NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI 19 GIUGNO 2019

https://www.abcina.it/2018/03/26/credito-sociale-in-cina-e-cosi-spaventoso-come-si-dice/

NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI

19 GIUGNO 2019

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

Dove men si sa, più si sospetta

(Machiavelli)

In: Conosci te stesso, Il melangolo, 2015, pag. 49

 

http://www.dettiescritti.com/

https://www.facebook.com/Detti-e-Scritti-958631984255522/

 

Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.

 

Tutti i numeri dell’anno 2018 della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com 

 

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SOMMARIO

 

Povertà, Istat: “Colpisce 1,8 milioni di famiglie e 5 milioni di individui”. Incidenza sale tra i bimbi: al Sud 1 su 6  1

Immigrati con la pensione sociale: incassano e tornano al loro Paese 1

Armonia e controllo: cos’è il sistema di credito sociale di Pechino. 1

Seawatch, Silvia Sardone: “Chi decide che la Libia non è un porto sicuro? Si vuole creare un problema”  1

“Porti in Libia sicuri per le navi”. Smentita l’ipocrisia di Ue e Ong. 1

Bancarotta Chil Post, “padre di Luca Lotti firmò l’ok al mutuo per Tiziano Renzi”. Nei giorni in cui Matteo fu eletto sindaco. 1

Contagio turco e Calimero italiano 1

Sgarbi contro Formigli: ‘Io sono italiano, non sono affatto europeo’ 1

Difesa a senso unico di Soros: la crociata di Gad Lerner su Rai3. 1  

Il Contenimento infinito dell’Iran  

Scenari futuri della globalizzazione

Emil Cioran, Parigi è l’essenza del fallimento (ed è necessaria per questo) 1

Estetica e politica dell’orfismo 1

I delegati di Guaidò derubano gli “aiuti umanitari” 1  

Nihil sub sole novum

Migranti, la Lega sfida la Merkel: ​”Pronti a chiudere anche gli aeroporti”. 1

Se lo spread scende vuol dire che fanno austerità 1

Sulle considerazioni finali del governatore di Bankitalia. 1

Il Monte riscrive il funding plan. 1

Deutsche Bank, 50 miliardi di titoli tossici: ecco i rischi e le conseguenze 1

Così le banche centrali stanno falsando i mercati 1

NON AVREMMO PALAMARA SENZA DAVIGO, CASELLI, DI MATTEO ETC. 1

La giudice Gabriella Nuzzi: “C’è un sistema istituzionalizzato per annientare i magistrati scomodi”. 1

Salario minimo, Repubblica: ‘Nove Euro cifra troppo alta’. La replica di Fusaro: ‘Repubblica è voce del padronato contro le classi lavoratrici’ 1

Ci sarà ancora posto per l’Uomo nella società post-lavoro? 1

Tampinare 1  

Quel patto fra Francia, Germania e Spagna che svela il futuro dell’Europa

Hong Kong e Macao: un giro nelle due città degli estremi 1

Venezuela: si allarga lo scandalo che coinvolge Guaido e Voluntad Popular. Fondi destinati ad aiuti umanitari usati per discoteche, alcol e prostitute 1

Ong, gli stipendi stellari dei “buonisti” 1

Otto e Mezzo, da Lilli Gruber l’armata contro Matteo Salvini: tutti insieme, loro tre in studio. 1

A Hong Kong un software riconosce i manifestanti da come camminano 1

Libra, la criptovaluta di Facebook

 

IN EVIDENZA

Povertà, Istat: “Colpisce 1,8 milioni di famiglie e 5 milioni di individui”. Incidenza sale tra i bimbi: al Sud 1 su 6

Pur rimanendo ai livelli massimi dal 2005, nel 2018 la crescita del numero di nuclei familiari in stato di indigenza assoluta si è arrestata. Ma i minori in povertà assoluta sono 1,26 milioni, contro gli 1,2 dell’anno prima. I nuclei in povertà relativa, la condizione di una famiglia di due componenti che spende in un mese meno della spesa di un italiano medio, sono invece poco più di 3 milioni

 

di F. Q. | 18 Giugno 2019

Sono più di 1,8 milioni le famiglie italiane in condizioni di povertà assoluta, un’incidenza pari al 7%, per un numero complessivo di 5 milioni di individui (8,4% del totale). Lo dicono i dati pubblicati dall’Istat che spiegano come, pur rimanendo ai livelli massimi dal 2005, la crescita del numero di nuclei familiari in stato di povertà assoluta si sia arrestata rispetto all’anno prima. Ma l’incidenza della povertà assoluta – che si conferma più elevata tra le famiglie con un maggior numero di componenti, tra i giovani e tra gli stranieri – aumenta non poco tra i bambini dai 4 ai 17 anni. Si trovano in questa condizione ben 1,26 milioni di minori, contro gli 1,2 milioni del 2017. Al Sud quasi uno su 6. Per Save the Children “la povertà minorile rappresenta una piaga diffusa che affligge il presente e il futuro dei bambini e delle bambine in tutto il Paese e in modo particolare in quei luoghi dove minori sono le opportunità di crescita e di sviluppo. È sempre più urgente e indispensabile che la politica lavori a un piano nazionale di contrasto alla povertà minorile che non può più essere procrastinato”.

È considerato in povertà assoluta chi spende per consumi meno di una soglia variabile a seconda dell’area geografica e della tipologia familiare: per esempio, per un adulto (di 18-59 anni) che vive solo la soglia è pari a 834,66 euro mensili se risiede in un’area metropolitana del Nord, a 749,67 euro se vive in un piccolo comune settentrionale, a 563,77 euro se risiede in un piccolo comune del Mezzogiorno. Nel suo report, l’Istat non rileva variazioni significative per quanto riguarda la povertà assoluta rispetto al 2017 nonostante una diminuzione della spesa complessiva delle famiglie in termini reali. Questo perché le famiglie con minore capacità di spesa, e quindi a maggiore rischio di povertà, mostrano una tenuta dei propri livelli di spesa, con conseguente miglioramento in termini relativi rispetto alle altre. L’intensità della povertà, cioè quanto l’esborso mensile delle famiglie povere è mediamente sotto la linea di povertà in termini percentuali, si attesta nel 2018 al 19,4%, un punto sotto rispetto al 20,4% del 2017, da un minimo del 18,0% nel Centro a un massimo del 20,8% al Sud. I nuclei in povertà relativa,

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https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/06/18/poverta-istat-colpisce-18-milioni-di-famiglie-e-5-milioni-di-individui-incidenza-aumenta-tra-i-bimbi-al-sud-uno-su-6/5263220/

 

 

 

 

 

Immigrati con la pensione sociale: incassano e tornano al loro Paese

I casi in tutta Italia: oltre 500 stranieri pizzicati ad aggirare la legge. Incassano l’assegno Inps, ma poi tornano a vivere nei Paesi d’origine

Angelo Scarano – 17/06/2019

Sarebbero circa 500 i casi messi nel mirino, per un valore totale di circa 10 milioni di euro.

