NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI 8 MARZO 2019

https://www.nuovatlantide.org/la-vera-storia-dellotto-marzo/

NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI

8 MARZO 2019

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

Caro Dio, perdonaci e ti perdoneremo

(Leo Rosten)

In: GINO & MICHELE, Visto che non posso avere la maggioranza, Kowalski, 2007, pag. 27

 

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https://www.facebook.com/Detti-e-Scritti-958631984255522/

 

Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.

 

Tutti i numeri dell’anno 2018 della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com 

 

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SOMMARIO

Gli immigrati musulmani non voglio integrarsi

Maurice Bardèche e la profezia su identità e patriottismo. 1

LA MORTE VIAGGIA SU AUTO ELETTRICA. 1

20 anni senza Stanley Kubrick: 10 cose da sapere 1

8 marzo: perché è la festa della donna? 1

Ops, nel Mediterraneo non ci sono più ONG ma i migranti partono ancora. 1

Dove possono portare le nuove tensioni tra India e Pakistan 1

Gli USA scaricano Guaidò per far posto alla guerra. 1

Gli intellettuali sovranisti? Sono gli esclusi dall’élite precedente 1

Verba volant: moglie… 1

L’intelligence italiana rilancia l’allarme per il terrorismo islamico. 1

“Dateci l’assegno di Di Maio”. È già coda di rom e immigrati 1

Autarchia dell’immigrazione, ovvero i cinesi in Italia. 1

IMMIGRAZIONE, ACCOGLIENZA E INTEGRAZIONE. 1

Dieci obiettivi contro la recessione 1

Come procede la protesta del latte dei pastori sardi 1

Vel-Eni: corruzione e petrolio 1

LA CRESCITA DELLO “SHADOW BANKING” 1

“Geopolitica. Storia di un’ideologia”: una prefazione. 1

La Turchia spazza via la cultura cristiana della parte occupata di Cipro. 1

Attenzione ai cavalli di Troia dei Rothschild. 1

Ancora demografia. 1

La vera storia dell’8 marzo

 

IN EVIDENZA

Gli immigrati musulmani non vogliono integrarsi. Lo rivela un sondaggio choc

Di Anna Pedri – 19 Settembre 2017

A un musulmano su 3 non interessa integrarsi in Italia. Lo dice un sondaggio commissionato dal quotidiano Il Giorno alla società Ipr Marketing.

Non che ci fosse bisogno di un sondaggio per rendersene conto, ma si è voluto dare la parola ai diretti interessati. E così un campione di 500 immigrati musulmani è stato intervistato su come si trova in Italia e sul suo livello di integrazione nel nostro Paese.

I dati sono stati poi disaggregati per le categorie sesso, età e area di residenza in modo da poter essere rappresentativi dell’universo di riferimento. I risultati parlano chiaro: il 60 per cento degli intervistati non si è ambientato e oltre la metà si mantiene senza lavorare. Moltissimi hanno avuto difficoltà con la lingua, motivo per cui, secondo loro, è difficile adeguarsi ai valori occidentali.

Due sono i macro-gruppi in cui si dividono i musulmani:

  • quelli sopra i 54 anni, più oltranzisti e conservatori, che non intendono integrarsi in Italia sebbene non abbiano alcune intenzione di andarsene dal nostro Paese,
  • e quelli più giovani, di cui solo il 45% si sente integrato.
  • Gli altri o non riescono o non vogliono. E proprio questo ultimo dato è il più allarmante

 

Continua qui: https://www.ilprimatonazionale.it/approfondimenti/immigrati-musulmani-non-vogliono-integrarsi-sondaggio-choc-72972/

 

 

 

 

Maurice Bardèche e la profezia su identità e patriottismo

Pubblicato il 17 Febbraio 2019 da Enrico Nistri

 

Maurice Bardèche non era una persona facile. Era un uomo dalle molte sfaccettature e dalle mille contraddizioni, dietro l’apparenza monolitica di Omero dei collaborazionisti. Era anticomunista, ma portava tutti gli anni un mazzo di fiori al muro dei Federati, in ricordo dei Comunardi vittime della repressione. Forse, per questo, quando morì nel sonno, a 91 anni, nel 1998, “Libération” gli dedicò un onesto tributo, ricordandolo come “fasciste patenté” ma anche come “critique reconnu”, nel necrologio a firma di Vincent Noce. Aveva fondato una rivista intitolata “Défense de l’Occident”, ma, lui che non nascondeva le sue simpatie per il fascismo, in un celebre libro che alimentò la confusione mentale di una generazione non nascose la sua stima per Fidel Castro.

Pluricondannato per antisemitismo, in un’intervista a Enzo Biagi, raccolta poi nel volume Francia (Rizzoli, 1978), confessò che gli piacevano le sinagoghe e che adorava i ghetti e rimproverava semmai a Hitler di avere rastrellato gli ebrei poveri lasciando in pace “i grossi israeliti perché gli erano utili economicamente”. Ammetteva l’attrattiva sensuale che esercitavano su di lui le giovani ebree, e confessò che fu anche il naso un po’ prominente di Suzanne Brasillach a far scattare al primo incontro la scintilla che l’avrebbe indotto a sposarla.

 

Suzanne era la sorella di Robert Brasillach, il saggista, poeta, romanziere, giornalista che sarebbe stato condannato a morte per collaborazionismo e fucilato nella prigione di Fresnes. E proprio la morte del cognato, cui lo legavano una profonda amicizia e un fecondo sodalizio letterario, lo spinse a scegliere di schierarsi dalla parte dei “vinti della liberazione”, lui che, fine critico letterario, autore di fondamentali saggi su Balzac e Proust, si era tenuto in posizione defilata durante l’occupazione tedesca. Patrick Besson, anche lui esponente di una sinistra non settaria, disse di lui che “entrò nella Collaborazione dopo la Liberazione”, il che era un modo di portare al massimo grado il suo anticonformismo. In realtà il suo era un fascismo impossibile, fatto più di suggestioni letterarie che di postulati filosofici, il sogno di una società capace di fondere le virtù militari lacedemoni e la raffinatezza della civiltà degli Stati confederati americani prima della guerra di Secessione, evocato nel suo saggio Sparta e i sudisti.

 

L’incontro nel 1980

Chi scrive lo incontrò solo una volta, in circostanze piuttosto burrascose, nella primavera del 1980, all’incontro romano sul fascismo organizzato dalla Fondazione Volpe, l’istituzione culturale creata dall’ingegner Giovanni Volpe per onorare la memoria del padre, il grande storico dell’età medievale e moderna Gioacchino, epurato per la sua adesione al regime. Vi parteciparono, insieme a professori o ricercatori universitari come Domenico Settembrini, Zeev Sternhell, J.A. Gregor e Paolo Nello, alcuni esponenti del fascismo “storico” come Nino Tripodi, all’epoca direttore del “Secolo d’Italia”, e lo stesso Bardèche. La convivenza non fu semplice. I nodi vennero al pettine quando Tripodi, infastidito da alcune tesi critiche sul fascismo emerse dal convegno, uscì in un intervento in cui sostenne di voler mettere “le cose a posto”; ma a migliorare le cose non contribuì Bardèche, che rivolgendosi allo studioso israeliano Sternhell gli disse, pensando di fargli un complimento, che per essere un ebreo aveva tenuto una relazione molto intelligente e obiettiva. L’insigne autore di Al di là della destra e della sinistra non la prese sportivamente. Ne nacque un comunicato di protesta che comunque non ottenne alcuna ospitalità presso i giornali, abituati a ignorare gli incontri della Fondazione.

Di Bardèche lessi nemmeno ventenne in lingua e in edizione originale il libro forse più famoso, e senz’altro più famigerato: Nuremberg ou la terre promise, il pamphlet in cui attaccava frontalmente il processo contro i criminali di guerra nazisti e che

 

Continua qui: http://www.barbadillo.it/80797-focus-maurice-bardeche-e-la-profezia-su-identita-e-patriottismo/

 

 

 

 

LA MORTE VIAGGIA SU AUTO ELETTRICA

LE VERITÀ SCOMODE DELLE AUTO ECOLOGICHE

 

05/03/19

Carissimo Direttore, fra pochi giorni quasi tutte le testate giornalistiche daranno notizia del salone dell’auto di Ginevra e ci parleranno del rapporto automobile-ecologia per convincerci che non c’è altro futuro automobilistico che non sia a propulsione elettrica o ibrida. Se non vengono smentiti con argomenti veri e comprovati riusciranno nel loro intento reale, che è sempre e solo quello di fare propaganda a chi li paga, mascherando da informazione parole mirate e finalizzate ad uno scopo preciso, nella migliore tradizione del giornalismo prezzolato e a libro paga dei potenti.

Conoscendo molto bene le cose che non verranno dette, sento il dovere di fornirvi un’analisi tecnica completa, portando così in evidenza le verità scomode di cui questo “imbuto tecnologico” dentro al quale ci stanno portando: rischi molto alti per l’incolumità della “popolazione stradale” a cui tutti noi apparteniamo, anche da pedoni.

Nel settore nautico, la propulsione elettrica è una realtà consolidata da tempo. Il caso più evidente è quello dei sottomarini, che per le loro necessità di navigazione, non possono fare a meno di un’architettura propulsiva Elettro-DieselDiesel per la navigazione in emersione (con contemporanea generazione di corrente elettrica per la ricarica di poderose batterie di accumulatori) ed elettrica per la navigazione in immersione. Nemmeno i sottomarini a tecnologia “air indipendent” ne fanno eccezione. Molti natanti hanno poi ereditato dai sottomarini lo stesso schema motopropulsivo.

In campo aeronautico si stanno ipotizzando varie architetture, ma le reali possibilità di applicazione sono minori, perché come potete veder dagli schemi illustrati, necessitano sempre di pesanti batterie.

Per i velivoli commerciali dove il carico pagante è la ragione d’essere, non si può accettare di sacrificare questo per dover trasportare le batterie e tutta l’elettronica ad esse collegate. Si perfezionerà, quindi, la tecnologia motoristica tradizionale (in particolare per metodi e materiali di costruzione) e ci si affiderà alla chimica per produrre carburanti adeguati, anche di origine vegetale, per esempio utilizzando le alghe marine.

Per i velivoli a pilotaggio remoto destinati a missioni brevi, i motori elettrici potranno invece essere davvero utilizzati, perché questi velivoli non devono trasportare carico pagante elevato (solo strumentazioni ed armi) e contemporaneamente necessitano di propulsione silenziosa e bassa tracciatura infrarossa. E comunque se un drone precipita i danni causati dalla presenza di batterie sono “inclusi” nel danno causato dall’impatto da caduta.

Dal settore aeronautico potrebbe però evolvere in campo automobilistico l’architettura “turboelectric”. La possibile evoluzione potrebbe facilmente essere realizzata con una piccola turbina a metano preposta al solo azionamento di un generatore elettrico. Questa è infatti l’unica soluzione veramente accettabile per una diffusione globale di auto a trazione elettrica veramente sicure.

Quando questo avverrà, si potrà concludere che bastava sviluppare le idee proposte già ad inizio anni ’90 da Renault e Volvo a livello di prototipo e risparmiare capitali incredibili impiegati in ricerche partite da un presupposto (l’impiego di batterie ad alta tensione) sbagliato. Ma nel frattempo ci avranno fatto adeguatamente perdere la memoria di questo.

E così siamo arrivati al nocciolo della questione:

ciò che rende così pericolosi i veicoli ibridi ed elettrici che circolano sulle nostre strade è la loro batteria ad alta tensione

(SE DANNEGGIATA NELL’INCIDENTE).

Due premesse, quindi:

  1. la prima (appena fatta), è che l’incidente deve aver compromesso l’integrità dell’involucro della batteria di alta tensione, ma incidenti di questo tipo sono comunque quotidianamente tanti, ogni giorno. Altrimenti va onestamente detto che non ci sono altri problemi che non siano il costo elevato delle batterie, la loro durata e smaltimento e l’impatto ambientale per la loro costruzione;
  2. definire “ad Alta Tensione” questo tipo di batterie non è corretto da un punto di vista squisitamente elettrotecnico, vengono così chiamate in ambito automobilistico perché superano abbondantemente i 60 V DC, limite di sopravvivenza per di chi ne fosse esposto.

Stiamo parlando di batterie in grado di accumulare tensioni di circa 400 Volt DC ed erogare correnti fino a 125 Ampère.

Tutti sapete cosa succede se mettete due dita nella presa di corrente di casa vostra, dalla quale escono 220V (AC) e al massimo 16 Ampère!

Le batterie di alta tensione ad uso automobilistico sono poi realizzate con materiali (Litio) che si possono incendiare al contatto con l’acqua.

Facciamo allora uno sforzo di immaginazione e rispondiamo a queste due semplici domande:

  1. a quali rischi si esporrebbe chi dovesse soccorrere il guidatore di un veicolo elettrico centrato da un tram?
  2. a quali rischi si esporrebbe chi dovesse trovarsi a spegnere l’incendio di una vettura a benzina coinvolta in un incidente grave con un’auto elettrica?

Se avete risposto… avete capito tutto.

Occorrerebbe poter riconoscere immediatamente l’auto elettrica e impedire a chiunque di avvicinarsi ed usare solo estintori a CO2 o polvere. Poi delimitare la zona, accertarsi del rischio elettrico ed eventualmente annullarlo nel modo tecnicamente più idoneo per quella specifica vettura (sempre che le condizioni ambientali e meteorologiche lo consentano)! Vi pare facile?

 

Chi corre quindi il pericolo di folgorazione?

 

È semplice: i primi soccorritori! (gli occupanti del veicolo incidentato sono considerabili – non me ne vogliate – “spendibili”)

Non ci sono odori o colature di liquido che possano mettere in allarme, né altro indizio per accorgersi se ci sono cavi alimentati interrotti e scoperti, tali da generare un arco voltaico o una folgorazione

Ma se c’è stata la rottura dell’involucro della batteria di alta tensione i suoi moduli interni potrebbero essere in corto circuito con la carrozzeria e così UCCIDERE chi entra in contatto con la carrozzeria.

