NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI 4 FEBBRAIO 2019

Questa mappa è estratta da un Powerpoint presentato nel 2003 da Thomas P.M. Barnett, assistente dell’ammiraglio Arthur Cebrowski, a una conferenza al Pentagono. Essa mostra le zone da distruggere (colorate in rosa). Questo progetto non è legato né alla guerra fredda né allo sfruttamento delle risorse naturali. Dopo il Medio Oriente Allargato, gli strateghi USA si preparano a ridurre in macerie il Bacino dei Caraibi.

NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI

4 FEBBRAIO 2019

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

La maggior parte delle follie trova origine nella stupidità.

NICOLAS CHAMFORT, Massime e pensieri, Guanda, 1988, pag. 19

 

http://www.dettiescritti.com/

https://www.facebook.com/Detti-e-Scritti-958631984255522/

 

Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.

 

Tutti i numeri dell’anno 2018 della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com 

 

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SOMMARIO

 

Stanno prendendo tempo          

La scelta della guerra civile

Ong, Fidanza (FdI) vs Gruber: “Sono pagate da Soros e da speculatori internazionali”. “Lei ha già raccontato tante balle”. 1

Poteri oscuri, anche Salvini obbedisce al Tav Torino-Lione 1

Tutte le altre stragi, senza nessuna Giornata della Memoria 1                    

Regionalismo differenziato, verso la secesione dei ricchi?

UNO STRANO PAESE. 1

Sparisce un bimbo ogni 48 ore: 4 su 5 non vengono ritrovati 1

Il popolo coglione 1

Pamela Mastropietro senza commemorazione ufficiale 1

Gli Stati Uniti creano le condizioni per l’invasione del Venezuela. 1

Solo un filosofo ci può salvare: elogio di….. 1

Il mistero del Malaysian Airlines MH-370: quattro persone scomparse rendono Jacob Rothschild l’unico proprietario di un brevetto. 1

Diritti umani: l’anniversario dell’ipocrisia e la deriva relativistica 1

Sea Watch, sì a redistribuzione. “La Ue costretta a intervenire”. 1

Mario Draghi, il duro attacco: “Debito troppo alto? Addio alla sovranità”. 1

Derivati: il tallone d’Achille della finanza

Perché il mondo della finanza dovrebbe studiarsi LA CASA DI CARTA

Caso Diciotti, le mie otto ragioni per il No all’autorizzazione a procedere contro Salvini 1

Pensioni, Quota 100: come funziona, requisiti e limitazioni 1

Provvisorio. 1

Venezuela: chi è Guaidò, l’ingegnere che sfida Maduro 1

Chi è Juan Guaidò, l’autoproclamato presidente del Venezuela 1

LA FALSA ALTERNATIVA TRA LIBERALISMO E NUOVA DESTRA. 1

L’ultima indecenza dell’Anpi: «Le Foibe sono un’invenzione dei fascisti» 1

Cultura. Grande Guerra: l’Italia e quel buonismo (politico) duro a morire 1

Solo il Papa Buono si oppose all’orrore Usa in America Latina 1

 

 

EDITORIALE

Stanno prendendo tempo …

Manlio Lo Presti – 3 febbraio 2019

Ho ripetutamente evidenziato che la penisola è da troppo tempo il bersaglio di una sospetta concentrazione di ostilità:

  • da quasi tutti i Paesi d’Europa, piuttosto tranquilli finché l’Italia imbarcava c.d. emigranti senza rompere i cabbasisi e rastrellava i correlati titanici incassi dove attingevano le coop, le ong, le 8 mafie, il vaticano, le case famiglia, i gruppi politici della precedente maggioranza;
  • dai media nazionali ed esteri, molto silenziosi davanti ad antecedenti questioni di superiore gravità, MA PRONTI A SPARARE CONTINUAMENTE CONTRO L’ITALIA SU TUTTO;
  • dalle istituzioni economiche comunitarie, (BCE in prima fila) che nulla hanno detto dei disastri economici dei governi precedenti, del crollo delle nascite;
  • dalle società di rating (tutte private e di nazionalità USA), che stavano calme in presenza di deficit superiori del passato;
  • dalle istituzioni finanziarie nazionali (Bankitalia, ISTAT e altri enti economici) che hanno taciuto con collassi precedenti più gravi commessi dai governi precedenti mondialisti, immigrazionisti, speculativi che hanno deindustrializzato la ex-italia;
  • dalle istituzioni finanziere europee e mondiali (OCSE, FMI, NATO, ecc.)
  • dai sindacati che non si sono fatti vivi a) mentre era in atto la macelleria sociale delle normative Fornero, b) con 12.000.000 di disoccupati, c) con 5.000.000 di poveri assoluti, d) con 1.500.000 di bambini che non riescono a cenare, e) con la chiusura di migliaia di attività economiche, f) con oltre 17.000 suicidi economici, e ora si svegliano – ad orologeria – contro questo governo;
  • dal bispensiero buonista neomaccartista, che taceva sugli sbarchi per gli incassi titanici (12.000.000.000 di euro che intende riguadagnare);
  • dalle pseudosinistre all’opposizione, che oggi urlano al razzismo ma tacciono sui terremotati senza casa, sulla media di 180 giorni per avere una TAC che in privato si ottiene in una settimana;
  • dalla magistratura (una ben nota parte postotogliattiana, precisiamo), ormai dedita ad operazioni di pulizia etnica degli oppositori del bispensiero, ma inerte di fronte al dilagare della criminalità indotta da pseudoimmigrazione volutamente incontrollata e i cui dati statistici sono da tempo oscurati da ferrea censura orwelliana della psicopolizia;
  • dai poteri atlantici sovragestiti dal DEEP STATE che non accettano la presenza di una Italia risanata, che rappresenterebbe un ulteriore concorrente – meglio semidistrutta e capace di pagare gli interessi del debito pubblico e in grado di imbarcare la prima ondata di 5.000.000 di africani che ci pagheranno le pensioni (sic);
  • della progressiva eliminazione fisica della popolazione nazionale mediante ulteriori tagli della sanità pubblica per pari entità travasati ad imprese private anglofrancotedesche e alle big Pharma (la popolazione italiana sta diminuendo ad un ritmo che ricorda le modalità del PIANO GOLDMAN applicato in Siria, Iran, Iraq, Libia, ecc. ecc. ecc. ecc.): i pensionati devono morire al più presto perché costano e si ammalano!
  • dal sospetto insorgere di pandemie relative a malattie scomparse (lebbra, impetigini, tubercolosi, morbillo dilagante, patologie dermatologiche) per la quali è stata incolpata la solita popolazione italiana demmerda che non accetta di infliggersi fiale con 17 – ripeto 17 – vaccini contemporaneamente pena il sequestro dei figli UN GESTO FASCISTA CHE TALE NON SEMBRA AI BUONISTI CHE SI STRACCIANO LE VESTI PER LA IMMIGRAZIONE CAOTICA e con il silenzioso beneplacito delle Big Pharma che vedono la ex-italia come un nuovo Eldorado!!!!!!!!!!!!!!!!!

La vastità di un fronte così composito fa pensare ad una COSPIRAZIONE avente lo scopo eliminare l’identità italiana

  • sia linguistica con le crescenti commistioni con uno pseudoinglese,
  • sia con la caduta verticale dell’istruzione pubblica che NON DEVE INSEGNARE NULLA NÉ INSEGNARE A PENSARE: deve solo creare techgleba meccatronica da pagare a tre soldi altrimenti viene sostituita da neoschiavi africani.

TUTTO CIÒ PREMESSO

 

Sorge il sospetto che anche questa compagine governativa sia niente altro che un diversivo utile a dare tempo all’elenco di nemici sopra elencati di riorganizzarsi per la realizzazione di un piano di demolizione letale della nostra comunità nazionale.

Sorge il sospetto che tutti noi siamo spettatori involontari di una immane commedia delle parti che rispecchia gli attuali asseti geopolitici dove i contendenti mostrano di essere intenzionati a darsele di santa ragione, strepitano, urlano, si danno colpi feroci con le classiche guerre permanenti per procura operanti sul terreno di Stati canaglia o terre di nessuno nominate “nemiche ufficiali da abbattere”, ecc. ecc. ecc. ecc. ecc.

Sorge il sospetto che la fine di questo “giro di giostra”, sia l’inizio delle liste di proscrizione di un Paese che sarà lasciato totalmente in mano alle oscure legioni della vendetta neomaccartista il cui compito sarà quello:

  • di incrementare la denatalità (alla faccia dei periodici ipocriti, ma inefficaci, interventi vaticani sulle politiche della famiglia e della sinistra in favore del diritto al lavoro stabile e dignitoso, come dettato dalla Costituzione);
  • di vendicarsi casa per casa contro tutti gli italiani demmerda che non hanno votato PD e satelliti, sostituendoli liberamente con africani sottomessi (un atteggiamento passivo che reciteranno fino a quando non decideranno di prendersi tutto con crescenti rivolte per le strade, come sta avvenendo in vari Paesi del nord Europa ma che viene nascosto dal bispensiero buonista neomaccartista NWO);
  • di vendere a compratori esteri gli ultimi presidi produttivi ancora efficienti affinché sia compiuta definitivamente la deindustrializzazione della penisola votata ormai ad essere il deposito razziale dell’Unione Europea.

P.Q.M.

 

Fuori da retoriche propagandistiche ipnopediche e fuorvianti

non ci sono concreti spiragli di una uscita pacifica e senza spargimento di sangue del nostro Paese da questa congiura.

Diventa pressante la necessità di creare rapidamente una rete di aree organizzate

di resistenza culturale, sociale e di legittima difesa fisica personale per non essere rasi al suolo.

NON ABBIAMO PIÙ TEMPO!

QUESTI NON SI FERMERANNO.

QUESTI NON FARANNO PRIGIONIERI.

QUESTI CI STERMINERANNO, SE NON REAGIAMO SUBITO.

FARE FINTA DI NIENTE E GIRARE LA TESTA DA UN’ALTRA PARTE NON CI SALVERÀ.

SALTARE SUL CARRO DEI PROSSIMI VINCITORI NON SERVIRÀ: HANNO GLI ELENCHI …

Ripeto: il tempo rimasto è pochissimo.

Ne riparleremo molto molto molto presto …

 

P.S. a scanso di equivoci semantici che ormai imperano – per dilagante inesistente attitudine all’autoformazione – quanto appena scritto è improntato a criteri di realismo e non di pessimismo (un lessema che evidenzia un atteggiamento di resa incondizionata e altresì il facile epiteto/insulto usato da coloro che non concordano ma non vogliono misurarsi costruttivamente sui fatti).

 

 

 

 

IN EVIDENZA

La Scelta della Guerra Civile

4 Febbraio 2019 DI MICHEL ONFRAY

michelonfray.com

Mentre è in Egitto per visitare le piramidi insieme ad un Aréopage – una bella compagnia – nella quale figura anche l’infaticabile Jack Lang, Emmanuel Macron, trova il tempo anche per rispondere a qualche domanda dei giornalisti in una conferenza stampa sui gilets-jaunes: “Sono rammaricato che undici dei nostri concittadini abbiano perso la vita durante questa crisi. (…) Faccio notare che spesso sono morti solo per lastupidità umana, ma che nessuno di loro (sic) è stato vittima della polizia “. [1]

Da filosofo esperto che non perde mai l’occasione si ricordare di aver nutrito il proprio spirito con gli scritti di Machiavelli e di Hegel e poi anche di Paul Ricoeur e di Habermas, ci si sarebbe aspettati un qualcosa con un profilo meno basso!

Non andiamo a cercare le cifre del Ministero dell’Interno, sono dati propagandistici che vengono divulgati più per salvare un regime screditato dai suoi attori e dalle loro azioni che per salvare la Repubblica.

Basta leggere la nota riportata su Wikipedia

“Undici persone morte nelle proteste, dieci sono morte dopo aver urtato contro un’auto. Il 17 novembre 2018 a Pont-de-Beauvoisin (Savoia), una donna al volante di un fuoristrada, bloccata a una rotonda da una barricata dei manifestanti, ha messo la retromarcia ed ha investito un manifestante di 63 anni, che è rimasto ucciso. Dalle immagini di una telecamera di sorveglianza, l’accusa ha detto che sarebbe “impossibile definire questo comportamento come involontario”. Tra il 19 novembre e 21 dicembre, sette uomini muoiono dopo aver urtato dei veicoli. Il 2 dicembre, a Marsiglia, una donna di 80 anni muore in ospedale “per uno choc post-operatorio” dopo essere stata ricoverata per essere stata colpita in viso dalle schegge di una granata, mentre stava chiudendo le persiane di casa sua. Il 13 e il 20 dicembre, due gilet-gialli vengono uccisi dopo essere stati investiti da un camion. Inoltre, diversi automobilisti hanno forzato i blocchi stradali, investendo dei manifestanti o dei membri delle forze dell’ordine”.

Date le circostanze semplici e sobrie, chiunque, anche lui ha a disposizione tutte le

 

Continua qui: https://comedonchisciotte.org/la-scelta-della-guerra-civile/

 

 

 

 

Ong, Fidanza (FdI) vs Gruber: “Sono pagate da Soros e da speculatori internazionali”. “Lei ha già raccontato tante balle”

di Gisella Ruccia | 3 Febbraio 2019

Bagarre in più atti a Otto e Mezzo (La7) sull’immigrazione e sulle ong. Ospiti in studio: il deputato di Fratelli d’Italia Carlo Fidanza, la giornalista di Sette Stefania Chiale e Andra Venzon, fondatore e presidente del movimento paneuropeo Volt.

