NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI 22 MAGGIO 2019

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NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI

22 MAGGIO 2019

A cura di Manlio Lo Presti

 

Esergo

Da quando è stato scoperto,

l’uomo lo si perfeziona solo con protesi.

STANISLAW LEC, Pensieri spettinati, Bompiani, 2015, pag. 168

 

http://www.dettiescritti.com/

https://www.facebook.com/Detti-e-Scritti-958631984255522/

 

Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.

 

Tutti i numeri dell’anno 2018 della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com 

 

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L’internazionalismo marxista, oggi confluito nel “cattolicesimo di sinistra” 

ha soltanto preparato il terreno, sradicando e criminalizzando

il legame con la terra e il senso di identità, a quel che sta accadendo oggi,

cioè l’irruzione di un rullo compressore ancor più inesorabile, quello della grande finanza speculativa!

http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/storia-e-identita/identita-delle-nazioni-sovrane/7581-esistere-e-metter-radici

 

SOMMARIO

Più ombre che luci sull’otto per mille

E se la società liquida fosse un buco nell’acqua? 1

8 per mille fondato sull’inganno

Il tradimento al popolo italiano. Disabile vince la graduatoria per la casa popolare: viene scavalcato da una famiglia tunisina 1

Governo italiano convochi l’ambasciatore USA per minacce di Trump

Attenzione! Stanno preparando la guerra contro l’Iran 1

Verso internet nazionali? Gli effetti dello scontro Google-Huawei

È GUERRA DELLE TARIFFE?

QUALE IDENTITA’ PER ESISTERE? 1

Manifesto contro il transumanesimo 1

La società dell’apprendimento 1

Tacere notizie per non dare armi ai nemici? Il caso Fubini 1

Immigrazione di massa e perdita di identità culturale 1

La Germania dubita 1

Guerra di dazi: globalizzazione e esportatori nel mirino. 1

Non chiamatele (soltanto) WBO. 1

L’artefice del Global Compact? Una vecchia amica di George Soros 1

Il silenzio ostinato del Papa sulla persecuzione dei cristiani 1

Quanto ci costa la Ue. E quanto ci guadagniamo 1

POLITICA, CORRUZIONE, GIUSTIZIA. 1

Pm, pretacchioni e Onu contro Salvini

I problemi e i rischi del riconoscimento facciale

Il paradosso cel “Comma22” e la follia della guerra

 

 

EDITORIALE

Più ombre che luci sull’otto per mille

 

Manlio Lo Presti – 13 maggio 2010

 

Ogni anno si ripete la volontà del contribuente di destinare l’otto per mille del proprio IRPEF.

Ogni anno sussiste un velo di silenzio sulle reali destinazioni della somma che ad oggi ha superato il miliardo di euro.

Ogni anno, la quasi totalità dei contribuenti non conosce l’esatto meccanismo di distribuzione degli oboli.

La facoltà di destinare questa parte di Irpef è disciplinata dalla legge 222 del 1985 (Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia).

Questa legge ha sostituito il vecchio e superato istituto della congrua, meccanismo per il quale, fino a venti anni addietro, lo Stato italiano pagava direttamente lo stipendio al clero cattolico.

La scarsa trasparenza del meccanismo di calcolo delle somme che ogni culto riceve, abbinato alla poca informazione peraltro fornita lentissimamente e con riluttanza dal Ministero delle Finanze e solamente alle fedi religiose, crea di fatto delle condizioni di favore eccessivo a favore della religione più numerosa esistente in Italia.

La distorta attribuzione dei fondi si basa sul principio che l’intero gettito viene distribuito in base alle sole scelte espresse con la firma nell’apposito spazio del modello allegato al 730 e non sulla totalità dei 730 presentati – anche se privi della firma di scelta della destinazione!

A tale proposito riportiamo interamente quanto riportato nel sito web www.governo.it :

La ripartizione tra le istituzioni beneficiarie avviene in proporzione alle scelte espresse dai contribuenti in sede di dichiarazione annuale dei redditi.

In caso di scelte inespresse dai contribuenti, la destinazione si stabilisce proporzionalmente alle scelte espresse e secondo gli accordi sottoscritti con le Confessioni religiose

Dietro questa affermazione esiste una produzione legislativa debordante e volutamente complicata.

Dal 1985 ad oggi, sono stati emanati ben 23 provvedimenti normativi e ogni anno viene pubblicato un apposito D.C.P.M. (decreto Presidente Consiglio Ministri) che elenca la ripartizione della quota dell’otto per mille per l’anno corrente. Il primo della serie DCPM è del 2005.

Così facendo il meccanismo ha al proprio interno un vizio concettuale che distribuisce con eccessivo favore ai culti più diffusi un gettito superiore a quello che andrebbe riferito alla percentuale calcolata sulla totalità dei contribuenti che include le mancate scelte, appunto.

L’impalcatura appena descritta si basa su una idea molto diffusa fra i contribuenti ma purtroppo inesatta, che non firmare la scelta fa destinare la somma allo Stato. Invece, come si è appena affermato, il totale delle somme non destinate ricadono dentro la distribuzione calcolata esclusivamente sulla totalità delle firme ricevute.

Ad esempio, il 39,52% dei contribuenti ha esternato la propria scelta ed 35,24 lo ha indirizzato in favore del culto maggiore in Italia.

Quindi, al 35,24% circa di firme a favore del maggiore culto rispetto al totale delle dichiarazioni presentate pari al 39,52%, viene attribuito oltre l’ottanta percento del gettito in quanto il rapporto è 35,24 / 39,52% (oltre l’80%) e non quello più corretto di 35,24% sul 100% delle dichiarazioni presentate (che sarebbe il 35,24%).

 

Il rapporto percentuale, più correttamente riferito al totale dei 730 presentati (il 100%), consentirebbe allo Stato di incamerare tutti i 730 senza la firma di scelta, per destinare il relativo gettito in favore della ricerca scientifica. Ma ciò non avviene.

Concludendo, l’intera operazione truccata ha lo scopo di far fronte agli impegni sanciti dal nuovo concordato: l’ottanta percento dell’immenso flusso di danaro pari ad oltre un miliardo di euro, finisce in un’unica direzione.

Dal 2006, il contribuente ha la facoltà di attribuire un ulteriore 5 per mille della propria IRPEF in favore di organizzazioni di ricerca scientifica e universitaria, di Onlus o agli Enti della ricerca sanitaria. Basta scrivere con accuratezza il codice fiscale dell’organizzazione beneficiaria e firmare per conferma.

Questa ulteriore opzione è nata per sostenere la ricerca scientifica, ma poi è stata estesa – senza un motivo apparente – ad altre categorie.

Va tuttavia detto che – contrariamente a quanto avviene per l’otto per mille – la mancata scelta, fa destinare il 5 per mille al bilancio dello Stato.

Anche nel caso di scelta del cinque per mille, il contribuente non è in grado di verificare se l’opzione da lui fatta è stata poi realizzata. Non esiste un controllo a posteriori che verifichi la buona esecuzione delle direttive impartite dal contribuente. In caso di errore di digitazione del codice fiscale (più o meno voluto, nel peggiore dei casi), quale è il livello organizzativo dello Stato preposto ad uno stringente controllo? Perché il contribuente non riceve un messaggio sms, di posta elettronica o di tipo cartaceo al suo indirizzo che certifichi l’avvenuta esecuzione secondo le sue direttive? Ci troviamo ancora una volta di fronte ad un comportamento privo di chiarezza aggravato da una congenita lentezza delle strutture statali italiane a rapportarsi in modo civile con il cittadino, alimentando sempre di più la marea montante di sfiducia e di legittimo sospetto verso le Istituzioni create per difendere gli interessi del cittadino e non per eliminarli del tutto, come di fatto oggi avviene!

 (Articolo apparso sul settimanale IL PUNTO il 13 maggio 2010 – Da allora, non è cambiato niente!!!)

 

 

 

IN EVIDENZA

E se la società liquida fosse un buco nell’acqua?

Marcello Veneziani – Panorama n. 19 2019

Il mondo è entrato nel terzo millennio con una sola idea chiave, fluida e ossessiva, globale e inafferrabile: la modernità liquida. Vent’anni fa, alla fine dello scorso millennio, un sociologo venuto dall’est, Zygmunt Bauman, pubblicò il suo saggio Modernità liquida, tradotto nel passaggio di millennio in mezzo mondo, e in Italia da Laterza. Cominciò un tormentone, prima intellettuale poi mediatico, sull’avvento globale della liquidità, a cui presto si aggiunsero ulteriori corollari sfornati da Bauman in altrettanti libri: società liquida, amore liquido, vita liquida, arte liquida, sorveglianza liquida, paura liquida e via liquefacendo. Un mantra insistente da cui non ci siamo liberati e che nessuno mette in discussione. Perfino l’attrice bisessuale Kristen Stewart, presenta il suo nuovo film lgbt, dicendo di “credere nel sesso fluido”. Bauman è uno dei rari autori letti e citati da Papa Bergoglio, soprattutto a proposito delle vite di scarto, liquidate dalla società egoista: la riduzione della fede cristiana a sociologia comporta come sua conseguenza la sostituzione del pensiero, della teologia e della filosofia, con la sociologia pop, magari radical, come fu quella di Bauman. Scappa qualche ironia su questo nuovo san Gennaro laico col suo miracolo della liquefazione universale.

Che vuol dire modernità liquida? Che è finito non solo il granitico mondo antico ma anche l’epoca solida del progresso; siamo entrati in una fase magmatica, inafferrabile nei suoi rapporti, postmoderna, in cui tutto scivola e il fluire divora ogni persistenza, ogni permanenza, ogni rigidità. Diluvio universale, anzi globale. I rapporti umani e i legami sociali si fanno liquidi e mutevoli, le convinzioni e le identità si fanno labili e fluenti, e via dicendo; le frontiere, i confini spariscono sommersi dalle onde liquide. La liquidità è ovunque (eccetto nell’economia, dove scarseggia).

Potremmo liquidarla come una scoperta dell’ovvio, antica come il cucco, se pensiamo all’acqua come mito universale delle religioni, al principio universale di Talete e ad Eraclito (panta rei, tutto scorre); e insieme banale come la scoperta dell’acqua calda, perché al predominio del divenire sull’essere solido ci avevano pensato da secoli i pensatori della prima modernità. Il predominio della storicità sull’eternità era il segnale di un primato del fluire. Il romanticismo fu l’avvento del liquido in opposizione al solido mondo classico. Marx ed Engels nel loro Manifesto, già a metà Ottocento andavano oltre e consideravano non liquidi ma “volatilizzati” i rapporti sociali un tempo consolidati, con le loro tradizioni e le loro ferree norme: “Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, col loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di stabile”.

Che la liquidità attenga all’umano, sia principio di vita e sua essenza, lo dice peraltro la nostra stessa composizione biologica: l’uomo è fatto in prevalenza di acqua, in una proporzione quasi analoga al nostro pianeta, costituito per sette decimi d’acqua. E questa corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo insegna molto più della teoria liquida di Bauman. Su questo tema ha scritto pagine penetranti Gaston Bachelard; in questi giorni è da segnalare il pamphlet di Massimo Donà “Dell’acqua” (La nave di Teseo).

Ma l’uso della liquidità come alibi onnicomprensivo per giustificare ogni infedeltà, ogni mutazione, ogni sconfinamento, non rende ragione dei percorsi molto più complessi del nostro tempo. Che non possono ridursi all’avvento dello stato liquido. Si possono dunque porre almeno tre ordini di obiezioni al dogma della liquidità.

La prima è che se si resta dentro uno schema chimico o puramente lineare, dopo lo stato

Continua qui:

http://www.marcelloveneziani.com/articoli/e-se-la-societa-liquida-fosse-un-buco-nellacqua/

 

 

 

 

8 per mille FONDATO SULL’INGANNO

L’8×1000 è bocciato anche dalla Corte dei Conti:

“ognuno è coinvolto, indipendentemente dalla propria volontà, nel finanziamento delle confessioni”

“lo Stato mostra disinteresse per la quota di propria competenza”

“non ci sono verifiche sull’utilizzo dei fondi erogati alle confessioni”

“emergono rilevanti anomalie sul comportamento di alcuni intermediari”

Come funziona

L’otto per mille è il meccanismo adottato dallo Stato italiano per il finanziamento delle confessioni religiose. Probabilmente pensi che, quando fai la scelta per l’otto per mille, l’otto per mille delle tue tasse vada a chi decidi tu… Sbagliato! Lo Stato ogni anno raccoglie l’IRPEF e ne mette l’8‰ in un calderone. Sembra una quota piccola, ma in realtà sono molti soldi: circa un miliardo di euro. Questi soldi vengono poi ripartiti a seconda delle scelte che sono state espresse: insomma la tua firma conta come un voto e ha lo stesso valore di quella dei più ricchi d’Italia.

Possono accedere all’otto per mille solo le confessioni che hanno stipulato un’intesa con lo Stato e che abbiano avanzato apposita richiesta, approvata dal Parlamento. Al 2014 i destinatari sono: Chiesa cattolica, Chiesa valdese, Unione delle Chiese metodiste e valdesi, Unione delle chiese cristiane avventiste del settimo giorno, Assemblee di Dio in Italia (Pentecostali), Unione delle comunità ebraiche italiane, Chiesa evangelica luterana in Italia, Unione cristiana evangelica battista d’Italia, Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia ed esarcato per l’Europa meridionale, Chiesa apostolica in Italia (pentecostali), Unione buddhista italiana, Unione induista italiana.

Dai Patti lateranensi fino al 1984 la Chiesa Cattolica riceveva dallo Stato la cosiddetta “congrua”, a risarcimento dei beni confiscati alla Chiesa e per il mantenimento dei preti. Nel 1984, con la revisione del Concordato firmata da Craxi, è stata eliminata la congrua ed introdotto l’otto per mille, che è poi stato concesso anche ad altre confessioni religiose. Da allora l’aumento delle tasse e del reddito degli italiani ha fatto salire vertiginosamente le cifre in gioco, passando dai 398 milioni di euro del 1990 ai 1.067 del 2010 (per la sola Chiesa Cattolica).