Di questi pericoli i costruttori di automobili sono ben coscienti, ma come cercano di porre rimedio?

In primo luogo, progettano le vetture al meglio di come possono, e sviluppano logiche ad attivazione automatiche per eliminare l’erogazione di corrente dalla batteria. Sono sforzi progettuali enormi, ma nessun progettista del mondo potrà mai prevedere come potrebbe effettivamente danneggiarsi una batteria in caso di incidente, perché non esiste un incidente uguale all’altro e perché le auto non sono delle autoblindo!

Tutti i costruttori si stanno allora indirizzando verso la “guida autonoma”, perché è l’unico modo per evitare gli incidenti stradali. L’intento è però vanificato dalla presenza di un parco auto circolante di livello tecnologico troppo eterogeneo. Sulle nostre strade continueranno sempre a girare auto che non si sa come facciano a superare la revisione …altro che essere in grado di fare la “guida autonoma”!

I Vigili del Fuoco sanno dove andare a tagliare i cavi che portano la tensione elevata, ma il loro intervento non fa altro che eliminare l’erogazione di corrente elettrica in uscita dalla batteria secondo il normale percorso di progetto. Il loro intervento non isola affatto i componenti INTERNI della batteria aventi tensione superiore a 60 V, e nell’incidente la corrente elettrica potrebbe aver trovato una via di fuga differente da quella su cui i Vigili del Fuoco agiscono con il loro intervento competente ed attrezzato.

Nella batteria ci sono certamente dei fusibili che interrompono il collegamento in serie delle sue celle interne, ma questi interrompono solo il collegamento fra moduli, non impedire che il singolo modulo, individualmente, possa costituire un pericolo letale istantaneo.

Le case costruttrici di auto ibride o elettriche formano alcuni tecnici, ed il programma di formazione è affidato al buon cuore della propria organizzazione. Ci sono case automobilistiche che fanno corsi seri ed altre no.

Ma anche nei casi più illuminati, questi tecnici così formati rappresentano solo una minima parte rispetto a quelli in forza presso le loro concessionarie ufficiali. E senza voler toccare l’argomento di quanto dispongano in termini di attrezzature adeguate nel loro lavoro quotidiano (operativo ed extra-scolastico), mi limito a dire che a loro spetta l’ingrato compito dell’artificiere davanti alla bomba.

Gli organi istituzionali Europei o Italiani hanno prodotto normative di sicurezza adeguate? No! non esiste una regolamentazione specifica per l’ambito automobilistico e ci si limita a generiche prescrizioni mutuate da altri ambiti operativi. Chiedete al Ministro dei Trasporti o alla Commissione Trasporti quali estremi di legge regolamentano l’argomento.

Nel migliore dei casi vi risponderanno che è stato adottato il protocollo del Comitato Elettrotecnico Italiano, che nasce per i rischi elettrici degli edifici e di altre infrastrutture operanti in alta tensione (quella “vera”, da 10000 V), ma non hanno ancora prodotto nulla di specifico in merito ai rischi delle automobili in vendita e circolanti per le nostre strade!

Intervenire su un incendio ad un quadro elettrico ferroviario da 10000V è infatti meno rischioso di soccorrere un’automobilista rotolato giù da una scarpata con la sua auto elettrica da 400V, perché nel primo caso si può tagliare l’erogazione di corrente “a monte”, a costo di isolare un intero quartiere, nel secondo no e bisogna intervenire subito!

In Germania, dove ogni millantata fermezza serve unicamente a nascondere il loro annaspare nella più totale incertezza, ogni singolo intervento “sul campo” da parte dello “specialista” incaricato dalla casa costruttrice del veicolo deve essere preventivamente autorizzato dal datore di lavoro. Questo è già uno scaricare sullo “specialista” ogni responsabilità, ma almeno lascia trasparire di aver intuito la delicatezza della questione.

Qui in Italia il datore di lavoro dello “specialista” dà un’unica autorizzazione “a vita”! Non è previsto nessun addestramento periodico, né visita medica supplementare oltre alla prima (tra l’altro non obbligatoria) per il conseguimento della qualifica. Se chi oggi ha preso la qualifica di “specialista”, perde domani i requisiti psicofisici o l’allenamento all’esecuzione delle procedure di verifica della scena dell’incidente, peggio per lui. Lui è “specialista” e come tale deve intervenire.

Inutile poi ricordare che l’incidente “grave” può succedere ovunque, non soltanto davanti al cancello di una concessionaria ufficiale della casa produttrice del veicolo incidentato, con lo “specialista” pronto ad intervenire attrezzato di tutto punto!

A chi dovesse obiettare che prestare soccorso ad un’auto a gas o a benzina pesantemente incidentata fa ugualmente correre dei rischi anche grandi, rispondo che da ustionato o da mutilato si sopravvive, mentre da folgorato si muore e subito, senza essere stato preventivamente messo in allarme da odori o dai liquidi, come invece avviene per le auto dotate di motori a combustione!

Sicuramente il problema dell’inquinamento c’è, ma la strada giusta per risolverlo non è quella delle auto dotate di batteria ad alta tensione. Con la diffusione di queste auto ci saranno sempre più morti folgorati. Mi aspetto che un giorno qualche

 

Continua qui: http://www.difesaonline.it/evidenza/lettere-al-direttore/la-morte-viaggia-su-auto-elettrica-le-verit%C3%A0-scomode-delle-auto

 

 

 

 

ARTE MUSICA TEATRO CINEMA

20 anni senza Stanley Kubrick: 10 cose da sapere

 

di Michele Razzetti – 7 MAR, 2019

 

Ricorre il ventennale dalla scomparsa del regista, fra gli altri, di “Shining”. Ecco dieci curiosità su questo genio del cinema

Eyes Wide Shut, Full Metal Jacket, ShiningArancia meccanica2001: Odissea nello Spazio. Potremmo continuare, ma ci limitiamo a questi cult cinematografici firmati dal genio di Stanley Kubrick, scomparso per un infarto vent’anni fa, il 7 marzo 1999.

Su un mostro sacro della regia come Kubrick si sono scritti trattati e saggi a non finire. Ma per celebrare il suo talento, abbiamo selezionato qui dieci informazioni curiose, grazie all’aiuto di Giaime Alonge, docente di Storia del Cinema all’università di Torino.

  1. La dignità della fantascienza

Kubrick ha dato una nuova dignità alla fantascienza, che fino a 2001: Odissea nello spazio era un genere di serie B”. Per farlo, Kubrick ha fatto leva anche su imponenti (e costosi) effetti speciali. Un investimento ripagato non solo dal successo al botteghino, ma anche dall’Oscar proprio per gli effetti speciali. E il risultato è che a distanza di cinquant’anni “l’ambientazione del film risulta ancora credibile. E questo nonostante in genere gli effetti speciali siano un tratto del linguaggio cinematografico che invecchia molto velocemente”.

  1. Il perfezionismo
    La scrupolosità di Kubrick è leggendaria. Le scene potevano essere girate decine e decine di volte prima che fosse soddisfatto del risultato. E i suoi interventi non si limitavano alla regia. “Kubrick era padrone totale dei suoi film. Arrivava a dire la sua perfino per il doppiaggio che i suoi film subivano per la distribuzione nei paesi stranieri”.
  2. L’occhio attento al mercato
    Stupisce che gli ultimi titoli di Kubrick abbiano tutti avuto un successo enorme. Certamente hanno contribuito la sua abilità e i fondi (quindi i tempi) di cui disponeva. Ma Kubrick aveva anche un certo talento nell’intercettare temi molto popolari. È il caso di Lolita, romanzo di Nabokov che al tempo provocò scandali enormi e su cui basò una delle sue pellicole. “I film di Kubrick sono destinati a un audience di massa” che quasi sempre ha ripagato le sue intuizioni.
  3. Quasi…
    Sì, c’è un’eccezione. L’unico film che non ebbe incassi da capogiro fu Barry Lyndon(1975), nonostante rimanga un capolavoro. Nel film Kubrick si affidò esclusivamente alla luce naturaledel sole e delle candele; spesso nei film in cui vediamo delle candele, invece, “c’è in realtà dietro un riflettore bello grosso”. Una sfida mica da poco, che affrontò nuovamente grazie alla tecnologia. “Applicò alle macchine da presa delle lenti speciali, costruite in origine per la Nasa”.
  4. Gli ambienti riprodotti in vitro
    Kubrick abbandona a un certo punto gli Stati Uniti – dove non fa ritorno – per l’Inghilterra. Ne deriva che anche le scene dei suoi film ambientate negli Usa siano in realtà riprodotte in studio. E questo vale anche per il Vietnam di Full Metal Jacket: tutti gli ambienti sono stati ricostruiti negli studi inglesi.
  5. Scene scartate: Blade Runner

Non potevano mancare alcune leggende su un artista del calibro di Kubrick. Una vuole che

 

Continua qui: https://www.wired.it/play/cinema/2019/03/07/stanley-kubrick-20-anni/?refresh_ce=

 

 

 

 

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

8 marzo: perché è la festa della donna?

Origini e storia della giornata internazionale della donna, che dal 1909 si celebra ogni 8 marzo.

 

07 MARZO 2018 | FOCUS.IT

 

L’idea di una giornata internazionale della donna nasce nel febbraio del 1909 negli Stati Uniti, su iniziativa del Partito socialista americano. L’anno seguente, nel 1910, la proposta venne raccolta da Clara Zetkin a Copenaghen, durante la Conferenza internazionale delle donne socialiste.

Dai documenti del congresso non sono chiare le motivazioni che spinsero alla scelta di quella data, l’8 marzo, e in realtà e fino al 1921 i singoli Paesi scelsero giorni diversi per la celebrazione. È solo in occasione della Seconda conferenza delle donne comuniste (Mosca, 1921), che viene proposta e approvata un’unica data per le celebrazioni, in ricordo della manifestazione contro lo zarismo delle donne di San Pietroburgo (1917).

 

FALSI STORICI. Alcune tradizioni fanno anche riferimento a un episodio drammatico accaduto negli Stati Uniti, nel 1857, quando alcune operaie chiuse in fabbrica dal padrone perché non partecipassero a uno sciopero, persero la vita a causa di un incendio.

 

In Italia e altri Paesi si è fatto spesso riferimento a un presunto episodio analogo avvenuto a New York l’8 marzo del 1911, quando nel rogo di una fabbrica di camicie persero la vita 134 donne. Sembra però che la fabbrica fosse inesistente e che

 

Continua qui: https://www.focus.it/cultura/storia/giornata-internazionale-della-donna-8-marzo

 

 

 

 

 

 

BELPAESE DA SALVARE

Ops, nel Mediterraneo non ci sono più ONG ma i migranti partono ancora

Malta recupera 87 persone vicino Lampedusa per un guasto a una nave militare italiana, mentre Salvini diserta (per l’ennesima volta) un vertice del Consiglio Ue sull’immigrazione

 

di Luca Gambardella – 6 Marzo 2019

 

Come da consuetudine il ministro dell’Interno Matteo Salvini non parteciperà a un altro Consiglio Ue tutto dedicato all’immigrazione. Domani mattina a Bruxelles si riuniranno i ministri dei 28 che discuteranno della riforma della Guardia costiera europea e del regolamento sulla politica di asilo. A quell’ora però, Salvini è atteso in Basilicata, al Grande Albergo di Potenza, per un comizio a sostegno della campagna elettorale del candidato del centrodestra Vito Bardi.

Le defezioni di Salvini alle riunioni europee sui migranti non sono una novità. Anche se oggi il commissario europeo per l’Immigrazione, Dimitris Avrampoulospresentando i progressi compiuti dall’Ue, ha fatto capire che è questo il momento di agire e di trovare un accordo sull’accoglienza. Benché l’Ue sia lontana da un’emergenza sbarchi, le cose potrebbero cambiare nei prossimi giorni con il mare più calmo, il vero “pull factor” dei barconi che tentano di attraversare il Mediterraneo. Per Avramopoulos serve un approccio più coordinato e sistematico e “delle soluzioni temporanee sugli sbarchi”, in attesa di una riforma del sistema di Dublino (per la quale si aspetta da due anni una decisione definitiva a livello intergovernativo). Per il commissario, “i numeri degli arrivi continuano a diminuire anno dopo anno e siamo tornati ai livelli del 2013”. “L’Europa non è più interessata da una crisi come quella del 2015, ma rimangono dei problemi strutturali”, ha ricordato il vicepresidente della Commissione, Frans Timmermans. Il messaggio è rivolto in particolare alla presidenza dell’Ue, che finora ha tenuto l’immigrazione al di fuori dell’agenda dei lavori in vista del Consiglio europeo del 21 e 22 marzo.

 

Intanto, sebbene il Mediterraneo sia sgombro da qualsiasi nave umanitaria, i barconi dei migranti continuano a partire verso l’Italia. Un

 

Continua qui: https://www.ilfoglio.it/politica/2019/03/06/news/ops-nel-mediterraneo-non-ci-sono-piu-ong-ma-i-migranti-partono-ancora-241655/

 

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

Dove possono portare le nuove tensioni tra India e Pakistan

Gli ultimi bombardamenti riaccendono le tensioni nel Kashmir. Che si riverberano su tutta la regione. E s’intrecciano con la mancata pacificazione afgana.

CARLO PANELLA – 27 FEBBRAIO 2019

Siamo alla vigilia di una nuova guerra, la quinta, tra Pakistan e India dopo che l’aviazione di New Delhi ha bombardato un campo di mujaheddin nel Kashmir pachistano, provocando la risposta di Islamabad? Difficile fare previsioni, ma il quadro potrebbe essere meno allarmante di quanto non appaia. Anche se il contesto è da oltre 60 anni rovente. La mossa durissima del 26 febbraio dell’aviazione indianaindubbiamente ha offeso la sovranità di Islamabad, ma i Mirage 2000 si sono ben guardati dal colpire qualsiasi obiettivo pachistano e si sono limitati a mettere nel mirino un campo di addestramento del gruppo Jaish-e-Mohammed, legato ad Al Qaeda in una remota valle a ridosso del famosissimo Khyber Pass, facendo 300 morti. Un’azione massiccia, di ritorsione al grave attentato del 14 febbraio scorso, organizzato appunto da questo gruppo, che è costato la vita a ben 42 paramilitari indiani.