VIDEO QUI: https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/02/03/ong-fidanza-fdi-vs-gruber-sono-pagate-da-soros-e-da-speculatori-internazionali-lei-ha-gia-raccontato-tante-balle/4944338/

Il dibattito è incentrato sulle ong, a proposito del quale Fidanza, polemizzando con Venzon, afferma: “Perché non vi indignate allo stesso modo per il traffico delle ong, finanziate dai grandi speculatori internazionali, che pagano gli scafisti tra la Libia e l’Italia per riempirci di gente? Ma, insomma, indigniamoci per questo”.
Insorge la conduttrice Lilli Gruber: “In questo studio non facciamo il discorso delle ong finanziate da Soros”.
“Ma è la verità” – ribatte Fidanza – “lo dico e lo riaffermo”.
“No, lei dice una bugia” – replica la giornalista – “Dice una grandissima bugia e queste non le diciamo qui”.
“Dico la verità” – ribadisce il parlamentare – “Basta guardare i bilanci spesso poco trasparenti di queste ong, che sono pagate da grandi finanziatori”.

La polemica si riaccende quando Stefania Chiale ricorda che non sono ancora stati provati contatti tra ong e i trafficanti, ma viene interrotta da Fidanza: “Come lei ben sa, la procura di Catania sta indagando”.

La giornalista lamenta le continue interruzioni e Gruber nuovamente interviene per rimbrottare il deputato: “Onorevole Fidanza, faccia finire”.
“Sta dicendo una falsità però”, continua il parlamentare.

“Le devo togliere l’audio se continua a interrompere” – ammonisce la conduttrice – “Sia educato. Cerchiamo tutti di essere educati. Già di balle lei ne ha raccontate un bel po’”.

“Vada a vedersi i bilanci delle ong e i dati del Viminale” – ripete Fidanza – “Non sono balle, ma verità”.
Chiale poi continua il suo intervento: “Perché dice che io racconto falsità? Ci sono 4 procure siciliane che stanno indagando sulle ong. In alcuni casi le indagini sono state archiviate, in altri stanno continuando, ma, ad ora, non sono ancora stati trovati questi rapporti tra ong e scafisti, che invece voi date già per certi. Lasciamo lavorare la magistratura ma non possiamo dire che le ong sono dei vicescafisti”.

Nel finale, nuovo scontro tra Fidanza e Venzon, che accusa: “Stiamo scadendo nel complottismo con un rappresentante dei cittadini, che siede alla Camera dei deputati. Lei non ha dati, io le pago lo stipendio e sta inventando fatti.

Continua qui:

https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/02/03/ong-fidanza-fdi-vs-gruber-sono-pagate-da-soros-e-da-speculatori-internazionali-lei-ha-gia-raccontato-tante-balle/4944338/

 

 

 

 

Poteri oscuri, anche Salvini obbedisce al Tav Torino-Lione

Scritto il 02/2/19

Non basterebbe neppure Dan Brown. Ci vorrebbe almeno Tolkien, per svelare – attraverso una fiaba – il mistero del Tav Torino-Lione, cioè il sortilegio nero che vuole che si spendano 20-30 miliardi per costruire quella linea ferroviaria “maledetta”. Si tratta dell’inutile e faraonico doppione della ferrovia che esiste già, e che da 150 anni collega Torino a Lione attraverso la valle di Susa e il Traforo del Fréjus, riammodernato qualche anno fa (costo, 400 milioni di euro) per consentire il transito dei treni con a bordo i Tir e anche i grandi container “navali”, della massima pezzatura. L’unico problema è che non ci sono più merci da trasportare: l’asse strategico del terzo millennio è quello che unisce Genova e Rotterdam, mentre la direttrice Torino-Lione è ormai un binario morto, dal destino segnato. Secondo la Svizzera, incaricata dall’Ue di monitorare il traffico alpino, l’attuale Torino-Modane, semideserta, potrebbe incrementare addirittura del 900% il suo volume di trasporti. E allora che bisogno c’è di scavare – da zero – un nuovo traforo, lungo 57 chilometri, di cui non esiste ancora neppure un metro?

L’unico minitunnel realizzato, quello di Chiomonte, è solo una galleria esplorativa accessoria, geognostica: non potrebbe mai passarci nessun treno, anche se Matteo Salvini arriva a sostenere – davanti alle telecamere, proprio a Chiomonte – che costerebbe meno “finire il lavoro” piuttosto che “tappare il buco”. Dichiarazione ingannevole: Salvini sa benissimo che il “lavoro” per il tunnel destinato al treno non è mai neppure cominciato. Pur di premere sui 5 Stelle, il leader leghista – come già Renzi – arriva a ipotizzare un progetto “low cost”, parlando di appena 4 miliardi (cioè il costo della parte italiana dell’ipotetico futuro traforo, non quello della linea ferroviaria fino a Torino). Di più: il ministro dell’interno aggiunge che, “risparmiando” (ad esempio, rinunciando alla surreale “stazione internazionale” di Susa), si potrebbero costruire finalmente anche opere utili, come la metropolitana di Torino. Su questo ha ragione: il capoluogo piemontese, a lungo amministrato dalla dinastia Castellani-Chiamparino-Fassino, dispone solo di un’unica, patetica linea.

Torino, la metropoli più inquinata della penisola, è anche la grande città italiana peggio servita dai mezzi pubblici veloci: è l’unica a non disporre di una vera rete metropolitana. In compenso, i suoi ex sindaci sono tra i più fanatici sostenitori dell’inutile Tav Torino-Lione.

Chiamparino, in particolare, è il capo degli hooligan pro-Tav. Un caso esemplare di mistero italico: dopo aver fatto il sindaco è passato senza colpo ferire alla guida di una potentissima centrale finanziaria come la Compagnia di San Paolo, per poi tornare tranquillamente alla politica. L’uomo di fiducia dei grandi banchieri è oggi presidente della Regione Piemonte, poltronissima da cui martella il governo gialloverde per ottenere a tutti i costi la grande opera “maledetta”. Ci sta riuscendo? Stando a Salvini, parrebbe di sì. Sulla maxi-torta dell’appalto alpino, il capo della Lega è perfettamente allineato al fantasma del Pd.

A questo punto, la ragione vacilla. Per chi ha seguito i vent’anni di protesta popolare in opposizione alla Torino-Lione, i conti non tornano. Il movimento NoTav – ormai appoggiato da vasti strati dell’opinione pubblica nazionale – è stato il primo vero esempio, in Italia e non solo, di denuncia politica “glocal”. Dal particulare all’universale, dicevano gli umanisti rinascimentali. Agire localmente e pensare globalmente, ripetevano negli anni ‘80 i primi Verdi ispirati da Alex Langer. I valsusini – popolo sulle barricate, che nel 2005 riuscì a fermare il progetto con una spettacolare protesta nonviolenta guidata dai sindaci in fascia tricolore – per molti aspetti hanno come anticipato gli americani di Occupy Wall Street, adottando un metodo di lotta, dal sit-in fino al blocco stradale, che oggi i Gilet Gialli si limitano a replicare.

L’intuizione: se il potere “bara” a casa nostra, sulla base di dati falsificati, è lecito sospettare che “imbrogli” ovunque. E’ lecito supporre che si limiti a eseguire gli ordini di un’oligarchia del denaro mossa da interessi inconfessabili.

Sta barando da vent’anni, il potere che insiste – come un disco rotto – nel voler imporre quella super-linea inutile in valle di Susa, facendola pagare carissima all’Italia? Vedete voi, ma sappiate che la Torino-Lione non serve: lo dicono tutti i maggiori esperti di trasporti, tra cui il professor Marco Ponti del Politecnico di Milano, ora collocato dal ministro Toninelli nella scomodissima posizione di presidente della commissione incaricata di formulare un giudizio decisivo sul rapporto costi-benefici della grande opera. La Torino-Lione non serve: lo ribadirono ben 360 professori e tecnici dell’università italiana, in accorati e inutili appelli rivolti al Quirinale e a Palazzo Chigi.

Costi immensi, e nessun risultato: perché le merci devono comunque viaggiare a bassa velocità, per motivi di sicurezza.

Quanto alla Francia, spesso usata in Italia come alibi “europeo” per costruire a tutti i costi l’infrastruttura, ha deciso ufficialmente che di Torino-Lione, a Parigi, si riparlerà eventualmente solo dopo il 2030.

Il progetto Torino-Lione è un relitto ormai obsoleto degli anni ‘80: era nato come sogno di collegamento veloce per passeggeri, ed è stato archiviato dall’avvento dei voli low-cost. Al che, è stato trasformato in Tac, treno ad alta capacità per le merci, fingendo di non sapere che i convogli commerciali devono viaggiare lentamente, e che la chiave del trasporto merci non è la velocità, ma la puntualità della logistica: il sistema più efficiente al mondo è quello degli Usa, fatto da treni che viaggiano a 60 miglia utilizzando tunnel dell’800 che valicano le Montagne Rocciose. I costi territoriali della Torino-Lione sarebbero folli: le montagne della valle di Susa sono piene di amianto e tuttora traforate dalle gallerie scavate dall’Agip negli anni ‘70, ai tempi del nucleare italiano, perché il Massiccio dell’Ambin è un immenso giacimento di uranio. Senza contare la devastazione ambientale e urbanistica (vent’anni di cantieri), l’incognita maggiore è quella idrogeologica: quei monti fra Italia e Francia, dicono i geologi, ospitano un enorme bacino sommerso. Bucarlo potrebbe comportare conseguenze impensabili, con ripercussioni sui fiumi fino alla Valle d’Aosta.

Il compianto Luca Rastello, giornalista di “Repubblica”, in un saggio sul tema spiega che poi, una volta alle porte di Torino, la nuova linea potrebbe congiungersi alla Torino-Milano solo sbancando interi quartieri o procedendo per via sotterranea, e quindi perforando la falda idropotabile che alimenta l’area metropolitana torinese. Non se ne rendono conto, gli abitanti di Torino, perché nessun politico – prima di Chiara Appendino – si è mai premurato di spiegarlo chiaramente. Né si interrogano, i torinesi, sul motivo di tanta ostinazione, da parte dei valsusini, nell’opporsi al progetto. Non sospettano, i torinesi, che la criminalizzazione a reti unificate del movimento NoTav è servita a nascondere due verità imbarazzanti. La prima: in vent’anni, la politica non ha mai voluto o saputo dimostrare l’utilità della grande opera, neppure a fronte di una protesta così rumorosa. La seconda: il progetto Torino-Lione è nato sotto una cattiva stella, la peggiore di tutte: la strategia della tensione.

Negli anni ‘90, appena si cominciò a insistere sull’opera come “inevitabile

 

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Tutte le altre stragi, senza nessuna Giornata della Memoria

Scritto il 28/1/19

È possibile celebrare la Giornata della Memoria per ricordare, tra tutti i genocidi della storia recente, solo quello nazista ai danni degli ebrei?

 

Se lo domanda implicitamente un ex giornalista della Rai come Fulvio Grimaldi, nell’elencare – il 27 gennaio, sulla sua pagina Facebook – moltissime altre pagine atroci che hanno costellato il Novecento. «Il maresciallo Rodolfo Graziani massacra la Libia, occupata e seviziata dal 1911, e uccide seicentomila libici, tra civili e partigiani della resistenza, un terzo della popolazione», e poi «brucia centinaia di villaggi, bombarda centri abitati e carovane, avvelena i pozzi, impicca centinaia di libici, tra cui l’ottantenne leader della Resistenza, Omar al Mukhtar». Gli Stati Uniti, dal 1945 ad oggi, «iniziando con l’invasione della Corea e poi del Vietnam e poi proseguendo con la storica media di una guerra d’aggressione all’anno, con colpi di Stato, guerre civili innescate ad arte, sanzioni genocide», di fatto «uccidono 50 milioni di persone nel mondo». Nel solo Vietnam sono uccisi 3 milioni di civili, mentre gli effetti del napalm e dell’agente Orange continuano a far nascere e morire decine di migliaia di bambini deformi. Dagli Usa all’Europa: «Re Leopoldo del Belgio, occupante colonialista del Congo, provoca la morte di 20 milioni di congolesi».

Il genocidio africano prosegue nel ‘900 «per opera di fantocci dell’Occidente e delle multinazionali che controllano i territori delle risorse minerarie attraverso l’intervento del protettorato franco-statunitense del Ruanda

 

Continua qui: http://www.libreidee.org/2019/01/tutte-le-altre-stragi-senza-nessuna-giornata-della-memoria/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Regionalismo differenziato, verso la secessione dei ricchi?

02.02.2019 – Tatiana Santi

 

Il 15 febbraio è previsto un accordo fra il Governo e le regioni che chiedono il regionalismo differenziato: il Veneto, la Lombardia e l’Emilia Romagna. Un tema delicato che riguarda non solo i cittadini delle tre regioni, bensì tutto il Paese. Vi è il rischio di una secessione dei ricchi? Si potrà parlare di cittadini di serie A e serie B?

Una possibile intesa fra il governo da una parte, Veneto, Lombardia e Emilia E Romagna dall’altra, porterebbe ad un divario ancora più evidente fra Nord e Sud. Nascere in una determinata regione significherebbe, in altre parole, avere più o meno diritti, godere di maggiori o minori servizi dalla sanità alla scuola. Si realizzerebbe quindi una vera e propria “secessione dei ricchi”. Questo è l’appello al centro della petizione lanciata dal professore di economia Gianfranco Viesti.

A pochi giorni dall’accordo fra il governo e le tre regioni, a mancare è il dibattito su un tema riguardante tutti i cittadini italiani da Nord a Sud. Quali potrebbero essere gli effetti economici e politici del regionalismo differenziato? Sputnik Italia ha raggiunto per un’intervista Gianfranco Viesti, professore ordinario di economia all’Università di Bari, autore del saggio “Verso la secessione dei ricchi?” (scaricabile gratuitamente sul sito Editori Laterza).

— Professore Viesti, incominciamo dal suo saggio “Verso la secessione dei ricchi”, di cosa si tratta?