In teoria ogni tre anni una commissione potrebbe modificare la percentuale (da otto per mille a sei per mille, ad esempio), ma in realtà questo non è mai stato fatto. La Corte dei Conti nel 2014, nel 2015, nel 2016 e nel 2018 ha prodotto relazioni critiche nei confronti del meccanismo dell’8×1000, evidenziando “la problematica delle scelte non espresse e la scarsa pubblicizzazione del meccanismo di attribuzione delle quote

Continua qui:

https://www.occhiopermille.it/

 

 

 

 

BELPAESE DA SALVARE

Il tradimento al popolo italiano. Disabile vince la graduatoria per la casa popolare: viene scavalcato da una famiglia tunisina

 22 ottobre 2017 ictumzone                            RILETTURA

Vergogna del Comune di Altopascio, in provincia di Lucca, amministrato purtroppo dalla sinistra antitaliana: Un disabile grave non vedente vince la graduatoria per ottenere una casa popolare, ma viene scavalcato da una famiglia di immigrati tunisini. L’ennesimo episodio di razzismo antitaliano.

 

Vergogna nel comune amministrato dal sindaco Sara D’Ambrosio e da mister Gucci-Remaschi: un disabile si piazza quarto in classifica, ha diritto alla casa, ma la famiglia maghrebina, più numerosa, si prende la ‘sua’ casa nonostante il punteggio più basso. Eccola l’Italia che si svende allo straniero. Pubblichiamo la lettera, accorata, un appello vero e proprio al quale l’amministrazione Pd che dovrebbe essere vicina agli italiani, al contrario si schiera con extracomunitari, maghrebini e assegna loro case popolari solo per il fatto di avere famiglie numerose. Via alla sostituzione etnica. Pubblichiamo la lettera di Andrea Piccolo, con questa commovente premessa dello stesso firmatario della missiva:

 

Buonasera,

Mi chiamo Andrea Piccolo ho 35 anni e vivo ad Altopascio.
Sono un non vedente da diversi anni ed ho anche altri problemi di salute non semplici da affrontare… Come se non bastasse quello di non poter vedere! Mi rivolgo alla vostra cortese redazione per lanciare l’ appello contenuto nel documento allegato alla presente. Mi trovo in difficoltà e per me le porte sono sempre sbarrate o, quanto meno, le risposte sono sempre evasive… Credo che questo appello pubblico possa rappresentare per me l’ultima possibilità.

 

“Mi chiamo Andrea Piccolo, ho trentacinque anni, abito ad Altopascio, e mi trovo costretto a denunciare pubblicamente la mia situazione: sono un non vedente da diversi anni, oltre ad avere altri problemi di salute che mi comportano ulteriori spese di cura in visite specialistiche, farmaci e dispositivi medici. Devo poi pagare l’affitto di 500 euro al mese, tutte le bollette delle varie utenze, mangiare e, insomma, sopravvivere. Sommando la pensione di invalidità e l’indennità di accompagnamento percepisco 1100 euro che, quasi sempre, nonostante i miei sforzi e l’aiuto di amici e parenti, non mi sono sufficienti ad arrivare a fine mese. Ho un Isee (indicatore situazione economica equivalente) pari a zero..

Recentemente l’amministrazione comunale ha annunciato di aver consegnato cinque alloggi popolari a cinque famiglie che si trovavano ai primi posti nella graduatoria… lasciando così intendere che fossero oggettivamente anche le più bisognose. Le cose, però, stanno in un modo un po’ diverso. Io che mi trovavo al quarto posto della graduatoria non ho avuto la casa popolare che aspetto da anni.

Questo perché, in applicazione dei criteri stabiliti dalla legge regionale, all’atto dell’assegnazione si scorre la graduatoria fino ad arrivare al nucleo familiare con un numero di componenti in linea con i vani dell’alloggio popolare da assegnare. Se ad esempio, come è successo ad una famiglia tunisina, la casa da assegnare ha i vani sufficienti per quattro persone può essere assegnata anche al nucleo familiare di quattro persone che si trova al dodicesimo posto della graduatoria.

Sicuramente mi si risponderà che è stata applicata la legge (anche se in situazioni di grave

Continua qui:

 

http://ictumzone.altervista.org/?p=42206

 

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

“Governo italiano convochi l’ambasciatore Usa per minacce di Trump”

20.05.2019

Trump minaccia di “cancellare” l’Iran. Il governo italiano convochi immediatamente l’ambasciatore Usa. Ora dovremmo chiedergli se gli Usa vogliono portare un altro conflitto alle porte di casa nostra. e magari chiederci pure le basi militari. Dopo la Libia sembra il minimo.

L’Italia dovrebbe convocare l’ambasciatore americano per consultazioni. Trump, dopo avere mosso le truppe nel Golfo, ha minacciato di cancellare l’Iran: vogliamo forse un’altra guerra? L’ambasciatore Usa, prima della firma dell’accordo con la Cina, ha fatto irruzione nel nostro ministero degli Esteri chiedendo con toni arroganti che non firmassimo l’intesa con Pechino.

Ora dovremmo chiedergli se gli Usa vogliono portare un altro conflitto alle porte di casa nostra. E magari chiederci pure le basi militari. Dopo la Libia sembra il minimo.

Fonte: L’AntiDiplomatico

L’opinione dell’autore può non coincidere con la posizione della redazione.

Tratti dall’intervista di Sputnik Italia pubblicata il 12 marzo, undici giorni prima della firma dell’accordo sulla Via della Seta tra Italia e Cina:

  • “La sottoscrizione del memorandum, che favorirà gli investimenti cinesi nelle infrastrutture italiane, potrebbe avvenire già durante la visita in Italia del presidente Xi Jinping, prevista tra il 22 e il 24 marzo, oppure al secondo forum sulla Bri che avrà luogo a Pechino a fine aprile e al quale parteciperà anche il premier Giuseppe Conte. Però il comportamento dell’Italia non piace per niente agli Stati Uniti. Garrett Marquis, portavoce del Consiglio per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca ha dichiarato al Financial Times che “la BRI servirebbe esclusivamente gli interessi della Cina e non porterà benefici agli italiani e nel lungo periodo potrebbe finire per danneggiare la reputazione globale del Paese”. E quindi? Questo “tradotto” vuol dire che per soddisfare gli interessi americani l’Italia dovrebbe perdere

 

Continua qui:

 

https://it.sputniknews.com/punti_di_vista/201905207672267-governo-italiano-convochi-lambasciatore-usa-per-minacce-di-trump/

 

 

 

 

 

 

 

Attenzione! Stanno preparando la guerra contro l’Iran

Accusano Teheran di attaccare con i droni i paesi del Golfo. In realtà sono altri. Ma già vedete, giornali e tv diffondono fake news già con tutti i dettagli. Senza verifica.

 

15 maggio 2019 megachip.info

 

di Giulietto Chiesa.

E diffondono informazioni false che accusano Teheran di attaccare con i droni i paesi del Golfo. In realtà sono CIA e Mossad a realizzare gli attacchi.

Ma vedrete, anzi già vedete, i nostri giornali e le nostre tv diffondere le fake

Continua qui:

 

https://megachip.globalist.it/giulietto-chiesa-alternativa/2019/05/15/attenzione-stanno-preparando-la-guerra-contro-l-iran-2041419.html

 

 

 

 

 

 

 

Verso internet nazionali? Gli effetti dello scontro Google-Huawei

Andrea Muratore  – 22 MAGGIO 2019

La rottura annunciata tra Google e Huawei, che porterà Mountain View a impedire l’accesso dei dispositivi dell’azienda cinese ai prossimi aggiornamenti del sistema operativo Android, segnala un punto di svolta nel braccio di ferro tecnologico tra Stati Uniti e Cina.

Il colosso per eccellenza della Silicon Valley rompe l’ipocrisia dell’Internet neutrale e mostra, se ce ne fosse stato il bisogno, di essere parte integrante del sistema di potere statunitense. Donald Trump o no, i colossi della tecnologia vivono e prosperano grazie alla loro relazione simbiotica con la Difesa, l’intelligence e il complesso apparato strategico che si irradia da Washington. Logico, dunque, il loro arruolamento nella sfida a tutto campo a Pechino, che ha in questo caso come obiettivo Huawei.

Tuttavia, la mossa rischia di rivelarsi un boomerang per Google sotto il profilo commerciale. Da un lato, certamente, Huawei subirà inconvenienti di natura economica legati all’impossibilità di continuare a gestire sui suoi dispositivi le fondamentali applicazioni e i servizi offerti da Google, e perdite importanti saranno sofferte anche dai fornitori diretti dell’impresa di Shenzen. Dall’altro, in ogni caso, anche Google necessiterà di un riassesto.

Tanto che, secondo alcuni analisti, il danno emergente potrebbe spingere Mountain View a ripensamenti. Ne è convintoStartMag, per cui “la grande realtà americana si “ciba” di informazioni personali e l’attuale strategia ha una significativa ripercussione sull’approvvigionamento di quel che rappresenta l’alimentazione essenziale. Chiudere le porte ai clienti Huawei significa rinunciare a tutti i dati che questi avrebbero pagato come pedaggio per avvalersi dei servizi normalmente messi a disposizione del pubblico”. “La circostanza è tutt’altro che secondaria e probabilmente”, continua, “questo sarà il fattore che indurrà ad un ripensamento o quanto meno ad una rivisitazione delle

Continua qui:

https://it.insideover.com/economia/verso-internet-nazionali-gli-effetti-dello-scontro-google-huawei.html

 

 

È guerra la guerra delle tariffe?

21.05.2019 – Giulietto Chiesa

 

Al G-20 della fine di giugno l’atmosfera sarà calda a causa del conflitto USA-Cina sulle tariffe. Donald Trump ha fatto una mossa tempestiva, “graziando” l’auto tedesca con il rinvio di sei mesi nell’introduzione dell’aumento del 25% dei dazi americani.

In questo modo si è conquistato un importantissimo alleato europeo contro la Cina. Ma per il breve periodo. Sul periodo più lungo anche l’Europa si troverà a mal partito.

Tuttavia, il segnale è chiarissimo a si muove a 360 gradi. Nessuno potrà evitare il guanto di sfida americano. Le marche europee tutte, non solo quelle tedesche, mentre si apprestano a lanciare le loro nuove vetture, dovranno pensare sempre più velocemente a trasferire le loro produzioni negli Stati Uniti, specie in quelli del sud che interessano Trump. L’Europa perderà posti di lavoro e Donald guadagnerà i voti dei suoi elettori americani. Era la sua promessa elettorale e la sta mantenendo, sempre che i rapporti di forza mondiali glielo permettano.

Ma con la Cina, appunto, la faccenda si annuncia molto dura. Questa volta Pechino ha dato segnali niente affatto concilianti e gli ottimismi della maggioranza dei commentatori occidentali, che immaginano una resa cinese alla dottrina Trump, sembrano non solo poco fondati, ma del tutto sconnessi con la realtà.

Il Quotidiano del Popolo è organo troppo ufficiale per consentire una sottovalutazione della minaccia che recentemente ha lasciato filtrare: cioè che la Cina potrebbe mettere sul mercato parte delle sue riserve valutarie. Magari non lo farà, o lo farà soltanto a piccole dosi. Ma la Cina odierna non è più quella di dieci anni fa e non sembra incline a giocare d’azzardo. Se minaccia vuol dire che ha messo in conto la necessità di farlo, e di farlo subito. E le cifre che costituiscono la posta in gioco sono gigantesche (quelle che si conoscono, e non è detto che siano solo quelle). I certificati di credito USA attualmente in mano cinese sono oggi di circa 3 trilioni di dollari (tremila miliardi), due terzi dei quali sono cash.

Vendere in grande quantità i treasuries sarebbe negativo anche per la Cina, visto che al momento la quasi totalità dei suoi contratti è ancora denominata in dollari, ma è certo che i mercati si accorgerebbero subito della novità e un brivido di terrore volerebbe su tutto il pianeta: la tenuta del dollaro ne risentirebbe immediatamente in ogni caso. Inoltre, che se ne farebbe la Cina di quei dollari venduti? Comprerebbe oro. E questo provocherebbe una seconda ondata di panico, non meno devastante per i mercati del dollaro.

Il che, tra l’altro, è già in atto, e ha coinvolto la Russia. Cina e Russia non si sono presentate alle due ultime tornate di vendita dei certificati di credito americani. Non accadeva da una decina d’anni. Anche questa mossa dei due

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https://it.sputniknews.com/opinioni/201905217673860-e-guerra-la-guerra-delle-tariffe/

 

 

 

 

CULTURA

QUALE IDENTITA’ PER ESISTERE?

Esistere è metter radici, farsi terra e paese. Altro che cittadino-consumatore globalizzato! C’è un legame essenziale fra gli uomini e il paese in cui vivono: recidere quel legame significa sradicarli farne dei poveri alienati

Di Francesco Lamendola

Ci sono forze oscure e potentissime le quali si sono prefissate l’obiettivo di staccare irreparabilmente gli esseri umani dalle loro radici, di renderli atomi vaganti sulla terra, disancorati, fluidi, omologati e intercambiabili, per poterli sempre più manipolare, sfruttare, asservire. La perdita delle radici e la perdita dell’identità – che poi sono due facce della stessa medaglia – solo in parte sono il risultato di dinamiche “naturali”, caratteristiche del mondo moderno; per la maggior parte, invece, sono l’effetto di un piano, diuna strategia lucidamente pianificata e perseguita da coloro i quali possiedono gli strumenti globali per farlo: i brevetti tecnologici, i mass media, i persuasori occulti, la moda e tutto ciò che plasma l’immaginario collettivo.

Verso una sola dimensione antropologica, quella del cittadino-consumatore! I popoli stanno subendo una strategia lucidamente pianificata e perseguita da coloro i quali possiedono gli strumenti globali per farlo: i brevetti tecnologici, i mass media, i persuasori occulti, la moda e tutto ciò che plasma l’immaginario collettivo!