LE RADICI DEL CONFLITTO: LO STRAPPO DEL MAHARAJA SINGH

Durissima, a parole, la reazione di Islamabad contro la violazione della propria sovranità, ma non è impossibile che l’episodio non dia vita a una escalation militare diretta tra le due nazioni, anche se nei prossimi giorni assisteremo a movimenti di truppe e risposte colpo su colpo (il 27 febbraio il Pakistan ha abbattuto due jet indiani catturando i piloti, ndr). E ancora una volta il mondo dovrà prendere atto che il Kashmir è il fulcro dellatensione tra India e Pakistan. Tensione che iniziò nel 1947 e che ha immense conseguenze nell’area, incluse, appunto almeno tre delle quattro guerre tra i due Paesi. La questione è intricata. L’accordo di divisione del Rajiv inglese sull’India del 1947-48, che doveva vedere il passaggio alla sovranità del Pakistan degli Stati a maggioranza musulmana e quindi il passaggio alla sovranità dell’India degli Stati a maggioranza indù, fu infine violato dal maharaja del Kashmir Hari Singh, della dinastia Dogra, che dopo molti tentennamenti decise nel 1948 di scegliere la sovranità dell’India, nonostante la assoluta maggioranza della sua popolazione fosse musulmana.

 

Il vulnus del Kashmir è alla base del sotterraneo appoggio delle Forze Armate del Pakistan e dell’Isi ai talebani afgani

UNA GUERRA DOPO L’ALTRA: DAL 1949 AL 1999

Di qui, la prima guerra indo-pachistana del 1949 scatenata da Islamabad, poi quella del 1965 e infine quella del 1999, tutte sostanzialmente vinte – come la guerra tra i due Paesi in Bangladesh – dall’India. Con la guerra del 1949 il Pakistan, sconfitto, riuscì però a garantirsi la sovranità su una parte minoritaria – e marginale – del territorio del Kashmir, quella appunto ora bombardata dai Mirage 2000 indiani. Dunque, il vulnus del Kashmir è fondante per lo spirito nazionale del Pakistan e ha conseguenze enormi, tanto che – lo si dimentica sempre negli Usa e in Occidente – è alla base del continuo e sotterraneo appoggio delle Forze Armate del Pakistan e dell’Isi(il Servizio segreto pachistano) ai talebani afgani (prima e dopo il 2001 addirittura anche ad Al Qaeda). Appoggio determinante per la sostanziale sconfitta della pacificazione dell’Afghanistan dal 2001 a oggi.

GLI INTRECCI CON LA QUESTIONE AFGANA

La Dottrina della sicurezza nazionale del Pakistan, proprio a causa del Kashmir

 

Continua qui: https://www.lettera43.it/it/articoli/mondo/2019/02/27/kashmir-india-pakistan/229570/

 

 

 

 

 

 

Gli USA scaricano Guaidò per far posto alla guerra

7 Marzo 2019da aurorasito

Mision Verdad

Recentemente il media finanziario statunitense Bloomberg pubblicava un rapporto che illustra paradossi e vicoli ciechi nella roadmap dell’assedio al Venezuela intrapresa e in escalation dall’inizio di quest’anno. La pubblicazione, facendo riferimento ad alcune fonti anonime che in teoria sarebbero funzionari dell’amministrazione Trump e politici venezuelani, spiega come scarichino la presidenza artificiale di Juan Guaidó per rendere possibile una guerra mercenaria che prende forma.

Queste e altre questioni sono state spiegate da tale media finanziario.

L’invasione dei “disertori”

La pubblicazione inizia con la storia della presunta intenzione di circa 200 “disertori” venezuelani che nel territorio colombiano, guidati dall’ex-generale Cliver Alcalá, erano pronti il 23 febbraio ad aprire la via “con le armi” ai convogli di “aiuti” umanitari “che cercavano di entrare nel Paese, azione presumibilmente fermata dal governo colombiano per impedire un bagno di sangue di ciò che sarebbe stato un pubblico e noto atto promesso come “pacifico”. Tuttavia, la violenza armata dispiegata sul confine colombiano-venezuelano in quei giorni serviva al “marketing umanitario” del concerto Aid Live per il quale, dice Bloomberg, “l’impulso di eliminare Maduro, che a discrezione degli Stati Uniti è “inevitabile”, diventa sempre più caotico e rischioso”. Bloomberg indicava che l’improvvisazione accentua gli errori di calcolo e i “rischo” nelle azioni da intraprendere e approvare coll’affermazione che indica che “le speranze che i comandanti militari abbandonano Maduro sono state distrutte”, aggiungendo che se la lotta politica venezuelana si prolunga, “la necessità di cercare qualche tipo di soluzione militare non farà che aumentare”. In realtà, la disputa del 23 febbraio non si ebbe per l’ingresso di “aiuti umanitari” in Venezuela. Piuttosto, quegli eventi erano la ricreazione di un evento shock che in teoria avrebbe frammentato le FANB con una disputa tra la presidenza formale e legittima del Presidente Maduro con la presidenza finta di Guaidó. La sconfitta subita da Guaidó e sponsor in Colombia e Stati Uniti, ai confini del Venezuela, significava quindi la biforcazione che dichiara l’inutilità del “presidente interno” sugli effetti nell’istituzione politica e militare del Venezuela, finora imperturbabili. Su questo punto è essenziale considerare la possibilità che un’operazione del genere si sia verificata con aspettative false e infondate che presupponevano che il 23 febbraio avrebbe spezzato le FANB in favore di Guaidó. La delusione sorprese gli organizzatori del colpo di stato. Inoltre, osservava Bloomberg, il processo di destabilizzazione del Venezuela sarà ora “lungo e disordinato”, chiara scusa per una guerra mercenaria che avverrà in modo impensabile: fuori da ogni controllo, partecipazione e preveggenza statunitense. Una cosa del genere è impossibile che accada. I media nordamericani citano le apparenti riflessioni tra diplomatici latinoamericani ed europei che prevedono che il Presidente Maduro rimarrà solido al potere, che la dirigenza chavista era e continuerà ad essere “resiliente” e che “sanzioni e pressioni internazionali potrebbero finire per rafforzare il regime “. Questi eventi, secondo la pubblicazione, fanno supporre “l’urgenza” della via armata anche se “disordinata”.

Su provocazioni, sacrificio di Guaidó e pretesti per la guerra

La costruzione del consenso a una guerra in Venezuela è chiaramente condensata nella narrazione secondo cui gli Stati Uniti devono agire in modo aggressivo per “proteggere” i venezuelani da “crisi umanitaria” e “dittatura” del Chavismo. Ma oltre a ciò, l’agenda USA ha bisogno di eventi chiave per legittimare tali intenzioni. Bloomberg faceva notare al segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani (OAS), Luis Almagro, attore che punta alla politica statunitense di destabilizzare nel Venezuela, “con la speranza che Maduro faccia una mossa che possa giustificare un’azione statunitense più aggressiva”. In questa roadmap, l’uso strumentale di Guaidó è essenziale. Bloomberg deduce che l’arresto in Venezuela di Guaidó, per aver violato l’ordine della Corte Suprema del Venezuela che gli proibiva la partenza dal Venezuela, era necessario come evento chiave e che ora la posizione del “presidente ad interim” è ridotta a “mantenere lo slancio”

Continua qui: http://aurorasito.altervista.org/?p=5857

 

 

 

 

CULTURA

Gli intellettuali sovranisti? Sono gli esclusi dall’élite precedente

di Paolo Mossetti – 07/03/2019

Fonte: Esquire

Non è vero che il sovranismo non ha intellettuali. Anzi, conta su parecchi eruditi che hanno avuto poca fortuna con l’élite precedente.

Un’alleanza culturalmente reazionaria, ammiccante all’estremismo di destra e agli incolti. Un’espressione perfetta delle campagne, delle periferie e dei piccoli centri urbani. Una forza che privilegia la semplicità di pensiero, la praticità e la comunicazione alla pancia degli elettori, anche a discapito dei fatti, della logica e della verità. Una casa politica per razzisti, provinciali e superstiziosi. Il governo Lega-5 stelle viene abitualmente descritto, insomma, come anti-intellettuale.
Da parte loro, i nazional-populisti ce la mettono tutta per confermare questa immagine. “Salvini contro gli intellettuali” è il titolo di una trasmissione televisiva del marzo del 2016, in cui il futuro ministro dell’Interno si confrontava con il filosofo Umberto Galimberti e con lo scrittore Antonio Pennacchi. Nell’estate del 2018 lo stesso Salvini rispondeva dileggiando, in un post su Facebook, “gli intellettuali anti-razzisti e anti-Salvini” che avevano firmato un appello per aprire i porti ai migranti. Sulla sponda 5 stelle, Alessandro Di Battista aveva parlato di intellettuali “falce e cachemire” per rispondere alle critiche di chi gli rinfacciava la decisione di formare un governo con la Lega. Cinque anni prima, quando si era affacciata l’ipotesi remota di un governo tra 5 stelle e Pd, il suo capo e garante politico, Beppe Grillo, aveva reagito parodiando sul blog una vecchia canzone di Giorgio Gaber, che recita: “Gli intellettuali sono razionali / lucidi imparziali sempre concettuali / sono esistenziali molto sostanziali / sovrastrutturali e decisionali”.
Per Grillo, “’l’intellettuale italiano è in prevalenza di sinistra, dotato di buoni sentimenti e con una lungimiranza politica postdatata… non è mai sfiorato dal dubbio, sorretto com’è da un intelletto fuori misura per i comuni mortali”’. Quando, un lustro più tardi, Grillo darà il suo beneplacito al patto di governo con Salvini, liquiderà così le opinioni contrarie: “Gli intellettuali della sinistra mostrano i canini e ringhiano che siamo fascisti, hanno perso qualunque forma di contegno… sono come fantasmi che non riescono a toccare palla nel mondo reale”.
Si è capito subito che il nazional-populismo dei gialloverdi non andava inquadrato in senso storico – ad esempio riesumando il populismo russo – ma piuttosto in quello sociologico, per descrivere una fase dominata da sentimenti primordiali, e dalla rivolta contro esperti e studiosi certificati. “La rivoluzione del buon senso” – uno degli slogan più potenti e conosciuti della Lega – descrive questo desiderio, condiviso in fondo sia dalla destra che dalla sinistra, di superare un declino straziante, causato da élite corrotte e intellettuali traditori, e di condurre l’Italia verso un futuro che assomiglia un po’ al passato: quando i giovani potevano sperare nel futuro, gli anziani andavano in pensione in tempi ragionevoli, i nativi comandavano a casa propria e i bambini nascevano da una mamma e da un papà. Qualcosa di paragonabile all’interventismo del 1915, che fu una rivolta contro l’Italia liberale alimentata anche dalle passioni del fascismo di sinistra, con la sua apologia delle “nazioni proletarie” opposte alle “demoplutocrazie”. Ci siamo già passati. Ma la mappa intellettuale del nazional-populismo italiano è molto più complicata di così.
I leader di Lega e 5 stelle sanno di appartenere a un’epoca di rottura rispetto al ruolo e alle modalità tradizionali di intervento degli intellettuali nella vita pubblica; sanno di non poter fare ancora troppo affidamento su quotidiani moderati dalla storia decennale, o secolare, come il Corriere, La Stampa o Repubblica; e tantomeno su fondazioni o centri studi rispettabili come ce li avevano la Democrazia Cristiana o il Partito Comunista (e sovente li ignoravano).
Chi è al governo oggi sembra abituato, piuttosto, a un ecosistema balordo di notiziari scandalistici, giornali populisti, siti allarmistici, vignettisti nati e diventati celebri sui social, divulgatori di contro-informazione che si sono dimostrati più d’una volta parecchio grossolani. Per quanto spiazzante possa sembrare, è anche grazie a soggetti culturali del genere che il duo Lega-5s è riuscito a demolire la Seconda repubblica, imporre il proprio “buonsenso”, e a inaugurare una luna di miele con gli italiani. Chi sghignazza leggendo la mappa culturale del nazional-populismo farebbe meglio a considerare la sua efficacia.
Ma, al di là dei risultati in termini di consenso, sarebbe sbagliato credere che il governo gialloverde incarni l’anti-intellettualismo allo stato puro. Se finiamo per cadere in questo tranello è perché i rappresentanti del nuovo corso nutrono, nei confronti della democrazia liberale, sentimenti ambigui: aggressività e sospetto, rancore e inferiorità. Il nazional-populismo, sia da parte leghista che da parte grillina, di norma ha dei portavoce, consiglieri e voci organiche che sono, almeno fino a un certo punto, dei “competenti”, proprio come gli altri che hanno governato finora: il punto è che la loro competenza in questi ultimi vent’anni è stata marginalizzata.
Tant’è che ritroviamo in questo nuovo corso nomi della vecchia propaganda berlusconiana come Marcello Foa, Franco Bechis e Maria Giovanna Maglie, fondamentalisti cristiani come Magdi Cristiano Allam e Antonio Socci, uomini politici decisamente arditi come Paolo Savona e Daniele Capezzone, insegnanti universitari come Giulio Sapelli o Paolo Becchi, intellettuali marginali veri come Gianfranco La Grassa, beatnik come Melchiorre Gerbino, conferenzieri anticomunisti come Maurizio Blondet. Più che un ignorante o un gaffeur, come lo vuole dipingere l’opposizione, l’intellettuale tipico gialloverde è di solito un intellettuale tenuto per anni nei ranghi inferiori, tra gli aspiranti o tra i delusi, e che ora ha trovato una causa per riscattarsi, per riproporsi all’attenzione del pubblico, che sia giovane o anziano, potente o irrilevante.
È vero che si può ritrovare nell’ecosistema gialloverde l’ossessione per idee screditate o vetuste, come il mitizzato welfare state degli anni Settanta unito ad una società etnicamente omogenea, oppure del tutto false, come la presunta attualità del Piano Kalergi o dei protocolli dei Savi di Sion – due classiche “misure” del complottismo contemporaneo. Ma il nazional-populismo italiano è meno insulare di quanto si creda: segue un mutamento nei rapporti di forza tra le idee che coinvolge tutto l’Occidente, e non sarebbe giusto descriverlo come categoricamente ostile al mondo accademico, o intellettuale.
Si pensi anche a profili ormai dediti alla propaganda anti-europea 24 ore su 24 come quello di Alberto Bagnai, senatore della Lega Nord, o di Vladimiro Giacché, storico del marxismo, in cui si possono rintracciare passioni di uomini impegnati, profondamente eruditi, che un tempo gravitavano attorno ai partiti della sinistra moderata. Piuttosto che il disprezzo per il pensiero complesso e la cultura, ciò che accomuna questo ecosistema è semmai l’avvelenamento per conquiste civili degli anni Sessanta, e il disgusto profondo per le cose di cui si sono occupati gli intellettuali di sinistra negli ultimi cinquant’anni; è un mondo che esprime voglia di riconquista e di vendetta, piuttosto che di censura e abbrutimento.
Essendo molto rassicurante, l’idea di ridurre il populismo alle sue sole teorie complottiste non è certo nuova.