Sono i soldi finiti nelle tasche di immigrati che, dopo aver maturato le condizioni e i diritti per l’assegno sociale, se ne tornano nel loro Paese alle spese del welfare italiano. Costringendo poi l’Inps o gli investigatori a scoprire se sono ancora in possesso dei requisiti per incassare il benefit.

La legge infatti è chiara: uno straniero può accedere all’assistenza se ha 66 anni e sette mesi di età, se è residente nel Belpaese o se ha il permesso di soggiorno da almeno dieci anni.

Attenzione, però, se l’immigrato se ne sta per più di 30 giorni all’estero,

l’assegno andrebbe sospeso.

Ma non sempre accade e succede che alla fine,

come riporta La Verità,

le indagini portino a scoperchiare casi eclatanti.

 

È successo a febbraio del 2018, quando 182 stranieri – ufficialmente

 

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http://www.ilgiornale.it/news/cronache/immigrati-pensione-sociale-incassano-e-tornano-loro-paese-1712429.html

 

 

 

 

 

Armonia e controllo: cos’è il sistema di credito sociale di Pechino

7/08/2018 di Giorgio Cuscito

 

Il Partito comunista cinese (Pcc) vuole lanciare il sistema di credito sociale (shehui xinyong tixi, analizzato nel dettaglio più avanti) entro il 2020 per uno scopo eminentemente geopolitico: assicurarsi in maniera strutturata la stabilità della Cina, paese con un miliardo e quattrocento milioni di abitanti che si appresta ad affrontare sfide dall’enorme impatto sociale.

Basato su una capillare raccolta dati su individui, imprese ed enti governativi e un meccanismo di premi e sanzioni, il complesso sistema di valutazione comportamentale ha due obiettivi.

Il primo è istituzionalizzare e digitalizzare le forme di controllo già esistenti. Basti pensare al vincolo tra diritti sociali, luogo di nascita e monitoraggio della popolazione derivante dall’hukou, il sistema di residenza lanciato da Mao Zedong negli anni Cinquanta e oggi in fase di riforma. Oppure ai danwei, le unità di lavoro attraverso cui il Partito monitorava i comportamenti dei cittadini. Dalla prospettiva di Pechino, è necessario anteporre la confuciana armonia collettiva alla sfera individuale e impedire che la sovranità del Pcc sia messa a rischio dall’impatto sociale di dossier spinosi: rallentamento dell’economia, divario di ricchezza tra città e campagna e tra regioni costiere e interne, alti livelli d’inquinamento, aumento del tasso di urbanizzazione e d’invecchiamento.

Il secondo obiettivo è stimolare la “buona condotta” di cittadini, enti pubblici e privati ed elevare la trasparenza delle transazioni economiche.

Posto che i problemi sopramenzionati potrebbero ripercuotersi pesantemente sulla vita della popolazione, l’aumento della coscienza civica e la maggiore trasparenza offerta dal credito sociale dovrebbero aiutare a sanare l’eventuale sfiducia verso la leadership del Pcc. Del resto, la campagna anticorruzione con cui il presidente Xi Jinping sta sgominando i suoi antagonisti serve anche a eliminare le “mele marce” dal Partito e dalle Forze armate. Così da dimostrare l’affidabilità del governo.

L’attuazione del sistema del credito sociale è lungi dall’essere completa. Al momento ne esistono due tipi.

Il primo, quello pubblico, concepito negli anni Novanta e promosso dal 2014, sarà attuato su scala nazionale entro due anni. La sperimentazione è in corso in diverse città, per esempio Hangzhou (provincia dello Zhejiang) o Rongcheng (provincia dello Shandong). Nel secondo centro urbano, l’applicazione su base volontaria sta riscuotendo un discreto successo. Lo scopo del sistema è valutare il comportamento di individui, imprese ed enti pubblici in diverse aree (dal pagamento delle tasse alla credibilità giudiziaria) e incentivare il rispetto delle leggi in quattro macro-gruppi di attività: amministrative, commerciali, delle organizzazioni sociali e del sistema giudiziario. Il meccanismo dovrebbe ridurre alcuni problemi che affliggono oggi la Repubblica Popolare, quali contraffazione, scandali sanitari e scarsa trasparenza finanziaria. Il sistema informatizza e integra i dati che il governo cinese possiede già su tutte le attività dei cittadini, degli enti pubblici e di quelli privati che

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http://www.limesonline.com/rubrica/armonia-e-controllo-cosa-e-il-sistema-di-credito-sociale-di-pechino-cina?refresh_ce

 

 

 

 

Seawatch, Silvia Sardone: “Chi decide che la Libia non è un porto sicuro? Si vuole creare un problema”

18 giugno 2019

“Non lo decido io e non lo decide la Sea watch, anche se lo ha fatto, lo decidono le norme internazionali se la Libia è o non è un porto sicuro“.

Silvia Sardone, ex Forza Italia passata alla Lega, ospite di Tiziana Panella a Tagadà, su La7, si scalda durante il dibattito in studio sulle Ong e la questione immigrazione: “Se la Libia non lo è Malta e la Tunisia? E’ d’accordo

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https://www.liberoquotidiano.it/news/politica/13474133/seawatch-silvia-sardone-chi-decide-libia-porto-sicuro-ong-creare-problema.html

 

 

 

 

“Porti in Libia sicuri per le navi”. Smentita l’ipocrisia di Ue e Ong

Una società assicurativa spiega: “In Libia porti sicuri per navi e equipaggi”. Gli sbarchi assistiti dall’Oim. Ma le Ong insistono

Angelo Scarano – Mar, 18/06/2019

Sempre l’Italia. Sempre un porto nostrano. Ormai i salvataggi nel Mediterraneo si sono trasformati in un ritornello stanco che si ripete di giorno in giorno, mese dopo mese: le Ong caricano immigrati in area Sar libica, fanno rotta verso il Belpaese, chiedono un “porto sicuro di sbarco” e ignorano sia Tripoli che Malta.

La motivazione ufficiale è che Sea Watch, Mediterranea e via dicendo non considerano la Libia un porto sicuro in cui sbarcare le persone. “Ci siamo diretti verso Lampedusa – dice a La7 Giorgia Linardi, portavoce di Sea Watch Italia che è ferma al largo di Lampedusa- perché la Libia non costituisce un porto sicuro e dunque non è un’opzione” e “non importa se l’indicazione è stata data da Tripoli”.