 

Nulla è casuale, tutto è stato studiato a tavolino, dalla Coca-Cola alla minigonna, dai jeans al telefonino multifunzionale, dalle canzoni destinate a scalare le classifiche all’ultimo gioco elettronico. Queste forze hanno comprato o assoggettato anche gli uomini di governo, il ceto degli intellettuali, gran parte degli amministratori pubblici e, in genere, tutti quelli che concorrono a determinare l’opinione pubblica. Molti di essi collaborano con zelo agli indirizzi attuali per conformismo, per spirito gregario, per demagogia, per vanità: seguono la corrente, si uniformano a un piano prestabilito, però sembrano intrepidi paladini di una battaglia di civiltà: perseguono, così, il massimo risultato con il minimo sforzo. Una parte invece, quelli di più alto livello, sono stati arruolati in maniera esplicita, benché segreta: prendono ordini dalla massoneria, che ha spianato loro la strada, li ha liberati dai concorrenti incomodi, li ha portati sul velluto fino alle poltrone che contano. Giunti alle quali, sembrano uomini potenti, ma sono solamente dei burattini telecomandati: fin dal loro insediamento devono guadagnarsi l’appoggio ricevuto, collaborando ciecamente al disegno per il quale sono stati reclutati. In questo modo vengono selezionati quasi tutti i presidenti degli Stati Uniti, quasi tutti i presidenti e i capi di governo degli Stati europei, tutti i grandi dirigenti pubblici, tutti i direttori degli istituti finanziari, tutti i più celebri architetti e urbanisti, i registi cinematografici, i direttori delle case editrici, i presidi delle università pubbliche e private, moltissimi magistrati, i vertici delle forze armate e delle forze di polizia, e, da ultimo, il signore vestito di bianco che si fa chiamare papa, ma che papa non è più di quanto lo sia chiunque di voi.

La maggior parte dei pensatori, dei saggisti, dei romanzieri e dei poeti si accoda a questa tendenza per mero opportunismo, come si aggregarono al fascismo, al nazismo e allo stalinismo nella prima metà del secolo scorso, salvo poi abbandonare la nave al momento del naufragio e salire a bordo di un’altra, con maggiori garanzie di durata e di successo. Perfino i teologi, quelli che più di ogni altro avrebbero dovuto, per tradizione millenaria e per l’oggetto stesso della loro scienza, tenere ferma la barra del timone in direzione dell’Assoluto, si son lasciati prendere dalle tendenza generale al relativismo, al soggettivismo e a quello che potremmo chiamare l’emozionalismo: al posto della dottrina, la morale della situazione; al posto di San Tommaso, la retorica dei buoni sentimenti del signore biancovestito, che non piega mai il ginocchio di fronte a Dio, ma che si getta bocconi fino a terra per baciare i piedi ai capi di Stato africani. Tutto questo viene fatto per concorrere all’obiettivo prefissato: staccare gli esseri umani dalle loro radici, dal loro paese, dalla loro identità, e anche dalla loro fede religiosa, con la scusa dell’accoglienza dei poveri e della solidarietà verso i perseguitati e i bisognosi. Una volta che siano state rescisse le loro radici, gli esseri umani non fanno più presa sul mondo, diventano leggeri, inconsistenti, possono esser portati in qualunque direzione dal primo soffio di vento. Ecco perché, come diceva Cesare Pavese, un paese ci vuole; senza di esso, senza le nostre radici, siamo gettati a caso nel mondo, non abbiamo più mete, non abbiamo più scopi, non abbiamo più riferimenti, non abbiamo più senso. La nostra vita, a quel punto, avrà smesso di avere un significato: saremo diventati estranei a noi stessi, quindi nemici di noi stessi. Un paese che, si badi, è prima di tutto un luogo dell’anima, così come il focolare domestico di Giovani Verga è prima di tutto un’intimità di affetti, e non solo una casa costruita in un certo luogo, entro un preciso spazio geografico, fatta di pietre e di mattoni.

Diceva Cesare Pavese “Un paese ci vuole”: senza di esso, senza le nostre radici, siamo gettati a caso nel mondo, non abbiamo più mete, non abbiamo più scopi!

 

Ci piace riportare la pagina iniziale del romanzo-testamento di Pavese La luna e i falò, in cui questo concetto viene espresso con chiarezza cristallina e assoluta lucidità per bocca del protagonista, un ex trovatello emigrato in America e tornato alle Langhe dopo molti anni di assenza, alla ricerca angosciosa delle radici – e di una ragione per vivere – che non riuscirà a trovare (Einaudi, 1950; Mondadori, 1961):

C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove sono nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa c”io possa dire: “Ecco cos’ero prima di nascere”. Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un Cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.

C’è un legame essenziale fra gli uomini e il paese in cui vivono:

recidere quel legame significa sradicarli, farne dei poveri alienati.

 

Esistere, dunque, è metter radici, farsi terra e paese. Cesare Pavese esprime con parole diverse un concetto che era stato caro ai nazionalisti, specialmente tedeschi: il binomio sangue e suolo (Blut und Boden), cioè razza e terra. C’è un legame essenziale fra gli uomini e il paese in cui vivono: recidere quel legame significa sradicarli, farne dei poveri alienati. Ma siccome il nazionalismo, dopo il 1945, è stato oggetto della più aspra riprovazione, da parte della cultura dominante (di sinistra, e quindi internazionalista), Pavese, senza rendersene conto, diceva qualcosa che era politicamente scorretto, così come politicamente scorretto era il suo attaccamento al mito e la sua idea che il mondo ci parla per mezzo di simboli antichissimi e universali, che si ritrovano, in forme diverse, presso ogni popolo e ogni civiltà. Ora, la domanda che dobbiamo farci è se sia stato giusto, dopo il 1945, cioè dopo le guerre mondiali e dopo la bomba di Hiroshima, condannare senza appello il legame fra i popoli e la terra, suscitatore di identità, e anche la visione mitica dell’uomo e della storia, contrapposta a quella scientifica, in quanto corrisponde a una lettura spirituale della realtà, e non materialista e razionalista. Infatti dopo il 1945, principalmente a causa dell’ombra di Auschwitz, che ha identificato la parte soccombente nella Seconda guerra mondiale come il Male Assoluto, la cultura progressista e antifascista, uscita vittoriosa, ha imposta la sua visione in maniera totalitaria: una visione, appunto, relativista, materialista, razionalista e internazionalista. Da quel momento, parlare di identità, di legane con la terra, di razza in senso spirituale, di popolo come destino, è stato, per decenni, poco meno di un crimine: gli scrittori o i pensatori che lo facevano, venivano immediatamente guardati con sospetto e tacciati, nel migliore dei casi, di narcisismo e individualismo piccolo borghese (e lo stesso Pavese, che pure era, o si sforzava di essere, un intellettuale organico alla società, secondo il modello gramsciano, ha passato il suo piccolo Calvario a causa della durezza di certi suoi “compagni” del PCI, e anche a causa dei suoi stessi conflitti interiori e sensi di colpa irrisolti).

Dio Patria e Famiglia? Ci sono forze oscure e potentissime le quali si sono prefissate l’obiettivo di staccare irreparabilmente gli esseri umani dalle loro radici, di renderli atomi vaganti sulla terra, disancorati, fluidi, omologati e intercambiabili, per poterli sempre più manipolare, sfruttare, asservire.

 

Peraltro, ai nostri giorni appare sempre più evidente che l’internazionalismo marxista ha soltanto preparato il terreno, sradicando e criminalizzando il legame con la terra e il senso di identità, a quel che sta accadendo oggi, cioè l’irruzione di un rullo compressore ancor più inesorabile, quello della grande finanza speculativa, il cui obiettivo è spezzare il legame fra gli uomini e la terra per poterli meglio asservire ai suoi disegni. Così, l’internazionalismo di origine marxista, che avrebbe dovuto aprire la strada all’universalismo comunista, ha aperto la strada, in un certo senso, alla globalizzazione voluta dalle borse e funzionale ai mercati: una strategia simile per giungere a un risultato opposto. Ora si sta attuando il mondo preconizzato dalla canzone Imagine di John Lennon, che tanto piaceva ai ragazzi degli anni ’70 del Novecento: un mondo senza frontiere, senza religioni, e quindi senza identità, con la sola differenza che non si direbbe, come recitava il testo, tutto proteso verso l’amore e la pace, perché la caduta delle identità sta aprendo la via al peggiore dei totalitarismi, quello finanziario, foriero di guerre e sconvolgimenti, e che è nemico, oltre che delle identità e del senso religioso, anche della famiglia, del lavoro, del risparmio e, in ultima analisi, della piena coscienza di sé. La globalizzazione, infatti, persegue, incoraggia e alimenta il massimo della frattura, della scissione e della lacerazione dell’io, attaccando la sua identità sino alle radici, ad esempio insinuando negli individui perfino il dubbio circa la propria identità sessuale, e, nello stesso tempo, indebolendo il legane con gli altri io.

La nuova dimensione antropologica dell’uomo moderno: il cittadino-consumatore!

 

Ora, forse, si può misurare quanto sia stata follemente distruttiva la politica culturale perseguita dalle élite intellettuali dell’Occidente dopo il 1945: semplicemente, non ha compreso (o forse lo ha compreso troppo bene) chi fosse il vero nemico, e quale il pericolo più grande, rispetto al quale era necessario difendersi. In un certo senso, è come se le ultime generazioni fossero state esposte all’aggressione del globalismo senza avere in sé gli anticorpi per respingere l’attacco. E questo perché gli adulti, dopo il 1945, hanno gradualmente modificato, e infine rovesciato, il loro atteggiamento educativo nei confronti dei giovani, presentando loro come buono e desiderabile l’obiettivo di liberarsi dal vergognoso fardello del senso di appartenenza. L’amore e il rispetto verso Dio, la patria e la famiglia, che ne erano l’essenza, sono diventati, un po’ alla volta, dei disvalori: e i giovani sono stati incoraggiati a emanciparsi da simili residui di un modo passato e che non deve ritornare. Significativamente, quelle forze politiche di sinistra che hanno ispirato un tale indirizzo culturale sono passate, armi e

Continua qui:

 

http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/storia-e-identita/identita-delle-nazioni-sovrane/7581-esistere-e-metter-radici

 

 

 

 

 

Manifesto contro il transumanesimo

Un drappello di scienziati e accademici nordeuropei ha assunto una posizione molto critica sulla sfida epocale posta da biotech, scienze cognitive, robotica, nanotecnologia e intelligenza artificiale.

 

Redazione10 maggio 2019

 

 

Siete preoccupati dalla sfida epocale posta dalle biotecnologie, dalle scienze cognitive, dalla robotica, dalla nanotecnologia e dall’intelligenza artificiale? Avete paura che le pratiche di machine learning, l’Internet delle Cose, cybersecurity, big-data, criptovalute, 5G, etc, sfuggano dalle mani dei loro creatori-gestori e tramutino il nostro futuro in un inferno digitalizzato?

 

Bene, sappiate che vi state schierando contro i sostenitori del TRANSUMANESIMO e che siete in buona compagnia.

 

Un drappello di scienziati e accademici nordeuropei ha assunto una posizione molto critica e l’abbiamo tradotta, con il sostegno di Google Translator, per voi.

 

Buona lettura!

 

 

 

MANIFESTO CONTRO IL TRANSUMANESIMO

 

 

 

A cura di Johannes Hoff, Sarah Spiekermann, Georg Franck, Charles Ess, Peter Hampson, Mark Coeckelbergh.

 

 

 

Il culto del transumanesimo perseguita l’Europa e il resto del nostro pianeta.

 

I suoi sacerdoti e famigli vivono in alcuni dei più importanti laboratori di ricerca, università, grandi corporazioni e istituzioni politiche.

 

Il transumanesimo è una prospettiva negativa sulla natura umana, unita a una visione tecnico-scientifica che immagina il “come” dovremmo migliorare. Questa prospettiva è sostenuta da una credenza superstiziosa nella scienza come salvifica tout court e da un astratto disprezzo per la nostra natura umana: la nostra fragilità, la nostra mortalità, la nostra senzienza, la nostra auto-consapevolezza e il nostro senso incarnato di “chi” siamo (distinto da ‘cosa’ siamo).

 

I transumanisti coniugano l’emotività con l’irrazionalità, il potenziale dormiente con la stupidità e la disabilità con la discrepanza. E come risultato di questo confuso approccio promuovono e spingono verso un futuro che ciecamente annuncia reti onnipresenti, geneticamente ottimizzate,guidate da computer, in cui esseri umani presumibilmente fallibili sono manipolati e potenziati da un macchinario invisibile, presumibilmente controllabile e ottimizzabile, guidati da robot intesi quali il prossimo stadio di apparente “evoluzione” per l’umanità.

 

Le visioni dei transumanisti per il nostro futuro rimangono in gran parte incontrastate, perché la loro mentalità è il sintomo di eminenti ideologie scientifiche emerse sulla scia della modernità. Di conseguenza, essi hanno il potere di dettare ciò che intendiamo con il termine “progresso”, e ciò che rispettiamo come “razionale”. Parlano come se sapessero quale sarà il futuro e mostrano una resistenza testarda a qualsiasi critica, anche se ” razionale”, ai loro punti di vista; mostrando così ampie fasce di un’ideologia – a sua volta – ” irrazionale”.

 

Lo scopo di questo manifesto è di esporre l’irrazionalità e i pericoli del transumanesimo.

 

Il transumanesimo si basa su varie ipotesi profondamente errate.

 

Il tipo di transumanesimo che critichiamo qui si fonda sulle seguenti convinzioni:

 

– La realtà è la totalità dell’informazione.

 

– Gli esseri umani non sono altro che oggetti di elaborazione delle informazioni.

 

– L’intelligenza artificiale è “intelligenza” in senso umano.

 

Su queste tre convinzioni i transumanisti sostengono che:

 

– il processo decisionale dovrebbe generalmente basarsi sull’informazione e sull’intelligenza artificiale che opera

 

Continua qui:

https://megachip.globalist.it/pensieri-lunghi/2019/05/10/manifesto-contro-il-transumanesimo-2041244.html

 

 

 

 

 

La società dell’apprendimento

L’omaggio ad Arrow diviene l’occasione per un ripensamento del modello di Solow e delle istituzioni in grado di generare una società dell’apprendimento


“Creare una società dell’apprendimento. Un nuovo approccio allo sviluppo ed al progresso sociale” è un libro scritto da Joseph E. Stiglitz e Bruce C. Greenwald, edito da Einaudi nel 2018. Il libro in realtà è stato pubblicato nel 2014 dalla Columbia University Press con il titolo “Creating a Learning Society: A new Approach to Growth, Development, and Social Progress. Reader’s Edition”.

Introduzione. Nell’introduzione si fa riferimento alle motivazioni che hanno spinto gli autori a realizzare il libro ovvero la celebrazione dell’attività scientifica ed accademica di John Kenneth Arrow presso la Columbia University. Tuttavia, il lavoro di Arrow può essere compreso soltanto considerando quelli che sono gli sviluppi della teoria economica sviluppata da Solow.