Nel 1964 lo storico Richard Hofstadter pubblicò Società e intellettuali in America, in cui tracciava una modalità di pensiero a suo avviso dominante nella politica, nella religione, nell’istruzione e nelle imprese. L’odio per gli istruiti, secondo l’autore, assumeva negli Stati Uniti quasi il valore che la lotta di classe ha in altre società moderne. Questa l’intolleranza diffusa portò

Continua qui: https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=61705

 

 

 

 

Verba volant: moglie…

Mogliesost. f.

 

di Luca Billi 7 marzo 2019

Andromaca non amava il potere. Certo era consapevole di essere la figlia di un re e le era stato insegnato, fin da quando era bambina, che un giorno sarebbe stata la sposa di un re e poi la madre di un re. Andromaca non era una ribelle, aveva sempre fatto quello che suo padre le aveva detto di fare e allo stesso modo avrebbe fatto quello che il suo sposo le avrebbe detto di fare; perché pensava che fosse giusto così, perché credeva che quello fosse l’ordine delle cose, perché sua madre le aveva detto di fare così. Non le pesava essere una sposa, ma non avrebbe voluto essere una regina.
E fu per questo che amò immediatamente quel giovane che suo padre Eezione e Priamo avevano deciso che diventasse suo marito, perché aveva capito che anche lui non voleva essere re. Lo sarebbe diventato, era quello il suo destino, ma non era quello che Ettore davvero voleva.

La principessa Andromaca non amava il potere. E per questo lei ed Ecuba non riuscirono mai a capirsi, a parlarsi, perché la regina di Troia era una donna che amava il potere, che voleva esercitarlo. E lo sapeva fare. E pensava anche che quella donna della Cilicia avesse una cattiva influenza su suo figlio. Andromaca invece voleva bene a quella giovane ragazza di Sparta che Paride aveva portato a corte e fatto diventare sua sposa. Le altre donne di Troia la evitavano, parlavano male di lei, ma Andromaca sapeva bene che non era certo a causa sua se era scoppiata quella guerra che sarebbe durata tanto a lungo. Era colpa degli uomini che volevano sempre più potere, e le ricchezze che passavano dallo stretto. Andromaca sentiva che Elena in fondo era come lei, era forse un po’ sciocca, un po’ troppo presa dalla propria bellezza, ma erano difetti di gioventù: la sposa di Ettore sapeva che alla fine anche la figlia di Leda avrebbe capito.

Più il tempo passava, più la guerra andava avanti, sempre uguale a se stessa, più Andromaca si rendeva conto che non detestava tanto il potere quanto il modo in cui i maschi lo esercitavano. Pensava alle spose rimaste nelle città greche, si chiedeva se fossero come lei oppure come Ecuba, se volevano quella guerra o la subivano. E si immaginava che Astianatte potesse crescere in un mondo diverso da quello in cui era cresciuto suo padre e suo nonno prima di lui. In un mondo in cui magari non ci fosse neppure il bisogno che lui diventasse un re, un mondo senza re. Pensava che questa cosa di diventare re era proprio una cosa da maschi. Come la guerra.

Andromaca era esausta della guerra. Guardava suo figlio, guardava le bambine e i bambini di Troia e pensava che era terribile che crescessero in mezzo a un conflitto, e che quella guerra era pericolosa non perché potevano morire ogni giorno, ma perché correvano il rischio di sopravvivere. Con la guerra in testa, imparando che al mondo ci poteva essere solo la guerra. Nel mondo che costruivano i maschi.

Alla notizia della morte di Ettore provò un dolore indicibile, eppure anche un senso di sollievo, anch’esso indicibile. Se ne vergognava, aveva perfino paura di questo pensiero: ma la morte di Ettore era il segno che la guerra stava per finire. Pianse per quello sposo che aveva amato così intensamente, ma pensò anche che si fosse sacrificato, per Astianatte, per i figli dei troiani e anche

Continua qui: https://www.ipensieridiprotagora.com/2019/03/verba-volant-632-moglie.html

 

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

L’intelligence italiana rilancia l’allarme per il terrorismo islamico

2 marzo 2019 di Redazione  in Analisi ItaliaIn evidenza

“Nonostante la perdita di territorio, combattenti e figure di rilievo, che ne ha indebolito la capacità di pianificare e dare diretto supporto ad azioni terroristiche di proiezione transnazionale, lo Stato Islamico, determinato a colpire l’Occidente, si è mostrato ancora in grado di ispirare attacchi in Europa, suggerendone autori e modi”. E’ quanto sottolineano gli analisti dell’intelligence italiana nella loro ultima Relazione al Parlamento.

“La minaccia terroristica in Europa – spiegano – ha confermato il proprio carattere polimorfo, che ha trovato espressione, accanto alle azioni di ‘ lupi solitari’ ed estremisti ‘in cerca di autore’, nel persistere di warning, raccolti soprattutto nell’ambito della collaborazione internazionale, concernenti progettualità terroristiche riferibili sia a cellule ‘dormienti’ sia a nuclei di operativi appositamente instradati verso il Vecchio Continente”.

Quanto agli autori, “il coinvolgimento, negli attentati perpetrati nel 2018, di soggetti con passato criminale o trascorsi in prigione, e è valso a ribadire un tratto ormai congenito del fenomeno dei radicalizzati in ambito europeo”.

I foreign fighters tornati in Europa sarebbero 1.700, dei quali 400 nei Balcani. E fra loro, dopo i trascorsi ‘al fronte’ , figurano anche “donne e minori, spose e figli” dei miliziani dell’Isis.

Relazione 2018 dei Servizi di informazione e sicurezza evidenzia che i “combattenti stranieri’ nell’ area siro-irachena si attestano “intorno agli 8 mila, di cui 2.600 europei dello spazio Schengen”.

Ma “la pericolosità del fenomeno dei “rientri” risiede più che nei numeri, nel profilo stesso dei reduci, potenziali veicoli di propaganda e proselitismo, nonché portatori di esperienza bellica e di know-how nell’uso di armi ed esplosivi”. I “ritornati” appaiono “propensi a raggiungere quei Paesi che, per criticità strutturali o situazioni di endemica instabilità , finiscono con l’apparire attrattivi a quanti sono interessati a proseguire il jihad o anche solo ad eludere i controlli di sicurezza.

Una delle mete privilegiate potrebbe risultare l’Afghanistan, teatro di conflitto ‘iconico’ nell’immaginario jihadista, ove la radicata presenza di estremisti stranieri -prevalentemente di origine pakistana e centroasiatica (soprattutto uzbeka) – può agevolare la riallocazione di foreign fighters.

Ciò tanto più in ragione dello scontro in atto, in quel Paese, tra Daesh da una parte e Talebani/al Qaeda dall’altra e della prospettiva, appetibile per entrambi gli schieramenti, di un ritiro delle truppe Usa”.

Rimane “sostenuto” anche “l’attivismo finanziario” dell’organizzazione, “in grado di trasferire all’estero, con largo anticipo, ingenti fondi drenati dal contesto siro-iracheno, così da preservare liquidità a fronte della perdita di territori che – con risorse energetiche, estorsioni ed altre attività predatorie – garantivano al Califfato le maggiori entrate”.

La minaccia jihadista “non ha in realtà mai conosciuto flessioni”. Anzi, “si conferma come molto articolata e dalle radici profonde, risultando in grado di riproporsi sia nelle sue manifestazioni tradizionali, sia in ulteriori forme ed in nuovi teatri.

Le sconfitte inferte a Daesh nella sua ‘incarnazione statuale’ in Siria ed Iraq non hanno fatto venir meno il pericolo rappresentato dalle sue propaggini regionali e dalla rete di affiliati e simpatizzanti operante al difuori del Syraq – incluse le cellule che l’organizzazione avrebbe dispiegato all’estero in modalità ‘dormiente’ – ne’ quello collegato al richiamo che il messaggio del Califfato

Continua qui: https://www.analisidifesa.it/2019/03/lintelligence-italiana-rilancia-lallarme-terrorismo-islamico/

 

 

 

DIRITTI UMANI – IMMIGRAZIONI

“Dateci l’assegno di Di Maio”. È già coda di rom e immigrati

Il reddito di cittadinanza è entrato nel Def e di fatto se la manovra dovesse andare in porto ci sarebbe uno stanziamento di 10 miliardi di euro

Franco Grilli – 05/10/2018

Il reddito di cittadinanza è entrato nel Def e di fatto se la manovra dovesse andare in porto ci sarebbe uno stanziamento di 10 miliardi di euro.

9 per il reddito minimo e 1 per la riforma dei centri per l’impiego. Come ha ribadito il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio il sussidio potrebbe spettare anche agli stranieri che risiedono in Italia da almeno 10 anni. Tra questi ci sono anche immigrati e rom. E proprio loro sarebbero già in coda ai centri dell’impiego per avere informazioni sull’assegno da 780 euro promesso dai grillini. E così ad esempio a Torino sin dalle prime luci dell’alba c’è chi sgomita per prendere il numero per far la fila e poter ottenere informazioni sul reddito

Continua qui: http://www.ilgiornale.it/news/politica/sono-qui-reddito-minimo-c-gi-coda-rom-e-immigrati-1584370.html

 

 

 

Autarchia dell’immigrazione, ovvero i cinesi in Italia

Gli immigrati cinesi non vogliono integrarsi e che non gli serve quasi a niente. Non è un caso, infatti, che tra gli extracomunitari che vivono in Italia, i cinesi non sono mai andati in televisione a protestare o a lamentare discriminazioni subite da parte delle leggi o della gente del nostro paese. Hanno adottato un antichissimo motto dei saggi greci: vivi di nascosto, e così per loro l’Italia, la Francia o l’America sono la stessa cosa….

 

Carla Falconi – Giornalista e blogger

 

I commercianti cinesi del quartiere Esquilino di Roma espongono davanti ai loro negozi solo scritte in cinese e c’è voluta una delibera del comune, di qualche anno fa, per invitarli a mettere una scritta anche in italiano, visto che, in fondo, a Roma ci viviamo anche noi che purtroppo non parliamo il mandarino. Nel distretto tessile di Prato, dove vive da oltre un ventennio la comunità cinese più numerosa di Italia, i matrimoni misti sono rarissimi e vengono sempre ostacolati dalle famiglie. Ovviamente da quelle cinesi.

I miei vicini di casa vengono da una regione del sud della Cina, hanno un ristorante cinese, con scritta cinese, figli cinesi, parlano mangiano e vestono cinese, e quando si incontrano per festeggiare qualcosa sono sempre e solo cinesi. Possibile che, con tutta la gente che conoscono, non ci sia un italiano simpatico da invitare a casa! Eppure è così perché questo misterioso popolo orientale possiede una tecnica di immigrazione improntata ad una rigida autarchia. Non è esatto, infatti, dire che i cinesi vengono qui a cercare lavoro ma piuttosto che vengono qui a portare il loro lavoro e a fondare colonie quasi perfettamente autonome e autocefale, in cui vivere e riprodursi nel modo più cinese possibile. Quando si trasferiscono in un quartiere, per esempio, loro non si limitano ad abitarci, loro lo occupano e in un pochissimo tempo mettono su negozi, case, ristoranti e laboratori (dove molto spesso si lavora al nero, né più né meno di come accade nelle nostre regioni del Sud) costruendo un vero micro-ecosistema economico 

Continua qui: https://www.huffingtonpost.it/carla-falconi/autarchia-immigrazione-cinesi-italia_b_6053046.html

 

 

 

 

IMMIGRAZIONE, ACCOGLIENZA E INTEGRAZIONE

11 Agosto 2018 di Giuliano Maciocci

Il presidente Sergio Mattarella ha nei giorni scorsi affermato che “Il veleno del razzismo continua a insinuarsi nelle fratture della società e in quelle tra i popoli. Crea barriere e allarga le divisioni. Compito di ogni civiltà è evitare che si rigeneri”. Una gestione sana e intelligente dell’immigrazione deve essere infatti l’obiettivo principale di qualsiasi governo affinché’ l’accoglienza – nei limiti delle possibilità del paese ospite – si trasformi in integrazione proficua e utile alla società.
Perché ciò avvenga è necessario in primo luogo far chiarezza ed eliminare la confusione, voluta o meno, che regna intorno ai termini che circondano la parola immigrazione.
Recentemente un mio conoscente italiano è diventato cittadino australiano. Dopo più di cinque anni, laureato, ottimo lavoro, test di lingua inglese e giuramento sulla Costituzione, ha ricevuto il suo nuovo passaporto. Questo percorso, nei paesi civili, si chiama Immigrazione. Un siriano cristiano, con famiglia, riesce a raggiungere l’Italia via Giordania con l’aiuto di Israele per sfuggire alla guerra nel suo paese. Come rifugiato/profugo può fare richiesta di asilo.
Il tunisino, senegalese, ghaniano che sborsa cifre ingenti e rischia la vita salendo su un gommone alla volta dell’Italia configura il reato di immigrazione illegale o clandestinità.
La guerra di Libia, fortissimamente voluta da Nicolas Sarkozy e da Hillary Clinton (il cui curriculum al tempo consisteva solo di un paragrafo: “Sono donna e moglie di Bill” – poco per candidarsi alla presidenza), ha eliminato il tappo dell’imbuto Nordafricano, aprendo la strada a grandi migrazioni economiche verso l’Europa dai paesi del Sahel.
Questo ultimo caso, il più grave a colpire l’Italia negli ultimi anni, avrebbe dovuto essere gestito con i dovuti controlli nei centri di prima accoglienza, rimpatriando immediatamente i non aventi diritto (circa il 95%). Al contrario è stato incoraggiato da persone senza scrupoli che hanno creato un’intera economia intorno al traffico di esseri umani, e da un’ingiustificata clemenza giuridica. Questo clima da “Far West”, comunicato rapidamente dai clandestini a parenti e amici, ha agito da calamita, trasformando un pur penoso stillicidio in un flusso inarrestabile. Va notato che spesso i clandestini distruggono o nascondono i documenti per prolungare la loro permanenza con richieste di asilo infondate. Accertarne l’origine con interpreti per riconoscerne etnia o dialetto non è difficile. Inoltre, sarebbe buona politica considerare clandestino – salvo rare eccezioni – chiunque non sia in possesso di un documento di identificazione; un obbligo imprescindibile in qualsiasi paese africano o mediorientale.
Purtroppo, come si è notato, meschini interessi sia finanziari che economici hanno incoraggiato queste sofferenze, causando morti e dolore infiniti. Lavoro nero, svalutazione dei salari, traffico di esseri umani, si sono rivelati troppo lucrativi perché la bassa politica, le Mafie, alcune associazioni “umanitarie” ed altri ne rimanessero lontani.
Per giustificare la vergogna di cui sopra, questi criminali hanno elaborato una dialettica particolare.