— Si tratta di discutere le iniziative delle regioni italiane Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna per ottenere dal governo una maggiore autonomia regionale. Il tema nasce dalla constatazione che si tratta di un tema importantissimo del quale però pochi si occupano. È quindi bene presentarlo all’opinione pubblica. Il punto decisivo è che non si tratta di un cambiamento tecnico amministrativo importante solo per i cittadini di quelle regioni, ma si tratta di un cambiamento politico molto importante di come funziona l’Italia, quindi interessa tutti i cittadini italiani.

Nelle proposte delle regioni ci sono infatti almeno tre criticità fondamentali: la prima è relativa alle materie, ovvero agli ambiti in cui le regioni vogliono più autonomia. Sono ambiti grandissimi e molto diversi tra loro e riguardano la sanità, la scuola, le infrastrutture. Quindi si tratterebbe di un trasferimento di poteri enorme dallo Stato alle regioni.

La seconda criticità è quella del finanziamento di queste competenze, perché l’iniziativa delle regioni nasce proprio dal desiderio di ottenere molte più risorse finanziarie dato che disporranno di nuove competenze. Si tratta del progetto che la Lega Nord da almeno 25 anni cerca di realizzare, ovvero di spostare quante più risorse finanziarie possibili a favore delle regioni del nord. È evidente che questo porterebbe ad una forte ripercussione nelle risorse e quindi nei servizi scolastici e sanitari nelle altre regioni italiane.

Il terzo elemento: per come è prevista l’attuazione di questo processo, il parlamento è completamente tagliato fuori dalla discussione. Intendo dire che si prevede un accordo tra regioni e governo il prossimo 15 febbraio, accordo i cui contenuti sono al momento segreti. Questo accordo sarà portato in parlamento solo per essere approvato o respinto.

— Quali potrebbero essere gli effetti negativi di tali riforme per il Paese?

— I problemi nascono da questi tre elementi. Si tratta di un passaggio di competenze enorme, non opportuno, dallo Stato alle regioni, perché rischia di cambiare il funzionamento di grandi servizi pubblici, a cominciare dalla scuola, e renderlo diverso da regione a regione. Il secondo problema è che si stabilirebbe il principio per cui i cittadini delle regioni più ricche hanno diritto a maggiori risorse e servizi dei cittadini delle regioni più povere. Per finire, è evidente che la materia è molto importante, complessa ed ampia,

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UNO STRANO PAESE

19 Giugno 2017 di Enrico Montermini

L’Italia è davvero uno strano Paese: ogni anno spedisce a Londra migliaia giovani laureati per fare i lavapiatti e mantiene i clandestini a vivere in albergo.

È un Paese che lascia i propri concittadini colpiti dalla tragedia del terremoto a dormire nei container, ma ospita i profughi in centri di accoglienza come quello di Villa Camerata, che ho visitato lo scorso settembre: una villa rinascimentale immersa nel verde a due passi dal centro storico di Firenze.

A Rapallo gli immigrati dimorano presso l’Istituto delle Orsoline, una struttura residenziale di lusso, e hanno a disposizione: spiaggia privata, campetto da calcio, palestra, wi-fi e il pocket money per affrontare le spese di tutti i giorni.

Poi il Governo non trova i soldi per sistemare gli esodati, lasciati senza lavoro e senza pensione.

L’accoglienza dei clandestini costa alla collettività 4 miliardi di euro all’anno, ma queste sono solo le cifre ufficiali. Quelle reali non le conosce nessuno, ma sono molto più alte. Il Governo provvede alle spese della Marina Militare e della Guardia di Finanza per le operazioni in mare, di cui non è dato conoscere il costo. Sappiamo però che questo stesso governo non trova le risorse per pagare la manutenzione e la benzina per le auto dei carabinieri. Si distaccano migliaia di poliziotti per le operazioni di

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ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

Sparisce un bimbo ogni 48 ore: 4 su 5 non vengono ritrovati

Scritto il 28/1/19

Ogni due giorni in Italia sparisce un bambino e, purtroppo, quattro su cinque non fanno più ritorno a casa dalle loro famiglie, facendo perdere le loro tracce per sempre. Secondo i dati pubblicati da “Sos Il Telefono Azzurro Onlus” in occasione della “Giornata internazionale per i bambini scomparsi”, su 177 casi gestiti nel 2017, soltanto il 16,9% si risolve in maniera positiva. Un dato che tradotto in parole povere ha un significato drammatico: circa 147 minori nell’ultimo anno sono morti o sono stati rapiti, per finire, spesso e volentieri, nei circuiti dello sfruttamento sessuale e del lavoro minorile. Un numero che potrebbe essere ancora più grande se si tiene conto dei casi che non vengono in alcun modo segnalati alle autorità. Sono 8 milioni i bambini che scompaiono ogni anno, vale a dire 22.000 bambini al giorno in tutto il mondo. Sono i dati diffusi da Telefono Azzurro in occasione della Giornata Internazionale dei bambini scomparsi, che dal 25 maggio 2009 gestisce in collaborazione con il ministero dell’interno e le forze dell’ordine il numero unico europeo 116.000, attivo 24 ore su 24. Attraverso il servizio 116.000, l’associazione si è occupata, nell’ultimo decennio, di 1.125 casi di bambini spariti perché fuggiti di casa o da un istituto, o perché rapiti o sottratti da un genitore.

Il 2017 è stato uno degli anni più drammatici dall’attivazione del servizio, con 3,5 denunce a settimana. Il 64,5% delle segnalazioni riguardano la scomparsa di minori non accompagnati, giunti in Italia per sfuggire a povertà, guerra e situazioni d’emergenza. La fuga da casa, ovvero i casi di minori e adolescenti fuggiti da contesti familiari caratterizzati da abuso e violenza, ha un’incidenza del 12,4% e rappresenta la seconda causa di sparizione. A livello territoriale il Lazio è la Regione più problematica: da sola raggiunge quasi un quarto del totale dei casi (23,3%), seguita dalla Lombardia con il 22,7%. La situazione sembra essere più controllata al Sud e nelle isole, che

 

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Il popolo coglione

30 Gennaio 2019 DI MINCUO

comedonchisciotte.org

Il popolo è fatto di coglioni. Il suo ruolo da sempre è di essere un coglione. E’ allevato ed educato per essere un coglione.
In migliaia di anni quello è sempre stato il suo ruolo.
E’ un coglione anche perché non può essere altro.
La cultura e l’informazione che ha sono completamente fasulle, ma non se ne rende conto, perché è un coglione e la cultura e gli strumenti che ha sono appositamente fatti perché non lo capisca. La cultura e l’informazione che gli hanno servito quelli che si occupano di allevare coglioni è appunto studiata a quello scopo, a farne un coglione.

Non è organizzato, e se lo è non è lui che si organizza, ma lo organizza chi si occupa di organizzare dei coglioni. E i coglioni poi seguiranno quello che li organizza come dei coglioni, appunto.
Non ha mezzi rilevanti. Se li avesse non sarebbe un coglione. Ai coglioni non si danno mezzi rilevanti, e da solo un coglione non è capace di procurarsi mezzi rilevanti.

Fino a 200 anni fa il coglione era un po’ meno coglione, perché almeno una cosa la capiva e cioè che era un coglione. Poi gli hanno inventato una favola, e cioè che il coglione non è un coglione, anzi è un protagonista, è lui che decide, e lui essendo un coglione la crede a tutt’oggi.

Fu creata con pieno successo. Un coglione è un coglione e perciò non ha strumenti, intelligenza, cultura, organizzazione, mezzi, strategie.
Non preoccupa.
L’unica cosa che aveva però era il numero. Cioè i coglioni sono coglioni ma tantissimi, e questa era l’unica cosa che preoccupava, e aveva anche dato qualche piccolo grattacapo.
Quindi si è inventata una favola per evitare che i coglioni fossero uniti, unica preoccupazione, per quanto modesta.

Perciò si è creato il coglione di estrema sinistra, il coglione di sinistra, il coglione di centro sinistra, il coglione di centro, il coglione di centro destra, il coglione di destra, il coglione di estrema destra, il coglione verde, il coglione ambientalista, il coglione pacifista ecc….
Una varietà cioè di coglioni, non più il coglione unico.
Inoltre si è spinto un coglione contro un altro coglione, e ogni coglione sinistro pensa infatti di essere diverso e meglio del coglione destro, e viceversa.
Con questo anche quel piccolo problema si è così risolto.
Una volta il coglione normale sapeva che c’era una monarchia, una corte, una burocrazia e poi lui, il coglione.
Poi invece gli hanno fatto credere che è lui, il coglione, che comanda, basta che voti.
Alle volte il coglione di sinistra alle volte il coglione di destra.
Ma per quale ragione, per quale logica mai dovrebbero essere i coglioni a comandare?

 

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BELPAESE DA SALVARE

Pamela Mastropietro senza commemorazione ufficiale

Il primo cittadino di Macerata si è deciso, dopo un preannunciato periodo di riflessione: nessuna commemorazione ufficiale per ricordare Pamela Mastropietro. “Smontare l’equazione tra immigrazione e droga… attacco solo nei confronti dell’immigrazione non è un dato vero fino in fondo”

Federico Garau – Mar, 29/01/2019 – 17:12

Il sindaco di Macerata Romano Carancini nega ogni possibilità di commemorazione ufficiale ad un anno di distanza dal terribile massacro subito da Pamela Mastropietro.

“Domani non ci sarà nulla. L’amministrazione comunale non organizzerà nessun evento correlato alla data. Credo che questo debba essere il compito della comunità rispetto al ricordo di Pamela”. Le parole pronunciate dal primo cittadino in un’intervista rilasciata ad “Adnkronos”, riportate da “Il secolo d’Italia”, stanno ovviamente scatenando le reazioni indignate di quanti si sarebbero invece attesi un messaggio forte da parte delle istituzioni locali.

Dopotutto si parla di una ragazza barbaramente seviziata, stuprata, uccisa e fatta a pezzi da un branco di nigeriani privi del minimo senso di rispetto, pietà ed umanità, persone che certo non sarebbero da tutelare dietro un silenzio imbarazzante. Ma probabilmente non è così per tutti, non per il sindaco del Pd, che si era preso qualche giorno per riflettere sul da farsi. Ora arriva invece la decisione che lascia attoniti i suoi concittadini e tutta l’Italia che ancora chiede giustizia per quella barbarie, che pretende che lo Stato intervenga per garantire che a tutti i costi non accadrà mai più nulla del genere. La reazione attesa non c’è stata. Solo il silenzio, un chiassosissimo silenzio.

“Ho chiesto al presidente del Consiglio comunale di introdurre all’interno della prossima sessione, probabilmente lunedì, un confronto tra tutti. Voglio che se ne parli in Consiglio in quanto è simbolo della comunità maceratese. Al di là della

 

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CONFLITTI GEOPOLITICI

Gli Stati Uniti creano le condizioni per l’invasione del Venezuela

di Thierry Meyssan

Il progetto degli Stati Uniti per il Bacino dei Caraibi è stato enunciato dal Pentagono nel 2001. Un progetto distruttore ed esiziale inconfessabile. È perciò necessario costruire un racconto che possa essere accettato. Questo è quanto sta accadendo in Venezuela. Attenzione: le apparenze mascherano un po’ alla volta la realtà: mentre si svolgono le manifestazioni, la preparazione della guerra non si ferma.

RETE VOLTAIRE | DAMASCO (SIRIA) | 26 GENNAIO 2019

Suscitare il conflitto

Negli ultimi mesi gli Stati Uniti sono riusciti a convincere un quarto degli Stati membri dell’ONU ¬– 19 dei quali americani – a non riconoscere le elezioni presidenziali venezuelane di maggio 2018. Ne deriva che questi Paesi disconoscono la legittimità del secondo mandato del presidente Nicolas Maduro.

In un’intervista al Sunday Telegraph, pubblicata il 21 dicembre 2018, il ministro britannico della Difesa, Gavin Wiliamson, dichiara che Londra sta negoziando l’installazione di una base militare permanente in Guyana per riprendere la politica [imperiale] precedente la crisi di Suez. Il giorno stesso, un deputato della Guyana fa inaspettatamente cadere il governo e si rifugia in Canada.

Il giorno dopo ExxonMobil sostiene che una nave, noleggiata per esplorazioni petrolifere nelle acque contestate tra Guyana e Venezuela, è stata fatta allontanare dalla marina militare venezuelana. La spedizione era autorizzata dal governo uscente della Guyana, che di fatto amministra la zona contesa. Immediatamente il Dipartimento di Stato USA, indi il Gruppo di Lima denunciano il rischio rappresentato dal Venezuela per la sicurezza della regione. Ma il 9 gennaio 2019 il presidente Maduro pubblica registrazioni audio e video che provano come ExxonMobil e il Dipartimento di Stato abbiano deliberatamente mentito al fine di creare una situazione conflittuale e spingere gli Stati latino-americani a farsi guerra fra loro. I membri del Gruppo di Lima, a eccezione di Paraguay e Canada, ammettono la macchinazione.

Il 5 gennaio 2019 l’Assemblea Nazionale del Venezuela rinnova il proprio presidente, Juan Guaidò, e rifiuta di riconoscere la legalità del secondo mandato del presidente Maduro. Viene enunciato il concetto che trattasi di situazione analoga all’impedimento del presidente per malattia, previsto dall’articolo 233 della Costituzione. In questo caso – ma non nella fattispecie odierna – il presidente dell’Assemblea Nazionale assume la carica di presidente ad interim.

Il 23 gennaio 2019 oppositori e sostenitori Maduro organizzano due manifestazioni contemporanee a Caracas. Nella prima Guaidò si proclama presidente ad interim e presta giuramento. Stati Uniti, Canada, Regno Unito e Israele riconoscono immediatamente il nuovo presidente del Venezuela. La Spagna, che partecipò a tentativi di colpo di Stato contro Hugo Chavez, preme perché l’Unione Europea si aggreghi.