La pensa così anche il Consiglio d’Europa, che oggi si è fiondato a spalleggiare le Organizzazioni non governative. “I migranti salvati in mare non dovrebbero mai essere sbarcati in Libia, perché i fatti dimostrano che non è un Paese sicuro“, ha detto all’Ansa Dunja Mijatovic, commissario per i diritti umani. Lo stesso ha fatto anche la Commissione europea, che non riconosce Tripoli come area sicura in cui sbarcare. “Le navi che battono bandiera europea sono obbligate a rispettare il diritto internazionale e il diritto sulla ricerca e salvataggio in mare che

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http://www.ilgiornale.it/news/cronache/porti-libia-sicuri-navi-smentita-lipocrisia-ue-e-ong-1713002.html

 

 

 

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

Bancarotta Chil Post, “padre di Luca Lotti firmò l’ok al mutuo per Tiziano Renzi”. Nei giorni in cui Matteo fu eletto sindaco

Secondo il quotidiano Libero, il 26 giugno 2009, 4 giorni dopo la vittoria dell’allora “rottamatore” alle elezioni comunali a Firenze,

 

il funzionario della Bcc di Pontassieve Marco Lotti dava il primo parere favorevole alla concessione di un prestito da 697 mila euro alla società del papà del presidente del Consiglio.

 

Che da primo cittadino assunse Luca e la moglie Cristina nella sua segreteria

di F. Q. | 17 Settembre 2015

 

Ventidue giugno 2009. Matteo Renzi diventa sindaco di Firenze. Nelle stesse ore la Bcc di Pontassieve, città dove vive la famiglia del presidente del Consiglio, concede al suo papà Tiziano un mutuo da 697mila euro. A firmare le carte è il funzionario della banca Marco Lotti, papà di Luca – oggi sottosegretario alla presidenza del Consiglio e braccio destro del premier – che poco dopo sarebbe diventato responsabile della segreteria del neosindaco. Che avrebbe poi assunto nella sua segreteria anche Cristina Mordini, che di Luca Lotti è la moglie. E’ la ricostruzione fatta dal quotidiano Libero dei giorni in cui alla Chil Post, società del padre del premier, veniva concesso il prestito: oggi a Genova davanti al gip Roberta Bossi si teneva l’udienza preliminare per sciogliere la riserva sulla posizione di Tiziano Renzi, nelle vicende della società è indagato per bancarotta fraudolentaIl 9 giugno il gip non aveva accolto la richiesta della Procura, che a fine marzo aveva chiesto che il padre del premier fosse scagionato.

Una storia di paese risalente al 2009, che con la veloce ascesa politica di Matteo Renzi assume rilievo nazionale. Tutto ruota attorno ad un muto concesso quell’anno alla Chil Post, fondata nel 1993 per la distribuzione di giornali e la realizzazione di campagne pubblicitarie e ceduta nel 2010 dalla famiglia del premier, da parte della Banca di credito cooperativo di Pontassieve. Dalle carte sul procedimento sul fallimento che Libero dice di aver letto, emerge il nome di Marco Lotti, ascoltato dalla procura di Genova come persona informata dei fatti. Ad attirare l’attenzione degli inquirenti è il ruolo avuto dall’uomo nella concessione del mutuo da quasi 700mila euro. Tutto ha inizio il 15 giugno 2009, quando la finanziaria regionale, la Fidi Toscana, firma la delibera con cui garantisce la copertura dell’80% del prestito. Una settimana dopo, il 22 giugno, Matteo Renzi vince le elezioni e diventa primo cittadino di Firenze: quel giorno la banca di Pontassieve apre l’istruttoria per l’anticipo di 697mila euro alla Chil.

Giusto 4 giorni più tardi, il 26 giugno, scrive ancora Libero, e Lotti senior dà il primo via libera: “Potremmo diventare la banca di riferimento del richiedente”, scrive il funzionario nel suo report vergato e firmato quel giorno. Tutto ciò accadeva “nel giugno del 2009, negli stessi giorni in cui il figlio Luca diventava il capo della segreteria politica di Matteo Renzi appena eletto sindaco di Firenze”, si legge in una nota firmata dal capogruppo di Fratelli d’Italia in Regione Toscana Giovanni Donzelli e diramata in seguito alle notizie pubblicate da Libero. Il 14 luglio Lotti scrive un secondo parere favorevole e il 22 arriva la delibera della banca per la concessione del mutuo

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https://www.ilfattoquotidiano.it/2015/09/17/bancarotta-chil-post-padre-di-luca-lotti-firmo-lok-al-mutuo-per-tiziano-renzi-nel-giorno-in-cui-matteo-fu-eletto-sindaco/2044580/

 

 

 

BELPAESE DA SALVARE

Contagio turco e Calimero italiano

Una Turchia che sceglie armamenti sgraditi alla NATO rischia una rappresaglia finanziaria USA che può innescare una crisi fra le banche europee esposte. Ma a Roma c’è un capro espiatorio

 

15 giugno 2019 di Giuseppe Masala.

Mentre l’Italia viene bullizzata dalla cosca della Commissione Europea (con zelo particolare dal simpatico ricercatore di bosoni baltici Valdis Dombrovskis) per un preteso minimale scostamento dell’insignificante rapporto debito/pil, un fantasma s’aggira per l’Europa. E’ il fantasma del debito turco.

Facciamo un passo indietro. Un anno fa circa Erdogan decide di acquistare il sistema missilistico antiaereo russo S-400 al posto del Patriot americano. La scelta non è di poco conto, il sistema d’arma russo è ovviamente incompatibile con il dispositivo di difesa Nato nel quale sono integrate le forze armate turche. Di fatto dunque si tratta di una scelta che pone la Turchia (paese strategico e secondo esercito della Nato) fuori dalla Nato dal punto di vista militare se non da quello politico e diplomatico. Le reazioni occidentali e americane non tardano ad arrivare: viene bloccata la vendita degli aerei americani di V generazione F-35.

Non solo, immediatamente la lira turca intra in fibrillazione.

 

Questo aspetto monetario e finanziario non è di irrilevante portata. La Turchia è un paese che all’epoca viveva un boom economico grazie all’irrorazione di capitali provenienti dall’estero. La fuga di questi capitali – non esattamente estranea alle questioni diplomatiche e militari sopra accennate – impose una manovra di aggiustamento strutturale con la finalità di migliorare il proprio saldo delle partite correnti. Dunque, in definitiva fu imposta un’austerità tendente a rendere il paese meno dipendente dai capitali esteri (sulla via di fuga) e a bloccare la svalutazione della valuta locale.

Ad un anno circa da questi eventi ci risiamo: la Turchia non desiste dal suo intendimento di acquistare il sistema d’arma russo e rilancia anzi con l’intenzione di acquistare aerei di V generazione o cinesi o russi. Di fatto instaurando una situazione di No Fly Zone per le aereonautiche formalmente alleate della Nato. L’arrivo dei sistemi d’arma in suolo turco è ormai previsto per la fine del prossimo mese. Siamo agli sgoccioli.

Non ci vuole l’acume di Metternich per comprendere che di fronte ad una simile decisione di Erdogan

 

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https://megachip.globalist.it/guerra-e-verita/2019/06/15/contagio-turco-e-calimero-italiano-2042956.html

 

 

 

 

 

 

 

 

Sgarbi contro Formigli: ‘Io sono italiano, non sono affatto europeo’

 

17, giugno, 2019

 

Scontro tra Vittorio Sgarbi e Corrado Formigli: ‘Io sono italiano, non sono affatto europeo. Non capisco come Formigli possa essere europeo’.