Parte prima-Concetti fondamentali ed analisi. La prima parte è composta da 8 capitoli ed affronta la questione del ruolo dell’apprendimento per lo sviluppo economico.

Il primo capitolo è intitolato “la rivoluzione dell’apprendimento”. Gli autori considerano il progresso come composto da due elementi ovvero la componente dello stock del capitale e la componente della tecnologia. Lo stock di capitale può essere accumulato. Tuttavia la possibilità di realizzare una crescita dell’efficienza degli investimenti, ovvero dello stock di capitale, dipende sostanzialmente dal ruolo della tecnologia, la quale è sviluppata attraverso il capitale umano. La conoscenza, e quindi l’apprendimento, giocano un ruolo fondamentale nel fare in modo che il capitale umano, possa aumentare nel lungo periodo l’efficienza degli investimenti. E nel lungo periodo l’unico modo per consentire la crescita economica consiste nella capacità del capitale umano di innovare attraverso la ricerca e sviluppo le attività di produzione. In questo senso gli autori riconoscono ad Arrow il fatto di avere consentito di individuare delle soluzioni alla questione dello sviluppo del capitale umano attraverso l’introduzione della teoria del learning by doing. Il learning by doing ed i processi di ricerca e sviluppo non sono solo importanti per i singoli settori di attività economica, quanto piuttosto sono importanti in senso ampio, per gli effetti degli spillovers, ovvero per la presenza di effetti orizzontali che tra i vari settori di attività economica.

Capitolo II- L’importanza dell’apprendimento. Nel secondo capitolo si fa riferimento al ruolo delle politiche di liberalizzazione e di internazionalizzazione come strategie per orientare i paesi in via di sviluppo nei confronti della crescita. Nel capitolo si sottolinea che uno dei problemi dei paesi in via di sviluppo consiste nella difficoltà di utilizzare le tecnologie esistenti per potenziare la crescita economica. L’intendo degli autori è dimostrare che in genere le economie sotto-producono, ovvero mancano di utilizzare quelle che sono le possibilità di produzione esistenti. La sottoproduzione riguarda sia le economie in via di sviluppo che le economie sviluppate. Le imprese e le organizzazioni economiche pure quando operano nell’interno di economie sviluppate hanno difficoltà ad operare al limite della frontiera tecnologica ed anzi tendono ad operare ben al di sotto della stessa.

Capitolo Terzo “Una economia dell’apprendimento”. Gli autori pongono la questione dei diritti di proprietà intellettuale e di come questi vengono effettivamente utilizzati per ottenere utili. Tuttavia, l’economia dell’apprendimento deve innanzitutto focalizzare l’attenzione su quello che bisogna apprendere ovvero porre i sistemi economici nella possibilità di poter ottimizzare l’utilizzo degli input, ottenendo degli output superiori a parità di condizioni. Tuttavi,a l’apprendimento non si esaurisce nella produzione di beni e di servizi. L’apprendimento riguarda anche le istituzioni e la politica economica. I paesi devono imparare a realizzare delle politiche economiche e a governare le istituzioni attraverso la realizzazione di processi caratterizzati da learning by doing. Il processo di apprendimento diventa quindi totalizzante, e gli autori presagiscono il passaggio dal “learning by doing” al “learning by learn”.

Capitolo quarto “Creare un’impresa e un ambiente di apprendimento”. Gli autori si chiedono quali sono le istituzioni, le politiche economiche e gli orientamenti culturali che sono in grado di promozionare una impresa ed un ambiente di apprendimento. Gli autori riflettono su quelle che sono le condizioni macroeconomiche che permettono di creare una società dell’apprendimento. Esiste chiaramente un valore anticiclico della spesa in ricerca e sviluppo che tende a crescere quanto il PIL cresce e tende a ridursi in modo più che proporzionale quando il PIL si riduce. Del resto, anche la competitività sembra essere associata ad una riduzione del valore della spesa in Ricerca e Sviluppo.

Capitolo V “struttura di mercato, benessere collettivo e apprendimento”. Gli autori partono dall’analisi del modello dell’innovazione di Schumpeter. Schumpeter considerava la presenza del monopolio come un fatto positivo per l’innovazione, così come riteneva che anche la concorrenza delle imprese per accaparrarsi dei mercati contendibili avrebbe generato una tensione nei confronti dell’innovazione. Tuttavia, gli autori sono contrari alla visione di Schumpeter sia perché essi ritengono che il monopolio sotto-produca innovazione, sia perché essi ritengono che l’eccesso di competitività distragga le imprese dall’innovare e le getti alla disperata ricerca di profitto ottenuto con l’adeguamento continuativo alle tecnologie esistenti. Il monopolista intende conservare il proprio potere di mercato. Il monopolista tende ad innovare in misura sub-ottimale. Del resto, anche il mercato caratterizzato da piena contendibilità è privo di innovazione.

Capitolo VI-Economia del Benessere e concorrenza schumpeteriana. Gli autori cercano di confutare l’idea schumpeteriana ripresa dall’economia neoclassica dell’efficienza dei mercati concorrenziali caratterizzati da innovazione endogena. In realtà i mercati lasciati a se stessi mancano di produrre un grado di conoscenza ed innovazione che possa essere considerato come efficiente per il bisogno di innovazione tale da consentire alle imprese di spostare il tasso di crescita di lungo periodo per il tramite della crescita del rendimento degli stock di capitale.

Il capitolo VII- “l’apprendimento in una economia chiusa”. E un capitolo nel quale gli autori affrontano il tema di quelle che possono essere le politiche economiche che possono incrementare il ruolo dell’apprendimento ed in modo particolare dell’economia della conoscenza. Gli autori fanno riferimento anche in questo caso alle contrapposizioni che esistono tra il monopolio e il sistema concorrenziale. In modo particolare gli autori mettono in risalto che il monopolio tende ad avere degli incentivi ridotti rispetto alla possibilità di produrre l’innovazione necessaria mentre dall’altro lato esiste una difficoltà delle imprese operanti nell’economia concorrenziale a procedere alla realizzazione di innovazione. Esiste quindi un duplice gioco a somma zero: tra monopolio e innovazione e tra concorrenza ed innova zione. Le politiche economiche possono intervenire per rimuovere tali contrapposizioni.

Capitolo VIII- La testi della protezione di un’economia nascente: la politica commerciale in un ambiente di apprendimento. Gli autori criticano fortemente la presenza di politiche economiche commerciali legate alla dimensione del libero scambio. Infatti, secondo gli autori esisterebbe una contrapposizione tra il libero scambio e gli spillovers. In modo particolare se effettivamente gli spillovers sono positivi per una economia e per le istituzioni è necessario intervenire con delle politiche economiche protezionistiche le quali sono in grado difendere quei settori di attività economica. Quindi Stiglitz e Greenwald mettono in risalto il fatto che il settore dell’economia della conoscenza richiede necessariamente un elemento di politica economica di protezione.

Parte Seconda.

Capitolo IX- Il ruolo delle politiche industriali e commerciali nella creazione di una società dell’apprendimento. Gli autori riprendono la questione delle politiche economiche per realizzare una società dell’apprendimento. Gli autori in modo particolare si soffermano sui paesi in via di sviluppo. Vi sono due diverse tipologie di paesi in via di sviluppo ovvero i paesi che sono usciti vincitori dalla sfida del progresso ed i paesi che quella sfida l’hanno persa. Tuttavia, in entrambi i casi sia il successo che la sconfitta non sono arrivati dalla liberalizzazione, quanto piuttosto dal fatto che i paesi hanno esportato, ovvero hanno realizzato una produzione in termini di beni e di servizi. Infatti, secondo gli autori, e nella logica del learning by doing, l’unica possibilità per l’impresa di realizzare dei vantaggi economici che possano essere durevoli. Le politiche economiche favorevoli all’apprendimento sono quindi politiche del learning by doing, che stimolano i paesi alla produzione e all’esportazioni, anche superando quelli che sono i limiti presenti nell’interno della dinamica del vantaggio comparato.

Capitolo X- Politica finanziaria e creazione di una società dell’apprendimento. Gli autori si soffermano in modo particolare sul ruolo delle liberalizzazioni nel mercato finanziario, sulle politiche della liberalizzazione del mercato dei capitali, sulla possibilità di disegnare delle politiche finanziamento che siano in grado di sviluppare la società dell’apprendimento. Stiglitz e Greenwald fanno riferimento soprattutto alla dimensione del disallineamento tra obbiettivi sociali della finanza e ritorni individuali. In effetti le politiche economiche dovrebbero proteggere le economie dagli attacchi speculativi dei mercati finanziari che potrebbero eliminare ogni possibilità di realizzazione di una società dell’apprendimento.

Capitolo XI- Politiche macroeconomiche e di investimento per una società dell’apprendimento. Gli autori mettono in evidenza il fatto che la liberalizzazione del mercato dei capitali può avere un effetto destabilizzante per lo sviluppo di una economia dell’apprendimento. Inoltre, anche il tasso di cambio ha un impatto sulla capacità del sistema economico di essere produttivo nel senso dell’apprendimento. Inoltre, gli autori affrontano anche il tema degli investimenti esteri nell’economia di un paese e del ruolo degli investimenti pubblici. Gli autori sottolineano il rischio delle crisi finanziarie e delle relative politiche macroeconomiche nel destabilizzare l’economia e nel rendere difficile performare la società dell’apprendimento. La società dell’apprendimento infatti necessita assolutamente di un modello di politica economica che

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http://www.internationalwebpost.org/contents/La_societ%C3%A0_dell%E2%80%99apprendimento_12795.html#.XOTwEMgzbIU

 

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

Tacere notizie per non dare armi ai nemici? Il caso Fubini

L’ammissione di Fubini? Nulla di nuovo, se non la schiettezza. Questioni che potrebbero disturbare il manovratore (vedi incremento decessi infantili in Grecia) son taciute “per non dare armi al nemico”.

la “confessione” di Fubini

https://www.facebook.com/photo.php?fbid=1208535692661161&set=a.144967689017972&type=3&theater

 

 

4 maggio 2019 di Andrea Zhok.

L’ammissione di ieri di Federico Fubini, riportata qui, non è niente di nuovo, se non per l’inusuale schiettezza. Questioni sgradevoli che potrebbero disturbare il manovratore (come l’incremento dei decessi infantili in Grecia: un tema tra mille) vengono semplicemente messe sotto il tappeto, “per non dare armi al nemico”.

Che l’apparato mediatico italiano, per la stragrande maggioranza, si sia semplicemente schierato come braccio ideologico militante del liberalismo globalista (e dell’europeismo come sua espressione) è qualcosa di perfettamente ovvio a chiunque segua con un po’ d’attenzione l’informazione pubblica.

Esistono tre modalità che vengono adottate in questo senso.

In primo luogo, si assiste ad un’amplissima area di omissione/censura rispetto a voci

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DIRITTI UMANI – IMMIGRAZIONI

Immigrazione di massa e perdita di identità culturale

 4 novembre 2017

Quando si parla di immigrati e Islam, l’Italia non è il primo paese che viene in mente.

Al contrario dei suoi vicini del nord, l’Italia non ha un miracolo economico che richieda una imponente importazione di manodopera. Il paese non ha profondi collegamenti con grandi fonti di immigrazione, come l’Asia Orientale per la Gran Bretagna, né ha subito attentati di matrice jihadista come la Francia.

Al contrario della Svezia e del Belgio non ci sono grandi no-go zones, e al contrario dell’Olanda non ci sono politici dichiaratamente anti-islamici paragonabili a Geert Wilders. Nessun partito anti-immigrazione attualmente si rappresenta come grande forza politica, come in Germania.

Ma, non meno dei paesi elencati, l’Italia merita la nostra attenzione per i massicci cambiamenti che sta subendo. Cambiamenti più sottili e spesso non riconosciuti.

Cominciamo dalla geografia. Non solo il famoso stivale è al centro del Mediterraneo, rendendo l’Italia un obiettivo dell’immigrazione clandestina via mare, ma il territorio italiano non è lontano dal Nord Africa: la piccola isola di Lampedusa, 6.000 abitanti, è a sole 70 miglia dalla costa della Tunisia e 184 miglia dalla Libia. Nel 2016 181.000 immigrati sono entrati in Italia, quasi tutti via mare, quasi tutti clandestinamente.

L’immigrazione era una enorme sfida già ai tempi di Gheddafi, il quale apriva e chiudeva i canali di migranti in base a quali concessioni intendeva ottenere dall’Italia, anticipando le mosse che avrebbe compiuto Erdogan con la Germania. Ma da quando Gheddafi è stato rovesciato nel 2011, l’anarchia libica rappresenta un problema ancora peggiore. Almeno Gheddafi poteva essere pagato per i suoi risultati, invece oggi è molto più difficile fare i conti con la miriade di capibanda e trafficanti di esseri umani che comandano in Libia.

Si potrebbe dare credito a quella teoria che l’intellettuale francese Renaud Camus ha definito della “grande sostituzione”, considerando che ben 285.000 italiani hanno lasciato il loro paese nel 2016.

E poi c’è la storia. La presenza islamica in Sicilia è durata quasi cinque secoli, dall’827 al 1300, e anche se è meno celebrata di quella in Andalusia, gli islamisti ricordano quell’era e vogliono riprendersi l’isola. Roma, sede della Chiesa Cattolica, rappresenta il simbolo delle ambizioni islamiste, rendendo la capitale un obiettivo sensibile della violenza jihadista.

I trend demografici sono peggiori di quelli dell’Europa del Nord, con un Total Fertility Rate (TFR, il numero di bambini per donna) di 1,3, ben inferiore alla Francia (2,0). Il giornalista Giulio Meotti scrisse che il TFR dei migranti è quasi di 2,0 mentre quello degli italiani è di circa 0,9.

Alcune piccole città vanno verso lo spopolamento: una di esse, Candela, è crollata dagli 8.000 abitanti del 1990 ai 2.700 di oggi, e ha risposto al trend offrendo denaro per indurre immigrati economicamente produttivi a insediarsi

 

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http://ictumzone.altervista.org/?p=42211

 

 

 

ECONOMIA

La Germania dubita

Vincenzo Comito – 14 Maggio 2019

 

La frenata dell’economia tedesca dipende solo in parte dalla situazione congiunturale della guerra dei dazi Usa-Cina. Serpeggia in Germania un diffuso disagio e anche un fermento politico che mette in dubbio i dogmi dell’austerity.