Alcuni esempi:
– Mai specificare (nei dibattiti pubblici o sui giornali) se si parla di migranti legali o illegali;
– Nascondere i veri motivi del favoreggiamento (lavoro nero, svalutare salari) dietro ragioni umanitarie;
– Insistere sul fatto che gli italiani non vogliono fare certi lavori (traduzione: meglio schiavi mal pagati e senza protezioni sociali piuttosto che lavoratori italiani);
– Ripetere ad libitum “anche noi eravamo migranti” (sorvolando sul fatto che eravamo richiesti da paesi disperati per avere manodopera).
– Considerare l’integrazione come una vaga speranza invece di un percorso imprescindibile, una conditio sine qua non (come il recente scandalo a Napoli del consigliere municipale di origini cingalesi che non capisce una parola di italiano dopo 20 anni che vive in Italia ha comicamente esposto).
– Giocare sull’equivoco dell’ignoranza della legge da parte del clandestino che commette un reato: primo, ciò non costituisce una giustificazione di fronte alla legge; secondo, è oggettivamente falso: in nessun paese lo spaccio di droga, lo stupro, il furto o l’omicidio sono tollerati; anzi, le punizioni sono molto più severe di quelle che la nostra “colpevole” indulgenza applica.
Per tornare all’appello del presidente Mattarella, eco italiana del più generico Global Compact for Migration dell’ONU, manifesto globalista, è evidente che ad avere un peso determinante nella politica d’immigrazione devono essere i numeri dell’accoglienza, il livello della possibile integrazione, la potenziale assimilazione (che varia a seconda del paese di provenienza), e le condizioni del paese ospitante. Le classi meno abbienti potrebbero altrimenti risentire del trattamento preferenziale riservato ai nuovi venuti, creando insofferenza, senso di abbandono, o addirittura rigenerando razzismo, come teme il presidente. Facile comprendere dove sfocerebbe lo sdegno di milioni di giovani disoccupati, la rabbia dei terremotati bisognosi ma ignorati, la delusione di padri di famiglia senza lavoro, qualora le priorità del governo fossero malriposte.
È imperativo quindi sottolineare che accoglienza e inclusione sociale devono essere riservate ai veri profughi (una percentuale minima, nel caso dell’Italia), tenendo presente che anch’esse sono possibili solo limitatamente

Continua qui: https://www.notiziegeopolitiche.net/immigrazione-accoglienza-e-integrazione/

 

 

 

 

 

ECONOMIA

Dieci obiettivi contro la recessione

Il prof. Leonello Tronti ci ha inviato questo suo articolo in risposta ai nostri 15 punti per un programma davvero keynesiano

di Leonello Tronti* – 15 febbraio 2019

Rispondo volentieri alla richiesta di Keynes Blog segnalando anzitutto la piattaforma unitaria per la legge di bilancio 2019 che CGIL, CISL e UIL hanno consegnato al Governo il 22 ottobre 2018, che mi sembra abbia sinora trovato ben poca disponibilità all’ascolto da parte della politica, come del resto ben poca pubblicità e ancor minore approfondimento sui mezzi di comunicazione di massa.

La piattaforma è un documento molto utile e interessante, innovativo nel metodo e del tutto condivisibile. Tuttavia, non si può negare che essa susciti anche la sensazione di un eccesso di dettaglio e possa presentare quindi qualche difficoltà di comunicazione a un largo pubblico, che ne può indebolire la capacità di raccogliere un sostegno forte e combattivo da parte anzitutto dei lavoratori. Anche se questi hanno indubbiamente dimostrato con la manifestazione del 9 febbraio una rilevante e non prevedibile disponibilità alla mobilitazione.

Come che sia, propongo qui un compendio personale e molto sintetico della piattaforma, che ne riprende alcuni elementi, li integra con altri farina del mio sacco e sintetizza il tutto in due obiettivi sociali irrinunciabili, tre assi fondamentali di politica industriale e cinque punti cardine di riforma delle politiche economiche europee.

Due obiettivi sociali irrinunciabili:

1) tolleranza zero nei confronti delle morti sul lavoro, da realizzarsi attraverso un piano d’azione con obiettivi espliciti disposti nel tempo, che preveda tra l’altro il potenziamento dei controlli e della formazione obbligatoria di controllori, lavoratori e imprese (da finanziarsi attraverso una specifica imposta sul valore aggiunto commisurata al numero dei decessi e alla gravità degli incidenti);

2) spostamento differenziale e strutturale del carico contributivo dal lavoro a tempo indeterminato a quello flessibile, per fare in modo che il lavoro stabile costi all’impresa significativamente e stabilmente meno di quello flessibile (a parità di diritti) e i lavoratori flessibili accumulino comunque un patrimonio contributivo congruo, che riduca la disparità di diritti e la necessità di integrazione sociale all’atto del pensionamento, della maternità, della malattia ecc.

Tre assi lungo i quali indirizzare lo sviluppo economico:

  1. messa in sicurezza del territorio e del patrimonio abitativo attraverso un piano di azione di lungo periodo, finanziato con investimenti pubblico-privati, ad esempio analoghi ai PIR;
  2. digitalizzazione del lavoro (con le conseguenti politiche di sostegno salariale, riduzione dell’orario di lavoro e politiche della domanda atte a sostenere la crescita occupazionale anche a fronte di significativi incrementi di produttività);
  3. sviluppo della green economy italiana (nelle diverse articolazioni di disinquinamento, riconversione energetica e qualità ambientale, economia circolare, gestione dei rifiuti).

Infine, cinque elementi cardine di riforma immediata delle politiche europee:

1) lancio di una vera politica industriale continentale con titoli pubblici europei (eurobond) per finanziare gli investimenti infrastrutturali. Si pensi a quanto più rapida e forte sarebbe stata la ripresa dell’occupazione dopo il 2008, e a quanto prima lo stesso sistema bancario si sarebbe rafforzato perché sorretto dal mercato anziché dalla banca centrale, se uno strumento di sostegno agli investimenti come l’esile Piano Juncker fosse stato finanziato per cifre mensili pari anche a soltanto un decimo della spesa sostenuta per il QE;

2) nell’attuale fase di significativo alleggerimento del Quantitative Easing, riconsiderazione della missione istituzionale della BCE, tale da prevedere oltre a quello della stabilità della moneta anche l’obiettivo della minimizzazione della disoccupazione, come nel caso della FED americana, e l’arbitraggio tra i due obiettivi a seconda delle necessità e delle effettive condizioni del mercato del lavoro e dell’economia;

3) dopo la bocciatura da parte del Parlamento Europeo della canonizzazione del Fiscal Compact nella legislazione comunitaria, introduzione della regola aurea del bilancio, ossia dello scomputo della spesa per investimenti dal calcolo

Continua qui: https://www.nuovatlantide.org/dieci-obiettivi-contro-la-recessione/

 

 

Come procede la protesta del latte dei pastori sardi

Dopo gli sversamenti, la vittoria di Solinas e l’ennesimo assalto a una autocisterna, il prezzo è ancora fermo a 55 centesimi. Mentre gli allevatori denunciano il silenzio della politica. 

MONIA MELIS – 6 marzo 2019

Dagli sversamenti collettivi ai tavoli in prefettura e ai viaggi di cortesia a Roma. Fino a un nuovo assalto, mercoledì 6 marzo, a un’autocisterna a Irgoli, nel Nuorese, data alle fiamme da due uomini a volto coperto. Come procede l’onda bianca, la mobilitazione dei pastori sardi per il prezzo del latte? Era il 6 febbraio, esattamente un mese fa, quando a Villacidro – nel Cagliaritano – un caso di cronaca anomalo si trasformava nell’avvio di una battaglia. Una autocisterna – la prima – carica di 10 mila litri di latte di pecora venne fatta svuotare da due banditi col volto coperto, armati di spranghe. All’autista, diretto al caseificio, intimarono anche di girare un video e di mandarlo via chat a tutti i contatti. Poi lo lasciarono andare. Fu il primo atto – 10 i blitz in un mese – delle lunghe proteste contro il prezzo del latte di pecora a 55 centesimi: la cifra che viene pagata dagli industriali, ossia i trasformatori, ai produttori. Un compenso che non basta a coprire le spese.

Da allora è stato un tam tam seguito quasi in diretta social: cisterne svuotate, bidoni che si rovesciano e ancora blocchi stradali, scuole chiuse, cortei, lenzuoli alle finestre e striscioni con un unico slogan: iostoconipastorisardi. Anche oltre il Tirreno con il coinvolgimento dei colleghi umbri, toscani e un supporto nazionale. Un crescendo di tensionein vista del voto regionale che ha consegnato poi la Sardegna allo schieramento di centrodestra, con l’investitura del sardista Christian Solinas alleato della Lega di Matteo Salvini.

 

I DANNI PER I PASTORI AMMONTANO A 30 MILIONI DI EURO

Nel frattempo milioni e milioni di litri di latte sono stati buttati via o regalati. Le associazioni di categoria, tra cui Coldiretti Cia agricoltori italiani, hanno calcolato danni enormi per gli stessi pastori: almeno 30 milioni di euro. Senza contare il fermo dei caseifici per giorni, le cisterne sotto scorta per via dei raid – due armati – e le prime denunce. Ora però la filiera ha ripreso il suo corso.

 

IL PREZZO DEL LATTE È ANCORA FERMO A 55 CENTESIMI

I pastori mungono e conferiscono il latte, i trasformatori producono. Il prezzo? Ancora fermo ai 55 centesimi, fatta salva qualche coop. In mezzo ci sono stati i vertici romani, cagliaritani e anche sassaresi con il prefetto Giuseppe Marani nominato commissario. La proposta ufficiale è 72 centesimi al litro (in acconto) che dovrebbero diventare 80. Fino a un euro a fine stagione, questa la richiesta iniziale dei comitati. L’aumento è legato al ritiro delle giacenze di Pecorino Romano – 60 mila quintali – azione che, nelle intenzioni di ministero dell’Agricoltura e della Regione, dovrebbe portare, a cascata, benefici ai pastori. Un destino che però corre su un doppio filo: la quotazione del latte è legata infatti a quella del principale prodotto, il Pecorino Romano, battuto alla Borsa di Milano e in eccesso. L’operazione, con l’intermediazione del Banco di Sardegna, costa 49 milioni di euro. Soldi pubblici e tempi lunghi per una soluzione tampone e una riforma strutturale da inventare. Il tutto a dispetto delle 48 ore promesse dal ministro dell’Interno Salvini che parlava a metà febbraio da leader della Lega in piena campagna elettorale.

 

IL SILENZIO DELLA POLITICA

La minaccia più forte (il blocco dei seggi) è scivolata via tra gli appelli alla calma. Alle Regionali tra i titolari degli ovili – ufficialmente 12 mila aziende che gestiscono 3 milioni di capi – c’è stata astensione in ordine sparso accompagnata dai voti al centrodestra e al Partito sardo d’azione (in grado di schierare, e far eleggere, consiglieri vicini anche ai caseifici come Piero Maieli). Passato il voto, incassati gli auguri, i cellulari dei politici, compreso quello del presidente della Regione Solinas, squillano a vuoto: questa ladenuncia in assemblea. Il neoeletto si schernisce dicendo che non può convocare incontri prima dell’insediamento ufficiale, loro vanno avanti per la loro strada. «Meno male che a Roma stanno procedendo con il decreto per le eccedenze», spiega a Lettera43.it Gianuario Falchi, uno dei portavoce dei

 

Continua qui: https://www.lettera43.it/it/articoli/politica/2019/03/06/protesta-pastori-sardi-novita/229797/

 

 

 

 

Vel-Eni: corruzione e petrolio

04.Febbraio.2019 di Marina Forti (*)

Una mattina d’autunno, davanti ai giudici della settima sezione penale del tribunale di Milano, si presenta un tenente colonnello della guardia di finanza. Una settimana dopo c’è un investigatore della polizia di Londra. Poi un’agente dell’unità contro la corruzione del Federal bureau of investigation (Fbi) degli Stati Uniti. Un’udienza dopo l’altra sfilano investigatori, diplomatici, analisti finanziari.