 

Vittorio Sgarbi contro Corrado Formigli: ‘Noi siamo barbari invece l’Europa è

 

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https://www.imolaoggi.it/2019/06/17/sgarbi-contro-formigli-io-sono-italiano-non-sono-affatto-europeo/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Difesa a senso unico di Soros: la crociata di Gad Lerner su Rai3

Dopo l’articolo pubblicato su Repubblica, Gad Lerner è tornato a difendere il finanziere su Rai3 durante la sua nuova trasmissione. Una puntata a senso unico sulla tv pubblica

 

Roberto Vivaldelli – Mar, 18/06/2019

Gad Lerner corre in soccorso del finanziere George Soros. Quest’ultimo non ne avrebbe nemmeno bisogno, dato che è presidente e fondatore di una potentissima e ricchissima rete filantropica – la Open Society Foundations – osannata da tutta la stampa progressista mondiale.

Il miliardario e donatore “liberal”, promotore della diffusione della “democrazia” e dei “diritti umani” prima nei Paesi ex sovietici e poi in tutto il mondo, è stato mitizzato nella puntata del nuovo programma di Gad Lerner, L’approdo su Rai3, dal titolo Dagli al buonista!.

In studio con lui il professor e storico Adriano Prosperi e Sofia Ventura, docente di comunicazione politica presso l’Università di Bologna. “In questa puntata – si legge – andiamo in Guascogna, nella Francia occidentale, per incontrare nel suo castello Renaud Camus, ideologo della teoria della ‘Grande Sostituzione’ etnica cara alle destre europee, secondo cui l’immigrazione africana e islamica sarebbe favorita dalla grande finanza mondialista. George Soros ne sarebbe il burattinaio, Papa Francesco il profeta, i radical-chic i detestabili propugnatori, amici degli immigrati e quindi nemici del popolo”. Naturalmente, la narrazione proposta da Lerner è tutta a senso unico, senza possibilità di un confronto aperto con persone che la pensano diversamente dal giornalista.

Dopo l’elogio pubblicato su La Repubblica, Lerner torna a prendere le difese del finanziere liberal sul servizio pubblico in una trasmissione che trasuda dell’ego smisurato del conduttore. Gad Lerner fa apparire i critici dello speculatore come degli “antisemiti”, che criticano il suo operato soltanto perché è ebreo, o perché sono dei “complottisti” che credono alla bufala dei Protocolli dei Savi di Sion. “Soros rappresenta lo stereotipo perfetto di questo tipo di narrazione – spiega Sofia Ventura in studio, stuzzicata da Lerner – il complottismo si presenta sotto forma di un racconto, di una trama”. Lerner ricorda poi che “Soros viene definito uno schiavista” soltanto perché ha il buon cuore di finanziere le ong che operano nel Mediterraneo (ma non era una bufala?).

Il tentativo – maldestro – del conduttore è chiaro: prendere come esempio i critici del finanziere più ridicoli e deprecabili al fine di far passare il messaggio che tutti quelli che mettono in discussione le numerose iniziative del milionario di origine ungherese non hanno argomentazioni ma pregiudizi e sono, nel migliore dei casi, poco preparati e plagiati dalla “narrazione” sovranista. Nell’articolo pubblicato su Repubblica, il giornalista ha affermato che il fondatore dell’Open Society è stato demonizzato e spesso viene considerato, specialmente dalla destra populista come una sorta di ‘burattinaio’ degli attuali flussi migratori di massa e della ‘grande sostituzione’ che interesserebbe l’Europa.

Gad Lerner evita accuratamente di menzionare le critiche più strutturate e documentate mosse all’operato dello speculatore. Per quanto riguarda l’Italia, il finanziere divenne tristemente famoso durante il cosiddetto “mercoledì nero” del 16 settembre 1992, quando la lira italiana e la sterlina inglese furono costrette ad uscire dal Sistema Monetario Europeo (Sme) a seguito di una speculazione finanziaria da lui condotta attraverso il fondo Quantum: operazione che lo stesso Soros non ha mai rinnegato e di cui non si è mai pentito, come confermava in un’intervista pubblicata sull’Huffington Post.

Quel giorno lo “squalo” della finanza vendette lire allo scoperto comprando dollari, e ciò costrinse la Banca d’Italia a vendere 48 miliardi di dollari di riserve per sostenere il cambio, portando a una svalutazione della nostra moneta del 30%. Soros è stato così vittima delle critiche che, nel 1995, soltanto tre anni dopo quella spericolata speculazione finanziaria, ricevette la Laurea honoris causa presso l’Università di Bologna per volontà di Romano Prodi. L’ex presidente del Consiglio Bettino Craxi raccontò, in una rara intervista, ciò che successe

 

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http://www.ilgiornale.it/news/politica/gad-lerner-su-rai3-difesa-senso-unico-soros-1713035.html

 

 

 

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

Il contenimento infinito dell’Iran

 

L’Iran come a Russia, due paesi accomunati dalla maledizione della geografia, condannati a sperimentare politiche di contenimento che non avranno fine da parte delle grandi potenze mondiali

Emanuel Pietrobon – 13 giugno 2019

www.lintellettualedissidente.it

L’amministrazione Trump sembra aver rispolverato un vecchio sogno di egemonia globale chiamato il “Progetto per un nuovo secolo americano”, sviluppato negli anni ’90 da pensatori e strateghi appartenenti all’universo neoconservatore, come Robert Kagan, Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz, e John Bolton, l’attuale consigliere per la sicurezza nazionale di Trump. L’ambizioso obiettivo del think tank, oggi disciolto, ma le cui idee continuano a permeare gli ambienti della destra religiosa, del partito repubblicano e dell’eccezionalismo americano, era di sfruttare adeguatamente la vittoria nella guerra fredda per estendere l’egemonia americana in tutto il mondo, con particolare attenzione al Medioriente.

I sostenitori del secolo americano sono spesso ricordati per la presunta influenza giocata nella scrittura dell’agenda estera dell’era Bush Jr, in particolare per il lancio della cosiddetta Guerra al terrore, durante la quale l’Iraq di Saddam Hussein fu colpito da un cambio di regime. Fu l’inizio del caos in tutto il Medioriente, furono sparsi i semi per la diffusione di una cronica instabilità, guerre per procura, violenza interreligiosa, alimentando l’ormai ventennale radicalismo islamico, di cui non Al-Qaeda, ma la nascita dell’autoproclamato Stato Islamico senza dubbio rappresenta l’esperienza più emblematica.