L’andamento dell’economia

Coma ha sottolineato di recente, tra gli altri, anche il Financial Times (The Editorial Board, 2019), negli ultimi 15 anni la Germania è stata il motore della più o meno elevata crescita europea; vi si sono registrati alti livelli di produttività, relativamente, anche se solo relativamente, bassi livelli di diseguaglianza, ridotti tassi di disoccupazione, pur se non sono mancati a questo proposito altri problemi, quali un’accresciuta precarietà del lavoro. Dalla crisi finanziaria ad oggi la crescita del reddito pro-capite tra i Paesi del G-7 è stata comunque la più elevata dopo quella degli Stati Uniti. Perché dubitare di tale modello, si chiede dal canto suo Le Monde (Editorial, 2019), quando il Paese registra un avanzo annuale di bilancio di 60 miliardi di euro, un debito pubblico inferiore al 60% del Pil, una bilancia commerciale fortemente in surplus?

Ma i dati e le valutazioni più recenti disponibili per quanto riguarda quella economia non sembrano più molto incoraggianti, o almeno essi appaiono contraddittori e incerti. Il quarto trimestre del 2018 ha registrato così una crescita del Pil pari a zero, mentre per l’intero anno il risultato è stato quello di un aumento dell’1,4%, contro il 2,2% a suo tempo ottenuto nel 2017. Per l’anno in corso poi, le ultime stime di marzo del governo parlano di una possibile crescita dello 0,5%, percentuale che non sarebbe certo vista con molto entusiasmo neanche in un Paese come l’Italia.

Peraltro, molti economisti appaiono relativamente più ottimisti del governo, puntando ad uno 0,8%, mentre gli ultimi dati a consuntivo pubblicati nel maggio 2019 mostrano qualche speranza per un miglioramento della situazione anche per il settore industriale, grazie alla resistenza delle esportazioni, mentre in ogni caso il settore dei servizi si comporta abbastanza bene.

Per altro verso, si registra anche, nell’ultimo periodo, un crescente senso di insoddisfazione e di ingiustizia nel Paese (Bramucci, 2019), sul piano economico come su quello sociale e politico. Qualcuno parla, a questo proposito, tra l’altro, di un declino sociale del Paese (Nachtwey, 2019). Anche le organizzazioni imprenditoriali sono, dal canto loro e per altre ragioni, in questo momento abbastanza nervose.

Si assiste infine anche ad un rilevante disagio e ad importanti problemi di varia natura in diversi grandi gruppi, industriali e non, con episodi su cui sono ricchi di informazioni anche i media internazionali.

Dopo lo scandalo dei test truccati sull’inquinamento e che ha toccato in particolare, ma non solo, la Volkswagen, abbiamo avuto la mancata fusione tra Alstom e Siemens, con le polemiche che si sono trascinate dietro, i problemi relativi allo stato delle due più grandi banche, Deutsche e Commerzbank, problemi che non si sa al momento come risolvere, infine le dispute intorno alla Bayer-Monsanto e alla ThyssenKrupp, con quest’ultima che ha appena annunciato 6.000 licenziamenti. E si potrebbe continuare.

Le notizie sopra ricordate ci forniscono lo spunto per tentare una valutazione più complessiva della situazione e delle prospettive dell’economia tedesca.

Perché la frenata? Congiunturale o strutturale?

Quanto la frenata, che non è peraltro chiaro quanto sarà rilevante, è dovuta a fattori congiunturali e quanto invece a dei problemi strutturali?

Per quanto riguarda il primo aspetto si fa riferimento da più parti a qualche difficoltà registrata nel settore delle esportazioni, in particolare nel comparto dell’auto, a causa anche di un cambiamento nelle norme antinquinamento di qualche tempo fa e del fatto che l’economia cinese, rallentando, ha teso a comprare meno prodotti tedeschi; viene anche segnalata l’incertezza che sta gravando su alcuni importanti dossier, quali la Brexit, i rapporti Cina-Usa, nonché la situazione italiana, ciò che ha contribuito, tra l’altro, a frenare gli investimenti privati in attesa di vederci più chiaro.

L’interpretazione congiunturale dei problemi attuali può portare poi a pensare che le cose possano migliorare anche velocemente, come sperano in molti.

Intanto diminuisce il livello della disoccupazione, crescono i salari e i consumi interni, i tassi di interesse si mantengono bassi.

Ma si può temere che l’interpretazione congiunturale sia troppo riduttiva e che almeno alcuni aspetti strutturali possano essere entrati in gioco.

Essi sembrano essere dipesi soprattutto da una strategia che ha puntato quasi tutte le sue carte sull’export – la Germania è probabilmente il Paese al mondo più legato all’economia globale e l’incidenza delle esportazioni sul Pil si aggira oggi intorno al 50% -, in particolare di alcuni settori, tralasciando invece di sostenere la domanda interna, anche se nell’ultimo periodo essa ha ricevuto una maggiore attenzione (si veda tra l’altro il rilevante recente aumento dei salari e stipendi nel settore pubblico, che si è aggirato in media intorno all’8%), nonché gli investimenti pubblici e privati (Boutelet, 2019).

I risultati ottenuti negli anni sul fronte delle esportazioni sono dipesi sostanzialmente, oltre che dalla qualità dei prodotti e dalla loro eccellenza tecnica, da una rilevante sottovalutazione del cambio, essendo l’euro determinato per buona parte dall’esistenza di economie molto più deboli di quella tedesca, che hanno in particolare spinto il rapporto euro-dollaro a livelli molto favorevoli al Paese teutonico.

Per quanto riguarda un’altra e molto controversa misura, quella del mutamento della politica del lavoro, con le regressive misure Schroeder- Harz, che è stata da molti a suo tempo indicata come all’origine per una buona parte del miglioramento dell’andamento dell’economia tedesca, alcuni studiosi sostengono che in realtà ha contato molto di più il parallelo favorevole andamento dell’economia mondiale, oltre che la già citata sottovalutazione del cambio.

Sulle ragioni più strutturali della frenata c’è poi chi sottolinea le carenze delle infrastrutture del Paese a causa di politiche pubbliche troppo restrittive, con ritardi accumulati nella digitalizzazione dell’economia. Si teme che il settore dell’auto del Paese, all’avanguardia sino a ieri nell’innovazione tecnologica, stia perdendo colpi, di fronte in particolare all’incalzare delle novità che si vanno profilando. Pende sul tutto la minaccia dei dazi di Trump, il cui aumento potrebbe portare a qualche miliardo di perdita annuale di vendite nel settore; si fa inoltre riferimento agli scarsi investimenti pubblici nel settore dell’istruzione.

Le preoccupazioni dell’establishment tedesco fanno soprattutto riferimento al timore che la situazione di mercati internazionali molto aperti, che è prevalsa sino a poco tempo fa e che ha fortemente favorito il Paese, possa volgere al termine. Si scrutano con preoccupazione la crisi dei rapporti commerciali Cina-Stati Uniti, la sviluppo dei populismi nell’Unione Europea, la Brexit. La Germania era saldamente ancorata all’alleanza con gli Stati Uniti e al tradizionale quadro europeo, situazioni ambedue oggi messe in discussione dallo sviluppo degli eventi.

Il problema cinese

Un’attenzione particolare viene in questo momento rivolta poi alla Cina e ai rapporti con tale Paese.

Sono finiti i tempi in cui la Germania importava dal Paese asiatico prodotti di consumo a buon mercato ed esportava auto costose, macchine utensili e altri beni ad elevato valore aggiunto, come sottolinea ad esempio The Economist (2019). La Cina è da tempo il principale mercato di esportazione tedesco; così le auto teutoniche traggono una rilevante quota delle loro vendite e la gran parte dei profitti da tale mercato. Ma ora, mentre si fanno avanti i timori di un rallentamento strutturale dell’economia cinese, affiora il timore che i produttori cinesi, che stanno salendo sempre più in gamma, facciano sempre più concorrenza a quelli tedeschi, dall’auto alle macchine utensili, alla chimica (Munchau, 2019). E tale timore appare a nostro parere molto ben fondato.

Tale minaccia a livello generale, e quella specifica legata alla possibilità   che le imprese di quel Paese acquistino molte delle imprese europee più qualificate, stanno spingendo l’establishment tedesco ad avviare anche in sede europea, oltre che nazionale, politiche di risposta. Si veda in proposito più avanti.

Intanto, presentano prospettive difficili per varie ragioni anche altri importanti mercati tradizionali del Paese teutonico, quali quelli russo, turco, britannico.

Cosa fare

Non a caso, anche di fronte all’evidenza di queste difficoltà, si va sviluppando in Germania un grande dibattito di rilevante interesse. Esso sembra mettere in discussione due dogmi fondamentali della politica tedesca: quello dell’equilibrio di bilancio, iscritto anche nella Legge fondamentale del 2009, e quello del non intervento pubblico in economia (Boutelet, Wieder, 2019).

Così, per quanto riguarda il primo tema,  Michael Hauter, presidente dell’istituto economico di Colonia, ente vicino al padronato, giudica che sia un’assurdità, in un periodo di tassi di interesse bassissimi, non indebitarsi un poco per investire in quelle capacità di produzione che appaiono strategiche per l’avvenire; in particolare, vengono identificate le infrastrutture e l’educazione quali priorità strategiche e che hanno in particolare sofferto della disciplina budgetaria del decennio precedente (Boutelet, Wieder, 2019).

D’altro canto, cambiare la legge dell’equilibrio di bilancio appare oggi molto

 

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http://sbilanciamoci.info/la-germania-dubita-e-si-mette-in-discussione/

 

 

 

 

 

 

 

Guerra di dazi: globalizzazione e esportatori nel mirino

13 Maggio 2019 da Federico Dezzani

Dopo un’effimera tregua, i negoziati sino-americani per riequilibrare il disavanzo commerciale degli Stati Uniti si sono arenati: Washington ha esteso i dazi ad altri 200 $mld di merci cinesi, continuando il giro di vite iniziato lo scorso autunno. A distanza di pochi giorni, Pechino ha risposto aumentando i dazi su 60 miliardi merci americane: i mercati finanziari hanno subito incassato il colpo, scontando l’incancrenirsi della guerra commerciale con le pesanti ricadute globali in termini di crescita. Difficilmente Washington rimpatrierà posti di lavoro adottando questa politica: ciò che interessa agli angloamericani è far deragliare l’attuale globalizzazione, per acuire i nazionalismi economici e destabilizzare i grandi produttori/esportatori (Germania compresa). La probabile saldatura con la No Deal Brexit.

“No Deal China”

Il disavanzo commerciale degli USA nei confronti della Cina, pari a un deficit annuo di 500 $mld di dollari (a lungo finanziati dall’acquisto cinese di debito pubblico americano), è sempre stato in cima all’agenda dell’amministrazione nazionalista-populista di Donald Trump. La retorica anticinese aveva già contraddistinto la campagna elettorale di Trump nel 2016 e, dopo una serie di lunghe accuse, dalla manipolazione dello yuan al furto della proprietà intellettuale, nell’autunno 2018 si era arrivati al primo round di dazi: su 200 $mld di merci cinesi, le imposizioni fiscali erano saliti dal 10 al 25%. A inizio del dicembre scorso, Washington aveva quindi dichiarato una “tregua”, ossia nessuna ulteriore stretta, e l’avvio di negoziati per ricomporre le relazioni commerciali: certo, la scelta del negoziatore, il “falco” Robert Lighthizer, lasciava presagire la volontà americana di arrivare ad una rottura. Così infatti è stato: venerdì 10 maggio, l’amministrazione Trump ha annunciato il clamoroso fallimento delle trattative, ossia il “no deal”, lasciando che i dazi passassero dal 10 al 25% per un’altra corposa fetta (250 $mld) dell’import annuale dalla Cina. A questo punto, Pechino, calcolati i pro e i contro con la solita flemma, ha reagito, innalzando i dazi al 25% su altri 60 $mld di merci importate dagli Stati Uniti (la Cina compra annualmente beni per 120 $mld dagli USA)1. Si noti che i dazi cinesi colpiscono essenzialmente materie prime (grano, mais, soia, carni), “specialità”, a basso valore aggiunto, degli Stati Uniti.

Tra venerdì e lunedì le piazze finanziarie internazionali hanno accusato pesanti perdite, scontando gli effetti dello scontro commerciale sempre più aspro tra USA e Stati Uniti. Un’escalation di dazi (nient’altro che nuove tasse per imprese e consumatori e quindi maggiori costi) rischia infatti di indebolire la crescita mondiale, di cui la Cina è stata il motore indiscusso nell’ultimo decennio, e causare una recessione che non risparmierebbe nessuno. Non solo, quindi, gli Stati Uniti non rimpatrierebbero nessuno posto di lavoro (le filiere produttive sono scomparse da anni e non basteranno certamente i dazi a farle rinascere), ma rischiano concretamente di provocare un rallentamento generalizzato che finirebbe col colpire il loro stesso mercato del lavoro. Possibile che l’amministrazione Trump, composta dal fior fiore di Goldman Sachs (il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, in primis), non ne sia consapevole? Perché nessuno valuta i modesti vantaggi e gli enormi rischi di una guerra commerciale contro la Cina? La risposta è semplice: i moventi della politica americana sono di natura geopolitica e non commerciale. Una probabile recessione globale, la caduta generalizzata della domanda e l’aumento della disoccupazione sono considerati semplici mezzi per raggiungere precisi fini di politica estera.

Sull’argomento abbiamo già scritto circa sei mesi fa, nella nostra analisi geopolitica per il 2019: Washington e Londra, collassata l’Unione Sovietica, si sono fatte garanti di ordine mondiale che, a distanza di trent’anni, non è più conveniente, ma addirittura svantaggioso. Nell’attuale economia globalizzata, infatti, i grandi vincitori (cioè le potenze che hanno conosciuto un indiscusso aumento di forza e prestigio dopo la fine della Guerra Fredda) sono la Cina e la Germania. Due potenze continentali, contrapposte a quelle marittime anglosassoni, che hanno prosperato producendo beni di qualsiasi tipo, dalle macchine utensili ai computer, per il resto del mondo, giovandosi del WTO (la Cina) e del WTO con l’aggiunta del mercato unico europeo (la Germania). Si noti che questa naturale affinità tra Pechino e Berlino si sia trasformata in

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Non chiamatele (soltanto) WBO

Leonard Mazzone – 10 Maggio 2019

 

Il movimento delle imprese recuperate dai lavoratori si sta affermando in Italia, in Europa e nel mondo come un’alternativa concreta all’ordine del capitalismo neoliberale. Vi si intrecciano diverse forme e storie di conflitto, mutualismo, resistenza.