Sono testimoni dell’accusa in un processo che non sta facendo grande clamore. Eppure, dovrebbe, perché riguarda il più grande caso di corruzione internazionale in cui sia mai stata coinvolta l’industria petrolifera mondiale. Denominato semplicemente “Scaroni e altri”, il procedimento ha tredici imputati – tra cui l’attuale amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi, il suo predecessore Paolo Scaroni, il faccendiere Luigi Bisignani, l’ex vicepresidente della Royal Dutch Shell Malcolm Brinded e l’ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete – oltre alle aziende Eni e Shell. Secondo l’accusa sarebbero corresponsabili della sottrazione di oltre un miliardo di dollari dalle casse dello stato nigeriano: soldi pagati in teoria per l’acquisto di una concessione petrolifera in Nigeria; in realtà andati a beneficio di alcuni politici e imprenditori nigeriani, con un codazzo di intermediari e faccendieri.

Tutto ruota intorno alla concessione petrolifera nota come Opl 245, che si trova in mare aperto, al largo del delta del fiume Niger. È considerato il più grande giacimento in Africa, con una riserva stimata di nove miliardi di barili di greggio, e fa gola. Nel 2011 l’Eni e la Shell si sono aggiudicate la licenza per sfruttarlo in cambio di un miliardo e trecento milioni di dollari. Ma gran parte di quel denaro è finita alla Malabu oil & gas, azienda che rivendicava un diritto sul giacimento, e dietro a cui si nasconde l’ex ministro nigeriano del petrolio Dan Etete, tra gli imputati a Milano. È una storia che avevamo raccontato nel 2017 su queste pagine, uno scandalo finanziario che dalla Nigeria sconfina nei Paesi Bassi, in Italia e nel Regno Unito, con propaggini fino agli Stati Uniti.

Spetta ovviamente ai giudici stabilire se i vertici dell’Eni e della Shell sapevano con chi stavano trattando e dove sarebbe finito il loro denaro, come sostiene l’accusa, e sono quindi colpevoli di corruzione. Le compagnie petrolifere negano. Eni dice di aver avuto solo regolari transazioni con il governo federale della Nigeria e conferma la correttezza della transazione “sia rispetto alle leggi vigenti, sia rispetto alle pratiche utilizzate dall’industria a livello globale”.

Il processo avrà tempi lunghi. Cominciato nell’aprile 2018, in settembre è entrato nel vivo con i testimoni dell’accusa e promette di continuare per tutta la primavera, con i testimoni della difesa e gli imputati – che per il momento non si sono mai presentati in aula, lasciandosi rappresentare dagli avvocati: a difendere Descalzi è Paola Severino, ex ministra della giustizia nel governo guidato da Mario Monti. Presidente della corte è Marco Tremolada.

Intanto, il dibattimento in corso a Milano getta una luce inquietante su una vera e propria “industria della corruzione” che circonda lo sfruttamento petrolifero, in questo caso in Nigeria.

Sulle tracce dei soldi
Per prima cosa, i pubblici ministeri Fabio De Pasquale e Sergio Spataro hanno ricostruito i passaggi di denaro. Per acquisire la licenza di sfruttamento del blocco Opl 245, l’Eni versa un miliardo e 92 milioni di dollari su un conto intestato alla Repubblica federale della Nigeria presso la banca J.P. Morgan a Londra. Fin qui tutto normale: solo che quei soldi, accreditati il 24 maggio 2011, dopo un paio di mesi sono scomparsi.

Un bonifico di quella entità, però, lascia tracce. Qui la testimonianza chiave è quella del tenente-colonnello della guardia di finanza Alessandro Ferri, che ha avuto un ruolo di primo piano nell’indagine della procura milanese. Dunque: il 31 maggio 2011, la somma versata dall’Eni è trasferita dal conto J.P. Morgan a un conto presso la Banca della Svizzera italiana (Bsi). Tre giorni dopo però l’istituto rimanda il bonifico al mittente perché ha pesanti dubbi sul destinatario, l’azienda off shore Petro service, di cui era titolare il viceconsole onorario italiano in Nigeria Gianfranco Falcioni (anche lui imputato in questo processo). Secondo l’accusa, Petro service sarebbe stata un semplice tramite per la Malabu oil & gas ltd dell’ex ministro Dan Etete. Un dettaglio inquietante viene dalla deposizione di Antonio Giandomenico, allora console italiano in Nigeria. Ha dichiarato che fu lui a nominare Falcioni viceconsole onorario perché così gli fu suggerito da un dirigente dell’agenzia informazioni e sicurezza esterna (Aise), i servizi segreti italiani che si occupano di esteri.

Fallisce anche un secondo tentativo di trasferire il denaro, tramite un conto bancario in Libano. Infine, il 24 agosto 2011 dal conto londinese della Repubblica di Nigeria partono due bonifici di 400 milioni di dollari ciascuno, diretti su due conti intestati alla Malabu, aperti in due banche nigeriane: gli inquirenti hanno accertato che il titolare della firma è proprio l’ex ministro del petrolio Etete. Da qui i soldi si muovono ancora. La prima tranche di 400 milioni è versata su un conto intestato all’azienda Rocky top resources: anche questo conto appartiene a Etete. Gli altri 400 milioni sono suddivisi in vari bonifici sui conti di diverse aziende nigeriane, tutte però riconducibili all’imprenditore petrolifero Abubakar Aliyu, braccio destro dell’allora presidente della repubblica Goodluck Jonathan.

Aliyu, che in Nigeria è soprannominato Mister Corruption, è al centro di diverse indagini aperte dalla commissione nigeriana sui crimini economici e finanziari, una sorta di super procura contro la corruzione che ha ripreso slancio nel 2015, quando ad Abuja si è insediato l’attuale presidente Muhammadu Buhari, eletto proprio con un programma di lotta alla corruzione. Nel 2011 però il signor Aliyu era ancora onnipotente e dai conti che controllava sono partiti mille rivoli di denaro. In parte sono stati rintracciati nelle tasche di politici nigeriani, intermediari e familiari dell’allora presidente Jonathan, come ha raccontato al tribunale di Milano Debra LaPrevotte, ex agente dell’Fbi. Fino a tutto il 2015 LaPrevotte dirigeva un gruppo chiamato Cleptocracy Unit, incaricato di seguire movimenti di denaro fraudolenti legati all’industria petrolifera in Africa (oggi continua a fare lo stesso lavoro per un’organizzazione privata di nome Sentry). Dice che ha cominciato a vedere transazioni sospette legate alla licenza Opl 245, e a seguirle. Nel tentativo di confondere le tracce, spesso il denaro è passato attraverso uffici di cambio, ha spiegato LaPrevotte in teleconferenza ai giudici di Milano. Ma “siamo riusciti a rintracciare buona parte di quei fondi”, ha aggiunto.

Il ruolo dell’Eni e della Shell
Ma quali sono le responsabilità dell’Eni e della Shell in questa gigantesca sottrazione di fondi ai danni dello stato della Nigeria? A questo proposito è interessante la testimonianza di Luigi Zingales, professore di finanza all’università di Chicago, che dal maggio 2014 al luglio 2015 è stato nel consiglio d’amministrazione dell’Eni (era stato nominato dal ministero delle finanze, che rappresenta lo stato italiano nella proprietà del gruppo). In particolare, Zingales faceva parte del comitato “controllo rischi”, quello che doveva vegliare sull’osservanza delle regole da parte dell’azienda.

“Che ci fossero dubbi sul caso Opl 245 lo sapevo già prima della mia nomina, l’avevo letto in un articolo dell’Economist”, spiega in un’aula affollata a tal punto che molti giornalisti devono accomodarsi nella gabbia degli imputati. Per questo, dice, appena assunto l’incarico ha chiesto chiarimenti e ottenuto una nota informativa dall’ufficio legale dell’azienda, ma anche questa gli sembrava poco convincente. In particolare, non capiva perché comparisse un tale Obi, indicato come intermediario della Malabu, anche se l’azienda sosteneva di non usare mai intermediari. Continua Zingales: “Feci una nota al consiglio d’amministrazione per evidenziare le carenze del processo decisionale”.

Emeka Obi in effetti è uno degli intermediari che avevano lavorato per la Malabu, e nel 2012 si è rivolto a un tribunale d’arbitrato commerciale, a Londra, per reclamare la sua commissione per il contratto concluso con l’Eni e la Shell. Rivendicava 214 milioni di dollari, alla fine ne ha ottenuti circa la metà. Per decidere sul suo caso la corte londinese aveva avviato un’istruttoria, che aveva cominciato a rivelare i retroscena della vendita del blocco Opl 245.

Dai documenti di quella prima istruttoria nascono le indagini giudiziarie poi avviate nei Paesi Bassi e in Nigeria, e anche l’esposto alla procura di Milano presentato nel settembre 2013 da tre organizzazioni non governative, le britanniche Global Witness e Corner House, e l’italiana Re:Common. È l’esposto da cui è nato il processo in corso.

Quanto a Emeka Obi, ha ottenuto il rito abbreviato insieme a un altro intermediario, Gianluca Di Nardo; a settembre entrambi sono stati riconosciuti colpevoli di corruzione internazionale e condannati a quattro anni. Nelle motivazioni di quella sentenza, la giudice Giusy Barbara scrive che i vertici dell’Eni sapevano fin dal 2007 che la Malabu apparteneva al controverso ex ministro Etete. Parla di un Descalzi “prono di fronte alle pretese di Bisignani, un privato cittadino il cui nome era già emerso in alcune delle inchieste più scottanti della storia giudiziaria italiana” (a pagina 62 delle motivazioni, depositate il 17 dicembre).

Un buco
Ma quello è un processo separato. Torniamo al professor Zingales: “Il fatto che ci fosse un buco così evidente nella nostra governance mi saltò all’occhio”, ha spiegato ai giudici. Non riusciva a capacitarsi che l’ufficio legale non sapesse spiegare chi fosse questo Obi e per conto di chi operasse. Mancava la due diligence (letteralmente sarebbe la “dovuta diligenza”, l’indagine sulle controparti e sull’oggetto di una trattativa commerciale, che si fa prima di concludere contratti e transazioni).

Emergevano dettagli inspiegabili: per esempio che durante la trattativa, un certo rappresentante della Malabu alloggiasse a Londra a spese dell’Eni; o che una nota dell’azienda, firmata da Dan Etete, fosse tra le carte dell’ufficio legale. Eppure l’allora amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, durante l’assemblea degli azionisti del 2014, aveva affermato che all’epoca della trattativa l’azienda aveva fatto la sua due diligence e “non era emersa alcuna prova del coinvolgimento di Etete nella Malabu”.

Insomma, il consigliere d’amministrazione Zingales ha cominciato a mandare e-mail interne e a criticare la conduzione degli affari legali. Ricorda di averne parlato anche in un colloquio privato con Claudio Descalzi, che nel 2014 aveva sostituito Scaroni come amministratore delegato: “L’unica cosa che mi disse è che questo mio far domande sulla questione Opl 245 stava paralizzando la società”. Finché il consiglio d’amministrazione fece una “valutazione tra pari” sul suo conto, in cui “l’epiteto più gentile fu che ero un

 

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FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI

LA CRESCITA DELLO “SHADOW BANKING”

Le banche stanno per andare in soffitta? Non è una battuta.

25 Febbraio 2019 di Mario Lettieri e Paolo Raimondi *

Pochi crederebbero che nel mondo della finanza le banche non siano più i “number one”. Eppure, lo conferma il rapporto “Global Shadow Banking Monitoring Report 2017” del Financial stability board (Fsb), il Consiglio per la stabilità finanziaria. Si ricordi che è l’organismo internazionale con il compito di monitorare il sistema finanziario mondiale per ridurre il rischio sistemico. In passato è stato presieduto anche da Mario Draghi.
Secondo tale rapporto, alla fine del 2016 gli attivi finanziari globali totali ammontavano a 360mila miliardi di dollari. Cinque volte e mezzo il Pil mondiale. Essi sono così suddivisi: 160mila miliardi gestiti dagli organismi finanziari non bancari, 138mila dalle banche, 26mila dalle banche centrali e il resto da istituti finanziari pubblici.
Gli organismi finanziari non bancari, cioè “gli enti e le attività dell’intermediazione del credito che operano fuori dal sistema bancario regolare”, sono considerati e chiamati dallo Fsb “shadow banking”, sistema bancario ombra. Secondo il Consiglio non sarebbe è una definizione spregiativa.
Sta di fatto che essi manovrano cifre spaventose, se si confrontano con quelle del Pil mondiale. Per evidenziare tutta la fragilità e i rischi del sistema finanziario, è, inoltre, doveroso rilevare che non sono inclusi i noti derivati finanziari otc e altri prodotti speculativi, di cui più volte abbiamo denunciato la pericolosità.
I non bancari comprendono le assicurazioni con 29mila miliardi di dollari di attivi concentrati negli Usa e in Europa, i fondi pensione con 31mila miliardi, il 60% dei quali in mano americana, e ben 100mila miliardi dei cosiddetti “Other Financial Intermediaries” (OFI) che includono vari tipi di fondi d’investimento, hedge fund, holding finanziarie e altri organismi finanziari, spesso “molto fantasiosi” e speculativi.
Circa la creazione del credito, però, le banche mantengono ancora il primato con 69mila miliardi, pari al 77% del totale, lasciando molto indietro il settore dei citati OFI. Il che significa che questi ultimi sono attratti soprattutto da settori molto distanti da quelli concernenti l’economia reale.
Nel frattempo gli OFI hanno registrato un grande aumento in Europa. Ad esempio, rappresentano il 92% di tutti gli attivi finanziari del Lussemburgo, il 76% dell’Irlanda e il 58% dell’Olanda. L’area euro conta detti attivi per 32mila miliardi di dollari, superando gli Usa, dove, in realtà, stanno diminuendo, e di molto la Cina, dove, al contrario, è in atto una crescita straordinaria.
All’interno degli OFI vi è un settore in continuo aumento che rappresenta ben 45mila miliardi di attivi considerati molto rischiosi anche dallo Fsb. Si chiama “narrow measure of shadow banking”, un nome senza senso anche in inglese e impossibile da tradurre in italiano in modo comprensibile. Non è la prima volta che prodotti finanziari molto rischiosi vengono chiamati, volutamente, in modo stravagante e fuorviante.
Secondo il Consiglio per la stabilità finanziaria, le operazioni “narrow measure” sono molto più rischiose in quanto utilizzano massicciamente la leva finanziaria, operano cioè con grandi numeri ma pochi capitali propri.
Di conseguenza sono vulnerabili ai rischi di rinnovo delle posizioni e di estensione

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PANORAMA INTERNAZIONALE

“Geopolitica. Storia di un’ideologia”: una prefazione.