Il problema non era l’Iraq in sé, ma la presenza di Saddam, un prezioso partner strategico per l’Occidente durante la guerra fredda, convinto, armato e finanziato per dichiarare guerra all’Iran, ma che con il tempo era divenuto intollerabile per via di pericolose ambizioni espansionistiche nella regione arabo-persica. L’Iran, d’altra parte, era descritto dal think tank come una minaccia di diversa natura, ossia non eliminabile attraverso un semplice cambio di regime, ma necessitante di una strategia di contenimento spalmata sul lungo termine, per via di una serie peculiarità culturali e geopolitiche.

Recentemente il New York Times ha pubblicato un’analisi molto interessante a cura di Carol Giacomo, intitolata “Iran and the United States: Doomed to Be Forever Enemies?”. Giacomo descrive con cura le fasi che hanno portato i due paesi a trasformarsi da storici partner ad acerrimi nemici, e le conclusioni sono condivisibili: entrambi dovrebbero trovare un modo di cooperare per evitare che l’escalation diventi ancora più pericolosa, con ricadute sulle intere relazioni internazionali.

Il vero problema, che analisti e politici sembrano non capire, è il seguente: tra Iran e Stati Uniti non potrà mai esserci una pace duratura, perché Teheran, proprio come Mosca, è condannata dai difensori dell’impero americano ad essere vista come un nemico naturale. Iran e Russia condividono una storia ed un destino simili, è stato proprio il senso di accerchiamento perenne da potenze straniere miranti a deprivarle delle loro naturali sfere di influenza, e sottometterle con governi fantoccio, a spingerle ad avvicinarsi sempre di più nell’ultima decade.

Il contenimento antirusso e anti iraniano condividono anche un comune punto d’origine: il Grande Gioco. A quel tempo, però, non erano gli Stati Uniti ad avere un’agenda imperialistica nell’Asia centrale e mediorientale, ma Londra e Mosca. Alcuni paesi sono vittime della cosiddetta maledizione della risorse, altri, come l’Iran e la Russia, sono vittime di quella che può essere ribattezzata la maledizione della geografia. L’Iran è il vero punto di incontro tra Medio Oriente e Asia orientale, tra Asia russa e subcontinente indiano, è sede di una civiltà millenaria che ha prosperato nei secoli sfruttando tale posizione geostrategica, vantando contatti remoti con le civiltà europea, russa, ottomana, indiana e cinese.

Diversamente da altri paesi dell’area, l’Iran ha anche una tradizione di lunga data di stabilità politica e sociale, un’identità nazionale plurisecolare resistita ad ogni tentativo di occidentalizzazione, proprio perché ben definita e non costruita artificialmente, sullo sfondo di una disposizione considerevole di risorse strategiche, come petrolio e gas. È per via di questi fattori che l’Iran è, dai tempi del Grande Gioco, al centro degli scontri egemonici tra le grandi potenze mondiali. Il Grande Gioco fu un periodo di contrapposizione, principalmente tra impero russo e britannico, durato dagli anni ’30 agli anni ’90 del 1800.

I britannici avevano paura che l’avventurismo russo in Asia si potesse concludere con la caduta di Persia e Turchia nella sfera d’influenza russa, con inevitabili ripercussioni sul controllo del subcontinente indiano, e quindi dell’estremo oriente. I russi temevano che i britannici potessero usare la loro influenza sulle terre a maggioranza islamica per provocare moti antirussi sia nell’impero che nei khanati pro-Russia. Una situazione perdurante ancora oggi, ma che vede gli Stati Uniti ad aver sostituito i britannici.

Il declinante impero persiano era tra due fuochi, guidato dalla dinastia Qajar. La famiglia riuscì a restare al potere fino alla prima guerra mondiale, trovando un modo per soddisfare sia gli interessi russi che britannici, anche se in maniera precaria. Ragion per cui nel primo dopoguerra i britannici approfittarono della Rivoluzione russa per deporre i Qajar in favore dei Pahlavi, considerati più competenti e propensi a difendere l’interesse nazionale britannico.

Reza Shah fu scelto dai britannici come il capo della dinastia e il paese, almeno

 

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https://www.lintellettualedissidente.it/esteri-3/iran-contenimento-usa-trump/

 

 

 

 

 

 

 

Scenari futuri della globalizzazione
Giuseppe SACCO

 

 

«L’uomo del futuro sarà colui
che avrà la memoria più lunga»
F. Nietzsche

 

Il “futuro prevedibile”

Tracciare uno scenario sul futuro di un fenomeno assai complesso come la globalizzazione a un orizzonte temporale di più anni implica la tacita accettazione dell’idea che i fattori che lo hanno determinato abbiano carattere duraturo, e che il fenomeno stesso sia destinato a continuare in avvenire più o meno con le stesse caratteristiche che esso presenta attualmente, ed a plasmare domani la realtà internazionale se non proprio in maniera analoga a come ciò avviene oggi, almeno in maniera altrettanto determinante. Uno scenario sul futuro della globalizzazione sconta perciò l’assunto di base che i grandi flussi che determinano questo fenomeno possano essere considerati come elementi stabili del periodo di tempo per il quale è possibile fare previsioni.

Tale periodo – il “futuro prevedibile” – varia, naturalmente, a seconda dei fenomeni esaminati. Esso è, per esempio, di vari decenni per i fenomeni demografici, ma solo di qualche anno per quelli economici, e dell’ordine dei mesi per quelli politici. Nel caso della globalizzazione, fenomeno a carattere prevalentemente socioeconomico – e che consiste in un violento accrescimento delle reciproche interferenze tra ciò che accade in società ed attività diverse – l’estensione del “futuro prevedibile” non va oltre gli 8-13 anni.

Guardando all’indietro è facile peraltro vedere che l’epoca della globalizzazione ha già coperto un arco temporale più o meno della stessa lunghezza. Essa si è estesa sull’ultimo quindicennio del ventesimo secolo, ed ha coinciso con gli anni del post-comunismo, in cui si sono spontaneamente e potentemente sviluppati alcuni flussi che erano in precedenza impediti o fortemente condizionati da esigenze politiche legate alla Guerra Fredda. Si tratta soprattutto di flussi trans-frontiera, dalla cui evoluzione dipendono gli scenari della globalizzazione, e che possiamo raccogliere in quattro categorie:
– flussi informativi (trasferimento di tecnologie o diffusione di media come Internet, in precedenza coperto dal segreto militare),
–   flussi di investimento (cioè della libera localizzazione di attività produttive, e soprattutto manifatturiere, in paesi a basso costo del lavoro, dove in precedenza l’impresa estera era sempre esposta al rischio della nazionalizzazione),

– flussi accresciuti di merci (essendo alcuni paesi del terzo mondo diventati grandi esportatori di prodotti manifatturati),
–     flussi di persone (ma solo in misura nettamente inferiore agli altri flussi per la crescente resistenza delle società più ricche ad accogliere immigrati provenienti da altri continenti e da altre culture).