La successione degli avvenimenti porta il Venezuela alla rottura diplomatica con gli Stati Uniti e alla chiusura dell’ambasciata a Washington. Gli Stati Uniti non riconoscono la legittimità della rottura e non chiudono l’ambasciata a Caracas, da dove continuano a gettare benzina sul fuoco.

 

Il 24 gennaio il ministro della Difesa, generale Vladimir Padrino, è apparso in televisione circondato dall’intero stato-maggiore per riaffermare l’impegno delle forze armate al servizio della nazione e del presidente costituzionalmente eletto, Nicolas Maduro. Padrino ha poi invitato il presidente a proseguire il dialogo con l’opposizione filo-USA. Le forze armate sono l’unica istituzione efficiente, su cui il Paese fa affidamento.

 

Applicare uno schema già sperimentato

Nella situazione attuale il Venezuela si trova con un presidente costituzionale eletto e un presidente ad interim autoproclamatosi.

Contrariamente a quel che credono i venezuelani, lo scopo degli Stati Uniti non è rovesciare Maduro, ma applicare al Bacino dei Caraibi la dottrina Rumsfeld-Cebrowski di distruzione delle strutture statali. Questo presuppone sicuramente l’eliminazione di Maduro, ma anche quella di Guaidò.

Lo schema attuale è già stato messo in atto per far passare la Siria da una situazione di disordini interni (2011) a un’aggressione da parte di un esercito di mercenari (2014). Nel caso del Venezuela, il ruolo della Lega Araba è svolto dall’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), il cui segretario generale ha già riconosciuto il presidente Guaidò; quello degli Amici della Siria dal Gruppo di Lima, che coordina le posizioni diplomatiche degli alleati di Washington; il ruolo di capo dell’opposizione, Burhan Ghalioun, da Juan Guaidò.

In Siria, il collaboratore di lunga data della NED, Burhan Ghalioun, è stato sostituito da altri, poi da altri ancora, al punto che nessuno più ricorda il suo nome. È probabile che anche Guaidò sarà sacrificato allo stesso modo.

Tuttavia, il modello siriano ha funzionato solo in parte. Innanzitutto, perché Russia e Cina si sono opposte numerose volte nell’ambito del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Poi perché il popolo siriano si è progressivamente radunato attorno alla Repubblica Araba Siriana e ha dato prova di eccezionale resilienza. Infine, perché l’esercito russo ha equipaggiato e sostenuto l’esercito siriano contro i mercenari e contro la NATO che li coordinava. Sapendo che non potrà più utilizzare gli jihadisti per indebolire lo Stato siriano, il Pentagono sta per lasciare la continuazione dell’opera nelle mani del Tesoro, che sta facendo di tutto per impedire la ricostruzione del Paese e dello Stato.

 

Nei prossimi mesi l’autoproclamatosi presidente ad interim Guaidò creerà un’amministrazione parallela per:
incassare il denaro del petrolio nelle controversie in corso;
risolvere la contesa territoriale con la Guyana;
negoziare la situazione dei rifugiati;
cooperare con Washington e, accampando vari pretesti giuridici, far imprigionare i dirigenti venezuelani negli Stati Uniti.

 

Se consideriamo l’esperienza in Medio Oriente Allargato degli ultimi otto anni, non possiamo interpretare quanto sta accadendo in Venezuela facendo un parallelo con quel che accadde in Cile nel 1973. Il mondo post-Unione Sovietica non è più quello della guerra fredda.

A quell’epoca gli Stati Uniti volevano controllare l’insieme delle Americhe ed escludervi ogni influenza sovietica. Volevano sfruttare le ricchezze naturali della zona al minor costo possibile e riducendo al minimo il controllo degli Stati nazionali.

Oggi invece gli Stati Uniti persistono a voler pensare il mondo come unipolare. Non hanno più né alleati né nemici: o un popolo è integrato nell’economia globalizzata, oppure vive in territori ricchi di risorse naturali, che gli Stati Uniti non intendono necessariamente sfruttare, ma di cui devono avere il controllo. Ebbene, poiché queste risorse naturali non possono essere controllate al tempo stesso da Stati-Nazione e dal Pentagono, le strutture statali di queste regioni devono essere ridotte all’impotenza.

 

Questa mappa è estratta da un Powerpoint presentato nel 2003 da Thomas P.M. Barnett, assistente dell’ammiraglio Arthur Cebrowski, a una conferenza al Pentagono. Essa mostra le zone da distruggere

 

Continua qui: https://www.voltairenet.org/article204871.html

 

 

 

 

CULTURA

Solo un filosofo ci può salvare: elogio di…

24 gennaio 2019

Ripropongo qui, l’intervista fattami da Matteo Fais per Pangea.news

La parola “conservatore” di per sé non ispira mai reazioni positive, solo astio, antipatia viscerale e un’aprioristica refrattarietà. Sarà forse per questo che qui a Pangea non abbiamo saputo resistere, data la passione per i reprobi che ci caratterizza, e siamo andati subito a leggere l’introduzione al pensiero di Roger Scruton appena uscita per la Fergen e scritta da Luigi Iannone, sferzante firma de “Il Giornale”.

L’autore dell’agile volume propone una panoramica veloce, ma esaustiva, della complessità di questo filosofo britannico tra i più influenti nel panorama attuale e forse, proprio per questo, poco noto e addirittura inviso nella nostra Nazione che tragicamente sconta la prolungata egemonia culturale della Sinistra.

Scruton è un fine interprete della deriva politicamente corretta del nostro tempo e strenuo sostenitore del discorso identitario, contro le degenerazioni di una globalizzazione totalmente scriteriata. Iannone, dal canto suo, ne segue le orme e, con tutta la passione del suo idem sentire, ce lo racconta rovesciando palesemente il suo animo sulla pagina.

Partiamo dal principio, dalla ratio essendi di questa tua opera. Perché hai sentito il bisogno di scrivere un testo, che potremmo definire una veloce summa, riguardo al pensiero di Roger Scruton? Ritieni forse che non sia abbastanza conosciuto nel nostro Paese?

Non tantissimo. Molti suoi libri sono stati tradotti, ma resta un autore conosciuto quasi esclusivamente dai circuiti culturali. In realtà, avevo pubblicato con lui un libro-intervista uscito una decina di anni fa e ho avuto il piacere di avere la sua introduzione a un mio volume. Varie volte l’ho intervistato, ma in questa occasione ho colto al volo l’invito di Gennaro Malgieri, che dirige una collana per Fergen, e ho pensato di farne un veloce ritratto per farlo conoscere meglio agli italiani.

Tu definisci Roger Scruton come un filosofo conservatore. Credo sia necessario, però, chiarire perché conservatore e non piuttosto reazionario.

Lui stesso utilizza questo concetto con una certa frequenza. Per qualche suo libro lo ha utilizzato addirittura come titolo. La differenza sta tutta nella visione generale. Scruton non si attarda su valutazioni pessimistiche, ma le supera. Le comprende e le condivide, ma poi guarda avanti. Sceglie delle strade invece che altre, prospetta soluzioni e indica delle scelte.

Il punto nevralgico del discorso del filosofo sembra essere la questione identitaria. Come dobbiamo intendere questo concetto? Insomma, perché l’identità è così importante dal suo punto di vista e, pertanto, va difesa?

Io credo che sia questo il punto di tutta la sua opera e del suo filosofare. Qualunque argomento o spinosa tematica egli affronti, lo snodo mi sembra sempre lo stesso. E soprattutto, in un’epoca come la nostra, sottoposta alle pressioni globali e attraversata da sfide immani come i costanti flussi migratori, questo tema si innesta col ruolo della sovranità nazionale. Una difesa dell’identità

Continua qui: http://blog.ilgiornale.it/iannone/2019/01/24/solo-un-filosofo-ci-puo-salvare-elogio-di/

 

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO DISINFORMAZIONE

Il mistero del Malaysian Airlines MH-370: quattro persone scomparse rendono Jacob Rothschild l’unico proprietario di un brevetto.

 Settembre 22, 2018

Rothschild eredita un Brevetto sui semiconduttori della Freescale Semiconductors

La scomparsa di quattro persone, proprietari del brevetto di un semiconduttore,  in viaggio sulla Malaysia Airlines MH370 rende il famoso miliardario Jacob Rothschild l’unico proprietario dell’importante brevetto.

 

Il mistero che circonda la Malaysian Airlines MH-370 sta crescendo ogni giorno di più, e passa sotto silenzio il misterioso occultamento sulla scomparsa del volo subita dalla compagnia aerea. Sempre più teorie del complotto stanno cominciando a diffondersi su internet. Una delle cospirazioni è che Freescale Semiconductor microcontrollori ARM ‘KL-03‘,  è una nuova versione di un microcontrollore del vecchio KL-02. Questa storia folle su come gli Illuminati Rothschild sfruttano le compagnie aeree per ottenere i pieni diritti su un, brevetto di un incredibile micro-chip KL-03  sta mandando in tilt Internet soprattutto quando si è saputo del coinvolgimento di Jacob Rothschild .

Una società di tecnologia USA aveva 20 dei suoi dirigenti a bordo del Malaysia Airlines Flight MH370 ed aveva appena lanciato un nuovo gadget di guerra elettronica per sistemi radar militari nei giorni precedenti la scomparsa del ​​Boeing 777.

Freescale Semiconductor ha sviluppato microprocessori, sensori e altre tecnologie negli ultimi 50 anni. La tecnologia creata è comunemente indicata come embedded processors, che secondo la società sono “semiconduttori autonomi che eseguono funzioni di elaborazione dedicate a sistemi elettronici“.

“Perché così tanti dipendenti Freescale viaggiavano insieme? Quali erano i loro posti di lavoro. Erano in missione e, in caso affermativo in che cosa consisteva questa missione? Possono, questi dipendenti, essere la causa della scomparsa di questo volo? Potrebbe il volo essere stato dirottato e queste persone rapite? Conoscono questi dipendenti  informazioni preziose, che li hanno trasformati in un carico prezioso? Conoscevano tecnologiche aziendali segrete? Con tutta la potenza della tecnologia perché non può essere trovato questo aereo? Dove si trova questo aereo e dove si trovano queste persone? “

20 dipendenti di Freescale, tra le 239 persone sul volo MH370, erano per lo più ingegneri ed altri esperti che lavoravano per rendere i servizi di chip della società a Tianjin, in Cina, e Kuala Lumpur più efficienti, ha detto Mitch Haws, vice presidente, delle comunicazioni globali e delle relazioni con gli investitori.

“Queste persone con molta esperienza e background tecnico, erano persone molto importanti”, ha detto Haws. “E’ sicuramente una grande perdita per l’azienda.”

 

In Malesia, la moderna struttura operativa di Freescale produce e testa circuiti integrati (IC) nella sede di Petaling Jaya.

Sulla base di informazioni ottenute dal sito web di Freescale, l’impianto ha iniziato ad operare nel 1972 ed ha una estensione di otto ettari, è specificamente progettato per la produzione e la sperimentazione di microprocessori,

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http://www.politicamentescorretto.info/2018/09/22/il-mistero-del-malaysian-airlines-mh-370-quattro-persone-scomparse-rendono-jacob-rothschild-lunico-proprietario-di-un-brevetto/

 

 

 

 

DIRITTI UMANI – IMMIGRAZIONI

Diritti umani: l’anniversario dell’ipocrisia e la deriva relativistica

Eugenio Capozzi – 11 DIC 2018

 

Settant’anni fa, il 10 dicembre 1948, veniva votata dall’Assemblea generale dell’Onu la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Ieri questo anniversario è stato celebrato con toni enfatici e retorici in molte sedi istituzionali, e da molti soggetti che si autodefiniscono difensori dei “diritti umani”. Ma per lo più, quando oggi si usa quell’espressione, quando si rivendica il rispetto dei “diritti umani”, ci si riferisce a qualcosa di molto lontano da ciò che l’Onu all’epoca aveva stabilito di promuovere. 

La Dichiarazione del 1948 fu, in realtà, l’ultima manifestazione di una cultura dei diritti che affondava le radici nella cultura europea e occidentale dei secoli precedenti. Dalle Carte dei diritti anglosassoni alle costituzioni liberali europee sette-ottocentesche – passando per la Rivoluzione francese, la Restaurazione e i risorgimenti nazionali, fino a quelle democratiche del Novecento.

La tempesta dei conflitti ideologici e dei regimi totalitari aveva minacciato di spazzare via quella storia e quella cultura. La Seconda guerra mondiale aveva però visto la caduta del nazismo e del fascismo, e la ripresa delle democrazie liberali sotto la guida degli Stati Uniti d’America, a cui si contrapponeva ora l’impero comunista sovietico. Fu proprio in questo clima che maturò la Dichiarazione, promossa soprattutto dai paesi occidentali nella commissione ad hoc presieduta da Eleanor Roosevelt, e approvata poi dall’Assemblea con l’astensione dell’Unione Sovietica, di alcuni stati “satelliti” comunisti e dell’Arabia Saudita. La forte ripresa dei principi del costituzionalismo occidentale non poteva piacere né ai regimi dittatoriali ispirati all’ultimo totalitarismo rimasto sulla scena, né ai paesi islamici animati prima dal nazionalismo antioccidentale, poi sempre più permeati dal fondamentalismo religioso. Paesi che, infatti, nei decenni successivi avrebbero sempre più criticato il documento, fino ad arrivare a produrre nel 1981 una Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo, di ispirazione ben diversa da quella del 1948, che fondava i diritti umani nella “legge divina” del Corano.