Un movimento diffuso e variegato si sta aggirando tra Europa e Sudamerica nel corso degli ultimi anni: quello delle imprese recuperate dai lavoratori.

Venerdì 12, sabato 13 e domenica 14 aprile Trezzano sul Naviglio è diventata la capitale temporanea di questo movimento. Da qualche anno a questa parte militanti e attivisti di tutta Italia hanno imparato a conoscere il nome di questa piccola località lombarda grazie alla presenza della Rimaflow. Sono i suoi stabilimenti a ospitare l’“incontro euromediterraneo dell’economia dei lavoratori”, una delle principali occasioni in cui i delegati delle imprese recuperate di tutto il mondo, sindacalisti, attivisti e militanti europei e sudamericani si danno appuntamento per scambiarsi esperienze, aggiornare il quadro della situazione nei relativi paesi e coordinare azioni. Il prossimo incontro, questa volta internazionale, avrà luogo a San Paolo il prossimo settembre.

Una (bella) storia nata lungo le rive del Naviglio

La Rimaflow è nata dall’occupazione dei capannoni dell’ex Maflow, una delle aziende del comparto automobilistico italiano fallite in seguito a speculazioni finanziarie e al tentativo – purtroppo riuscito – di delocalizzazione degli impianti produttivi in Polonia. Dopo questo trasferimento nel dicembre 2012, i lavoratori hanno dato vita alla Rimaflow nel 2015. Dopo sei anni, la Rimaflow può vantarsi di dare lavoro a 120 persone: 20 soci dell’omonima cooperativa e altri 100 che utilizzano gli spazi dello stabilimento per le loro attività artigianali e professionali. La proprietà dello stabilimento attuale è di uno dei colossi bancari italiani ed europei: l’Unicredit.

A breve la Rimaflow lascerà l’attuale stabilimento per spostarsi in un capannone vicino. I suoi soci si dicono contenti di questa novità e basta ascoltare qualche altra parola per capire subito le ragioni di questo stato d’animo: si trasferiranno in un edificio in cui non saranno più costretti a respirare fibre velenose, perché il tetto sarà colmo di pannelli solari anziché di amianto. Il trasloco è stato reso possibile dal contributo di realtà sociali, fondazioni e privati e la proprietà dello stabilimento spetterà alla cooperativa. Il punto di forza della Rimaflow è stata la capacità dei suoi soci di costruire una rete di alleanze e solidarietà con associazioni e movimenti locali e nazionali. “Siamo stati relegati all’illegalità, sulla base del principio che i profitti di una banca valessero più delle vite dei lavoratori, ma siamo sempre riusciti a resistere ai tentativi di sgombero da parte della banca il 28 novembre scorso”. Dopo quel tentativo la Prefettura si vide costretta a convocare un tavolo, durante il quale la banca non poté fare a meno di riconoscere il lavoro di Rimaflow e, dunque, il relativo valore economico: i soldi erogati oggi sono serviti all’acquisto dell’altro capannone.

È attraverso un racconto come questo che si può capire l’insistenza posta sull’aggettivo “conflittuale” che accompagna la parola d’ordine di realtà come la Rimaflow: mutualismo. Questo piccolo miracolo sociale è avvenuto senza che gli ex dipendenti rinunciassero ai relativi TFR e alla mobilità, come avvenuto in molti altri casi di recupero di aziende da parte dei lavoratori. Hanno occupato lo stabilimento già svuotato e lo hanno riconvertito. Si sono fatti pagare dalla stessa Banca che deteneva la proprietà dell’immobile, dopo aver resistito ai tentativi di sgombero. Presto la cooperativa punterà alla regolarizzazione per assicurare i diritti dei suoi soci lavoratori.

Una finestra sul mondo delle imprese recuperate

La plenaria mattutina di sabato è stata una vera e propria finestra sul mondo delle imprese recuperate. In Argentina oggi sono 388, mentre in Brasile ammontano a 50 (il fenomeno ha subito una drastica riduzione in seguito alla crisi). In Argentina le imprese recuperate un tempo unite sotto il MER (Movimiento de Empresas Recuperadas) appartengono oggi a diverse reti con obiettivi e metodi diversi. Il nuovo governo ha adottato politiche che stanno mettendo sul lastrico i lavoratori e le lavoratrici. Il giovane delegato argentino parla di “un processo accelerato di distruzione delle relazioni sociali di produzione”. Attacco al welfare, aumento drastico della disoccupazione, flessibilizzazione crescente del mercato del lavoro e rincaro dei prezzi (l’inflazione è aumentata del 200% in tre anni e le tariffe pubbliche sono aumentate del 2000%) obbligano a ripensare il potenziale politico dell’autogestione dei luoghi di lavoro. Al conflitto sociale generato da questi provvedimenti il governo sta rispondendo con la repressione: meno di una settimana fa 400 lavoratori in sciopero sono stati fronteggiati da 700 poliziotti. Ogni singolo elemento di questo mutato contesto non fa che ostacolare il processo di recupero delle imprese. Al movimento sorto dalle imprese recuperate non resta che allearsi con i nuovi attori del conflitto sociale emersi nell’ultimo periodo: in primis, il movimento femminista e, in secondo luogo, le forme diffuse di economia popolare e informale di lavoratori senza diritto costituitisi in cooperative. Negli ultimi mesi l’Argentina è diventata l’incubatore di un processo di sindacalizzazione diffuso, esteso a ogni categoria professionale, anche a quelle più informali. Non si tratta soltanto di una reazione tattica, ma di una vera e propria strategia politica volta a dare una propensione offensiva al movimento delle imprese recuperate: “il capitale di competenze accumulato in questi anni in materia di recupero collettivo di impresa ci consente di aumentare la nostra incidenza politica in questi processi di reazione politica per costruire un orizzonte politico più ampio”.

Quando ci si sposta in Europa, ci si rende conto di quanto sia ancora lungo il lavoro di valorizzazione – culturale, sociale e politica – delle imprese recuperate che resta da compiere. Nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta di imprese che ancora non hanno costruito una rete ampia e diffusa di collaborazioni – commerciali e sociali, prima ancora che politico-sindacali – fra loro all’interno dei singoli contesti nazionali. Questo ritardo sembrerebbe dare ulteriormente ragione all’intuizione che ha ispirato il lavoro di inchiesta militante del Collettivo di ricerca sociale e il progetto di una Rete italiana delle imprese recuperate (RIIR).

Da strumento di lotta a forma di vita: l’autogestione, oggi

A presentare lo stato dell’arte delle imprese recuperate spagnole è un sindacalista, che ricorda le parole d’ordine su cui si è innestato il processo di recupero delle aziende: “unione, azione, autogestione”. Quest’ultima parola ricorre più spesso, perché non si tratta semplicemente di “un modo di organizzare il lavoro”, ma è intesa nei termini di una vera e propria “forma di vita”, che investe ogni dimensione dell’esistenza dell’individuo. Non a caso, la prospettiva intersezionalista inaugurata da una delle più promettenti strategie teorico-politiche introdotte dal femminismo è più volte chiamata in causa dai militanti di tutta Italia che hanno aderito alla rete “fuori mercato” della Rimaflow durante il workshop pomeridiano dedicato a nuove forme di sindacalismo e mutualismo conflittuale: imparare a vedere e trattare le persone nella globalità della loro vita, non soltanto come lavoratori e lavoratrici, ma tenendo anche in considerazione assi di subordinazione basati sul genere, sulla razza, sulle preferenze sessuali. Gli obiettivi ambiziosi e l’entusiasmo di molti, per fortuna, non sono usati strumentalmente per sottacere le criticità: il sindacalista spagnolo ammette senza remore che esiste una tensione fra il ruolo storico del sindacato e il fenomeno delle imprese recuperate. Una volta venuto meno il padrone, che senso ha la rappresentanza degli interessi dei lavoratori che si auto-rappresentano nelle sedi decisionali di cui è dotata l’impresa recuperata?

Alcuni soci delle cooperative che hanno aderito alla RIIR avevano già risposto a questa domanda: le imprese recuperate possono avere anche dipendenti (il che basta a giustificare la presenza del sindacato all’interno della cooperativa) e, se anche così non fosse, esistono all’interno di ogni cooperativa che produce beni o servizi una gerarchia funzionale alla continuità della produzione che dovrebbe legittimare il ruolo del sindacato. Non si può, dunque, rimandare ulteriormente una riflessione seria sui rapporti fra sindacati confederali e di base e il movimento delle imprese recuperate; occorre, afferma il sindacalista spagnolo, che il sindacato punti sull’autogestione anche quando le aziende non sono in crisi.

Anche uno dei delegati greci concepisce l’autogestione non solo come uno strumento di lotta, né – tanto meno – come un mezzo estemporaneo di resistenza, ma come un “modo per vivere dignitosamente e in libertà”. I delegati francesi dell’Association pour l’autogéstionhanno ricostruito la storia del movimento cooperativo francese e ricordato due delle esperienze di recupero più rilevanti degli ultimi anni: quella della Fralib di Marsiglia (160 lavoratori riuniti in cooperativa nel 2014) e della Sea France (800 lavoratori diventati soci nel 2015), oltre al recupero di un’azienda metallurgica, di una tessile e di una libreria.

La ricchezza del racconto di queste esperienze, inutile negarlo, in parte stride con l’assenza dei delegati francesi delle imprese citate. Oltre ai soci della Rimaflow, a intervenire nella plenaria per le esperienze italiane di recupero sono i soci della “Fattoria senza padroni” di Bagno a Ripoli. Dopo aver occupato terreni ricchi di vigne e olivi, i suoi protagonisti hanno redistribuito fra la popolazione locale la cura di questi terreni e la cogestione della fattoria. Hanno costituito un’associazione per poter ottenere il riconoscimento giuridico del lavoro di recupero e di socializzazione delle terre.

La presenza di realtà così straordinarie, però, non rende meno ingombrante l’assenza dei delegati delle altre imprese italiane rilevate dagli ex dipendenti sotto forma cooperativistica. A guidare questi incontri regionali e internazionali sono infatti realtà che si sono dotate di una narrazione molto potente, mirata a porre l’accento sulle differenze esistenti fra chi tenta di attivare circuiti fuori dal mercato e le aziende rilevate dai dipendenti che continuano a produrre ciò che immettevano nel mercato prima della crisi. Mi sembra che questo sia l’elemento di criticità maggiore: perché trasformare le differenze esistenti fra aziende riconvertite dagli ex dipendenti come la Rimaflow e le imprese recuperate dai lavoratori che continuano a produrre ciò che si produceva prima della crisi in una ragione sufficiente a derubricare queste ultime come casi di Workers Buyout che nulla avrebbero a che vedere con una forma di economia alternativa?

Paradossalmente – almeno stando alla distinzione che ho appena rilevato – la più famosa delle imprese recuperate italiane è proprio un’azienda in cui non è stata recuperata la produzione precedente, ma che ha saputo riconvertire i capannoni svuotati dalla proprietà in spazi di socializzazione, di coproduzione, autogestione e di forme di scambio basate sulla partecipazione democratica di lavoratori e consumatori. I soci della Rimaflow sono mossi da moventi politico-sociali inquadrati entro una cornice esplicitamente anticapitalistica. È stato questo orizzonte a ispirare i due strumenti di cui si è dotata la Rimaflow: in primis la coproduzione con realtà alleate di prodotti come l’amaro Partigiano, la vodka Kollontaji e il limoncello di Rosarno, nonché l’autogestione e i contenuti politici che vi sono connessi; in secondo luogo (ma non certo per importanza) si è puntato sulla costruzione della rete “fuori mercato”, ovvero su un mutuo soccorso conflittuale con realtà autogestite per “rifondare in maniera anticapitalistica le relazioni di mercato”.

 

Fuori, dentro o contro il mercato?

Nessuna delle cooperative che hanno aderito alla Rete italiana imprese recuperate, invece, si è posta il problema di fuoriuscire dalla logica del mercato capitalistico, ovvero di rifornirsi di materie prime prodotte solo ed esclusivamente da altre cooperative o di vendere i prodotti e i servizi a “prezzi politici”, capaci di rispondere ai bisogni dei consumatori. Ma se il capitalismo non è riducibile semplicemente a un’economia di mercato, ma alla sua combinazione funzionale con una struttura sociale attraversata dalla divisione di classe fra chi detiene la proprietà del capitale e dei mezzi di produzione e chi vende liberamente la propria forza lavoro, allora le imprese rilevate dagli ex dipendenti che hanno mantenuto la produzione precedente rappresentano comunque una sfida alla logica dell’accumulazione illimitata e fine a se stessa del profitto che è costitutiva della forma di vita capitalistica, pur continuando a operare all’interno di un mercato capitalistico.

La rappresentazione riduttiva che vorrebbe ridurre le imprese recuperate dai lavoratori a casi di workers buyout che trasformerebbero i lavoratori in imprenditori auto-sfruttati, senza alcuna forma di conflitto e, anzi, agendo quali marionette più o meno inconsapevoli dell’astuzia della recente storia neoliberale è semplicemente falsa, prima ancora che fuorviante. Tale rappresentazione è peraltro assecondata tanto dai grandi attori istituzionali che non hanno alcun interesse a enfatizzare il “socialismo dal basso” implicito nelle imprese recuperate quanto dalle realtà sociopolitiche che fanno di tutto per minimizzare la portata radicalmente alternativa di queste imprese.

Tale rappresentazione ignora le forme di conflitto – dalle occupazioni ai picchetti, passando attraverso le manifestazioni e i presidi cittadini e la lotta sindacale, fino ad arrivare alle vere e proprie sfide lanciate ai corpi intermedi che avrebbero dovuto farsi carico anziché ostacolare il processo di recupero aziendale – che hanno preceduto la rilevazione della proprietà dell’azienda o di un suo ramo produttivo (non necessariamente dello stabilimento in cui si produce).