Questo stretto collegamento tra il fenomeno della globalizzazione e le condizioni del post Guerra Fredda fa sì che l’assunto di stabilità futura relativo ai flussi che determinano la cosiddetta globalizzazione non sia indiscutibile. Le condizioni che hanno reso possibile i flussi in questione sono state strettamente legate ad una fase storica, oggi terminata, che inizia con la crisi del blocco dell’Est, e che deriva dai modi in cui il comunismo è giunto al collasso. Dopo l’implosione dell’URSS, e fino all’undici settembre, le società civili ed economiche di tutto il mondo hanno infatti goduto di un clima euforico, in cui coloro che non facevano della guerra e della politica la loro attività principale hanno pensato di potersi godere il windfall of peace, i benefici del rilasciamento della tensione. E tale sentimento può essere capito, e il beneficio misurato facilmente, se si pensa al senso contrario di smarrimento che aveva attanagliato, ad esempio, gli ambienti Nato, postisi subito alla ricerca di un nuovo teatro di conflitto per non andare, come essi stessi dicevano “out of business”. La speranza suscitata dal superamento dei “blocchi” può essere cioè misurata dal timore per il futuro di ciascuno dei singoli “addetti ai lavori” della guerra fredda, moltiplicato per l’intera umanità.

Il quadro di questa che potremmo definire “l’ora della ricreazione” del post-comunismo ha subito, a partire dall’undici settembre, modifiche profonde, e non tornerà probabilmente mai più alla stessa coralità, alla stessa spontaneità, alla stessa “innocenza”. Anche se l’economista Paul Krugman ha tracciato – in un suo personale esercizio previsionale – un plausibile scenario secondo il quale tra pochi anni nessuno si ricorderà più delle Torri Gemelle, ma tutti subiranno ancora le conseguenze del caso Enron, è un fatto difficilmente contestabile che il corso degli avvenimenti è stato radicalmente mutato dalla reazione americana agli attacchi subiti sul proprio territorio nell’autunno del 2001. Tali attacchi hanno portato la Casa Bianca a proiettare la propria potenza e i propri interessi sul mondo intero, nell’intento di non lasciare nulla, negli eventi e nelle trasformazioni mondiali, né al caso né all’iniziativa di altri attori.

L’era post-globale

Il nuovo clima politico creatosi con il diffondersi della paura per il terrorismo condiziona negativamente infatti tutti e quattro questi tipi di flusso.
Per quel che riguarda i flussi informativi si ricorderanno in primo luogo le misure di oscuramento e di censura assunte per il timore che certi servizi giornalistici contenessero comunicazioni in codice per i terroristi, e via via tutte le altre iniziative e proposte in questo senso, sino alle ventilate misure di controllo sul prestito dei libri da parte delle biblioteche e di schedatura dei lettori sulla base degli interessi culturali. Ma, a parte questi casi che hanno dato visibilità al fenomeno, i flussi informativi sono stati soprattutto ridotti dallo sgonfiarsi della “bolla” che si era creata attorno alle cosiddette dot-com, cioè alle aziende operanti nei “settori della convergenza” (telecomunicazione – elettronica – media). La “società dell’informazione” non va, naturalmente, considerata archiviata, perché le innovazioni introdotte da Internet non vengono meno, ma essa risulta sostanzialmente rallentata dagli aspetti di caduta della privacy e di possibilità di controllo inerenti alla stessa tecnologia e che si svilupperanno nei prossimi anni ad un ritmo e con un’ampiezza verosimilmente assai maggiore di quella della “rivoluzione dell’informazione”, le cui prospettive per una svolta epocale vanno quanto meno riviste e rinviate ad un orizzonte temporale più lontano.

Anche se in maniera diversa, anche i flussi di investimento attraverso le frontiere hanno subito – e continueranno a subire per tutto il breve periodo del “futuro prevedibile” in campo finanziario – le conseguenze della fine di quella che abbiamo chiamato la “età dell’innocenza” coincidente con la globalizzazione. Non solo la caccia ai depositi bancari e ai finanziatori del terrorismo ha un po’ spaventato gli investitori internazionali, spingendo – ad esempio – i capitali dei paesi arabi ed islamici ad abbandonare i piazzamenti americani, ma soprattutto si è rotto all’interno stesso del mondo occidentale il clima di fiducia tra investitori ed intermediari finanziari. Già la crisi delle “tigri asiatiche”, nel 1997-1998, aveva dimostrato la minaccia che la globalizzazione finanziaria (con le connesse instabilità) faceva pesare sull’insieme del fenomeno della globalizzazione. In particolare la crisi dell’Indonesia, che era entrata nel circuito mondiale dei liberi flussi finanziari senza che la struttura produttiva del paese risultasse solidamente integrata nel sistema mondiale, aveva fatto singolare contrasto con la solidità della Cina, la cui tenuta – in assenza di convertibilità della moneta e in un clima di prudenza nei confronti della globalizzazione finanziaria – aveva di fatto posto termine alla serie di crisi a catena in Asia, dimostrando che il fenomeno determinante della globalizzazione restava l’integrazione produttiva. Della crisi e del rallentamento dei flussi finanziari hanno per altro approfittato le istituzioni statuali di alcuni importanti paesi per segnare alcuni non trascurabili punti nei confronti dei soggetti economici internazionali, scatenando una lotta contro i paradisi fiscali. Si è verificato così un vero capovolgimento. Da un lato si è avuto un riequilibrio tra Stati e imprese a favore dei primi, andando contro una delle principali caratteristiche della globalizzazione, mentre la costituzione di un organismo di azione finanziaria internazionale dai poteri sempre crescenti poneva un potente freno alla capacità delle diverse nazioni di concorrere tra loro per attrarre investimenti esteri, con uno sviluppo che era veramente l’ultimo che ci si sarebbe attesi dopo la fine del comunismo e dello statalismo in economia.

Per quanto riguarda i flussi di merci, è facile constatare che le instabilità e il declino della globalizzazione finanziaria hanno finito per consolidare la divisione internazionale del lavoro, quale essa si è configurata da quando le politiche di industrializzazione export led di quattro paesi (o meglio spezzoni di paese: Taiwan, Hong Kong e Singapore, piccoli frammenti della immensa Cina, e la Corea del Sud, a sua volta frammento di un paese diviso) erano diventate il modello applicato per uscire dal sottosviluppo da gran parte dei paesi dell’Asia orientale più qualche timida imitazione latino-americana, mentre da questa parziale “globalizzazione produttiva” restavano interamente escluse l’Africa e il mondo islamico. In altri termini, il fenomeno dell’inclusione del Terzo Mondo nel sistema mondiale del lavoro industriale era rimasto limitato alla sola regione sino-mongolica, cioè ad un quadro non globale, ma sub-globale. Di conseguenza, i nuovi flussi mondiali di merci hanno mostrato una tendenza a cristallizzarsi solo sugli assi tra Asia orientale e Costa occidentale degli Stati Uniti e in minor misura tra Asia orientale ed Europa. Questi due assi, aggiunti al tradizionale asse commerciale nord Atlantico, finivano per mostrare un sistema commerciale mondiale ridotto a una sola parte del Pianeta – relativamente piccola – senza nessuna vera tendenza a diventare globale. A ciò si aggiunge che, contrariamente a tutte le dichiarazioni di principio, il governo della principale potenza economica del mondo ha mostrato tendenze chiaramente autarchiche, aggiungendo nuove sovvenzioni alla propria agricoltura protetta e imponendo dazi doganali assai alti sull’acciaio. Sul piano operativo, poi, il commercio mondiale non può che essere influenzato che in senso antiglobalista, dopo l’undici settembre, dal progetto americano di controllare eventuali infiltrazioni terroristiche negli Stati Uniti riducendo a una decina i porti di imbarco per le merci dirette negli Stati Uniti. Da una assai incompleta globalizzazione si è così passati a uno scenario per i prossimi decenni che evoca addirittura le vie commerciali monopolizzate del Medioevo.