In realtà nell’epoca della guerra fredda – delle dittature di sinistra e di destra militare – la Dichiarazione del 1948 è rimasta sempre più una testimonianza vuota, un appiglio formale, onorata ma ignorata in larga parte del mondo. In quella della globalizzazione, poi, ad onta dell’idea che il modello liberaldemocratico occidentale si accingesse a diffondersi ovunque nel mondo, la concezione di radice europea, ebraico-cristiana dei diritti è sempre più stata considerata in civiltà non occidentali (in Asia e Africa soprattutto) come espressione di un “imperialismo” politico-culturale.

Conseguentemente, l’appello ai “diritti umani” si è progressivamente trasformato, anche in Occidente, in un riferimento vago, perché scendere nei particolari avrebbe significato sfatare il mito unanimistico di una crescente convergenza politica e giuridica della “comunità internazionale”. Per di più, il crescere nei paesi liberaldemocratici di un progressismo sempre più avverso alla tradizione dalla quale essi erano nati ha prodotto una vera e propria auto-castrazione di quegli ordinamenti rispetto ai propri principi fondanti. La nozione di “diritti umani”, in questa chiave, è diventata sempre più l’espressione di una visione astrattamente relativistica della convivenza tra popoli e civiltà, sulla base di un’idea di “tolleranza” che ha significato, concretamente, il crescente abbandono a loro stessi di popoli perseguitati, dissidenti, minoranze, e l’affermarsi di una miriade di “doppi standard” sui regimi responsabili di persecuzioni e repressioni.

E infatti non a caso le voci che oggi si levano a celebrare l’anniversario si guardano bene, per lo più, dal celebrare la democrazia liberale che di quel documento è la radice, ma insistono su aspetti particolari che spesso con quella

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https://www.loccidentale.it/articoli/146845/diritti-umani-lanniversario-dellipocrisia-e-la-deriva-relativistica

 

 

 

 

 

 

 

 

Sea Watch, sì a redistribuzione. “La Ue costretta a intervenire”

Soddisfazione della Lega per l’accordo con l’Europa per la redistribuzione dei migranti a bordo della Sea Watch. Più vicino lo sbarco

Chiara Sarra – Mer, 30/01/2019

 

“Finalmente l’Europa è stata costretta ad intervenire”. La Lega non nasconde la soddisfazione per l’accordo raggiunto nelle notte sul caso della Sea Watch, la nave della ONG che staziona da giorni di fronte a Lampedusa.

“Incontro positivo e rivolto al futuro” nel quale sono stati “affrontati i temi di attualità politica, soprattutto crescita economica e controllo dell’immigrazione”, dicono fonti della Lega, “Finalmente l’Europa è stata costretta ad intervenire”.

Nonostante la Corte dei diritti dell’uomo abbia sposato la linea italiana, nelle

 

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http://www.ilgiornale.it/news/cronache/sea-watch-s-redistribuzione-ue-costretta-intervenire-1636412.html

 

 

 

 

 

ECONOMIA

Mario Draghi, il duro attacco: “Debito troppo alto? Addio alla sovranità”

28 Gennaio 2019

Attacco al sovranismo, firmato Mario Draghi. Il monito del governatore della Bce è chiarissimo: “Un Paese perde sovranità quando il debito è troppo alto“, perché arrivati a quel punto “sono i mercati che decidono“.

 

Dunque, ogni decisione di policy “deve essere scrutinata dai mercati, cioè da persone che non votano e che sono fuori dal processo di controllo democratico”. I riferimenti all’Italia appaiono più che evidenti.

 

Draghi è intervenuto al Parlamento Ue, dove ha ribadito che “il debito viene prodotto da decisioni politiche dei governi”, e “la sovranità viene persa a causa di politiche sbagliate”. E ancora: “Quando il debito diventa così alto che ogni azione del governo deve essere scrutinata dal mercato” è troppo tardi per intervenire, ha ribadito. Il governatore ha ammesso come

 

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FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI

Derivati: il tallone d’Achille della finanza

19.12.2018 – Giulietto Chiesa

 

 “Banche, allarme derivati: valgono 33 volte il PIL Mondiale”. Questo il titolo che l’autorevolissimo Il Sole 24 ore, a firma Antonella Olivieri, ha recentemente pubblicato. 33 volte il PIL mondiale vuol dire 2,2 milioni di miliardi di euro, oppure, se volete, 2.200 trilioni di euro.

Che, essendo 33 volte il PIL mondiale, significa che questi strani “derivati” sono equivalenti a tutta l’attività umana del pianeta nel corso degli ultimi 33 anni. Cosa siano questi “derivati” è presto detto: sono dei pezzi di carta, chiamati titoli, che rappresentano l’ultimo grido in materia finanziaria. Ultimo grido è la parola giusta, perché adesso si comincia a gridare spaventati di quello che potrebbe succedere, come appunto dice Il Sole24ore. C’è solo da sperare che il grido non sia davvero l’ultimo.

Il fatto è che questa immensa massa di denaro, diciamo virtuale, si trova sul “Mercato” e pretende di essere valorizzata. Senza esagerare facciamo due calcoli: a un tasso d’interesse minimo del 2% i possessori di questa massa di denaro dovrebbero ricevere, sotto forma d’interessi, circa il 2/3 dl PIL mondiale di quest’anno. E questo dovrebbe ripetersi per i prossimi 33 anni. Insomma, scopriamo di essere tutti mostruosamente indebitati per il resto delle nostre vite, nei confronti dei possessori di questi “derivati”.

Ma chi sono questi “possessori”? Le banche. Non tutte nello stesso modo, cioè nelle stesse quantità, ma sono proprio le banche. Secondo i dati forniti dalla Olivieri, che a sua volta usa quelli forniti da R&S Mediobanca, le prime 27 banche europee ne hanno, tutte insieme, per 283 trilioni (ovvero 283 mila miliardi di euro). Vediamo la classifica delle prime tre e cominceremo a capire meglio ciò che succede, anzi ciò che è già accaduto. Al primo posto tra questi possessori di derivati c’è la Deutsche Bank, con 48,26 trilioni; al secondo posto troviamo la Barclay (40,48 trilioni); al terzo posto c’è il Credit Suisse (24,53 trilioni). Se guardiamo alla situazione d’oltre Oceano, scopriamo che le prime tre banche americane riempite di derivati sono, nell’ordine, la JPMorgan (40,34 trilioni), la Citigroup (38,4 trilioni) e la bank of America (25,57 trilioni).

Dal che si deduce che i banchieri americani sono stati relativamente meno “infettati” di quelli europei, ma è una magra consolazione. Il quadro è comunque davvero allarmante: circa dieci anni dopo la crisi del 2007-2008 il volume dei derivati si è più che triplicato. Erano allora circa 660 trilioni, cioè 11 volte il Pil mondiale, oggi sono 2.200 trilioni. Siccome già allora fu chiaro che si trattava di carta straccia, dovettero intervenire tutte le banche centrali principali (Federal Reserve, BCE, Banca d’Inghilterra, Banca del Giappone) per evitare il crollo generale della finanza mondiale. Lo fecero stampando moneta a più non posso, per comprare quella carta straccia con denaro fresco in modo da

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Perché il mondo della finanza dovrebbe studiarsi La Casa di Carta

La serie spagnola andrebbe trattata come una indagine di customer satisfaction. Ha fornito più indicazioni delle analisi da cui emerge un sistema solido e affidabile, ma a cui non crede più nessuno.

VINCENZO IMPERATORE – 1 febbraio 2019

Nella vita forse tutti noi, prima o poi, vorremmo essere “il Professore” de La Casa di Carta, l’archetipo potente dell’eroe cattivo amato da tutti e che determina un vero e proprio movimento sociale. Ci sono momenti, persone, eventi, forme artistiche che hanno lasciato il segno nella storia dei movimenti di protesta e diventati emblema della ribellione e della sovversione.

La Casa de Papel (La Casa di Carta), la serie televisiva spagnola trasmessa da  Neflix in cui si narra la vicenda di una banda che tenta il colpo della vita rapinando la zecca di Stato, è entrata di diritto tra le icone del ribellismo al mondo della finanza strizzando l’occhio al momento storico in cui stiamo vivendo, in cui tutti ci sentiamo vittime di un sistema che vorrebbe solo la nostra povertà e il nostro annientamento. Un successo di dimensioni planetarie che deve far riflettere (ne sono capaci?) soprattutto i manager delle banche visto che la popolarità della storia rappresenta, seppur indirettamente, un importante riferimento del livello di fiducia nei confronti del mondo della finanza.

Piuttosto che effettuare costose indagini di customer satisfaction, La Casa de Papel, a costo zero, ha fornito al paludato sistema creditizio molte più indicazioni delle taroccate analisi da cui emerge un sistema solido e affidabile a cui non crede più nessuno. Milioni di fan in tutto il mondo, boom di nomi dei protagonisti (Tokyo, Berlino, Nairobi e Rio) per i neonati, il travestimento dei rapinatori dentro la zecca dello Stato spagnolo (tuta rossa e maschera di Dalì) utilizzato da un gruppo di attivisti di Vicenza come abito di protesta davanti al Palazzo Thiene, sede della Banca Popolare di VicenzaBella ciao – non certo l’ultima produzione dei Maneskin – tra le canzoni più scaricate sul web negli ultimi tempi. Senza l’eterna lotta fra il bene e il male, lo sappiamo bene, gran parte della letteratura e del cinema non avrebbe ragione di esistere. E quasi sempre, da lettori o spettatori, ci siamo schierati con il buono. Ma perché, in questo caso, tutti hanno fatto (e fanno) invece il

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GIUSTIZIA E NORME

Caso Diciotti, le mie otto ragioni per il No all’autorizzazione a procedere contro Salvini

3 Febbraio 2019

Angelo Cannatà

Docente di Storia e Filosofia

Ho grande rispetto e stima per Marco TravaglioAntonio Padellaro e Peter Gomez; proprio per questo dico sommessamente – dalla tribuna di un giornale libero come il Fatto– che le interessanti argomentazioni esposte nell’editoriale di ieri a firma del direttore per il “sì” all’autorizzazione a procedere contro Salvini (e quelle di altri intellettuali intervenuti nel dibattito) non tengono nel giusto conto le otto ragioni per il “no” che sottopongo all’attenzione dei lettori.

  1. Una questione preliminare. “Chi ha letto le carte sa – dice il premier Conte – che è stato un atto politico”. Lo si contesta: “Il fatto che un atto sia politico non implica che sia anche legittimo o lecito”. È vero, ma Conte sta proprio affermando, con tutta evidenza, che si tratta di un atto politico lecito. Non si sognerebbe mai, non solo per la sua indole, di rivendicare alla politica il diritto di compiere azioni illecite.
  2. “Il caso Diciotti– si afferma – non è stato un sequestro di persona; ma spetta ai giudici stabilirlo, non al Parlamento. Matteo Salvini si difenda nel processo”. Osservo che nello Stato di diritto valgono le leggi: prevedono che il Parlamento si pronunci. È in gioco il destino di un ministro e del governo: il Parlamento può limitarsi a ratificare una richiesta senza valutarla? Si dice: sembrerebbe una difesa della Casta. No, non si è chiamati a pronunciarsi su corruzione e interessi personali.
  3. 5Stelleperderebbero consensi votando contro l’autorizzazione a procedere, perché – si afferma – “la differenza rispetto ai casi di ruberie non verrà colta da tanti elettori”. È un’ipotesi debole: in verità accade l’opposto, la base pentastellata è attentissima – maniacalmente ipersensibile – a queste distinzioni: non perdonerebbe mai la difesa di un corrotto. Accetta invece una decisione politica che

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LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI

Pensioni, Quota 100: come funziona, requisiti e limitazioni

Guendalina Grossi

 

Quota 100 è stata approvata dal Consiglio dei Ministri: ecco come funziona, requisiti e chi potrà andare in pensione anticipata.

Quota 100: cos’è e come funziona la nuova riforma pensioni. La novità in materia di pensione anticipata inizierà a produrre i suoi effetti ad Aprile 2019: è questo quello che si evince dal Decreto Legge che è stato approvato dal Consiglio dei Ministri il 17 gennaio 2019.

Grazie alla quota 100, nuova opzione di pensionamento anticipato circa 300.000 lavoratori potranno decidere di lasciare in anticipo il mondo del lavoro, favorendo così il ricambio generazionale.

Nell’attesa che il Decreto Legge venga pubblicato in Gazzetta ufficiale e che inizi quindi a produrre i suoi effetti vediamo insieme chi potrà beneficiare di quota 100, come funziona, quali limitazioni il Governo ha deciso di inserire per evitare un esodo di massa dal mondo del lavoro e quali novità apporterà in tema previdenziale questa nuova misura.

Quota 100: quali requisiti bisogna soddisfare? Ecco come funziona

L’articolo 14 del Decreto Legge approvato il 17 gennaio dal Consiglio dei Ministri chiarisce che possono beneficiare di quota 100 tutti i lavoratori che hanno compiuto 62 anni di età e che hanno versato almeno 38 anni di contributi.

Quota 100 sarà valida a partire da Aprile 2019 fino a tutto il 2021 dopo di che questa lascerà spazio a quota 41, misura che il Governo non ha potuto adottare per mancanza di risorse e che consentirà a tutti coloro che hanno versato almeno 41 anni di contributi di andare in pensione anticipata a prescindere dall’età anagrafica.

La possibilità di lasciare il mondo del lavoro in Primavera però non spetterà a tutti, infatti, come viene ben specificato nel Decreto Legge su quota 100 e reddito di cittadinanza solo i dipendenti privati che hanno maturato i requisiti entro il 31 dicembre 2018 potranno andare in pensione anticipata a partire dal 1° aprile 2019.

Quelli che invece matureranno i requisiti a gennaio 2019 conseguiranno il diritto alla decorrenza del trattamento pensionistico dopo 3 mesi.