Né questa rappresentazione riduttiva si preoccupa di prendere in considerazione le pratiche di autogestione interne alle cooperative costituite dagli ex dipendenti: a differenza di tutte quelle aziende che indossano la maschera giuridica

 

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PANORAMA INTERNAZIONALE

L’artefice del Global Compact? Una vecchia amica di George Soros

1 Dicembre 2018 di Ichabod Crane    RILETTURA, PER CAPIRE BENE …

 

Louise Arbour è la Rappresentante speciale per le migrazioni del Segretario Generale delle Nazioni Unite.

 

https://aoav.org.uk/wp-content/uploads/2013/06/Louise-Arbour-copy.jpg

 

Lo scorso 27 novembre, presso l’ONU, ha presentato la conferenza internazionale in programma il prossimo 10-11 a Marrakesh, in Marocco, per l’adozione del Global Compact for Migrationrispetto al quale il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha spiegato: «Il Global Compact è un documento che pone temi e questioni diffusamente sentiti anche dai cittadini. Riteniamo opportuno, pertanto, ‘parlamentarizzare’ il dibattito e rimettere le scelte definitive all’esito di tale discussione». L’Italia, infatti,

non parteciperà nemmeno al summit indetto per sottoscrivere l’accordo.

Sui contenuti dell’accordo, ci siamo già soffermati. Ma chi è Louise Arbour, la Rappresentante dell’ONU che sta negoziando con gli Stati l’adesione al tanto discusso trattato di cui si parla tanto in questi giorni? Come spiega Fausto Biloslavo su Il Giornale,  «l’inviata speciale delle Nazioni Unite per il Global compact è la canadese Louise Arbour, che nelle ultime ore si è scagliata contro i paesi, come l’Italia, che hanno deciso di soprassedere alla firma del documento trappola dell’Onu. A fine anni Novanta ricopriva il ruolo di procuratore capo del Tribunale internazionale de L’Aja per i crimini di guerra nell’ex Jugoslavia. Proprio lei ha spalleggiato americani e inglesi nella dubbia strage di Racak, utilizzata come grilletto per giustificare la guerra «umanitaria» della Nato contro i serbi per il Kosovo».

Dopo l’11 settembre, prosegue Biloslavo, «ha chiesto la chiusura della prigione di Guantanamo

 

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https://oltrelalinea.news/2018/12/01/lartefice-del-global-compact-una-vecchia-amica-di-george-soros/

 

 

 

Il silenzio ostinato del Papa sulla persecuzione dei cristiani

di Giulio Meotti – 17 febbraio 2019

Pezzo in lingua originale inglese: The Pope’s Stubborn Silence on the Persecution of Christians
Traduzioni di Angelita La Spada

Purtroppo, la posizione di Papa Francesco sull’Islam sembra provenire da un mondo fantastico.

  • “Il vero Islam e un’adeguata interpretazione del Corano si oppongono ad ogni violenza”, ha dichiarato il Pontefice, non del tutto accuratamente. È come se tutti gli sforzi del Papa siano diretti a esonerare l’Islam da qualsiasi responsabilità. Sembra che abbia fatto questo ancor più di musulmani perspicaci, come il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, l’autore e medico americano M. Zuhdi Jasser, l’ex ministro kuwaitiano dell’Informazione Sami Abdullatif Al-Nesf, la scrittrice franco-algerina Razika Adnani, il filosofo tunisino residente a Parigi Youssef Seddik, il giornalista giordano Yosef Alawnah e lo scrittore marocchino Rachid Aylal, tra molti altri.
  • “Papa Francesco non poteva in alcun modo ignorare i gravi problemi causati dall’espansione (..) nel cuore stesso del dominio cristiano (…) Rileviamo ancora questo (…) l’ultima religione arrivata in Europa ha un intrinseco impedimento all’integrazione nel quadro europeo fondamentalmente giudaico-cristiano.” – Boualem Sansal, scrittore algerino, nel suo best-seller 2084.
  • Papa Francesco ora affronta il potenziale rischio di un mondo cristiano fisicamente inghiottito dalla mezzaluna musulmana – come nel logo scelto dal Vaticano per il prossimo viaggio del Pontefice in Marocco. È ora di sostituire l’appeasement.

Nel 2018, sono stati 4.305 i cristiani uccisi per cause legate alla loro fede. È questa la drammatica cifra contenuta nella nuova “World Watch List 2019”, appena redatta dall’organizzazione non governativa Open Doors. La Ong rivela che nel 2018 sono stati uccisi più di mille cristiani – il 25 per cento in più – rispetto all’anno precedente, quando furono registrate 3.066.vittime.

In questi giorni, 245 milioni cristiani nel mondo sono apparentemente perseguitati soltanto a causa della loro fede. Lo scorso novembre, l’organizzazione Aiuto alla Chiesa che soffre ha pubblicato il suo “Rapporto sulla Libertà religiosa” per il 2018 e ha raggiunto una conclusione analoga: 300 milioni di cristiani sono stati vittime di violenza. Il Cristianesimo, nonostante la dura competizione, è stato definito come “la religione più perseguitata del mondo“.

Nel marzo prossimo, Papa Francesco si recherà in Marocco, un altro paese presente sulla lista nera diffusa da Open Doors. Purtroppo, la posizione di Papa Francesco sull’Islam sembra provenire da un mondo fantastico. La persecuzione dei cristiani è ora una crisi internazionale. Si pensi a quanto accaduto ai cristiani nel mondo musulmano soltanto negli ultimi due mesi. Un poliziotto è rimasto ucciso nel tentativo di disinnescare una bomba all’esterno di una chiesa copta, in Egitto. Precedentemente, sette cristiani erano stati assassinati da estremisti religiosi durante un pellegrinaggio. Poi, in Libia, è stata scoperta una fossa comune contenente i resti di 34 cristiani etiopi uccisi dai jihadisti affiliati allo Stato islamico. Il regime iraniano, nell’ambito di nuove e pesanti repressioni, ha arrestato più di 109 cristiani. La pakistana cristiana Asia Bibi, tre mesi dopo essere stata assolta dalle accuse di “blasfemia” e rilasciata dal braccio della morte, vive ancora come una “prigioniera“, perché i suoi ex vicini vogliono comunque che venga giustiziata. A Mosul, che era la culla del Cristianesimo iracheno c’è stato un “Natale senza cristiani“, e in Iraq, in generale, l’80 per cento dei cristiani è scomparso.

Il cardinale Louis Raphael Sako, patriarca di Babilonia dei caldei e capo della Chiesa cattolica caldea, di recente, ha fornito alcune cifre riguardanti la persecuzione dei cristiani in Iraq: “61 chiese sono state bombardate, 1.224 cristiani sono stati uccisi, 23mila case e proprietà immobiliari dei cristiani sono state sequestrate”. Il patriarca ha ricordato al mondo la politica dello Stato islamico, che ha dato “tre opzioni ai cristiani”: la conversione all’Islam, il pagamento di una tassa speciale o l’abbandono coatto e immediato della loro terra. “Diversamente sarebbero stati uccisi”. In questo modo, 120mila cristiani sono stati espulsi.

“L’ostinato silenzio dei leader europei sulle religioni, in particolare l’Islam, stupisce e delude”, ha scritto di recente lo scrittore algerino Boualem Sansal.

“Il loro atteggiamento è semplicemente irresponsabile, suicida e persino criminale (…) nel contesto attuale, segnato dalla vertiginosa espansione (…) È come vivere ai piedi di un vulcano e non capire che si prepara a scoppiare”.

Sansal, che è stato minacciato di morte dagli islamisti in Francia, come in Algeria, è l’autore del best-seller 2084. Nel libro, egli scrive che la posizione di Papa Francesco sull’Islam sembra simile a quella dei leader occidentali:

“Papa Francesco non poteva in alcun modo ignorare i gravi problemi causati dall’espansione dell’Islam nel mondo e nel cuore stesso del dominio cristiano (…) Rileviamo ancora questo (…) l’ultima religione arrivata in Europa ha un intrinseco impedimento all’integrazione nel quadro europeo fondamentalmente giudaico-cristiano, anche se negli ultimi secoli questo referente si è eroso”.

Papa Bergoglio è riuscito a spiegare che “l’idea di conquista” è parte integrante dell’Islam come religione, ma ha rapidamente aggiunto che si potrebbe interpretare il Cristianesimo nello stesso modo. “Il vero Islam e un’adeguata interpretazione del Corano si oppongono ad ogni violenza”, ha dichiarato il Pontefice, non proprio accuratamente. Inoltre, in modo altrettanto non del tutto accurato ha osservato che “l’Islam è una religione di pace e può accordarsi con il rispetto dei diritti umani e favorire la convivenza di tutti”. È come se tutti gli sforzi del Papa siano diretti a esonerare l’Islam da qualsiasi responsabilità. Sembra che abbia fatto questo ancor più di quanto abbiano fatto musulmani perspicaci, come il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, l’autore e medico americano M. Zuhdi Jasser, l’ex ministro kuwaitiano dell’Informazione Sami Abdullatif Al-Nesf, la scrittrice franco-algerina Razika Adnani, il filosofo tunisino residente a Parigi Youssef Seddik, il giornalista giordano Yosef Alawnah e lo scrittore marocchino Rachid Aylal, tra molti altri.

La tragica persecuzione dei cristiani nel mondo islamico evidenzia un paradosso occidentale: “Dalla loro vittoria nella Seconda guerra mondiale, gli occidentali hanno saputo arrecare grandi benefici a tutta l’umanità”, ha scritto Renaud Girard su Le Figaro.

“Dal punto di vista scientifico hanno condiviso le loro grandi invenzioni, come la penicillina o internet. I diritti umani e la democrazia sono lontani dall’essere applicati ovunque nel mondo, ma sono l’unico riferimento per la governance che esiste a livello internazionale. È innegabile che sotto l’impulso degli occidentali i vasti successi politici, tecnici, sociali e della medicina sono stati raggiunti in due generazioni. Ma c’è un ambito in cui il pianeta è indubbiamente regredito dal 1945 e in cui la responsabilità occidentale è ovvia. È la libertà di coscienza e religione. (…) Astenendosi dal difendere i cristiani d’Oriente, l’Occidente ha fatto un duplice errore strategico: ha dato un segnale di debolezza abbandonando i suoi amici ideologici e ha rinunciato al proprio credo”.

“Agli occhi dei governi e dei media occidentali”, osserva un altro rapporto sulla persecuzione dei cristiani diffuso dall’organizzazione Aiuto alla Chiesa che soffre. “La libertà religiosa sta scivolando verso il basso nelle classifiche dei diritti umani, eclissata da questioni come gender, sessualità e razza”.

“La correttezza politica non vuole sapere nulla della persecuzione e della soppressione in corso del Cristianesimo e che pertanto sono ignorate in un modo quasi sinistro”, ha di recente dichiarato il vescovo di Linz, nell’Alta Austria, Manfred Scheuer.

Questa eclissi è ancora più tragica, perché tutti sanno che il Cristianesimo è a rischio di “estinzione” in Medio Oriente, ha osservato l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby:

“Centinaia di migliaia sono stati costretti a lasciare le loro case. Molti sono stati uccisi, ridotti in schiavitù, perseguitati o convertiti a forza. Anche quelli che rimangono si pongono la domanda: ‘Perché restare?’. La popolazione cristiana dell’Iraq, ad esempio, è meno della metà di ciò che era nel 2003 e le loro chiese, case e imprese, sono state danneggiate o distrutte. La popolazione cristiana siriana si è dimezzata dal 2010. Di conseguenza, in tutta la regione le comunità cristiane che erano il fondamento della chiesa universale ora affrontano la minaccia di un’estinzione imminente”.

L’Occidente ha tradito i suoi amici cristiani in Oriente (si veda qui e qui). L’Occidente potrebbe chiedersi: cosa stanno facendo il Vaticano e il Papa per combattere questa nuova persecuzione religiosa?

Le critiche sono già arrivate dal mondo cattolico. “Così come ha poca ansia per l’ondata di chiusure delle chiese, Papa Francesco sembra avere poca ansia riguardo all’islamizzazione dell’Europa”, ha scritto l’editorialista cattolico statunitense William Kilpatrick.

“In effetti, come dimostra il suo incoraggiamento alle migrazioni di massa, sembra non avere obiezioni all’islamizzazione. O perché crede davvero alla falsa narrazione che l’Islam è una religione di pace, o perché crede che la strategia di profezia che si realizza creerà un Islam più moderato. Francesco sembra essere in pace con il fatto che l’Islam si stia diffondendo rapidamente. Che Francesco sia stato male informato sull’Islam o se abbia adottato una strategia di disinformazione, si sta assumendo un enorme rischio, non solo per la propria vita, ma per la vita di milioni di persone”.

Ora ci sono intere aree in Siria che sono state “ripulite” dei loro cristiani storici. Papa Francesco ha di recente ricevuto una lettera da un francescano in Siria, padre Hanna Jallouf, patriarca di Knayeh, un villaggio nei pressi di Idlib, la

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https://it.gatestoneinstitute.org/13746/papa-silenzio-persecuzione-cristiani

 

 

 

Quanto ci costa la Ue. E quanto ci guadagniamo

17.05.19 – Alfonso Langastro

Nel 2017 il contributo netto dell’Italia al bilancio europeo è stato di poco meno di 3 miliardi di euro. Ma limitarsi a considerare questa cifra è riduttivo. Perché i benefici che arrivano dall’adesione alla Ue vanno ben al di là delle risorse ricevute.

 

Il bilancio europeo: quanto paghiamo?