Per quel che riguarda infine i flussi migratori da un paese all’altro e da un continente all’altro, essi – come già abbiamo detto – sono sempre stati quelli che hanno incontrato le maggiori resistenze, e che anche nel periodo post-comunista sono rimasti larghissimamente inferiori ai trasferimenti di popolazione verificatisi nel XIX secolo e nei primissimi anni del XX. Qualsiasi scenario in questo campo, che esso si riferisca all’Europa o agli Stati Uniti (cioè a quelli che sono stati paesi di destinazione di tali flussi) deve tener conto di sviluppi politici interni che fanno intravedere una netta chiusura ed un clima di paura e di sospetto verso la diversità. Ciò fa apparire il capitolo demografico-culturale come quello più chiaramente significativo della fine della globalizzazione e della multiculturalità che essa sembrava promettere per la maggior parte delle società del mondo.

Gli scenari dell’ordine mondiale

È possibile insomma sostenere – alla luce dei fatti e dell’evoluzione dei flussi sopra descritti – che la globalizzazione è già terminata, e che ogni esercizio previsionale all’orizzonte di 8-13 anni deve prendere in considerazione, come tendenze prevalenti e determinanti, non più – o non solo – i flussi spontanei divenuti così impetuosi a partire dalla metà degli anni ottanta, quando si manifestarono i primi vacillamenti del sistema sovietico, ma soprattutto quello che potremmo definire e chiamare il globalismo unilaterale americano. Questa azione unilaterale non avviene però in un mondo privo di altri soggetti collettivi con capacità autonome di reazione e di iniziativa. Vanno perciò anche tenuti presenti i conseguenti tentativi da parte degli altri attori mondiali di dar vita a una sorta di globalismo multilaterale.

Nel comportamento dell’attore internazionale destinato a restare comunque determinante nel futuro prevedibile – gli Stati Uniti -, ad un atteggiamento di principio nel complesso favorevole al proseguimento della globalizzazione (apertura dei mercati, deregolamentazione, riconoscimento del primato delle imprese sui poteri statuali) fa riscontro una prassi non sempre coerente. Per il prossimo decennio, perciò, è prevedibile il passaggio da un ordine mondiale tendenzialmente determinato dall’adesione spontanea di tutti o quasi gli attori ad un insieme di regole, o semplicemente di prassi, ad un sistema obbligato a gravitare verso la potenza egemone, anche per una evidente tendenza di tutti i poteri consolidati ad emarginare e a trattare con sospetto come pericolosi, non solo i propri nemici, ma anche ogni forza non politically correct.

Un “ordine” a decisioni altamente decentrate quale è stato quello dell’era della globalizzazione, sarà probabilmente sostituito da un “sistema” gerarchizzato, anche se organizzato a “geometria variabile” attorno alla potenza centrale. Al momento, tale sistema non ha ancora assunto rigidità. Non è cioè ancora chiaro – ad esempio – se la Russia sarà una potenza marginale del sistema americanocentrico oppure un elemento “revisionista” – e quindi parzialmente antagonista – che rivendicherà parte degli spazi e margini di influenza precipitosamente ceduti nel decennio successivo al disfacimento dell’URSS, e in tutto il periodo post-comunista. Sull’arco del futuro prevedibile, è comunque probabile che gli elementi di autonomia e di rivalità si accentueranno, in Russia, rispetto a quelli di subordinazione sistemica agli USA.

Analogamente, pur non essendo chiara – probabilmente non è stata ancora neanche decisa a Pechino – la linea della Cina, è possibile tracciare un quadro delle tendenze alla scadenza temporale del prossimo decennio. Quel che è chiaro è che l’economia cinese avrebbe bisogno di un minimo di altri dieci anni (e forse più) di sviluppo comparabile a quello successivo al 1978 per potersi permettere un comportamento da potenza in grado di limitare la preponderanza degli Stati Uniti. Ciò è vero – naturalmente – solo a condizione che non si presentino forti elementi di discontinuità in un senso o in un altro, ad esempio, una crisi del modello economico americano, oppure un breakthrough scientifico-tecnico che ne consolidi la supremazia in maniera non capovolgibile per un lunghissimo periodo. In tal caso, i tempi di una forte “autonomizzazione” politico-militare della Cina rispetto agli USA, oggi predibile all’orizzonte temporale del 2012-15, potrebbero invece essere accelerati da un esaurimento dei mercati di esportazione dei prodotti cinesi e da una conseguente riconversione del sistema produttivo della Cina verso i consumi da potenza (cioè verso l’infrastrutturazione militare del Paese).
L’emergere degli USA come potenza egemone del nuovo ordine mondiale è stata facilitata, nell’ultimo decennio, dal fatto che l’America godeva di una leadership riconosciuta da tutto l’Occidente in funzione anticomunista e dalla Cina in funzione antisovietica. A ciò si è aggiunto il bisogno dell’ex superpotenza rivale di essere “recuperata”, dopo la rinuncia alla funzione imperiale e i successivi dissolvimento dell’URSS e saccheggio della Russia condotto dall’esterno. Tutto ciò ha consentito agli Stati Uniti di utilizzare le strutture di comando concepite nel quadro della riconosciuta funzione di leadership del passato, nel periodo dell’equilibrio tra blocchi, per tentare di imporre un dominio globale che non si giustifica più nei rapporti di forza economica tra i vari Paesi (e gruppi di Paesi) del mondo. Nel giro di 8-13 anni è prevedibile quindi una profonda ristrutturazione degli organismi e delle alleanze nella logica del nuovo equilibrio mondiale.