Discorso diverso per i dipendenti pubblici che per lasciare in anticipo il mondo del lavoro dovranno attendere invece luglio 2019. I dipendenti statali che invece matureranno i requisiti a partire dal 1° aprile 2019 conseguiranno il diritto alla decorrenza del trattamento pensionistico dopo 6 mesi.

Stesso discorso per il personale scolastico, infatti coloro che lavorano nelle scuole dovranno attendere l’inizio dell’anno scolastico 2019/20 per andare in pensione anticipatamente.

Quota 100: divieto di cumulo con altri redditi da lavoro

Nel comma 3 dell’articolo 14 del Decreto Legge contenente le informazioni sulla riforma previdenziale viene specificato che la pensione quota 100 non è cumulabile con il reddito da lavoro.

Ciò vuol dire che dal primo giorno di decorrenza della pensione e fino alla maturazione dei requisiti per l’accesso alla pensione di vecchiaia non è possibile lavorare.

Il divieto di cumulo non vale invece per le prestazioni occasionali, rispettando però il limite complessivo dei 5.000€ lordi annui.

Si ricorda invece che per raggiungere i 38 anni di contributi è possibile richiedere il cumulo dei contributi.

Quota100, TRF e TFS: i dipendenti statali dovranno attendere per ottenerli

L’articolo 23 del decreto stabilisce che i dipendenti statali che decidono di beneficiare di quota 100 riceveranno l’indennità di fine servizio nel momento in cui il soggetto avrebbe dovuto maturare il diritto alla corresponsione della stessa, ovvero

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LA LINGUA SALVATA

Provvisorio

prov-vi-sò-rio

SIGNNon stabile, non definitivo, che dovrà essere sostituito, debole, precario

attraverso il francese provisoire, dal latino medievale provisorius, derivato di provisus, participio passato di providere ‘ vedere innanzi, provvedere’.

Il percorso che porta a questa parola è accidentato, tant’è che il veicolo del significato originale, che ci parla di una prontezza saggia e soccorritrice, si ribalta in un’incertezza precaria.

Guardiamolo alla lettera: il provvisorio dovrebbe essere ciò che è atto a provvedere, ciò che ha il carattere di provvedere, ovviamente a una situazione che lo richiede – magariall’improvviso, un’emergenza, ma non necessariamente. Lo sappiamo, si predispone cautamente soprattutto il necessario per ciò che è noto, ciò che è visto da lontano. Già qui si capisce la stranezza del contrasto fra provvisorio e stabile: a tante esigenze si provvede in modo continuo, regolare, organizzato, tutt’altro che precario.

A vincere nel provvisorio, a sbilanciarlo, è una consuetudine eterna: si provvede temporaneamente, rattoppando, un domani si vedrà. Vade retro riforma strutturale, soluzione a lungo termine che nell’attimo presente non provvede ma

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PANORAMA INTERNAZIONALE

Venezuela: chi è Guaidò, l’ingegnere che sfida Maduro

1 Febbraio 2019, 15:44 | di Giuseppe Baselice

Il Paese sudamericano è stremato dalla crisi: l’inflazione ha raggiunto livelli impensabili e milioni di cittadini sono già scappati nella vicina Colombia o in Perù – Il 35enne Guaidò, come prevedono le norme parlamentari, si è autoproclamato presidente con l’appoggio di Usa, parte del Sudamerica e Ue, ma Maduro per ora resiste, forte del sostegno dei vertici dell’esercito e di Russia e Cina – Quanto potrà durare?

 

In Venezuela, oggi, ci sono due presidenti. Da un lato Nicolas Maduro, che il 10 gennaio ha iniziato il suo secondo mandato, anche se gli osservatori internazionali e l’opposizione interna hanno denunciato che le elezioni del maggio 2018 sono state irregolari. Dall’altro Juan Guaidò, ingegnere di 35 anni, che a noi europei sembra sbucato dal nulla ma che in realtà siede in Parlamento dal 2015, cioè da quando è iniziata quella irreversibile e drammatica crisi che sta portando il Venezuela sull’orlo della guerra civile. La crisi, dovuta inizialmente al calo del prezzo del petrolio, di cui Caracas è grande esportatore e su cui basa praticamente tutta la sua economia, è poi dilagata con la corruzione e un’amministrazione, quella dell’erede di Hugo Chavez, che ha progressivamente perso il controllo della situazione e cancellato gli spazi di libertà e democrazia. Oggi il Venezuela ha il tasso d’inflazione più alto del mondo, che secondo il Fondo Monetario Internazionale arriverà nel 2019 al dieci milioni percento, una cifra impensabile: uno stipendio medio equivale a un pugno di dollari ed è sufficiente per non più di qualche pasto. Il Paese soffre di una carenza ormai cronica di alimenti e medicine, anche l’acqua e l’elettricità sono razionate. La criminalità è esplosa e circa 3 milioni di venezuelani, su una popolazione totale di 32 milioni, hanno già lasciato il Paese: negli ultimi mesi, in 30mila ogni giorno, hanno attraversato la frontiera con la Colombia, alcuni dei quali per raggiungere poi il Perù. All’emergenza democratica si aggiunge quella umanitaria e, con ben altri numeri rispetto a quella che viviamo in Europa, adesso anche quella migratoria.

CHI E’ GUAIDO’

Juan Guaidò è il leader dell’opposizione e il presidente del Parlamento. Ha iniziato a fare politica giovanissimo: già nel 2009 aveva fondato il partito anti-chavista Voluntad Popular, e un mese fa è stato eletto a capo dell’assemblea. Lo scorso 23 gennaio si è autoproclamato presidente ad interim del Venezuela, in attesa di nuove elezioni libere: già durante la cerimonia di insediamento, nei primi giorni del nuovo anno, il 35enne aveva citato l’articolo della Costituzione secondo cui il leader del Parlamento può assumere la presidenza se ritiene che il capo dello Stato in carica sia illegittimo. Da Maduro e dai suoi sostenitori viene definito un “pupazzo di Washington”: in effetti l’ingegnere si è specializzato alla George Washington University, e non è un caso che pochi giorni dopo il suo gesto di autoproclamazione, il 28 gennaio la Casa Bianca ha imposto pesanti sanzioni all’azienda petrolifera statale Petroleos de Venezuela (Pdvsa), così da accerchiare in qualche modo Maduro, impedendogli ad esempio di sottrarre fondi all’azienda ma anche di “processare” il petrolio negli Usa, che è essenziale per poterlo mettere sul mercato. La reazione di Maduro è stata di intimare entro 72 ore il ritiro dei diplomatici statunitensi, decisione poi revocata ma che è stata poi sostituita con una dura mossa nei confronti di Guaidò: attraverso una non casuale decisione del Tribunale supremo di giustizia, l’attuale presidente ha stabilito che il giovane oppositore non può lasciare il Paese e ha disposto il blocco dei suoi conti bancari.

 

CHI SOSTIENE GUAIDO’

Dopo l’autoproclamazione di Guaidò, il mondo si è letteralmente spaccato in due. Il presidente ad interim è stato immediatamente riconosciuto da Stati Uniti, Canada e dalla maggior parte del Paesi latinoamericani, ad eccezione del Messico di

 

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Chi è Juan Guaidò, l’autoproclamato presidente del Venezuela

Ingegnere industriale e astro nascente del partito di opposizione Volontà Popolare, Ritratto del 35enne presidente dell’Assemblea Nazionale che ha incassato l’appoggio di Trump

23 gennaio 2019

 

All’inizio dell’anno, non erano tante le persone nello stesso Venezuela che avevano sentito parlare di Juan Guaidò. Due settimane dopo, il giovane parlamentare e presidente dell’Assemblea Nazionale venezuelana è emerso come leader dell’opposizione al governo di Nicolas Maduro, fino ad arrivare al 23 gennaio, giorno in cui si è autoproclamato ed ha giurato come «presidente incaricato» del Paese sudamericano, assumendo ad interim i poteri dell’esecutivo, durante una giornata di proteste di massa in tutto il Paese.

L’ANTI-CHAVISMO NATO DALLA TRAGEDIA DI VARGAS

In un clima di forte crisi economica e sociale interna e di rapporti internazionali, con decine di Paesi che hanno dichiarato illegittimo il secondo mandato di Maduro iniziato il 10 gennaio, Juan Guaidò ha colmato un vuoto, ed è diventato una figura chiave per l’opposizione nel Paese. Classe 1983, figlio di una insegnante e di un pilota di aerei di linea, Guaidò è cresciuto in una famiglia di classe media insieme ad altri sette fratelli. Ha vissuto sulla propria pelle il disastro naturale conosciuto come la ‘tragedia di Vargas‘ nel 1999, che ha lasciato la sua famiglia temporaneamente senza casa, e che secondo i suoi colleghi ha influenzato le sue opinioni politiche, data la risposta giudicata inefficace fornita dal governo guidato allora da Hugo Chavez.

ESPONENTE DI SPICCO DI VOLUNTAD POPULAR

Diventato ingegnere industriale nel 2007, Guaidò si è fatto le ossa nei movimenti di protesta studenteschi negli anni 2000. Nel 2015 è stato eletto parlamentare per l’Assemblea Nazionale venezuelana per il partito oppositore Volontà Popolare, ed è diventato presidente del Parlamento nel dicembre 2018. Poco dopo la nomina, l’Assemblea nazionale costituente, controllata dai sostenitori di Maduro, ha minacciato Guaidò e altri con una indagine per tradimento.

UNA MOSSA ORCHESTRATA DA LEOPOLDO LOPEZ

L’architetto dell’ascesa di Guaidò come leader dell’opposizione venezuelana è Leopoldo Lopez,

 

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POLITICA

LA FALSA ALTERNATIVA TRA LIBERALISMO E NUOVA DESTRA

SERGE HALIMI PIERRE RIMBERT – 24 settembre 2018

Budapest, 23 maggio 2018. Giacca sobria un po’ larga e camicia viola aperta su una maglietta, Steve Bannon si pianta davanti a una platea di intellettuali e notabili ungheresi. «La miccia che ha fatto esplodere la rivoluzione Trump è stata accesa il 15 settembre 2008 alle ore nove, quando la banca Lehman Brothers è stata costretta al fallimento». Il vecchio stratega della Casa Bianca non lo ignora: da queste parti, la crisi è stata particolarmente violenta. «Le élite si sono salvate da sole. Hanno interamente socializzato i rischi», prosegue questo ex vice-presidente di Goldman Sachs, le cui attività politiche sono finanziate da fondi speculativi. «Forse che l’uomo della strada è stato salvato?». Questo «socialismo per i ricchi» avrebbe provocato in più parti del pianeta una «vera rivolta populista. Nel 2010, Viktor Orban è tornato al potere in Ungheria»: fu «Trump avanti Trump».

Un decennio dopo la tempesta finanziaria, il crollo economico mondiale e la crisi del debito pubblico in Europa sono spariti dai canali Bloomberg, dove scintillano invece i grafici vitali del capitalismo. Ma la loro onda d’urto ha amplificato due grandi sconvolgimenti.

In primo luogo, quello dell’ordine internazionale liberale post Guerra Fredda, centrato su l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO), le istituzioni finanziare occidentali, la liberalizzazione del commercio. Se, contrariamente a quanto prometteva Mao Zedong, il vento dell’est non ha avuto ancora la meglio su quello dell’ovest, la ricomposizione geopolitica è però cominciata: quasi trent’anni dopo la caduta del muro di Berlino, il capitalismo di Stato cinese estende la sua influenza; basata sulla prosperità di una classe media in ascesa, l’«economia socialista di mercato» lega il suo avvenire alla globalizzazione continua degli scambi, che disossa l’industria manifatturiera della maggior parte dei Paesi occidentali. Compresa quella degli Stati Uniti, che sin dal suo primo discorso ufficiale il presidente Donald Trump ha promesso di salvare dalla «carneficina».

Il terremoto del 2008 e le sue scosse di assestamento hanno colpito anche l’ordine politico che vedeva nella democrazia di mercato la forma compiuta della storia.

L’arroganza di una tecnocrazia untuosa, delocalizzata a New York o a Bruxelles, che impone misure impopolari nel nome della competenza e della modernità, ha aperto la via a governanti tonanti e conservatori. Da Washington a Varsavia passando per Budapest, Trump, Orban e Jarosław Kaczyński si richiamano al capitalismo esattamente come Barack Obama, Angela Merkel, Justin Trudeau o Emmanuel Macron; un capitalismo veicolato però da un’altra cultura, “illiberale”, nazionalista e autoritaria, che esalta il “paese profondo” anziché i valori delle grandi metropoli.

Questa frattura divide le classi dirigenti. Essa è messa in scena e amplificata dai media, che restringono l’orizzonte delle scelte politiche a questi due fratelli nemici. Ora, i nuovi arrivati mirano ad arricchire i ricchi come chi li ha preceduti, ma sfruttando il sentimento che il liberalismo e la social-democrazia ispirano a una frazione spesso maggioritaria delle classi popolari: nausea mista a rabbia.

«Noi abbiamo ricostruito la Cina»

Senza lasciare la possibilità di distogliere lo sguardo, la risposta alla crisi del 2008 ha mostrato tre smentite alle prediche sul buon governo che i politici di centro-destra e di centro-sinistra recitavano dal tempo della dissoluzione dell’Unione sovietica. Né la globalizzazione, né la democrazia né il liberalismo ne escono indenni.

