo-marx-sraffa-il-lavoro-nella-riflessione-economico-politica-note-bibliografiche.html

 

 

 

Capitalismo delle piattaforme, capitalismo della sorveglianza. Altre stupidaggini ne abbiamo?

di G. P.

“Il capitale non è una cosa, ma un rapporto sociale fra persone mediato da cose. ”

“Un negro è un negro. Soltanto in determinate condizioni egli diventa uno schiavo. Una macchina filatrice di Cotone è una macchina per filare il cotone. Soltanto in determinate condizioni essa diventa capitale. Sottratta a queste condizioni essa non è capitale, allo stesso modo che l’oro in sè e per sè non è denaro e lo zucchero non è il prezzo dello zucchero.., Il capitale è un rapporto sociale di produzione. È un rapporto Storico di produzione» ”

Per Marx, come si evince dalle sue stesse affermazioni, il Capitale non è una cosa ma un rapporto sociale, affermatosi storicamente. Ciò significa, in primo luogo, che questo rapporto sociale oggettivo si erge in tutta la sua potenza di fronte all’individuo il quale è attore agito da questa “automaticità”, conseguenza di processi storico-sociali. Per questo Marx aggiunge che non dipingeva:

“affatto in luce rosea le figure del capitalista e dei proprietario fondiario. Ma qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi…

Il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi.”

Si sia o meno marxisti è indubitabile che la dinamica di una società così evoluta, ma anche meno sviluppata, non può dipendere dal volere dei singoli, quest’ultimi si trovano invece incastonati in caselle definite dal vivere collettivo che limitano e indirizzano le loro possibilità di azione. Anche se i soggetti sono certi di agire nella massima indipendenza (o libero arbitrio, come direbbero quegli ingenui dei liberali) il carattere storico del mondo da loro abitato ha già plasmato le loro menti, per cui quel che viene da loro percepito come movimento autonomo o persino forma di un habitat naturale contiene in sé quei condizionamenti sociali dai quali è quasi impossibile sfuggire. On n’échappe pas de la machine, direbbe Deleuze, ed anche se la macchina muta nelle epoche i singoli resteranno nuovamente invischiati nelle sue trasformazioni.

Questa prospettiva marxiana, è un vero antidoto contro quelle interpretazioni sciocche, ancora oggi tanto in voga, che attribuiscono a pochi illuminati la capacità di consorziarsi per soggiogare l’umanità con piani predeterminati a tavolino. Abbiamo visto che anche un critico di Marx come Popper riconosceva a costui il merito di aver compreso questo aspetto fondamentale della teoria sociale:

“Bisogna riconoscere che la struttura del nostro ambiente sociale è, in un certo senso, fatta dall’uomo; che le sue istituzioni e tradizioni non sono il lavoro né di Dio né della natura, ma i risultati di azioni e decisioni umane, ed alterabili da azioni e decisioni umane. Ma ciò non significa che esse siano tutte coscientemente progettate e spiegabili in termini di bisogni, speranze e moventi. Al contrario, anche quelle che sorgono come risultato di azioni umane coscienti e intenzionali sono, di regola, i sottoprodotti indiretti, inintenzionali e spesso non voluti di tali azioni. «Soltanto un piccolo numero di istituzioni sociali sono coscientemente progettate, mentre la stragrande maggioranza di esse è semplicemente “cresciuta”, come risultato imprevisto di azioni umane», come ho precedentemente affermato; e possiamo aggiungere che anche la maggior parte delle poche istituzioni che sono state progettate coscientemente ed hanno avuto successo (per esempio un’Università di nuova fondazione o un sindacato) non risultano pienamente conformi al progetto: anche in questo caso a causa delle inintenzionali ripercussioni sociali risultanti dalla loro creazione intenzionale” e di aver così allontanato dalle teste dei più intelligenti quelle teoresi cospirative consistenti “nella convinzione che la spiegazione di un fenomeno sociale consista nella scoperta degli uomini o dei gruppi che sono interessati al verificarsi di tale fenomeno (talvolta si tratta di un interesse nascosto che dev’essere prima rivelato) e che hanno progettato e congiurato per promuoverlo”.

Purtroppo, sedicenti marxisti, immemori degli sforzi marxiani, tutti volti a comprendere il rapporto sociale capitalistico dei suoi tempi, così rigorosi e scientifici, subiscono l’influenza delle “robinsonate tecnologiche” attuali. Non siamo ancora riusciti a penetrare la presente società dei funzionari (privati) del capitale di matrice americana con le sue specificità, seguendo l’esempio del pensatore tedesco che studiò a fondo quella inglese, e questi superficiali blaterano di capitalismo delle piattaforme o, peggio mi sento, di capitalismo della sorveglianza, che, “ovviamente” sono questioni centrali in questa fase. Chissà come mai queste grandi scoperte del secolo sono annunciate immancabilmente da una fumosità verbale che puzza di muffa pre-marxista:

“Se l’economia della condivisione veniva annunciata come un possibile approdo postcapitalista nella produzione della ricchezza post-capitalista, attraverso la diffusione virale di esperienze autogestite, mutualistiche, il platform capitalism segnala che tale possibilità è una variante di una tecnoutopia da archiviare rapidamente, un sogno cioè di inveterati libertari colpiti da una sindrome di Peter pan che impedisce a loro di crescere…la riconfigurazione del rapporto tra uomo e macchina, che non va visto come una relazione duale, bensì come l’emergere di una realtà postumana, dove l’animale umano non è più distinto dalla macchina”. Benedetto Vecchi.

Costui non distingue tra animali e macchine, esattamente come prima di Marx non si distingueva tra lavoro ed erogazione di forza-lavoro o meglio tra vendita del corpo e vendita dell’energia dei muscoli. Quante inutili incomprensioni ne sono derivate? C’è gente che ancora si arrovella sull’alienazione per sostenere che il capitalismo sia un vampiro di natura umana. Quale natura umana? La società , in cui l’uomo vive, sgorga dalla terra come una pianta o cresce come un frutto dagli alberi? E non è il capitalismo un prodotto umano oppure viene dallo spazio? Il post-umano è un umano con qualcosa di posticcio nel cranio, non so spiegarmi diversamente la cosa.

E che dire di quest’altra ubbia chiamata capitalismo della sorveglianza? Mi salta immediatamente la mosca al naso quando leggo: «Il capitalismo della sorveglianza è intimamente parassitico e autoreferenziale. Rimanda alla vecchia immagine di Karl Marx del capitalismo come un vampiro che si ciba di lavoro. C’è però una svolta inattesa. Il capitalismo della sorveglianza non si ciba di lavoro, ma di ogni aspetto della vita umana.»