Durante la campagna elettorale per il referendum della Brexit, il dibattito nel Regno Unito fu fortemente condizionato dal tema dei contributi che gli stati membri devono versare al bilancio europeo. Le conseguenze di quel dibattito sono ben note. È dunque importante provare a fare il punto per l’Italia in vista delle elezioni europee: quanto versiamo all’Ue e quanto riceviamo in cambio?
Secondo gli ultimi dati disponibili, del 2017, il bilancio comunitario ammonta a poco meno di 140 miliardi di euro. Poiché non può andare in deficit, a 140 miliardi di spese devono corrispondere 140 miliardi di entrate. Una parte arrivano da dazi doganali su beni provenienti da paesi extra-Ue, raccolti dagli stati membri e trasferiti successivamente alla Commissione. Il resto è finanziato dal gettito Iva e dai contributi provenienti dai singoli stati. Questi ultimi rappresentano la parte più consistente: nel 2017 ammontavano a più del 56 per cento del totale delle entrate, ossia 78 miliardi. Per fare in modo che l’onere sia equamente distribuito tra gli stati membri, si impone un’aliquota di prelievo che dipende dal reddito annuo lordo del paese in questione e che può variare di anno in anno, a seconda delle spese che devono essere coperte nel bilancio.
Dunque, quanto spetta all’Italia?
Il contributo totale italiano al bilancio europeo per il 2017 è stato di 12 miliardi, di cui poco più di 2,1 miliardi derivanti dal gettito Iva nel 2017, quasi 2 miliardi ricavati dai dazi doganali per i beni extra-Ue e 8,8 miliardi di trasferimento diretto.
Guardando la cifra in termini assoluti, l’Italia si posiziona tra i maggiori contribuenti dell’Unione, superata solo da Germania e Francia

È naturale, infatti, che i paesi più grandi e con maggiori capacità economiche siano anche i maggiori contribuenti. Per avere una misura più realistica della distribuzione dell’onere contributivo all’Unione tra gli stati membri è dunque opportuno tener conto dell’economia del singolo stato e misurare il trasferimento come percentuale del reddito annuale lordo. In questo modo, il contributo italiano risulta ben più moderato e proporzionato, classificandosi al tredicesimo posto.

Quanto riceviamo?

Il nostro paese, con i suoi 9,8 miliardi di euro ricevuti nel 2017, è quarto dopo Francia, Polonia e Germania. Una cifra consistente che si articola in molte componenti, alcune più corpose di altre.
La principale voce di spesa per l’Italia è il finanziamento all’agricoltura tramite lo European Agriculture Guarantee Fund (Aegf): più di 4 miliardi, di cui 3 miliardi e mezzo indirizzati al pagamento diretto agli agricoltori. Più limitato, ma comunque sostanzioso, è l’investimento per la coesione territoriale (1,6 miliardi), che si traduce, tra le altre cose, in investimenti per le regioni meno sviluppate del Mezzogiorno per poco meno di un miliardo (963 milioni contro i 590 milioni destinati alle regioni del Centro e del Nord). Infine, troviamo gli investimenti per la competitività, la crescita e il lavoro (1,4 miliardi) che si suddividono a loro volta in 310 milioni investiti in grandi progetti infrastrutturali, poco più di 200 milioni per il programma Erasmus e più di 800 milioni per la ricerca.
Va notato che una porzione significativa delle risorse che l’Ue mette a disposizione viene stanziata in base a criteri competitivi, dunque le risorse effettivamente disponibili all’Italia potrebbero aumentare con una maggiore capacità di spesa e una programmazione più puntuale.

Dunque, numeri alla mano, al netto di quanto riceviamo, contribuiamo al bilancio Ue per poco meno di 3 miliardi di euro, secondo i dati della Commissione europea sul 2017, preceduti solo da Germania e Francia (figura 4). Va tuttavia considerato che qui si misurano solo le risorse effettivamente versate all’Italia e non quelle complessivamente stanziate. Queste ultime costituiscono il bacino totale delle risorse disponibili per un paese, il quale può accedervi per finanziare specifici progetti. Per quanto riguarda l’Italia, nel quadro programmatico 2014-2020, ammonta a 73 miliardi e, dunque, a fine 2017 solo il 13 per cento delle risorse complessivamente

 

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https://www.lavoce.info/archives/59152/quanto-ci-costa-la-ue-e-quanto-ci-guadagniamo/

 

 

 

 

POLITICA

POLITICA, CORRUZIONE, GIUSTIZIA

20.05.19 Marco Della Luna

 

La diffusa credenza popolare che chi conquista un potere pubblico non lo usi a vantaggio proprio e della propria fazione è illogica, seppur umanamente comprensibile. Questa credenza viene regolarmente sfruttata per raccogliere voti con la promessa di debellare la corruzione. È ingenuo o ingannevole deprecare indignati la corruzione (il peculato, l’abuso di potere) commessa dai politici e amministratori di mestiere, perché prendersi a torto o a diritto denaro e altre utilità è al contempo lo scopo e lo strumento del fare politica, assieme alla capacità di camuffare questa e altre realtà e di eliminare i concorrenti. I politici di carriera sono selezionati e formati in base a ciò. Alcuni ingenui si mettono in politica per ideali, ma, non producendo dividendi, finiscono presto, tranne i rari che vengono presi e usati come icone di onestà, foglie di fico.

Non esiste e non può esistere una politica onesta, sincera, che non rubi e non inganni – il che legittima moralmente e legalmente l’evasione fiscale-contributiva e in generale l’arrangiarsi, come legittima difesa o azione in stato di necessità.

Esistono invece -ed è questo che fa la differenza per le sorti di un paese- classi politiche che sanno solo ‘rubare’ e servire lo straniero; e classi politiche che ‘rubano’, ma sono competenti, sanno organizzare e gestire lo sviluppo del paese, come avviene nei BRICS, che combinano alto tasso di crescita ad alto tasso di corruzione. In Italia quello sviluppo è venuto meno, manca da circa 25 anni, appunto perché la sua classe politica è del primo tipo, per ragioni storiche, legate al tradizionale asservimento dell’Italia e di molti stati preunitari a potenze straniere dominanti. Asservimento che continua nell’Unione Europea e che non lascia spazio a statisti veri, a una politica vera, con possibilità di

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http://marcodellaluna.info/sito/2019/05/19/politica-corruzione-giustizia/

 

 

 

 

 

Pm, pretacchioni e Onu contro Salvini

Video qui: https://youtu.be/odHkVVyr3Jo

 

https://www.nicolaporro.it/zuppa-di-porro/pm-pretacchioni-e-onu-contro-salvini/

 

 

 

 

SCIENZE TECNOLOGIE

I problemi e i rischi del riconoscimento facciale tra Cina e resto del mondo

 

di Bruno Saetta @brunosaetta bruno@valigiablu.it – 18 maggio 2019

Jiangxi, Cina sudorientale. 7 aprile 2018. Ao ha guidato per circa 100 chilometri per seguire, insieme alla moglie, il concerto dell’idolo pop Jacky Cheung. È tranquillo perché sa che all’International Sports Center di Nanchang ci sarà tantissima gente. È buio quando inizia il concerto, e Ao è seduto a godersi lo spettacolo: un’orchestra live di 31 elementi, 30 ballerini ed acrobati, e un palco visibile a 360 gradi. Mentre il pubblico intona insieme a Cheung il ritornello di un pezzo romantico, un paio di agenti si fanno largo tra le persone accalcate con passo deciso. Si avvicinano al trentunenne Ao e lo afferrano. L’uomo è visibilmente sorpreso. Forse un errore? No, sanno perfettamente chi è e che è ricercato per crimini economici. E lo hanno scovato tra 60mila persone. Di notte

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Sharp Eyes Il sistema di riconoscimento facciale della Megvii Inc. è la tecnologia che ha consentito l’arresto del trentunenne cinese (accusato di non aver pagato un carico di patate) nonostante egli si sentisse relativamente sicuro in una vasta folla. Ma non è l’unico già attivo in Cina. Una delle aziende più quotate del settore è SenseTime (Shangtang in cinese), la startup di intelligenza artificiale più promettente, stimata nel 2018 circa 4,5 miliardi di dollari. Un “unicorno”, cioè un’azienda con valutazione superiore al miliardo, con una crescita del 400% in appena tre anni. La sede principale di SenseTime si trova a Pechino. Gli uffici sono eleganti. All’ingresso un pannello funge da specchio digitale, una telecamera analizza il tuo viso per stimare l’età e assegnare un rating di attrattiva. Un secondo schermo trasforma il tuo viso come un filtro, snellisce la figura, allarga gli occhi, e così via. Un terzo schermo mostra le immagini del vicino incrocio stradale. Alle persone e ai veicoli sono sovrapposte delle etichette: maschio, adulto, pantaloni grigi, ecc… . Il personale non usa badge, le telecamere riconoscono lo staff e aprono le porte automaticamente. L’intero edificio sembra una prova di ciò che dovrebbe essere la Cina del futuro. SenseTime lavora a stretto contatto con il governo. Il sistema utilizza milioni di foto per riconoscere in tempo reale le persone in the wild, cioè in situazioni “non collaborative”, per capirci nella vita reale quando non si mettono “in posa”. Ma il sistema non si limita alle persone, analizza anche i veicoli. Su uno schermo vengono sovrapposti i dettagli riconosciuti alle immagini. Il software può abbinare un sospetto con un database criminale, e se il livello di somiglianza supera una certa soglia il soggetto può essere arrestato direttamente.

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SenseTime non si occupa solo di riconoscimento facciale (SenseFace), ma esplora le varie possibilità dell’AI: SenseMedia è una piattaforma in grado di moderare video e immagini inappropriati, SenseFoundry è una piattaforma dedicata per Smart City, SenseDrive una soluzione per la guida autonoma. SenseTime è considerata uno dei campioni nazionali, una delle cinque aziende cinesi più importanti. In Cina ci sono oltre 180 milioni di telecamere. L’idea è di porre il riconoscimento dei volti al centro di tutti i sistemi, da quelli di sicurezza a quelli di acquisto: non è necessario avere un documento di identità, non serve avere denaro con sé, né una carta di imbarco, tutto quello che occorre è mostrare il proprio volto. Il governo cinese e i funzionari di polizia sperano di utilizzare la tecnologia di riconoscimento facciale non solo per rintracciare i sospetti, ma anche per prevenire i reati, perfino per prevederli. Il punto di arrivo sarà un sistema di sorveglianza totale che tracci costantemente e in tempo reale i movimenti di 1,4 miliardi di cinesi, negli aeroporti e nelle stazioni, per le strade, nei negozi, nei centri commerciali, anche nei bagni pubblici. I poliziotti saranno dotati di occhiali con tecnologia di riconoscimento facciale. Questo è Sharp Eyes (Xue Liang in cinese), “occhi acuti”, come nello slogan del partito comunista: il popolo ha gli occhi acuti. È la base del sistema di credit score cinese, un sistema di controllo pervasivo ed onnisciente che raccoglierà i dati dei database criminali, medici e accademici, dei PNR (prenotazioni di viaggio), degli acquisti, dei commenti sui social media, tutti riuniti in un unico profilo con i dati anagrafici e comportamentali dell’individuo. Tracciare chiunque, dovunque: dove sono, con chi sono, cosa fanno, cosa pensano.

VIDEO QUI: https://youtu.be/eViswN602_k

 

L’essenza di Sharp Eyes è la riprovazione sociale. Un cittadino appicca il fuoco a un cumulo di rifiuti, una telecamera lo riprende e un altoparlante gli ordina di spegnere l’incendio. Il suo nome poi verrà pubblicato sugli schermi agli incroci più trafficati. Tutti sapranno chi è il colpevole, così non oserà farlo di nuovo. L’obiettivo è di ridurre i reati, eliminare la corruzione. Ma ovviamente il rischio è di colpire i dissidenti, le voci fuori dal coro. La sorveglianza a livello locale è facilmente abusata, diventa una forma di controllo sociale. Parteciperesti ad una protesta di piazza sapendo che il tuo volto sarà scansionato e registrato e inserito nei database della Polizia? Anche i cittadini che attraversano la strada quando non devono (jaywalker) vedono i loro nomi pubblicati sui tabelloni di riprovazione. E nei bagni pubblici il sistema è utilizzato per impedire il furto della carta igienica. Un altro punto di Sharp Eyes sta nel mobilitare i comitati di quartiere, residenti che possono accedere alle telecamere dai loro televisori oppure dagli smartphone, e fungere da occhi per il governo stesso. Nel caso, possono allertare la polizia direttamente. Una rivisitazione tecnologica del “See something, say something” americano, la campagna del Dipartimento di Homeland Security basato sulla “responsabilizzazione”

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https://www.valigiablu.it/riconoscimento-facciale/

 

 

 

 

 

 

 

STORIA

Il paradosso del “Comma 22” e la follia della guerra

Davide Bartoccini – 21 MAGGIO 2019

Seconda Guerra mondiale, su un’isola in mezzo al Mediterraneo ogni giorno squadriglie di bombardieri americani B-25 “Mitchell” attendono che le loro pance di metallo verde oliva vengano riempite di bombe aeronautiche e decollano verso il continente. È il 1944, l’Italia è spaccata in due: da una parte gli occupanti nazisti e i repubblichini di Salò che sono duri a “morire”, dall’altra gli alleati in avanzamento sulla Linea Gotica, e insieme a loro l’Esercito Cobelligerante Italiano, ossia le 12 divisioni che dopo l’8 settembre 1943 si sono schierate con gli anglo-americani. Nel bel mezzo di tutto questo c’è Joseph Heller di New York, puntatore su un bombardiere che ogni giorno, ogni missione, appena arrivato in prossimità dell’obiettivo deve accovacciarsi nel muso di plexiglas dell’aeroplano su cui vola, poggiare l’occhio sul sistema di puntamento Norden, e una volta avvistato il bersaglio dare l’ok per sganciare 2mila chilogrammi di bombe su “qualcosa” che è sempre ritenuto dallo stato maggiore un obiettivo strategico Intorno a lui i caccia avversari e la contraerea fanno strage nelle squadriglie che decollano in formazioni numerose, e tornano puntualmente indietro dimezzate. Restare vivi è stato una questione di fortuna e di statistica. Fortuna che potrà vantare di aver avuto.

Tornato in America infatti racconterà tutto questo in un capolavoro antimilitarista pubblicato nel 1961, “Comma 22“: romanzo incentrato sul paradosso di tutti quei giovani americani che per smettere di volare incontro alla morte, marcavano visita affermando di essere vittime di quello che dopo la Guerra del Golfo verrà diagnosticato come Disturbo da Stress Post-traumatico (Dspt), o più semplicemente di essere “pazzi” per farsi dichiarare inabili al volo ed essere congedati. Nel 1944 l’età media di un pilota, mitragliere, o navigatore imbarcato su un bombardiere dell’Usaf è di 24 anni. La probabilità di sopravvivenza media in missione sull’Europa è di 11 missioni; e un equipaggio, composto in media da 7/10 uomini, ricevere il congedo solo al compimento della 25esima missione. C’è più di una possibilità su due che il loro bombardiere venga abbattuto dalla contraerea o centrato dalla raffica di un caccia nemico, che sia vittima di un guasto al motore e cada in mare o si sfracelli

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https://it.insideover.com/societa/paradosso-comma-22-follia-guerra.html

 

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