Scritto da Aldo Giannuli – 7 MARZO 2019

Questo di Amedeo Maddaluno è un libro importante. Da leggere e da meditare, nonostante le sue dimensioni esili o, forse, proprio perché in alcune decine di pagine ha ben condensato una serie di aspetti decisivi dell’evoluzione della politica nel Novecento e getta lo sguardo sulla crisi del presente.

Proprio in questi mesi andavo meditando un nuovo libro dedicato alla storia del pensiero politico nel novecento, che mi sembra non ancora trattato in modo soddisfacente.

Sin qui è rimasta forte l’impronta della trattazione ottocentesca che procedeva per ritratti di singoli autori, dalla classicità ai nostri giorni (Eraclito, Erodoto, Tucidide, Platone, Aristotele, poi Polibio, Seneca, San Paolo e poi, via via Eusebio di Cesarea, Agostino, Tommaso d’Aquino, Marsilio, Machiavelli, Bodin, Grozio, Hobbes, Looke, sino a Marx, Weber, Pareto, Schmitt eccetera).

E questo comportava alcune conseguenze: un approccio idealistico che assegnava alla filosofia la centralità del tema, trattato come parte della filosofia morale (e basta scorrere i nomi che ho intenzionalmente indicato poco prima).

In secondo luogo, questo determinava una certa separazione fra teoria politica e pratica politica: il dover essere studiato dai filosofi e l’essere praticato dai decisori politici, poi studiato dagli storici.

Infine, tutto ciò ha avuto un carattere eminentemente eurocentrico, come se il resto del Mondo, dall’Islam alla Cina, dall’India al Giappone non abbiano mai prodotto alcun pensiero politico degno di nota o che ci riguardi.

Questo approccio ha avuto una sua plausibilità sino al Settecento, quando l’azione politica era normalmente riservata alle ristrette èlites di governo ed il rapporto con la teoria politica passava più che altro attraverso la formazione culturale di ciascuno dei suoi componenti.

Già con l’irrompere della modernità rivoluzionaria (anticipato dall’Inghilterra di Cromwell, ma esplicitato dall’America di Washington e dalla Francia dell’ottantanove) iniziò a porre il problema del rapporto fra teoria e prassi politica in termini diversi, con la nascita di soggetti politici organizzati come i moderni partiti politici. Ma, ancora nel XIX secolo, l’impostazione preminentemente filosofica perdurava, rispecchiandosi nelle diverse ideologie proprie di ciascuno schieramento.

In qualche modo, le ideologie politiche sostituirono il ruolo della fede religiosa nel compattare il consenso dei ceti subalterni, insistendo soprattutto sulle motivazioni etiche di ciascuno schieramento.

Il marxismo segnò una prima evoluzione che cercava di ridurre a sintesi la filosofia tedesca, l’economia inglese ed il socialismo francese, realizzando un delicato equilibrio fra istanze etiche e realismo politico.

Ma fu solo il primo di una serie di tentativi in questo senso: in modi diversissimi, spesso antitetici fra loro, anche il liberalismo del Novecento, il fascismo, il cattolicesimo sociale, eccetera tentarono di conciliare la propria visione morale con gli interessi sociali ed anche con la volontà di potenza delle singole élites, nei modi propri a ciascuna di esse.

Il tema è poi esploso nel Novecento con molte discipline che l’hanno affrontato da più aspetti e così si sono sviluppate o sono nate ex novo molte discipline, dalla sociologia al diritto comparato, dalla scienza della politica alle relazioni internazionali, dalla psicologia politica alla geopolitica, appunto.

La geopolitica, sorta all’alba del XX secolo, dopo un periodo di fortuna (fra gli anni Venti ed i Trenta) subì una lunga quarantena per il ricordo che la legava alla preferenza per esse dei regimi fascisti. D’altro canto, il conflitto politico nella seconda metà del secolo ebbe carattere eminentemente ideologico da un lato e sociale dall’altro, mentre ciascuno Stato cercava (non sempre in modo convincente) di mascherare i propri disegni di organizzazione dello spazio politico mondiale.

Con il crollo dell’Urss e la candidatura degli Usa ad unica potenza imperiale, è riemersa la geopolitica e, con essa, il rapporto fra pensiero ed azione politica nella prospettiva spaziale e questo ha portato tanto alla riscoperta dei primi autori della disciplina quanto alla produzione di nuove teorie.

Non mancano certo storie della geopolitica che si succedono da circa trenta anni, pur se con una certa parsimonia, ma, nel maggior numero dei casi ripercorrono la parabola delle precedenti storie del pensiero politico per

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La Turchia spazza via la cultura cristiana della parte occupata di Cipro

di Uzay Bulut – 4 marzo 2019

Pezzo in lingua originale inglese: Turkey Wipes Out the Christian Culture of Occupied Cyprus

Traduzioni di Angelita La Spada“La Turchia ha commesso due gravi crimini internazionali contro Cipro. Ha invaso e diviso un piccolo, debole, ma moderno e indipendente Stato europeo (…) la Turchia ha inoltre cambiato la connotazione demografica dell’isola e si è dedicata alla distruzione sistematica e alla obliterazione del patrimonio culturale delle aree sotto il suo controllo militare.” – Brano tratto dal reporit “La perdita di una civiltà: La distruzione del patrimonio culturale nella parte occupata di Cipro”.

“Più di 550 chiese, cappelle e monasteri ortodossi greci, situati nelle città e nei villaggi delle zone occupate, sono stati saccheggiati, volutamente vandalizzati e, in alcuni casi, demoliti. Molti luoghi di culto cristiani sono stati trasformati in moschee, in depositi dell’esercito turco, in magazzini e fienili.” – Ministero degli Affari esteri di Cipro.

“L’UNESCO considera la distruzione intenzionale del patrimonio culturale un crimine di guerra.” – Artnet News, 2017.

Un mosaico del XVI secolo raffigurante San Marco, trafugato da una chiesa dopo l’invasione turca di Cipro del 1974, è stato di recente ritrovato in un appartamento di Monaco e restituito alle autorità cipriote. L’antica opera d’arte è stata definita da Arthur Brand, l’investigatore olandese che l’ha rintracciata, “uno degli ultimi e magnifici esempi di arte risalente alla prima età bizantina”.

Molte altre vestigia culturali cipriote, provenienti da chiese e da altri siti, sono state trafugate da Cipro dagli invasori turchi ed illegalmente portate all’estero. Nel 1989, i mosaici sottratti dalla chiesa di Panagia Kanakaria e ritrovati negli Stati Uniti furono restituiti a Cipro.

Nell’estate del 1974, la Turchia organizzò due importanti campagne militari contro Cipro e occupò la parte settentrionale dell’isola (che Ankara chiama ora “la Repubblica turca di Cipro Nord”, riconosciuta soltanto dalla Turchia). Dall’inizio dell’invasione turca sono emerse molte informazioni non solo riguardanti le atrocità commesse contro i ciprioti, ma anche la distruzione dei monumenti storici, culturali e religiosi.

Secondo un report del 2012, dal titolo “La perdita di una civiltà: La distruzione del patrimonio culturale nella parte occupata di Cipro”:

“La Turchia ha commesso due gravi crimini internazionali contro Cipro. Ha invaso e diviso un piccolo, debole, ma moderno e indipendente Stato europeo (dal 1° maggio 2004 la Repubblica di Cipro è membro dell’Unione europea); la Turchia ha inoltre cambiato la connotazione demografica dell’isola ed è stata dedita alla distruzione sistematica e alla obliterazione del patrimonio culturale delle aree sotto il suo controllo militare…

“Questo è uno degli aspetti più tragici del problema di Cipro ed è anche la prova evidente della determinazione di Ankara a ‘turchificare’ l’area occupata e a mantenere una presenza permanente a Cipro.

“La forza occupante e il suo regime fantoccio, dal 1974 a oggi, hanno lavorato metodicamente per cancellare tutto ciò che è greco e/o Cristiano dalla parte occupata di Cipro…”.

Un documento del 2015 della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti conferma quanto affermato nel report cipriota:

“Le missioni archeologiche straniere impegnate nelle attività di scavo a Cipro sono state costrette a interrompere il loro lavoro dopo gli eventi del 1974. Le loro preziose scoperte sono state saccheggiate e le équipe di archeologi non sono state in grado di tornare nell’isola e riprendere i loro scavi.

“Secondo alcune stime, attraverso gli scavi illegali nella parte settentrionale di Cipro, più di 60mila manufatti ciprioti sono stati trafugati ed esportati all’estero per essere venduti nelle case d’asta o dai mercanti d’arte. L’esempio di

Continua qui: https://it.gatestoneinstitute.org/13831/turchia-cipro-cultura-cristiana

 

 

 

POLITICA

Attenzione ai cavalli di Troia dei Rothschild

da aurorasito

Dean Henderson, 03/02/2019

La scorsa settimana il presidente boliviano Evo Morales avvertiva che l’invio dagli USA di “aiuti umanitari” in Venezuela era un “cavallo di Troia per provocare la guerra”. Scontri ai confini sia del Brasile che della Colombia col Venezuela convalidavano le affermazioni di Morales su agenti provocatori con giubbotti della Croce Rossa che bruciavano autobus, e disertori dell’esercito venezuelano. Questi ultimi venivano pagati 20000 dollari ciascuno per disertare. Morales rimane l’unico presidente rivoluzionario al potere in Sud America insieme al Presidente Nicolas Maduro. Ha nazionalizzato l’industria del gas della Bolivia promuovendo al contempo l’alfabetizzazione e l’assistenza sanitaria preventiva per la sua nazione da tempo povera del popolo aymara. Morales sa che non passerà molto prima che il suo Paese sia nel mirino della “Troika della tirannia” dei neoconservatori traditori di John Bolton che hanno sequestrato la politica estera degli Stati Uniti per conto dei loro padroni delle piantagioni della Corona. Morales aggiunse che “i fratelli latinoamericani del Venezuela non possono essere complici dell’intervento militare. La difesa del Venezuela difende la sovranità dell’America Latina”.

Finora Nicaragua, El Salvador, Cuba, Messico, Uruguay, Suriname, St. Vincent, Barbados e Grenadine hanno ascoltato l’appello della Bolivia a respingere il tentato golpe. Iran, Siria, Turchia, Sudafrica, Guinea Equatoriale, Bielorussia, Russia e Cina hanno anche denunciato l’aggressione degli Stati Uniti. Cina e Russia ponevano il veto a una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle

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SCIENZE TECNOLOGIE

Ancora demografia

by Jacopo Simonetta | 1 marzo 2019

 

Articolo lungo e molto didattico, per niente divertente; siete avvertiti.

 

La demografia è fatta di tre cose: nascite, morti e migrazioni.

Quanti figli può avere una donna?  Il record storico accreditato è di Valentina Vassilyeva, una contadina russa che fra il 1725 ed il 1765 mise al mondo la bellezza ben 69 figli (con 27 parti di cui 16 gemellari, 7 trigemellari e 4 quadrigemellari).  Ancora più straordinario il fatto che 67 di questi ragazzi raggiunsero l’età adulta.
Il record attuale appartiene invece ad una signora cilena, Leontina Albina, che ne ha avuti 55 (certificati, lei dice che siano invece 64).
A parte questi casi assolutamente straordinari, una donna normale può mettere al mondo un massimo di 12-15 figli, ma è rarissimo che nella realtà si riscontrino livelli simili di fertilità, tanto nelle società primitive quanto in quelle più sofisticate.  Diciamo che gli 8-10 figli che sembravano normali ai nostri bisnonni e che oggi sono la norma in altri paesi rappresentano l’eccezione e non la regola nella storia umana.

Quanto può vivere un umano?  Il record pare appartenga al sig. Saparman Sodimedjo (alias Mbah Ghoto) che potrebbe essere vissuto addirittura 146 anni in un villaggio indonesiano, ma è lecito dubitarne.   Ad ogni modo, ci sono almeno una ventina di casi ben documentati di persone, uomini e donne, vissute fra i 110 e i 120 anni.
Anche in questo caso, la norma è assai più modesta.  Oggi la speranza di vita è di circa 71 anni come media mondiale, ma varia fra gli 84 del Giappone ai 50 della Sierra Leone.

Non esistono, ovviamente, regole biologiche riguardanti le migrazioni.

Sia la natalità, sia la mortalità che il saldo migratorio cambiano notevolmente a seconda delle regioni e dei periodi storici, ma mentre la prima cambia lentamente ed ha una notevole inerzia, la seconda ed il terzo cambiano immediatamente al variare delle condizioni ambientali.
Il punto spesso trascurato è che moltissime società, anche primitive e/o povere, hanno cercato ed almeno parzialmente ottenuto di mantenere delle densità di popolazione abbastanza stabili, inferiori al massimo possibile.  Quelle che non lo hanno fatto si sono guadagnate un posto nei libri di storia per aver prodotto occasionali o ricorrenti invasioni e, talvolta, veri e propri genocidi.  Oppure sono morte schiacciate dal loro stesso numero.

Cosa fa la differenza?  Una dinamica multidimensionale articolata su tre livelli strettamente interconnessi: Individuale, sociale, ambientale.

 

Livello individuale.