Abbiamo chiarito poco sopra l’importante distinzione che fa Marx tra lavoro e forza-lavoro e questi parolai lo tirano di nuovo in mezzo per i loro deliri sconclusionati. Il capitalismo, o quello che è diventato, non si ciba di vita, non è parassitico e nemmeno autoreferenziale, almeno non tanto quanto quelli che scrivono simili stupidaggini. Basterebbe semplicemente, con un po’ di pragmatismo, guardare al grado di sviluppo a cui siamo giunti per rintuzzare tali vaneggiamenti distanti dalla realtà e dal buon senso.
Vedo persone che si cibano del proprio cervello e danno la colpa al capitalismo.

FONTE: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/20459-g-p-capitalismo-delle-piattaforme-capitalismo-della-sorveglianza-altre-stupidaggini-ne-abbiamo.html

 

 

DRAGHI & C. APRONO, DAL 2.8.2021, IL MATTATOIO FISCALE
OVVERO: 
DA LUNEDÌ 2.8.2021 BISOGNA PAGARE — NEL PIÙ ASSOLUTO SILENZIO ANCHE DI MELONI E SALVINI — LA RATA IN CORSO E LA PRIMA DI QUELLE A SUO TEMPO SOSPESE (FEBBRAIO 2020) DELLE ROTTAMAZIONI E DELLE RATEAZIONI FISCALI. PER POI, NEL GIRO DI POCHI MESI, DOVER PAGARE — COSA POSSIBILE SOLO PER BEN POCHI — TUTTO IL RESTO DELL’ARRETRATO E IL CORRENTE NEL MENTRE RIPRENDONO I PIGNORAMENTI.
È proprio vero che vogliono far fallire tutte le attività, incrementare esponenzialmente il numero dei disoccupati per rendere sempre più dominabile la società e spostare l’economia in mano alle multinazionali senza curarsi di coloro che si lasciano indietro.
Questo con il beneplacito dei grillini e della sinistra, ma anche di quella saputella di Meloni, di quel trombone di Salvini e di quel ‘pensosoloame’ di Berlusconi.
Se infatti, a febbraio 2020, gli indebitati non erano in grado di pagare, in che modo sarebbero diventatI oggi in grado di pagare tutto il vecchio e il nuovo dopo oltre un anno di cessazione totale o forte diminuzione delle attività a causa delle misure covid?
Ecco così che — distogliendo tutti con i temi sessuali, i bollettini covid minuto per minuto, le liti tra polemisti ed influencer, i peana sui cantanti e ballerini e quant’altro — stanno rifilando questa nuova, enorme fregatura al Paese.
E questo solo per rastrellare denaro inverato con cui ‘comprare’ (è più uno sconto, ma in realtà è un mero delitto) dalla BCE il denaro da inverare che dovrebbe invece produrre lo Stato a costo zero. Che è poi il lavoro in cui è sempre stato bravissimo Draghi.
La gente, intanto — anziché reagire dando forza a chi è in grado di difenderla — si chiude sempre più nel suo conservatorismo senza capire che tra poco non avrà più nulla da conservare perché la rovina di una qualsivoglia fascia sociale reca automaticamente anche quella delle altre.
30.7.21
FONTE: https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=270277944907279&id=100057752274172

 

 

FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI

COLPA PER COLPA, TUTTI I CARNEFICI DI MPS

FONTE: Il Fatto Quoitidiano 8 agosto 2021

 

 

 

GIUSTIZIA E NORME

Il Green Pass nasce morto: l’Ue proibisce l’apartehid

Il green pass potrebbe essere nato già morto sotto il profilo giuridico? E “la salvezza” contro questa misura potrebbe venire addirittura dall’Europa? Per quanto suoni paradossale, è una tesi tutt’altro che peregrina, benché surreale, scrive l’avvocato Francesco Carraro sul “Fatto Quotidiano”. Una volta tanto, una norma europea verrà in soccorso di chiunque dovesse finire, suo malgrado, nella rete di divieti e sanzioni intessuta dal decreto legge licenziato dal governo Draghi? «Parliamo, ovviamente, di chi non ha ancora voluto sottoporsi al vaccino. E magari non vorrebbe neanche sottoporsi a tre tamponi a settimana, solo per esercitare i diritti costituzionali più elementari». Carraro ricorda che il Regolamento europeo numero 953 del 2021 stabilisce che gli Stati devono tassativamente «evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate». In particolare, il regolamento «non può essere interpretato nel senso che istituisce un diritto o un obbligo a essere vaccinati».

Ora, è vero che le leggi «sono fatte per essere interpretate», e che “fatta la legge trovato l’inganno”, come è vero che «molti giudici potranno essere tentati di decidere in base all’antico adagio di Giovanni Giolitti: le leggi per i nemici si applicano, per gli amici si interpretano», ma in Carraroquesto caso – per Carraro – non sembrano esservi dubbi «circa la natura palesemente discriminatoria – e quindi in violazione del Regolamento numero 953 – delle prescrizioni contenute nel recentissimo decreto istitutivo del green pass». Infatti, aggiunge Carraro, l’introduzione della “carta verde” per accedere a tutta una serie di luoghi, eventi e servizi «crea inevitabilmente, e deliberatamente, una discriminazione ben precisa», distinguendo «tra chi il vaccino lo ha fatto (o non ha potuto farlo per motivi di salute) e chi invece ha scelto di non farlo, per ragioni personali insindacabili (in carenza di un obbligo di legge)».

«È necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, per esempio per motivi medici, perché – si legge nella norma europea – non rientrano nel gruppo di destinatari per cui il vaccino anti Covid-19 è attualmente somministrato o consentito, come i bambini, o perché non hanno ancora avuto l’opportunità di essere vaccinate o hanno scelto di non essere vaccinate». Un regolamento Ue, sottolinea Carraro, è direttamente applicabile Green Passnei singoli paesi: e può addirittura prevalere, in determinate circostanze, sulle norme nazionali, senza neppure dover ricorrere alla Corte Costituzionale. Per Carraro, il decreto istitutivo del green pass istituisce «una inammissibile discriminazione della categoria dei cosiddetti “no-vax”» i quali «potranno esercitare i diritti degli altri concittadini solo pagando il costo di tamponi quasi quotidiani».

In altre parole: occorre sottoporsi al (costoso) tampone per potersi riunire, per fare vita associativa, per svolgere una salutare attività sportiva e per poter continuare ad avere una normale, quotidiana convivialità. Libertà a gettone, con precise tariffe? Con il che, chiosa Carraro, si crea anche una inammissibile divaricazione tra ricchi e poveri, in totale spregio dell’articolo 3 della nostra Carta fondamentale. «Il tutto a causa di un maldestro tentativo di imporre, sia pure per via surrettizia e indiretta (e quindi sommamente ipocrita), un obbligo vaccinale». Un tentativo, però, «più che sufficiente a violare la norma europea». Infatti, secondo il Regolamento numero 953, va evitata ogni discriminazione non solo diretta, ma anche “indiretta” delle persone che non sono (e che non vogliono essere) vaccinate.