In primo luogo, l’internazionalizzazione dell’economia non è un bene per tutti i Paesi, e neppure per la maggioranza dei salari occidentali. L’elezione di Trump ha portato alla Casa Bianca un uomo convinto da tempo che, lungi dall’essere economicamente vantaggiosa per gli Stati Uniti, la globalizzazione avesse accelerato il loro declino e assicurato il decollo dei loro concorrenti strategici. Con lui, l’«America first» ha prevalso sul «win-win» dei libero-scambisti. Così, il 4 agosto scorso, in Ohio, Stato industriale tradizionalmente conteso ma in cui aveva vinto con più di otto punti di vantaggio su Hilary Clinton, il presidente americano ha ricordato il deficit commerciale abissale (e crescente) del suo Paese – «817 miliardi di dollari all’anno!» – prima di darne la spiegazione: «Non ho nulla contro i Cinesi. Ma neppure loro riescono a credere che li si è lasciati agire a nostre spese fino a questo punto! Noi abbiamo veramente ricostruito la Cina; ora è tempo di ricostruire il nostro Paese! L’Ohio ha perduto 200.000 posti di lavoro nel settore manifatturiero da quando la Cina (nel 2001) si è unita all’Organizzazione mondiale del commercio. L’OMC, un disastro totale! Per decenni, i nostri politici hanno così permesso agli altri Paesi di rubarci posti di lavoro, di derubare la nostra ricchezza e di saccheggiare la nostra economia!».

All’inizio del secolo scorso, il protezionismo ha accompagnato il decollo industriale degli Stati Uniti, come quello di molte altre nazioni; le tasse doganali, del resto, hanno finanziato a lungo la potenza pubblica, dal momento che prima della Grande Guerra non esisteva l’imposta sul reddito. Citando William McKinley, presidente repubblicano dal 1897 al 1901 (che fu assassinato da un anarchico), Trump insiste: «Lui aveva compreso l’importanza decisiva delle tariffe doganali per mantenere la potenza di un Paese». La Casa Bianca vi ricorre ormai senza esitazioni – e senza preoccuparsi dell’OMC. Turchia, Russia, Iran, Unione Europea, Canada, Cina: ogni settimana porta la sua dose di sanzioni commerciali contro gli Stati, amici o no, che Washington ha preso di mira. L’appello alla «sicurezza nazionale» permette al presidente Trump di fare a meno dell’approvazione del Congresso, in cui i parlamentari e le lobby che finanziano le loro campagne elettorali restano legati al libero scambio.

Negli Stati Uniti, la Cina crea più consenso, ma contro se stessa. Non solamente per ragioni commerciali: Pechino è anche percepita come il rivale strategico per eccellenza. Oltre al fatto di suscitare diffidenza con la sua potenza economica, otto volte superiore a quella della Russia, e le sue tentazioni espansionistiche in Asia, il suo modello politico autoritario compete con quello di Washington. D’altra parte, pur sostenendo che la sua teoria del 1989 sul trionfo irreversibile e universale del capitalismo liberale resta valida, il politologo americano Francis Fukuyama vi aggiunge però un avvertimento essenziale: «La Cina è di gran lunga la più grande sfida al racconto della “fine della storia”, poiché si è modernizzata economicamente restando una dittatura. […] Se, nel corso dei prossimi anni, la sua crescita continua ed essa mantiene il suo posto di più grande potenza economica del mondo, ammetterò che la mia tesi è stata definitivamente confutata». In fondo, Trump e i suoi avversari interni si ritrovano almeno su un punto: il primo ritiene che l’ordine internazionale liberale costi troppo agli Stati Uniti; i secondi, che i successi della Cina minaccino di affossarlo.

Dalla geopolitica alla politica, non è che un passo. La globalizzazione ha provocato la distruzione di posti di lavoro e il tracollo dei salari occidentali – negli Stati Uniti la loro quota è passata dal 64% al 58% del PIL solo negli ultimi dieci anni, una perdita annuale di 7.500 dollari (6.500 euro) per lavoratore!

Ora, è precisamente nelle regioni industriali devastate dalla concorrenza cinese che gli operai americani hanno più virato a destra negli ultimi anni. Si può certo imputare questo rovesciamento elettorale a una combinazione di fattori culturali (sessismo, razzismo, attaccamento alle armi da fuoco, ostilità all’aborto e al matrimonio omosessuale, ecc.). Ma bisogna allora chiudere gli occhi su una spiegazione economica almeno altrettanto probante: mentre il numero di contee in cui più del 25% dei posti di lavoro dipendevano dal settore manifatturiero è crollato dal 1992 al 2016, passando da 862 a 323, l’equilibrio tra i voti democratici e repubblicani si è trasformato. Un quarto di secolo fa, si ripartivano quasi allo stesso modo tra i due grandi partiti (circa 400 ciascuno); nel 2016, 306 hanno scelto Trump e 17 la Clinton. Promossa da un presidente democratico – Bill Clinton, per la precisione – l’adesione della Cina all’OMC avrebbe dovuto accelerare la trasformazione di questo Paese in una società capitalistica liberale. Il suo effetto, invece, è stato soprattutto quello di disgustare gli operai americani della globalizzazione, del liberalismo e del voto democratico…

Poco prima della caduta di Lehman Brothers, l’ex presidente della Federal Reserve americana, Alan Greenspan, spiegava con serenità: «Grazie alla globalizzazione, le politiche pubbliche americane sono state largamente rimpiazzate dalle forze globali dei mercati. Al di fuori delle questioni di sicurezza nazionale, l’identità del prossimo presidente non ha quasi più importanza». Dieci anni più tardi, nessuno riprenderebbe una simile diagnosi.

Nei Paesi dell’Europa centrale la cui espansione poggia ancora sulle esportazioni, la messa in discussione della globalizzazione non riguarda gli scambi commerciali. Gli «uomini forti» al potere denunciano invece l’imposizione da parte dell’Unione europea di «valori occidentali» giudicati deboli e decadenti, perché favorevoli all’immigrazione, all’omosessualità, all’ateismo, al femminismo, all’ecologia, alla dissoluzione della famiglia, ecc. Contestano altresì il carattere democratico del capitalismo liberale. Non senza fondamento, in quest’ultimo caso. Poiché, in materia di uguaglianza dei diritti politici e civili, la questione di sapere se le stesse regole si applicassero a tutti è stata decisa, una volta di più, dopo il 2008: «Nessun processo ha avuto successo contro un finanziere di alto livello», sottolinea il giornalista John Lanchester, «mentre, durante lo scandalo delle casse di risparmio degli anni Ottanta, mille e cento persone erano state condannate». Già nel secolo scorso i detenuti di un penitenziario francese sogghignavano: «Chi ruba un uovo va in prigione; chi ruba un bue va a Palazzo Borbone».

Il popolo sceglie, ma il capitale decide. Governando a rovescio rispetto alle loro promesse, i politici liberali, di destra come di sinistra, hanno confermato questo sospetto dopo quasi ogni elezione. Eletto per rompere con le politiche conservatrici dei suoi predecessori, Obama ha ridotto il deficit pubblico, ha compresso la spesa sociale e, anziché istituire un sistema di sanità pubblica per tutti, ha imposto agli Americani l’acquisto di un’assicurazione medica da un cartello privato. In Francia, Nicolas Sarkozy ha ritardato di due anni l’età della pensione che si era formalmente impegnato a non modificare; con la stessa disinvoltura, François Hollande ha fatto approvare un patto di stabilità europeo che aveva promesso di rinegoziare. Nel Regno Unito, il politico liberale Nick Clegg, nella sorpresa generale, si è alleato con il Partito conservatore; quindi, divenuto vicepremier, ha accettato di triplicare le tasse d’iscrizione universitarie che aveva giurato di sopprimere.

Negli anni Settanta, alcuni partiti comunisti dell’Europa occidentale affermavano che una loro eventuale ascesa al potere attraverso il voto avrebbe costituito un viaggio di «sola andata»: la costruzione del socialismo, una volta avviata, non poteva dipendere dall’imprevedibilità elettorale. La vittoria del «mondo libero» sull’idra sovietica ha adattato questo principio con più astuzia: il voto non è stato sospeso, ma si accompagna al dovere di confermare le preferenze delle classi dirigenti. Sotto pena di dover ricominciare. «Nel 1992 – ricorda il giornalista Jack Dion – i Danesi hanno votato contro il tratto di Maastricht: sono stati obbligati a tornare alle urne. Nel 2001, gli Irlandesi hanno votato contro il trattato di Nizza: sono stati obbligati a tornare alle urne. Nel 2005, i Francesi e gli Olandesi hanno votato contro il trattato costituzionale europeo (TCE): è stato loro imposto sotto la denominazione di trattato di Lisbona. Nel 2008, gli Irlandesi hanno votato contro il trattato di Lisbona: sono stati obbligati a votare di nuovo. Nel 2015, il 61% dei Greci ha votato contro il piano di austerità di Bruxelles – che è stato loro imposto comunque.

Proprio quell’anno, rivolgendosi a un governo di sinistra eletto qualche mese prima e costretto a somministrare una terapia liberista choc alla propria popolazione, il ministro dell’economia tedesco Wolfgang Schäuble sintetizzava l’importanza che riconosce al circo democratico: «Le elezioni non devono permettere un cambiamento della politica economica». Da parte sua, il commissario europeo agli affari economici e monetari Pierre Moscovici avrebbe spiegato più tardi: «Ventitré persone in tutto, con i loro assistenti, prendono – oppure no – delle decisioni fondamentali per milioni di altre persone, i Greci in questo caso, sulla base di parametri straordinariamente tecnici, decisioni che sono sottratte ad ogni controllo democratico. L’Eurogruppo non rende conto a nessun governo, a nessun Parlamento, tanto meno al Parlamento europeo». Un’assemblea nella quale Moscovici aspira tuttavia a sedere l’anno prossimo.

Autoritario e «illiberale» alla sua maniera, questo disprezzo della sovranità popolare alimenta uno dei più potenti argomenti della campagna dei politici conservatori di una parte e dell’altra dell’Atlantico. Contrariamente ai partiti di centro-sinistra o di centro-destra, che si impegnano, senza darsene i mezzi, per rianimare una democrazia agonizzante, Trump e Orban, come Kaczyński in Polonia o Matteo Salvini in Italia, ne confermano la morte. Ne conservano solo il suffragio maggioritario, e ribaltano la situazione: all’autoritarismo apolide e competente di Washington, Bruxelles o Wall Street oppongono un autoritarismo nazionale e sbottonato, che presentano come una riconquista popolare.

Un interventismo massivo

Dopo quelle concernenti la globalizzazione e la democrazia, la terza smentita prodotta dalla crisi ai discorsi dominanti degli anni precedenti riguarda il ruolo economico della potenza pubblica. Tutto è possibile, ma non per tutti: raramente dimostrazione di questo principio fu data con tanta chiarezza come nel decennio appena trascorso. Creazione monetaria frenetica, nazionalizzazioni, disprezzo dei trattati internazionali, azioni discrezionali degli eletti, ecc.: per salvare senza contrapartita le istituzioni bancarie da cui dipendeva la sopravvivenza del sistema, la maggior parte delle operazioni dichiarate impossibili e impensabili furono realizzate senza colpo ferire da una parte all’altra dell’Atlantico. Questo interventismo massivo ha rivelato uno Stato forte, capace di mobilitare la sua potenza in un dominio da cui pure sembrava essersi estromesso da solo. Ma, se lo Stato è forte, lo è innanzi tutto per garantire al capitale un quadro stabile.

Inflessibile quando si trattava di ridurre le spese sociali allo scopo di riportare il deficit pubblico sotto la soglia del 3% del PIL, Jean-Claude Trichet, presidente della Banca centrale europea dal 2003 al 2011, ha ammesso che gli impegni finanziari presi alla fine del 2008 dai capi di Stato e di governo per salvare il sistema bancario rappresentavano a metà del 2009 «il 27% del PIL in Europa e negli Stati Uniti». Le decine di milioni di disoccupati, di espropriati, di malati riversati negli ospedali a corto di medicine, come in Grecia, non ebbero mai il privilegio di costituire un «rischio sistematico». «Con le loro scelte politiche, i governanti della zona euro hanno affogato decine di milioni di loro cittadini nelle profondità di una depressione paragonabile a quella degli anni Trenta. È uno dei peggiori disastri economici auto-inflitti mai visti», nota lo storico Adam Tooze.

Il discredito della classe dirigente e la riabilitazione del potere dello Stato non potevano che aprire la via a un nuovo stile di governo. Quando, nel 2010, gli domandarono se lo preoccupasse tornare al potere in pieno caos planetario, il primo ministro ungherese sorrise: “No, io amo il caos. Perché è partendo dal caos che posso costruire un ordine nuovo. L’ordine che voglio». Come Trump, i politici conservatori dell’Europa centrale hanno saputo ancorare la legittimità popolare di uno Stato forte al servizio dei ricchi. Anziché garantire diritti sociali incompatibili con le esigenze dei proprietari, la potenza pubblica si afferma chiudendo le frontiere ai migranti e proclamandosi garante dell’identità culturale della nazione. Il filo di ferro spinato segna il ritorno dello Stato.

Per il momento, questa strategia che raccoglie, devia e snatura una richiesta popolare di protezione sembra funzionare. Mentre le cause della crisi finanziaria che ha fatto deragliare il mondo restano intatte, la vita politica di Paesi come l’Italia o l’Ungheria o di regioni come la Baviera sembra ossessionata dalla questione dei rifugiati. Alimentata dalle priorità dei campus americani, una parte della sinistra occidentale, troppo moderata o troppo radicale, preferisce affrontare la destra su questo terreno.

Per far fronte alla Grande Recessione, i capi di governo hanno messo a nudo il simulacro democratico, la forza dello Stato, la natura decisamente politica dell’economia e l’inclinazione antisociale della loro strategia generale. La base che li sosteneva ne esce indebolita, come dimostra l’instabilità elettorale che ribalta gli scenari politici. Dal 2014, la maggior parte delle elezioni occidentali segnalano una disgregazione o comunque un indebolimento delle forze tradizionali. E, simmetricamente, l’ascesa di personalità o correnti fino a ieri marginali che contestano le istituzioni dominanti, spesso per ragioni opposte, come Trump o Bernie Sanders, nemici l’uno e l’altro di Wall Street e dei media. Stesso copione dall’altra parte dell’Atlantico, dove i nuovi conservatori giudicano la costruzione europea troppo liberale sul piano sociale e migratorio, mentre le nuove voci della sinistra, come Podemos in Spagna, La France Insoumise o Jeremy Corbyn, alla guida del Partito laburista del Regno Unito, criticano le sue politiche di austerità.