A livello individuale, il fattore principale è costituito dalla scelta delle donne (autonoma o imposta che sia) circa il numero di figli.  Molto prima che fossero inventati i metodi contraccettivi odierni, erano infatti di uso corrente metodi statisticamente efficaci come modalità infertili di fare sesso e prolungare l’allattamento.  Aborto, infanticidio ed abbandono erano anche metodi ampiamente diffusi, specialmente nelle popolazioni insulari, ma non solo.
I fattori che concorrono a questa decisione dipendono in parte dalle opinioni della donna, in particolare da quanto desidera (o deve) dedicare ad ogni figlio in termini di tempo ed energia.  Dunque, non solo in termini di cibo, ma anche di abiti, istruzione, proprietà ecc.   Ovviamente, più alto è l’investimento che si vuole fare su ogni figlio, minore è il numero dei figli desiderati.
Inoltre, sono importanti gli altri desideri alternativi, o integrativi, alla maternità, ma questo è un elemento che acquista rilevanza demografica solo in società estremamente complesse, oppure fra gli alti ranghi di alcune aristocrazie.
Un ulteriore, importante fattore psicologico è l’aspettativa rispetto al futuro: chi ha una visione ottimista dell’avvenire tende a riprodursi molto di più di chi è pessimista, per l’ovvia ragione che non fa piacere mettere al mondo delle persone, se si pensa che saranno destinate a vivere poco e male.
Infine, un fattore accidentale, ma che può evolvere in una tradizione, è rappresentato dalle calamità, siano queste sociali (guerre) o ambientali (carestie ed epidemie).  A seguito di eventi particolarmente devastanti, infatti, la natalità ha sempre una brusca impennata.
Un caso particolare di interazione fra il livello sociale e quello individuale è la percezione di una minaccia che si immagina di poter contrastare tramite l’aumento numerico del proprio gruppo.  La “guerra delle culle” in corso fra Israeliani e Palestinesi è un caso da manuale e poco importa che, evidentemente, danneggi entrambi.

 

Livello sociale.

A livello sociale, i fattori che determinano la natalità sono prima di tutto la tradizione e la religione, che non necessariamente coincidono nei loro precetti.  Per esempio, i contadini europei del XIII secolo erano cattolici come quelli del XIX, ma mentre i primi limitavano la propria natalità, sei secoli dopo i loro discendenti non lo facevano più.  Oggi, quasi tutti i cattolici controllano nuovamente la propria riproduzione.
Correlati con la religione, vi sono poi anche altri importanti istituzioni sociali come, tipicamente, il monachesimo, maschile e femminile, che può ridurre drasticamente la natalità di una popolazione.

Un altro fattore sociale rilevante è il grado di preminenza dei maschi sulle femmine perché, di solito, le società a netta dominanza maschile sono più prolifiche, ma non sempre.  Abbiamo conosciuto culture primitive assolutamente maschiliste in cui, però, la natalità era strettamente controllata.
Altro fattore importante è costituito dall’insieme dei rapporti familiari e, in particolare, dall’età media del matrimonio per le ragazze e dalla possibilità (od obbligo) per le vedove di risposarsi.  Infine, non bisogna dimenticare il grado di accettazione sociale dei rapporti omosessuali e di pratiche, già citate, quali l’infanticidio, l’aborto e l’abbandono.

Infine, le consuetudini sociali sono importanti anche nel determinare le migrazioni.  In alcuni casi, come il ben documentato caso delle polis greche, un certo numero di giovani veniva periodicamente mandato allo sbaraglio.   Più comunemente, l’emigrazione massiccia è un’estemporanea risposta al superamento della capacità di carico del territorio ed è un’alternativa alla guerra civile.  Ma anche la migrazione comporta sovente un elevata mortalità sia per i rischi del viaggio, sia per lo scontro con i popoli i cui territori si vogliono attraversare od acquisire.  Non sempre, però. Talvolta la cosa può avvenire anche pacificamente.

A livello sociale, un ruolo fondamentale viene giocato anche dalla competizione interna al gruppo e fra gruppi.
All’interno del gruppo prevalgono i rapporti di collaborazione (altrimenti non vi sarebbe un gruppo), ma è sempre presente anche una certa competizione: per il rango sociale, per una maggiore fetta di risorse, per un avanzamento in carriera, per la ragazza più bella, ecc.   A seconda di come evolve il rapporto fra densità della popolazione, tecnologia e risorse (v. seguito), la competizione può diventare abbastanza forte da ridurre le probabilità di sopravvivenza di alcuni membri a favore di altri.  In casi limite, questo può evolvere in un vero conflitto, nel qual caso non esiste più una dinamica di gruppo, ma una dinamica di scontro fra gruppi.
Analogamente, anche i rapporti con gli altri gruppi umani possono evolvere in modi pacifici o violenti a seconda della struttura demografica e di quanto la popolazione si avvicina a alla capacità di carico.   In linea generale, nelle società in cui la popolazione è relativamente stabile e lontano dalla capacità del territorio, competizione e conflittualità sono limitate sia all’interno del gruppo che fra vicini.  Viceversa, un’elevata natalità è sempre un fattore altamente destabilizzante, molto spesso prodromo di una successiva fase di violenza, interna o esterna al gruppo.

Un altro fattore determinante per la dinamica della popolazione è il grado di complessità organizzativa. Esiste infatti una retroazione fortemente positiva fra una maggiore complessità, lo sviluppo di tecnologie più avanzate, la densità della popolazione e la quantità di risorse che il gruppo riesce ad accaparrarsi.  L’insieme di questi elementi tende quindi a produrre una crescita esponenziale che, se non viene arginata in tempo da fattori sociali e culturali, porta fatalmente al collasso per carenza di risorse e/o degrado ambientale.  In entrambi i casi, si verifica una brusca riduzione della complessità che, però, riduce il livello tecnologico e quindi l’accesso alle risorse, avviando una retroazione positiva analoga a quella che genera la crescita, solo che stavolta genere una decrescita esponenziale.

Infine, un fattore di cui oggi molto si parla è quello del grado di ineguaglianza all’interno del gruppo. Ogni società ha elaborato criteri propri per determinare quale sia il livello di ineguaglianza tollerabile, ma tutte hanno un proprio limite, superato il quale la classe dirigente perde di legittimità. Anche senza giungere a vere rivolte, il superamento di questo limite riduce la coesione e l’efficienza del gruppo, il che si traduce in una riduzione del flusso di risorse, quindi in un ulteriore impoverimento e quindi in una crescente conflittualità; eventualmente fino alla dissoluzione della società ed alla drasatica riduzione della popolazione.

Questo ci porta a considerare i fattori sociali che contribuiscono a determinare la mortalità, in primis il grado di violenza comunemente accettata all’interno del gruppo, così come i codici di comportamento che conferiscono rango sociale e prestigio personale.
Ancora più importante è la violenza fra gruppi e, nelle società primitive, si conoscono sostanzialmente tre tipi di conflitto.
La razzia, non è propriamente guerra in quanto ha come fine principale il furto di bestiame o di altri beni, usando soprattutto astuzia ed audacia. Il combattimento si tende ad evitare, ma può avvenire e se ci sono dei morti la razzia può degenerare in forme più violente di conflitto.  Così come quando si rubano delle donne, specialmente se di alto rango.
La seconda forma, estremamente diffusa anche in società assai vicine alla nostra, è la vendetta.  Vale a dire che, per ogni membro del gruppo che viene ucciso, i compagni si sentono in dovere di ucciderne uno del gruppo avverso.   Queste cose facilmente diventano delle faide infinite, ma non sempre perché ogni tradizione prevede delle modalità per interrompere la catena tramite appositi accordi e rituali di pacificazione.  Se si vuole.
Infine, il genocidio pare essere antico come la nostra specie, anche se non è la modalità di guerra più frequente.  In questo caso, un gruppo attacca l’altro con la determinazione di ucciderne tutti i membri o, perlomeno, tutti i membri maschi.

Nelle società moderne, attualmente, prevalgono altre due forme di guerra.
La prima è la guerra asimmetrica, cioè fra una potenza militare e milizie locali o gruppi terroristici.  Conflitti che raramente giungono ad una vera conclusione perché giocati assai più sul piano politico che su quello strettamente militare.
La seconda forma di guerra oggi più diffusa è una variante mitigata del genocidio arcaico che potremmo definire, con un termine d’autore, “pulizia etnica”; cioè l’uso del terrorismo per allontanare i gruppi rivali.  In pratica, ne trucido 100 per farne fuggire migliaia.
Guerre ad elevata intensità fra grandi potenze non ne avvengono dal 1945, ma il potenziale distruttivo di un simile esempio è difficile da immaginare, anche senza il paventato ricorso alle armi nucleari.   Se non altro, perché un conflitto di grande portata bloccherebbe quasi completamente il commercio globale, generando fenomeni di carenza estrema in tutti i paesi del mondo. Un conflitto di grande portata provocherebbe, insomma, una quantità di morti per fame e miseria difficile da immaginare, anche nei paesi non coinvolti.

 

Fattori ambientali.

Vengono subito alla mente le risorse vitali: cibo, acqua e riparo, ma la faccenda è

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STORIA

LA VERA STORIA DELL’OTTO MARZO

Di Gabriella  – 7 Marzo 2015

L’8 marzo era originariamente una giornata di lotta, specialmente nell’ambito delle associazioni femministe: il simbolo delle vessazioni che la donna ha dovuto subire nel corso dei secoli. Tuttavia, nel corso degli anni il vero significato di questa ricorrenza è andato un po’ sfumando, lasciando il posto ad una ricorrenza caratterizzata anche – se non soprattutto – da connotati di carattere commerciale.

IPOTESI SULL’ORIGINE

L’origine della festa è controversa. Secondo alcuni la sua istituzione risale al 1910 nel corso della seconda Conferenza dell’Internazionale socialista di Copenaghen e sarebbe di Rosa Luxemburg la proposta di dedicare questo giorno alle donne. Secondo un’altra ipotesi Clara Zetkin, socialdemocratica tedesca, propose la Giornata internazionale della donna su “Die Gleichheit”, il giornale di cui era direttrice, e dal 19 marzo 1911 fu ufficializzata a livello internazionale. La data fu scelta perché in quel giorno, durante la rivoluzione del 1848, il re di Prussia aveva promesso, fra l’altro, il voto alle donne, promessa che poi dimenticò.

Alcune femministe italiane (Tilde Capomazza e Marisa Ombra nel libro “8 marzo. Storie, miti, riti della giornata internazionale della donna” 1987, ristampa ed. Utopia, 1991) sostengono tuttavia che non c’è nessuna prova documentata a supportare questa ipotesi. Il movimento operaio e socialista di inizio secolo ha celebrato in date molto diverse giornate dedicate ai diritti delle donne e al suffragio femminile.

Secondo altri fu la rivoluzione bolscevica a imporre l’8 marzo. Il 23 febbraio 1917 del calendario giuliano (che corrisponde appunto all’8 marzo del calendario gregoriano), le operaie di Pietroburgo manifestarono contro la guerra e la penuria di cibo.

Inoltre, le già citate Capomazza e Ombra ipotizzano che per rendere più universale e meno caratterizzato politicamente il significato della ricorrenza, si preferì omettere il richiamo alla Rivoluzione russa ricollegandosi ad un episodio non reale, ma verosimile, della storia del movimento operaio degli Stati Uniti.

La connotazione fortemente politica della Giornata della donna, l’isolamento politico della Russia e del movimento comunista e, infine, le vicende della Seconda guerra mondiale, contribuirono alla perdita della memoria storica delle reali origini della manifestazione. Così, nel dopoguerra, cominciarono a circolare fantasiose versioni, secondo le quali l’8 marzo avrebbe ricordato la morte di centinaia di operaie nel rogo di una inesistente fabbrica di camicie Cotton avvenuto nel 1908 a New York, facendo probabilmente confusione con una tragedia realmente verificatasi in quella città il 25 marzo 1911, l’incendio della fabbrica Triangle, nella quale morirono 146 lavoratori, in gran parte giovani donne immigrate dall’Europa. Altre versioni citavano la violenta repressione poliziesca di una presunta manifestazione sindacale di operaie tessili tenutasi a New York nel 1857, mentre altre ancora riferivano di scioperi o incidenti verificatesi a Chicago, a Boston o a New York.

In Italia la Giornata internazionale della donna fu tenuta per la prima volta soltanto nel 1922, per iniziativa del Partito comunista d’Italia, che volle celebrarla il 12 marzo, in quanto prima domenica successiva all’ormai fatidico 8 marzo.

Anche in Italia (dove dal dopoguerra l’8 marzo acquista nuovo impulso a partire dalla manifestazione indetta dall’Udi – che, almeno a quanto scrive la CGIL nel suo sito, sceglie come simbolo la mimosa -, nel 1946) inizialmente l’avvenimento originario (per lo meno nella tradizione socialista) sembra essere quello dello sciopero di operaie newyorkesi nel 1857, ma, a partire dagli anni 50 (e dunque in piena guerra fredda), si afferma la versione delle operaie bruciate nel rogo della loro fabbrica nel 1908.

LA STRAGE DELLA FABBRICA COTTON: UNA LEGGENDA METROPOLITANA

In Italia è molto diffusa una leggenda metropolitana che fa risalire l’origine della festa ad un grave fatto di cronaca avvenuto negli Stati Uniti, l’incendio della fabbrica Cotton a New York nel 1908. Alcuni giorni prima dell’8 marzo, le operaie dell’industria tessile Cotton iniziarono a scioperare per protestare contro le condizioni in cui erano costrette a lavorare. Lo sciopero proseguì per diversi giorni finché l’8 marzo Mr. Johnson, il proprietario della fabbrica, bloccò tutte le vie di uscita. Poi allo stabilimento venne appiccato il fuoco (alcune fonti parlano di un incendio accidentale). Le 129 operaie prigioniere all’interno non ebbero scampo.

Questa storia è in realtà un adattamento, fatto a fini propagandistici dai movimenti di sinistra, di un fatto realmente accaduto ma con tempi e modalità leggermente diverse.

Nel Museum of the City of New York, che si trova nell’Upper East Side, sono ricordati tutti gli incendi che purtroppo devastarono la città: della fabbrica “Cotton” e dell’8 marzo del 1908 non c’è traccia. Invece nel museo è narrato con immagini shock l’incendio della fabbrica “Triangle” del 1911, probabilmente la vera origine della ricorrenza dell’8 Marzo.

L’INCENDIO DELLA FABBRICA TRIANGLE

L’l’incendio in questione avvenne nel 1911 (quindi dopo, e non prima della tradizionale data di nascita della festa, il 1910), a New York, nella Triangle Shirtwaist Company. Le lavoratrici non erano in sciopero, ma erano

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