 

 

 

LA LINGUA SALVATA

Inestricabile
i-ne-stri-cà-bi-le

SIGNIFICATO Che non si può sbrogliare; irrisolvibile, insolubile

ETIMOLOGIA voce dotta recuperata dal latino inextricabilis, derivato di extricare ‘estricare’ con prefisso negativo in-, mentre extricare deriva da tricae ‘noie, preoccupazioni, imbarazzi’.

Questo è un bel caso in cui una parola prende dei sapori e si incarna in immagini di grande precisione a partire da suggestioni antiche più vaghe e nebulose.

Ora, quella del nodo è fra le metafore più comuni a cui ci rifacciamo per raccontare variamente di problemi, di questioni irrisolte. Anzi i nodi sono spesso le immagini attraverso cui proprio pensiamo queste situazioni — e lo testimonia il fatto che quella famiglia di parole che va dal risolvere alla soluzione racconta l’atto contrario dello sciogliere.

L’inestricabile è stato attratto in questo filone d’immaginazione. Dopo il meraviglioso viaggio sull’auto scoperta, i capelli si sono trasformati in un inestricabile nido di serpi, le cuffie lasciate in borsa si sono annodate in un groviglio inestricabile, così come resoconti diversi sullo stesso fatto ci abbandonano in un dubbio inestricabile sulla sua verità, mentre davanti alla più inestricabile delle questioni politiche ci sarà sempre chi darà soluzioni recise e tonte.

Però l’inestricabile parte da premesse diverse, e più generiche e delicate di quello che penseremmo. Come è facilmente immaginabile, ‘inestricabile’ deriva da un verbo, estricare, che però ormai è desueto; si tratta di una voce dotta, recuperata dal latino extricare. La base di questo verbo latino è il sostantivo plurale tricae: le noie, le preoccupazioni, gli imbarazzi, ma anche le inezie, le sciocchezze (l’etimologia ulteriore è ancora ignota).

Quindi, carteggiata la vernice dei significati attuali, l’extricare ci si presenta originariamente come un ‘tirar fuori da un fastidio’ — e un discorso analogo si potrebbe fare per il districare e l’intricare, parenti che variamente nascono dal verbo tricari, ‘creare difficoltà’.

Ma in italiano di questi significati primi e generali non resta che un’ombra: sono stati concordemente riletti in un immaginario tutto spire e viluppi, che dal fastidio e dall’imbarazzo ineluttabile ci porta piuttosto nel terrificante roveto della Bella addormentata nel bosco. Questo è sempre stato evidente, a chi parlasse italiano. Lo leggiamo perfino nella prima registrazione del termine nel Vocabolario degli Accademici della Crusca:

Inestricabile: Così avviluppato, intricato, stretto, e simili, da non potersi strigare, sciogliere, e simili; usato per lo più in senso figurato.

Parola pubblicata il 10 Agosto 2021

FONTE: https://unaparolaalgiorno.it/significato/inestricabile

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

L’impero degli Stati Uniti dopo l’11 settembre monitora, saccheggia e uccide

Stiamo continuando la pubblicazione del libro di Thierry Meyssan, Sotto i nostri occhi . In questo episodio espone le trasformazioni dell’impero americano grazie all’11 settembre: la creazione di un sistema di sorveglianza interna della popolazione civile e, all’esterno, il lancio di una guerra senza fine in Medio Oriente. Ritorna anche all’influenza postuma del filosofo Leo Strauss sull’abolizione degli scrupoli che i leader statunitensi e israeliani avrebbero potuto avere per attuare un tale programma.

Questo articolo è tratto dal libro Sotto i nostri occhi .
Vedere Sommario .

L’ammiraglio Arthur Cebrowski ha diviso il mondo in due: gli stati globalizzati e tutto il resto. Questi ultimi sono condannati ad essere nient’altro che serbatoi di ricchezza naturale e lavoro. La missione del Pentagono dopo l’11 settembre non è più quella di vincere le guerre, ma di privare le regioni non globalizzate delle strutture statali e di instillarvi il caos.

LA STRATEGIA DI WASHINGTON

Torniamo alla nostra narrazione. Nel 2001, Washington si era finalmente ubriacata e si era persuasa di un’imminente carenza di fonti energetiche. Il gruppo di lavoro, presieduto da Dick Cheney, sullo sviluppo della politica energetica nazionale (NEPD) aveva ascoltato tutti i funzionari pubblici e privati ​​responsabili della fornitura di idrocarburi. Avendo incontrato all’epoca il segretario generale di questa organizzazione, che il Washington Post ha descritto come una “società segreta” 1 , sono rimasto colpito dalla sua determinazione e dai suoi piani per far fronte alla carenza. Sicché, non sapendo nulla di questa domanda, ho aderito per un momento a questa visione malthusiana.

In ogni caso, Washington conclude che aveva bisogno di impadronirsi delle riserve conosciute di petrolio e gas il più rapidamente possibile per mantenere in funzione la sua economia. Questa politica verrà abbandonata quando l’élite statunitense vedrà la possibilità di sfruttare altre forme di petrolio oltre al greggio saudita, al petrolio texano oa quello del Mare del Nord. Prendendo il controllo di Pemex 2 , gli Stati Uniti si impadroniranno delle riserve del Golfo del Messico e proclameranno la propria indipendenza energetica mascherando il proprio pacchetto dietro la promozione del petrolio e del gas di scisto. Oggi, contraddicendo le previsioni di Dick Cheney, l’offerta di petrolio non è mai stata così grande e rimane a buon mercato.

Per controllare il “Wider Middle East”, il Pentagono esige piena libertà e distingue il suo obiettivo strategico dai desideri delle compagnie petrolifere. Attingendo al lavoro britannico e israeliano, ha intenzione di rimodellare la regione, vale a dire di abbattere i confini ereditati dagli imperi europei, di sopprimere i grandi stati capaci di resistergli e di creare piccoli stati etnicamente omogenei. . Oltre ad essere un progetto di dominio, questo piano si occupa dell’intera regione senza tener conto delle specificità locali. Se le popolazioni sono talvolta geograficamente distinte, sono anche totalmente intrecciate, rendendo illusoria la loro separazione a meno che non conduca a vasti massacri.

Secondo la dottrina Rumsfeld/Cebrowski, le guerre non dovrebbero più essere vinte. La stabilità è il nemico degli Stati Uniti. Per questo continuano ancora le guerre in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria, che dovevano essere vinte nel giro di poche settimane.