Dal momento che non intendono davvero rovesciare il tavolo, ma solamente cambiare i giocatori, gli «uomini forti» possono contare sull’appoggio di una parte delle classi dirigenti. Il 16 luglio 2014, in Romania, Orban scopriva le sue carte con un discorso clamoroso: «Il nuovo Stato che noi stiamo costruendo in Ungheria è uno Stato illiberale: uno Stato non liberale». Ma, contrariamente a quanto i grandi media hanno continuato a ripetere da allora, i suoi obiettivi non si limitano al rifiuto del multiculturalismo, della «società aperta» e alla promozione dei valori familiari e cristiani. Egli ha annunciato anche un progetto economico, quello di «costruire una nazione competitiva nella grande concorrenza mondiale dei decenni che verranno». «Noi riteniamo – dice Orban – che una democrazia non dev’essere necessariamente liberale e che non è perché cessa di essere liberale che uno Stato cessa di essere una democrazia». Prendendo a esempio la Cina, la Turchia e Singapore, il primo ministro ungherese insomma rispedisce al mittente il «There is no alternative» di Margaret Thatcher: «Le società che si fondano su una democrazia liberale saranno probabilmente incapaci di mantenere la loro competitività nei decenni a venire». Un tale disegno seduce i politici polacchi e ciechi, ma anche i partiti di estrema destra francese e tedesco.

Le favole del «capitalismo inclusivo»

Dinanzi al successo eclatante dei loro avversari, i pensatori liberali hanno perduto la loro superbia e la loro retorica. «La contro-rivoluzione è alimentata dalla polarizzazione della politica interna, l’antagonismo sostituisce il compromesso. Essa ha di mira la rivoluzione liberale e le conquiste ottenute dalle minoranze», trema Michael Ignatieff, rettore dell’università dell’Europa centrale a Budapest, un’istituzione fondata su iniziativa del miliardario liberale George Soros. «È chiaro che il breve momento di predominio della società aperta è finito». Secondo Ignatieff, i politici autoritari che prendono di mira lo Stato di diritto, l’equilibrio tra i poteri, la libertà dei media privati e i diritti delle minoranze attaccano in effetti i pilastri principali delle democrazie.

Il settimanale britannico The Economist, che fa da bollettino di collegamento delle élite liberali mondiali, concorda con questa visione. Quando, il 16 giugno scorso, si preoccupava di un «deterioramento allarmante della democrazia dalla crisi finanziaria del 2007-08», non accusava in primo luogo né le abissali diseguaglianze di ricchezza, né la distruzione di posti di lavoro nell’industria per effetto del libero scambio, né il mancato rispetto della volontà degli elettori da parte dei governanti «democratici»; bensì «gli uomini forti che minano la democrazia». Contro di essi, sperano nel settimanale, «i giudici indipendenti e i giornalisti non domi costituiscono la prima linea di

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STORIA

L’ultima indecenza dell’Anpi: «Le Foibe sono un’invenzione dei fascisti»

lunedì 28 gennaio 17:17 – di Redazione

 

«È sconcertante e allarmante vedere come un’associazione che si vanta di tramandare la storia e la memoria neghi pubblicamente, attraverso i social, una tragedia immane come quella delle Foibe in nome di un’ideologia seguita ormai da pochi nostalgici bolscevichi» Così Luciano Sandonà, Consigliere regionale del gruppo Zaia Presidente, risponde tramite una nota ”alle

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http://www.secoloditalia.it/2019/01/lultima-indecenza-dellanpi-le-foibe-sono-uninvenzione-dei-fascisti/?utm_source=dlvr.it&utm_medium=facebook

 

 

 

 

 

Cultura. Grande Guerra: l’Italia e quel buonismo (politico) duro a morire

Pubblicato il 27 Ottobre 2018 da MP

di Marco Bertolini*

 

Se è vero che un’immagine vale più di mille parole, il manifesto prodotto da qualche funzionario del Ministero della Difesa (certamente non dallo Stato Maggiore della Difesa) per il “IV novembre” evidenzia in maniera lampante l’idea che una parte della nuova dirigenza politica ha delle Forze Armate.

L’immagine si commenta da sola e non ha bisogno di parole inutili.

Se ne può semplicemente dedurre che è ovvio che non ci si faccia scrupoli a disarmarle, sottofinanziarle e trattarle con toni irriverenti come è avvenuto in più di un’occasione ultimamente. Come se fossero un inutile e costoso orpello da

 

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Solo il Papa Buono si oppose all’orrore Usa in America Latina

Scritto il 30/1/19

Che l’America Latina debba essere proprietà privata degli Stati Uniti fu deciso nel 1823 dal presidente americano James Monroe, che nella sua celebre “dottrina” già aveva definito le terre che vanno dal Messico alla Patagonia come proprietà naturale degli Usa, cioè terre che per una “naturale legge di gravità politica” sarebbero prima o poi cadute nel “giardino di casa” di Washington (citaz. Chomsky). L’unico ostacolo, prevedeva Monroe, erano gli inglesi, le cui flotte erano a quel tempo troppo potenti per permettere la conquista yankee, ma che prima o poi si sarebbero ritirate, predisse il presidente. E infatti è accaduto. Quello che sta succedendo in queste ore in Venezuela è, in una sua parte, banale: il Padrone non molla mai, e siamo da capo, cioè all’intervento illegale N. 300 degli Stati Uniti in America Latina secondo la dottrina di Monroe. Naturalmente, agli Usadevono conformarsi i vassalli – cioè gli Stati latinoamericani oggi in mano a pupazzi del Fondo Monetario Internazionale, come il gruppo di Lima, poi la Gran Bretagna e anche noi della Ue. E la cosa farsesca è che, mentre in America si strilla isterici per le presunte interferenze di Putin a favore di Trump, accade che come nulla fosse il ministro degli esteri americano Mike Pompeo telefona al neo-autoproclamato presidente del Venezuela, Juan Guaidò, 24 ore prima dell’annuncio della sua candidatura a presidente. Ma va’?

Prima domanda: “Ma se Pompeo fa questo, allora perché Putin non avrebbe potuto telefonare a Trump 24 ore prima dell’annuncio della sua candidatura?”. Poi, la risposta alla domanda “cosa si saranno detti?” la si può fare a una scatoletta di tonno, fiduciosi di avere la risposta giusta. E siccome è noto che – da Kennedy, finanziatore dell’orrendo golpe in Brasile; a Kissinger, finanziatore dei golpe dappertutto; passando per Carter e Reagan, torturatori del Nicaragua in particolare; i Bush contro Haiti in particolare; Bill Clinton, finanziatore degli squadroni della morte in Colombia; fino a Obama, sostenitore del golpe in Honduras e armatore della nuove basi militari – siccome è noto che, dicevo, Washington ci tiene così tanto agli ideali democratici che vanno esportati nel suo “giardino di casa”, è notizia di oggi che Mike Pompeo ha nominato il “neocon” Elliot Abrams come suo inviato speciale in Venezuela, giusto per dar l’impressione di essere equidistanti. Abrams è un neonazista, un pregiudicato (graziato da Bush I), che ha finanziato il genocidio in Guatemala del generale Rios Montt, che ha passato le bustarelle dello scandalo Iran-Contras sotto Reagan e che organizzò il fallito golpe contro Chavez nel 2002. E’ “the Monroe doctrine on steroids”, si direbbe in slang.

Ma vedete, l’articolo N. 231 di oggi sul Venezuela e tutti i dettagli da Google-journalism non vi servono a molto. Piuttosto va dato ancora un po’ di retroterra per capire Maduro e come uscirne. In un indicibile paradosso, le tragedie dell’America Latina iniziarono nel XVI secolo con la conquista nel nome del Vaticano, ma ebbero la loro unica speranza di terminare proprio grazie al Vaticano, quello del Concilio Secondo di Papa Giovanni XXIII nel 1959. Fra le maggiori istanze che esso annunciò, ve n’era una di portata rivoluzionaria scioccante: l’opzione della Chiesa dei Poveri. Dall’infame Costantino, nel IV secolo, la Chiesa aveva scelto senza ombra di dubbio l’opzione per i ricchi e per i potenti e il tripudio per lo sterminio dei poveri e dei dissidenti, non stop per i 1.700 anni successivi anni fino al grande Papa Giovanni XXIII (poi ci è ricascata, ahimè). Questo pontefice, invece, di colpo invertì gli ordini di squadra: no, disse, la Chiesa ora sceglie i poveri. Quasi nessuno qui da noi ci fece molto caso; ovvio, eravamo italiani in pieno boom economico. Ma nell’America Latina invece il messaggio del Concilio Secondo prese piede in modo sorprendente sotto forma della Teologia della Liberazione. Cos’era?

In due parole: si trattò di ampi numeri di preti e suore, e qualche rarissimo caso nei ranghi ecclesiastici superiori, che proprio ispirati dal Concilio Vaticano Secondo si spogliarono di ogni bene e semplicemente fecero quello che fece Cristo, cioè lottarono nelle bidonville dei poverissimi, morirono per e accanto a loro, e ovviamente entrarono in aperto conflitto con i superiori, cioè i loro vescovi, arcivescovi e cardinali, fra cui anche il buon Bergoglio. Nota: lunga e fetente storiaper questo mistificatore, che sempre tenne i piedi in 3 staffe. Un minino stette coi suoi gesuiti teologi della liberazione (ne tradì due in circostanze orribili e silenziò molti altri), ma poi in maggioranza stette invece zitto con le dittature, e alla fine fu un fedele facilitatore del Fondo Monetario Internazionale di Washington fino al Papato. Ma torniamo alla storia. Nel 1962, il venerato (da voi…) presidente Usa J.F. Kennedy notò questi clamorosi fatti e scosse il capo. Ma scherziamo? Adesso ’sti quattro preti straccioni si mettono a fare i “socialisti” contro gli interessi degli investitori americani? Ma che crepino (non poté “prepensionare” Giovanni XXIII perché era troppo popolare).

Quindi Kennedy per primo (ma nel mezzo fu assassinato) e poi il suo successore Lyndon B. Johnson diedero il semaforo verde (per usare un’espressione tutta americana) al peggior terrore neonazista della storia del Brasile, quando con la cacciata del democratico Goulart i militari ripresero il potere nel paese (1964) inaugurando la notoria stagione del National Security States, quella cioè dei golpe fascisti latinoamericani per tre decadi successive. Nei files segreti dell’epoca, oggi desecretati e disponibili presso i National Security Archives di Washington, si possono leggere le euforiche parole dell’ambasciatore statunitense in Brasile Lincoln Gordon, un uomo del “democratico” Kennedy, che definì il golpe dei torturatori «una grande vittoria per il mondo libero» e «un punto di svolta per la storia» (un intero capitolo del mio “Perché ci odiano” della Rizzoli è dedicato a questi abomini). Spiacenti, caro Papa Giovanni XXIII, la tua Opzione per i Poveri deve morire, disse Jfk. E fu olocausto di massacri, torture, campi di concentramento, furti di risorse per trilioni di dollari, tutto di fila in America Latina fino alla fine anni ’90 e proprio a partire dalla nascita della Teologia della Liberazione laggiù.

Fra l’altro quest’anno ricorre il 30esimo anniversario di uno degli ultimi atti di macellazione post-Jfk della giustizia in America Latina, cioè la strage di sei accademici gesuiti teologi della liberazione e di due loro domestiche da parte degli squadroni della morte Atlacatl in Salvador nel 1989. Nota: col benestare evidente e più volte espresso nei fatti dell’infame Papa Wojtyla, l’uomo piantato a Roma da Washington non solo per abbattere l’Urss ma proprio per disintegrare l’Opzione per i Poveri in America Latina, visto che rodeva nelle tasche delle corporations, degli hedge funds e degli asset manager americani (e nostri). E arriviamo a Maduro oggi, passando, come già scritto sopra, per tutti i presidenti Usa di fila che mai hanno smesso di finanziare e armare ogni porcheria antidemocratica a sud del Texas (ripeto: da Kennedy, finanziatore del golpe in Brasile; a Kissinger, finanziatore dei golpe dappertutto; passando per Carter e Reagan, torturatori del Nicaragua in particolare; i Bush contro Haiti in particolare; Bill Clinton, finanziatore degli squadroni della morte in Colombia; fino a Obama, sostenitore del golpe in Honduras e armatore della nuove basi militari).

Washington non molla, e oggi col naufragio delle rivoluzioni “bolivariane” in America Latina, siamo a questa realtà: l’85% del continente è tornato nelle mani delle destre-stuoini del Fondo Monetario. Ma qui l’onestà intellettuale impone un “ma”… Verissimo che la guerra di sanzioni americane contro Cuba e Venezuela è un abominio della legalità internazionale e ruba miliardi all’anno a quei due paesi. Verissimo che la fetente lustrascarpe del Fmi, cioè la Ue, non è capace di un belato di giustizia internazionale da nessuna parte (Palestina, Siria, Egitto, Yemen, America Latina) mentre ruggisce contro le pecorelle Piigs. Verissimo che quella che fu la culla della democrazia, la Gran Bretagna, ha di nuovo sputato sulla propria storia bloccando l’oro di Maduro in un momento drammatico per il Venezuela. Ma… è altrettanto verissimo che l’America Latina, almeno nella leadership (ma non solo), non ce la può fare, come si dice gergalmente. E inizio da questo: sono “cattolici dentro”,

 

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