In effetti, la squadra che ha organizzato gli attacchi dell’11 settembre — di cui Dick Cheney faceva parte — sapeva tutto questo e ci aveva pensato molto prima. Quindi si applica una vasta riforma degli eserciti secondo il modello dell’ammiraglio Arthur Cebrowski. Quest’uomo ha già trasformato le pratiche militari statunitensi sulla base di nuovi strumenti informatici 3 . Ha anche sviluppato una strategia per distruggere gli stati come organizzazioni politiche e consentire alle grandi aziende IT di guidare il mondo globalizzato al loro posto 4 . Il giorno dopo l’11 settembre, la rivista dell’esercito, Parametri 5, espone il progetto di rimodellamento del “Wider Middle East” specificando che sarà particolarmente cruento e crudele. Indica che sarà necessario commettere crimini contro l’umanità che potrebbero essere subappaltati a terzi. Quindi il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld dà all’ammiraglio Cebrowski un ufficio al Pentagono per supervisionare tutto.

L’11 settembre non è quindi solo un mezzo per adottare con urgenza un codice antiterrorismo, l’ USA Patriot Act , redatto con almeno due anni di anticipo, ma anche per intraprendere una vasta riforma delle istituzioni: la creazione del Segretariato per la Difesa la Patria (Dipartimento della Sicurezza Nazionale, spesso erroneamente tradotto come Dipartimento della Sicurezza Nazionale) e quella delle Forze Speciali sotterranee (all’interno delle forze armate).

Il terzo segretario dell’ambasciata degli Stati Uniti a Mosca, Ryan C. Fogle, è stato arrestato dall’FSB nel 2013. Era uno degli uomini delle forze speciali segrete del Pentagono. Si stava preparando a reclutare una spia all’interno della direzione antiterrorismo del Caucaso. Al momento del suo arresto, era in possesso di tutto l’armamentario che gli permetteva di travestirsi e modificare le sue impronte digitali.

Il Dipartimento per la sicurezza interna non si limita a supervisionare varie agenzie come la guardia costiera o i servizi di immigrazione. È anche un vasto sistema di controllo della popolazione americana, che impiega 112.000 spie domestiche a tempo pieno 6 . Le Forze Speciali Clandestine sono un esercito di 60.000 uomini altamente addestrati, che agiscono senza uniforme sfidando le Convenzioni di Ginevra 7 . Possono assassinare chiunque voglia il Pentagono, in qualsiasi parte del mondo. E il Pentagono non si priverà di un ritorno su questo investimento nella massima segretezza.

LE GUERRE
CONTRO L’AFGHANISTAN E CONTRO L’IRAQ

Le operazioni iniziano con la guerra contro i talebani, in applicazione della dottrina Cheney dopo l’interruzione dei negoziati per costruire un oleodotto attraverso l’Afghanistan a metà luglio 2001. L’ambasciatore Niaz Naik, che da Berlino rappresentava il Pakistan ai negoziati con i talebani, era tornato ad Islamabad ritenendo inevitabile l’attacco statunitense 8 . Il suo paese aveva iniziato a prepararsi alle sue conseguenze. La flotta britannica si era dispiegata nel Mar Arabico, la NATO aveva inviato 40.000 uomini in Egitto e il leader tagiko Ahmed Shah Massoud era stato assassinato due giorni prima degli attacchi a New York e Washington.

I rappresentanti degli Stati Uniti e del Regno Unito all’ONU, John Negroponte e Sir Jeremy Greenstock, assicurano che il presidente George W. Bush e il primo ministro Tony Blair applichino il diritto all’autodifesa attaccando l’Afghanistan. Tuttavia, tutte le cancellerie sanno che Washington e Londra volevano condurre questa guerra indipendentemente dagli attacchi. Nella migliore delle ipotesi, concludono che stanno strumentalizzando il crimine di cui solo il primo è stato vittima. Tuttavia, riesco a mettere in dubbio il mondo su ciò che è realmente accaduto l’11 settembre. In Francia, il presidente Jacques Chirac fa valutare il mio lavoro dalla DGSE. Dopo una vasta indagine, scopre che tutti gli elementi su cui mi baso sono veri, ma non può confermare le mie conclusioni.

Il quotidiano Le Monde , che ha aperto una campagna per screditarmi, ha deluso la mia aspettativa che gli Stati Uniti attaccheranno l’Iraq 9 . Eppure accade l’inevitabile. Washington accusa Baghdad di ospitare membri di Al Qaeda e di preparare armi di distruzione di massa per attaccare la “terra dei liberi”. Quindi sarà guerra, come nel 1991.

Donald Rumsfeld sapeva che l’Iraq aveva armi chimiche perché le aveva vendute lui stesso per dichiarare guerra all’Iran. Ma li aveva usati tutti.

Tutti si trovano quindi di fronte a un caso di coscienza. Continuando a chiudere gli occhi sul golpe dell’11 settembre, ci asteniamo dal contestare il discorso degli Stati Uniti e ci troviamo costretti ad approvare il seguente crimine: l’invasione dell’Iraq come accade. Solo un alto funzionario internazionale, Hans Blix, decide di difendere la verità 10. Questo diplomatico svedese è l’ex direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA). Presiede la Commissione di controllo, verifica e ispezione delle Nazioni Unite, che sovrintende all’Iraq. Ribellandosi a Washington, afferma che l’Iraq non ha i mezzi di cui è accusato. Una pressione senza precedenti grava presto sulle sue spalle: non solo l’impero americano, ma tutti i suoi alleati stanno facendo pressione su di lui per fermare la sua puerilità e lasciare che la prima potenza al mondo distrugga l’Iraq. Non si arrenderà, nemmeno quando il suo successore all’Aiea, l’egiziano Mohamed el-Baradei, farà finta di fare il pacificatore.

Il 5 febbraio 2003, il segretario di Stato ed ex presidente dei capi di stato maggiore congiunti Colin Powell ha tenuto un discorso al Consiglio di sicurezza, il cui testo è stato scritto dal team di Cheney. Accusa l’Iraq di tutti i mali, compresa la protezione degli autori degli attacchi dell’11 settembre e la preparazione di armi di distruzione di massa per attaccare gli stati occidentali. Di passaggio, rivela l’esistenza di un nuovo volto di Al-Qaeda, Abu Moussab Al-Zarqaoui.

Il ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin è venuto al Consiglio di sicurezza dell’ONU per opporsi alla guerra degli Stati Uniti contro l’Iraq.

Ma, a sua volta, Jacques Chirac si rifiuta di partecipare al crimine. Tuttavia, non immagina di denunciare le bugie di Washington. Invia al Consiglio di sicurezza il suo ministro degli Esteri, Dominique de Villepin. Ha lasciato i rapporti della DGSE a Parigi e ha concentrato il suo intervento sulla differenza tra una guerra imposta e una guerra scelta. È chiaro che l’attacco all’Iraq non ha nulla a che fare con l’11 settembre, ma è una scelta imperiale, una conquista. Villepin evidenzierà poi i risultati già ottenuti da Blix in Iraq. Quindi sgonfierà le accuse statunitensi per dimostrare che l’uso della forza non è giustificato in questa fase e concluderà che nulla prova che la guerra possa ottenere risultati migliori della continuazione delle ispezioni. Credendo che questo intervento offrirà una via d’uscita a Washington e che la guerra sarà evitata, il Consiglio di Sicurezza lo applaude. È la prima volta che i diplomatici applaudono uno di loro in questa stanza.

Non solo Washington e Londra imporranno la loro guerra, ma dimenticando Hans Blix, gli Stati Uniti intraprenderanno ogni tipo di operazione per “far pagare Chirac”. Il presidente francese non tarderà ad abbassare la guardia e a servire il suo signore americano più del necessario.

Nonostante le minacce, Hans Blix, presidente della Commissione di controllo, verifica e ispezione delle Nazioni Unite (UNMOVIC), ha rifiutato di confermare che l’Iraq avesse armi di distruzione di massa nel 2003. Eppure questo era l’argomento usato dal presidente Bush per giustificare la sua guerra contro questo paese.

Dobbiamo imparare le lezioni di questa crisi. Hans Blix, come il suo connazionale Raoul Wallenberg durante la seconda guerra mondiale, rifiutò l’idea che gli americani (o tedeschi) fossero superiori agli altri. Decise di cercare di salvare uomini che non avevano commesso altri crimini che essere iracheni (o ebrei ungheresi). Jacques Chirac avrebbe voluto essere come loro, ma i suoi errori precedenti ei segreti della sua vita privata lo hanno esposto a un ricatto che gli ha lasciato solo la scelta di dimettersi o sottomettersi.

Washington prevede di mettere al potere a Baghdad gli iracheni in esilio che ha selezionato da un’associazione britannica, il Consiglio nazionale iracheno, presieduto da Ahmed Chalabi. Non viene preso in considerazione se sia anche considerato un truffatore internazionale dopo la sua condanna per il fallimento della Bank Petra of Jordan. Il produttore di aerei Lockheed Martin ha creato un Comitato per la Liberazione dell’Iraq 11 , di cui George Shultz, ex Segretario di Stato e mentore di Bush Jr., ha assunto la presidenza. Questo Comitato e il Consiglio di Chalabi stanno vendendo questa guerra all’opinione pubblica americana. Assicurano che gli Stati Uniti si limiteranno a fornire assistenza all’opposizione irachena e che non tarderà.

Come l’attacco all’Afghanistan, l’attacco all’Iraq è stato preparato prima degli attacchi di New York e Washington. Lo stesso vicepresidente Dick Cheney ha negoziato all’inizio del 2001 l’istituzione di basi militari statunitensi in Kirghizistan, Kazakistan e Uzbekistan come parte dello sviluppo degli accordi del Battaglione dell’Asia centrale (CENTRASBAT) della Comunità economica dell’Asia centrale. Poiché i pianificatori prevedevano che per condurre questa guerra le truppe avrebbero richiesto 60.000 tonnellate di materiale al giorno, il Comando di gestione del traffico militare (MTMC) era incaricato di iniziare in anticipo la logistica del trasporto lì. .

Determinato avversario del tandem Rumsfeld/Cebrowski, il generale Paul Van Riper (già in pensione) venne a comandare le “forze rosse” (Iraq) durante una simulazione dell’attacco a questo Paese. Riuscì a provocare danni che sarebbero costati agli Stati Uniti almeno 20.000 uomini. Prima di attaccare questo Paese, il Pentagono ha preferito corrompere i generali del presidente Saddam Hussein piuttosto che affrontare il suo esercito.

L’addestramento delle truppe non ebbe luogo fino a dopo gli attacchi. Queste sono state le manovre militari più importanti della storia: “ Millennium Challenge 2002” . Questo gioco di guerra mescolava manovre reali e simulazioni della stanza del personale eseguite utilizzando strumenti tecnologici utilizzati a Hollywood per il film Gladiator. Dal 24 luglio al 15 agosto 2002 sono stati mobilitati 13.500 uomini. Le isole di San Nicola e San Clemente, al largo della California, e il deserto del Nevada erano state evacuate per fungere da teatro delle operazioni. Questa dissolutezza di risorse ha richiesto un budget di 235 milioni di dollari. Per la cronaca, i soldati che simulavano le truppe irachene erano comandati dal generale Paul Van Riper; attuando una strategia non convenzionale, hanno prevalso agilmente sulle truppe statunitensi tanto che il personale ha interrotto l’esercitazione prima della fine 12 .

Non tenendo conto né dei rapporti di Hans Blix né delle obiezioni francesi, Washington ha lanciato ” Operazione Iraqi Liberation” il 19 marzo 2003. Dato il significato del suo acronimo inglese, OIL (olio), viene ribattezzata “Operazione Iraqi Freedom” ( Operazione Iraqi Freedom ) . Un fuoco di ineguagliabile potenza discende su Baghdad, provocando “shock e stupore” ( Shock and Awe ). I Baghdadi sono storditi mentre gli Stati Uniti e i suoi alleati si impadroniscono del paese.

Donald Rumsfeld affidò l’Iraq conquistato al vice privato di Henry Kissinger, L. Paul Bremer III. Lì dirigeva una società privata soprannominata pomposamente “Autorità provvisoria della coalizione”. Non si sa chi furono i felici beneficiari di questa operazione.

Il governo viene prima assunto da un ufficio del Pentagono, l’ORHA ( Office of Reconstruction and Humanitarian Assistance ), poi dopo un mese da un amministratore civile nominato dal Segretario alla Difesa, L. Paul Bremer III, assistente privato di Henry Kissinger. Ben presto assunse il titolo di amministratore dell’Autorità provvisoria della coalizione. Tuttavia, contrariamente a quanto suggerisce questo nome, questa Autorità non è stata creata dalla Coalizione che non si è mai riunita e di cui non si conosce l’esatta composizione 13 .

Per la prima volta compare un organo che dipende dal Pentagono, ma non compare in nessun organigramma degli Stati Uniti. È il ramo del gruppo che ha preso il potere l’11 settembre 2001. Nei documenti rilasciati da Washington, l’Autorità è indicata come un organo della Coalizione se il documento è destinato agli stranieri e come un organo di governo. è destinato al Congresso. Ad eccezione di un funzionario del Regno Unito, tutti i dipendenti dell’Autorità sono pagati dalle amministrazioni statunitensi, ma non sono soggetti alla legge statunitense. Sono anche a loro agio con il Code des Marches Publics. L’Autorità sequestra il Tesoro iracheno, cioè 5 miliardi di dollari, ma nei suoi conti compare solo un miliardo. Che fine hanno fatto i restanti 4 miliardi? La domanda viene posta alla conferenza di Madrid per la ricostruzione. Non riceverà mai una risposta.

L’ambasciatore Peter W. Galbraith, che ha inventato il mito del presidente Saddam Hussein come genocida dei curdi, è stato incaricato di attuare il piano del senatore Joe Biden per dividere l’Iraq in tre stati separati.

Il vice di Paul Bremer altri non è che Sir Jeremy Greenstock, il rappresentante del Regno Unito al Consiglio di sicurezza che ha giustificato gli attacchi all’Afghanistan e all’Iraq. Durante l’occupazione, gli Stati Uniti stanno esaminando la possibilità di rimodellare l’Iraq, in questo caso la spartizione in tre stati, secondo il piano del senatore democratico Joe Biden. Bremer invia quindi l’ambasciatore Peter Galbraith – che ha organizzato la spartizione della Jugoslavia in sette stati separati – come consigliere del governo regionale curdo.

Il professor Leo Strauss aveva scelto alcuni dei suoi studenti ebrei per formare un gruppo di opliti (soldati di Sparta). Li mandò a interrompere i corsi dei suoi rivali all’Università di Chicago. Insegnò loro che è meglio costituire una dittatura che essere vittima di un tale regime.

Bremer lavora direttamente con il vice segretario alla Difesa Paul Wolfowitz, che ha fissato la futura strategia degli Stati Uniti durante la dissoluzione dell’URSS. È un ebreo trotskista che si è formato nel pensiero di Leo Strauss. Ha installato molti seguaci del filosofo tedesco al Pentagono. Insieme formano un gruppo strutturato, molto coerente e unito. Secondo loro, imparando dalla debolezza della Repubblica di Weimar di fronte ai nazisti, gli ebrei non possono fidarsi delle democrazie per proteggerli da un nuovo genocidio. Al contrario, devono schierarsi dalla parte dei regimi autoritari e stare dalla parte del potere. Così, l’idea di una dittatura mondiale è legittimata in modo preventivo 14 .

Wolfowitz espone le linee principali del lavoro dell’Autorità Provvisoria della Coalizione, vale a dire la de-Baathificazione del paese – cioè il licenziamento di tutti i dipendenti pubblici che sono membri del partito laico Baath – e il suo saccheggio economico. Su sue istruzioni, Bremer assegna tutti gli appalti pubblici a società amiche, di solito senza gare d’appalto; che esclude in linea di principio francesi e tedeschi colpevoli di essersi opposti a questa guerra imperiale 15 .

Tutti i membri del Project for a New American Century , il gruppo di esperti che ha preparato l’11 settembre, sono incorporati, direttamente o indirettamente, o lavorano con la Coalition Provisional Authority.

Fin dall’inizio, queste persone hanno sollevato una forte riluttanza. Primo quello del rappresentante del Segretario generale dell’Onu, il brasiliano Sérgio Vieira de Mello. Fu assassinato il 19 agosto 2003, presumibilmente dal jihadista Abu Moussab Al-Zarqaoui che Powell aveva denunciato alle Nazioni Unite. Al contrario, chi è vicino al diplomatico sottolinea il conflitto tra lui e Wolfowitz e accusa direttamente una fazione statunitense. Fu poi il generale James Mattis, comandante della 1st Divisione Marine, a preoccuparsi per le disastrose conseguenze della debaasificazione. Alla fine si rimetterà in riga.

Trasportati dai successi negli Stati Uniti, in Afghanistan e in Iraq, gli uomini dell’11 settembre stanno orientando il loro Paese verso nuovi obiettivi.

TEOPOLITICA

Dal 12 al 14 ottobre 2003 ha luogo uno strano incontro al King David Hotel di Gerusalemme. Secondo il biglietto d’invito: “Israele è l’alternativa morale al totalitarismo orientale e al relativismo morale occidentale. Israele è il “Ground Zero” della battaglia centrale della nostra civiltà per la sua sopravvivenza. Israele può essere salvato, e il resto dell’Occidente con esso. È tempo di unirsi a Gerusalemme. “

Diverse centinaia di personalità dell’estremo diritto israeliano e americano vengono accolte a spese della mafia russa. Avigdor Lieberman, Benyamin Netanyahu e Ehud Olmert si congratulano con Elliot Abrams, Richard Perle e Daniel Pipes.

Il professor Leo Strauss ha instillato nei suoi seguaci che la teopolitica avrebbe permesso loro di governare il mondo.

Condividono tutti la stessa convinzione: la teopoli. Secondo loro, la “fine dei tempi” è vicina. Presto il mondo sarà governato da un’istituzione ebraica con sede a Gerusalemme 16 .

Questo incontro preoccupa gli israeliani progressisti, soprattutto perché alcuni oratori si riferiscono a Baghdad, conquistata sei mesi prima, come l’antica “Babilonia”. È ovvio per loro che la teopolitica su cui si rivendica questo congresso è una rinascita del Talmudismo. Questa corrente di pensiero – di cui Leo Strauss era uno specialista – interpreta l’ebraismo come una preghiera millenaria del popolo ebraico per vendicare i crimini degli egiziani contro i loro antenati, la loro deportazione in Babilonia da parte degli assiri e persino la distruzione di gli ebrei d’Europa dai nazisti. Ritiene che la “dottrina Wolfowitz” prepari l’Armageddon (la battaglia finale) che sarà l’instaurazione del caos prima nel più ampio Medio Oriente, poi in Europa. Una distruzione generale che segnerà la punizione divina di coloro che hanno fatto soffrire il popolo ebraico.

L’ex primo ministro Ehud Barak si rende conto dell’errore che ha commesso rifiutando la pace che lui stesso ha negoziato con i presidenti Bill Clinton e Hafez al-Assad; una pace che avrebbe preservato gli interessi di tutte le popolazioni della regione e che i teopolitici non volevano. Comincia a riunire gli ufficiali che cercheranno invano di impedire la rielezione di Benyamin Netanyahu, nel novembre 2014, all’interno dei Comandanti per la sicurezza israeliana (Gli alti ufficiali per la sicurezza di Israele). Continuerà la sua battaglia fino a pronunciare il suo discorso nel giugno 2016, alla conferenza di Herzliya, in cui denuncerà la politica peggiore di Netanyahu e il suo desiderio di istituzionalizzare l’apartheid. Inviterà i suoi compatrioti a salvare il loro paese bloccando questi fanatici.

(Continua …)

FONTE: https://www.voltairenet.org/article213718.html

 

 

POLITICA

Green Pass, la dittatura sanitaria diventa permanente

Le cure ci sono, ma è come se non ci fossero. Che esistano e funzionino lo sanno benissimo, ma se ne infischiano. Se ne stra-fregano anche dei medici che le hanno messe a punto, le terapie. Non solo: li emarginano, li minacciano, li ricattano. Con il Green Pass, anche l’Italia di Draghi (come la Francia di Macron) è entrata nella Dittatura Sanitaria Permanente. Obbedendo a ordini impartiti dall’alto, Giuseppe Conte non aveva esitato a mettere l’intero paese agli arresti domiciliari: lockdown e coprifuoco, in stile cinese, per schiantare l’economia e trasformare il Belpaese nell’apripista europeo dell’orrore orwelliano. Chi sperava che l’avvento del “nuovo” Draghi potesse cambiare il gioco, è rimasto amaramente deluso: da un lato, il super-tecnocrate del Grande Potere sembra puntare a risollevare l’economia evitando il massacro economico improntato all’antico rigore fiscale e caldeggiato dalla “sinistra”; ma dall’altro non retrocede di un millimetro, sul fronte della Menzogna Sanitaria che ha trasformato il Covid nella peste bubbonica del terzo millennio.

Per chi alimenta blog come questo – da anni, ormai – probabilmente è giunto il momento di fermarsi. Il web, nonostante la censura medievale, straripa di notizie “clandestine”: social e video traboccano delle testimonianze dei medici (veri) che dimostrano come hanno Draghisconfitto la grande paura, ricorrendo a farmaci semplicissimi e riducendo praticamente a zero i ricoveri. E l’establishment – anziché premiarli – li umilia, comportandosi come se non esistessero. Il governo non li considera neppure, e i grandi media li trattano come squilibrati e stregoni. L’intera politica italiana si è genuflessa alla Narrazione Universale della Menzogna, e Mario Draghi agisce in modo risoluto nella direzione più pericolosamente liberticida: mettere i cittadini di fronte a un obbligo irragionevole, anti-scientifico, irrazionale, corroborato unicamente da frottole, dati truccati e superstizioni ridicole. A chi sostiene che tutto questo sarebbe il male minore (di fronte all’incubo di un nuovo lockdown autunnale) è facile obiettare che non è chiaro cosa sia peggio, tra una misura dracroniana ma temporanea e una “nuova normalità” imposta per decreto, destinata a durare per un bel po’, se non per sempre.

I cittadini sembrano divisi in almeno tre fazioni. Ci sono gli ipocondriaci creluloni, disposti a seppellirsi in casa (e a seppellire anche i vicini) pur di non rischiare di ammalarsi: sono lavoratori dipendenti o pensionati, ai quali non importa nulla della strage economica causata dai lockdown. Poi ci sono gli opportunisti: hanno fiutato l’imbroglio, ma si adeguano a tutto pur di non subire inconvenienti. Una terza parte di cittadinanza – più attiva e sveglia, più libera, più intelligente, più democratica – rifiuta la Dittatura Sanitaria: ieri violava il lockdown e il coprifuoco, mentre oggi si astiene dall’ambigua, preoccupante profilassi genica sperimentale (che gli ipocriti chiamano “vaccino”) e domani affronterà vasti disagi a causa del rifiuto del Green Pass, imposto proditoriamente a intere categorie (scuola, sanità) e trasversalmente all’intera cittadinanza, sottoposta al ricatto come precondizione per frequentare gli spazi della vita sociale. Si è raggiunto un punto di non ritorno, perché l’imposizione è basata sulla più squallida e conclamata menzogna. Da oggi in poi, vigente l’attuale regime, avrà ancora senso parlare di politica?

DEMOCRAZIA: POTERE DEL POPOLO!

di Gianni Lannes 11 08 2021

Nel XXI secolo la mancanza di demos (il popolo) è la ragione principale dell’assenza di democrazia, sostituita in un lampo dalla tecnocrazia covidiota. In tal modo, il cosiddetto “sistema democratico”, senza demos è solo cratos (potere) di pochi. È ciò che mi ha insegnato – al liceo classico – il mio professore di greco antico. Questa lezione vale nel presente del mondo, intossicato dalla falsa pandemia orchestrata dall’arroganza di autorità ed esperti. Il paradigma dominante non è l’etica ma l’economia, ossia il tornaconto, vale a dire il profitto; peggio il dominio sull’umanità ridotta a cavia, sottomessa e subordinata.

Le seguenti verità universali sono di per sé evidenti: gli esseri umani hanno uguali diritti civili. La libertà è un diritto inalienabile, impossibile da sospendere, condizionare o togliere a pretestuoso piacimento della cosiddetta insicurezza sanitaria.

Mi auguro che il mondo a partire dall’Italia abbia finalmente – in ogni nazione per fronteggiare la globalizzazione – una rinascita umanistica di libertà in base a un governo del popolo, dal popolo e per il popolo.

Riferimenti:

Gianni Lannes, IL GRANDE FRATELLO. STRATEGIE DEL DOMINIO, Draco edizioni, Modena, 2012.

https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=libert%C3%A0

https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=coronavirus

https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=vaccini

FONTE: http://sulatestagiannilannes.blogspot.com/2021/08/democrazia-potere-del-popolo.html

Sulla coercizione liberale

di Andrea Zhok

Gli stati, sotto certe condizioni di emergenza o urgenza, possono esercitare atti di imperio e coercizione sulla propria popolazione.

La coercizione classica, ad esempio la chiamata alle armi a difesa della patria, era esercitata ad un tempo come chiamata etica ad uno sforzo di protezione dell’intera collettività e come assunzione di responsabilità del governante, che si faceva garante della giustezza (e della buona gestione) dell’iniziativa.

Quest’assunzione di responsabilità, automaticamente implicita nell’atto di pubblica coercizione, non era priva di conseguenze: di fronte ad esiti nefasti di quell’iniziativa coatta i governanti erano chiamati a risponderne. Non a risponderne legalmente, con qualche forma di “responsabilità limitata”, ma fisicamente, in prima persona. L’esito tipico delle sconfitte militari era, ed è, l’abbattimento dei vertici che hanno promosso l’azione, e spesso la loro fine ingloriosa o violenta.

Questa premessa ci permette di focalizzare su cosa c’è di indecente nella forma di “coercizione soft” connessa ad iniziative come il Green Pass.

Se i nostri governanti fossero assolutamente sicuri di quello che stanno facendo, se fosse vero che l’unica strada per affrontare la pandemia in questa fase è la vaccinazione a tappeto, se fossero davvero certi – come dicono di essere – che l’operazione è del tutto sicura sul piano delle conseguenze per la salute dei cittadini, allora non ci sarebbe nessun problema a prendere la strada dell’obbligo universale.

Questo creerebbe, come è giusto che sia, due gruppi ben definiti: quelli che si assumono la responsabilità delle decisioni e quelli che le decisioni le subiscono. Tutta la cittadinanza starebbe dalla stessa parte, sarebbe accomunata da un destino comune, ed eventualmente si potrebbe mobilitare in comune nel momento in cui qualcosa nella strada presa si mostrasse erroneo o esiziale.

Ma – nonostante tutti i proclami – questa non è affatto la situazione reale. Ed è per questo che viene adottata la forma tipica della coercizione liberale: la coercizione dissimulata, recitata come se si trattasse di libera scelta.

E’ importante vedere che si tratta di un modello classico, non di una recente escogitazione in occasione del Covid. Il modello liberale è quello che ti dice che se non vuoi lavorare per un tozzo pane sei liberissimo di crepare di fame: è una tua libera scelta e nessuno ti ha costretto. Il modello liberale è quello che spacca sistematicamente la società in brandelli perché mette tutti in competizione con tutti gli altri, insegnando a vedere nel tuo vicino un avversario.

Così, il modello della coercizione liberale applicato all’emergenza Covid è quello che ti dice che nessuno ti obbliga a vaccinarti, è una tua libera scelta.

Certo, se non lo fai, o se non lo fai fare ai tuoi figli, beh, vi scordate il cinema, la palestra, il ristorante, il teatro, il bar, la piscina, il treno, l’aereo, l’università e spesso anche il lavoro.

Però è una tua scelta e nessuno ti obbliga.

Poi, è vero, a parte questo, se non lo fai vieni additato anche come un traditore, un nemico della patria, un cretino, un paranoico, un egoista, un ignorante e un perdente, alimentando l’odio o il disprezzo altrui.

Però sia ben chiaro, puoi esercitare una libera scelta.

E nel caso tu voglia esercitare la tua libera scelta, prenderti il tuo appuntamento, firmare una liberatoria, mostrando il tuo consenso (dis)informato, bene così.

Ricorda che l’hai voluto tu.

Questa procedura consente al governante di trattare con la massima serenità qualunque azzardo.

Chi se la sentirebbe di obbligare ad assumere un farmaco sperimentale un ragazzino o una donna in stato di gravidanza in mancanza di una schiacciante evidenza che le alternative sono peggiori?

Ma con la forma di coercizione liberale il problema non si pone. L’obbligo a tutti gli effetti concreti sussiste, ma assume le vesti della scelta personale, di cui si fa carico chi sceglie.

Se – Dio non voglia – tra un paio d’anni dovessimo scoprire che l’azzardo è andato male, che sussistono conseguenze rilevanti, chi pensate che sarà possibile chiamare a rispondere?

Tra un paio d’anni gli stessi che oggi imperversano con disposizioni normative e certezze apodittiche saranno irreperibili.

Chi sarà a curarsi dei suoi quattro alani nella tenuta in campagna, chi si godrà una pensione dorata, chi sarà stato promosso ad altro prestigioso incarico.

Le eventuali lamentele, gli eventuali danni saranno risolti con un’alzata di spalle da nuovi “responsabili” e con qualche mancia di indennizzo estratta dall’erario pubblico.

In ogni caso, anche se l’azzardo andasse a buon fine, o con danni collaterali non massivi, ne saremo usciti peggiori: il paese una volta di più spaccato, con un senso di impotenza diffusa e di irresponsabilità generale.

FONTE: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/20948-andrea-zhok-sulla-coercizione-liberale.html

 

 

 

SCIENZE TECNOLOGIE

La tecnica ci ha reso neo-primitivi

José Ortega y Gasset

L’uomo è giunto a porre fra la natura e sé una zona di pura creazione tecnica tanto spesse e profonda che è venuta a costituire una “sovranatura”. E l’uomo massa è irrimediabilmente ascritto e collocato in questa artificialissima sovrannatura come l’uomo primitivo nel suo ambiente naturale primordiale. E questo comporta un rischio: come apre gli occhi all’esistenza l’uomo si trova circondato di una quantità favolosa di oggetti e procedimenti creati dalla tecnica che formano un primo paesaggio artificiale di tale spessore da occultare la natura primaria sotto di essa, tenderà a credere che come in natura, tutto questo esiste di per sé: che l’automobile e l’aspirina non sono cose che bisogna fabbricare, ed hanno dovuto essere inventate (con metodo e genialità) bensì cose, come la pietra e la pianta, che sono date all’uomo senza suo previo sforzo. Ossia, può arrivare perdere la coscienza della tecnica e delle condizioni, ad esempio, morali, in cui questa viene prodotta – tornando, come il primitivo, a non vedere in essa se non doni naturali che esistono di per sé e non esigono lo sforzo per sostenerla e mantenerla. Di modo che la prodigiosa espansione della tecnica le fece prima a spiccare sopra il sobrio repertorio delle nostre attività naturali e gli ha permesso di acquisire pieno coscienza di essa, ma col proseguio della sua fantastica espansione, la sua crescita fa’ obnubilare questa coscienza.

(così spiegato il tecnocrate Cingolani che ignora a cosa serve il CO2 e la massa troppo ignorante per difendere il benessere arificialissimo regalatogli dalla tecnica)

FONTE: https://www.maurizioblondet.it/la-tecnica-ci-ha-reso-neo-primitivi/

 

 

Vaccini senza sicurezza

Andrea Zhok  5 08 2021

Riassumendo.
Siamo circondati da autorevolissimi personaggi che ti spiegano che un vaccino:
approvato in un decimo del tempo ordinario,
con tecniche innovative o proprio inedite,
testato solo sopra i 16 anni,
senza analisi di genotossicità,
senza indagine delle interferenze con altri farmaci,
di cui – per farlo funzionare meglio – si consigliano cocktail di combinazioni inedite con altri vaccini,
andrebbe somministrato serenamente anche a ragazzini in crescita e a donne in gravidanza.
E te lo dicono nel nome della Scienza.
E se sollevi dubbi sei un analfabeta funzionale.
Perché, come al solito: “There is no alternative”.
Confesso che se mi avessero raccontato che avrei vissuto in un’epoca in cui questa cialtroneria sarebbe passata per autorevolezza scientifica non ci avrei mai creduto.

FONTE: https://www.facebook.com/100005142248791/posts/1908266296021427/

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