La riorganizzazione delle alleanze in maniera ancor più radicale di quella che ha portato alla creazione del Consiglio Russia-Nato è un evento che caratterizzerà il quadro del prossimo decennio, naturalmente in maniera consona ai rapporti di forza, militari ed economici, tra i vari soggetti del sistema mondiale. E questi rapporti di forza sono caratterizzati dal fatto che la fine della Guerra Fredda ha coinciso con un rilasciamento dello sforzo militare di tutti i Paesi tranne l’America. Ciò, nel breve termine, ha dato agli Stati Uniti una superiorità militare prima mai conosciuta. E in prospettiva, è possibile che questa superiorità sia destinata ad accentuarsi, in quanto in America tutta la ricerca tecnologica, e persino scientifica, è finanziata e orientata a fini militari, mentre nel resto del mondo ha altre priorità. In particolare, in Giappone è orientata alla comprensione dei fenomeni climatici. Per questi fenomeni invece l’America, almeno nei primi mesi dell’amministrazione Bush, ha dimostrato scarsa sensibilità.

Un elemento di forte incertezza sullo scenario della realtà internazionale, all’orizzonte 2010-2015, è se sia o meno possibile estrapolare questa situazione attuale ed ipotizzare che la divergenza tra l’impegno militare degli Stati Uniti e degli altri Paesi duri ancora in futuro. In questo arco temporale appare in realtà improbabile che gli Americani saranno disposti a pagare per uno sforzo in campo militare analogo, se non maggiore, a quello del periodo della guerra fredda, mentre verosimilmente il resto del mondo sarà impegnato in obiettivi più orientati al benessere.

Tutto lascia pensare che ciò non avvenga, perché – al di là delle tensioni nel terrorismo – la realtà dei fatti è che non esiste una potenza rivale dell’America in grado di minacciare la sicurezza del Paese e di giustificare agli occhi del contribuente americano un tale sacrificio per molti anni. La teoria dello “scontro delle civiltà” che era destinata proprio a “inventare il nemico” per tenere mobilitata l’America e, possibilmente, il resto dell’occidente dietro di essa, è infatti troppo fragile. Non solo non si è realizzata l’alleanza islamico-confuciana (sicché il mondo islamico – anche quando fosse convertito in un nemico totale – non può da solo costituire una minaccia credibile), ma la stessa America rischia addirittura di conoscere un’altra fase di assenza di focus esterno come quella descritta dallo stesso Huntington alla fine del ’97.

Uno scenario non impossibile è infatti quello in cui – come reazione ad un accentuato protagonismo americano – una crescente chiusura dell’Europa su se stessa coincida con un riemergere della Russia come potenza regionale nel quadro di un ordine mondiale gerarchico con al vertice gli Stati Uniti. La Russia è infatti uno degli esportatori di petrolio su cui gli Stati Uniti puntano nella loro strategia di ridurre il peso dei Paesi Opec nella politica mondiale.
L’accettazione di tale posizione di leadership ha cominciato però a erodersi rapidamente, non molto dopo l’undici settembre, sicché è verosimile che all’ordine globale unilateralista a dominante americana venga rapidamente contrapposta la visione di un ordine globale multilaterale. Con tutti i limiti del trattato sul Tribunale Penale Internazionale, il contrasto su questo argomento tra Europa e Stati Uniti ne costituisce già un primo segno, ma altri e forse più importanti possono essere relativi al campo economico come ad esempio i contrasti in sede Gatt dalle cui disposizioni Washington pensa di essere sciolta unilateralmente. Anche la crisi del dollaro è in questo senso significativa. In passato, soprattutto nel decennio post-comunista, il deficit costante della bilancia commerciale americana era accettato dagli altri

   

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http://gnosis.aisi.gov.it/sito/Rivista23.nsf/ServNavig/8

 

 

 

 

 

 

CULTURA

Emil Cioran, Parigi è l’essenza del fallimento (ed è necessaria per questo)

18 giugno 2019

 

Impossibilitato ad essere poeta, Cioran era costretto a brancolare «al di qua dell’ispirazione», ad accasciarsi «alle soglie del canto». Condannato a frequentare i poeti da «amico», o meglio, da «parassita». A Parigi

Un anno prima di partire per la Francia Cioran aveva scritto: «Chi si distacca dalla propria nazione diventa un fallito». È proprio in questa nuova veste di diseredato che Cioran inizia a Parigi la sua nuova esistenza di apolide. Tra vaghi propositi di ricerca filosofica e incerte borse di studio, si ritrova in realtà a vivere d’espedienti nel Quartier latin, accanto agli espatriati di ogni dove, deambulando senza meta nel ventre d’una città «che vi culla di illusorie promesse di felicità per meglio divorarvi».

In una corrispondenza da Parigi per il giornale romeno «Cuvântul», Cioran ritrae i

 

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https://www.linkiesta.it/it/article/2019/06/18/emile-cioran-poesia-inedito/42557/

 

 

 

 

Estetica e politica dell’orfismo

Un libro di Gianni Carchia

12 GIUGNO 2019 – Daniela Angelucci

Nelle tesi Sul concetto di storia Walter Benjamin proponeva la nozione di immagine dialettica, immagine fugace e involontaria del passato in cui appare il possibile che in esso non si è compiuto. Questa temporalità descritta in termini estetici è il contro-movimento che sottrae la storia alla sua continuità cieca, rendendo possibili immagini differenti da quelle della tradizione e riattualizzando le chances perdute. Proprio a Benjamin era dedicata la tesi di laurea di Gianni Carchia (1947-2000), come anche il suo ultimo libro pubblicato in vita, dal titolo Nome e immagine. E se il filosofo tedesco affermava le potenzialità rivoluzionarie del passato, per cui ogni momento possiede una vitalità residua, che va incontro ad una possibile azione redentiva, si potrebbe caratterizzare in questo senso tutta l’attività di ricerca di Carchia riguardante il pensiero antico.

Il libro Orfismo e tragedia – pubblicato la prima volta nel 1979 e oggi primo volume dell’edizione delle Opere complete di Carchia presso Quodlibet, a cura di Monica Ferrando – ha al centro uno di quei momenti dell’antichità misconosciuto dalla storia dei vincitori e carico di possibilità inesplose. Fin dalla sua comparsa nel VI secolo a.C. la dottrina orfica, con la sua credenza nell’immortalità dell’anima, il vegetarianesimo, il rifiuto dei rituali sacrificali, propone un modo di vita, nello stesso tempo poetico e politico, in conflitto con tutto il mondo antico. Come scrive Julien Coupat nella sua postfazione Dialogo con i morti, l’orfismo rappresenta una «via minore», una «biforcazione misconosciuta» tra l’umanità mitica e aristocratica dell’Iliade e quella razionalista e democratica della città classica, ovvero tra una presenza al mondo non soggettiva, estranea alla coscienza, e una esistenza che introduce l’interiorità, la morale come riflessione, l’arte come rappresentazione.

La domanda iniziale di Carchia è allora: «perché in epoca già pienamente storica emergono in Grecia – con la sapienza e poi la tragedia – dimensioni religiose e filosofiche che appaiono per taluni più arcaiche di quelle omeriche, spesso assai più razionali?» (p. 36) Nel rifiutare la città e il suo sistema di valori, nel rifiutare il logos strumentale e la mediazione dialettica, l’orfismo propone

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CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

I delegati di Guaidò derubano gli “aiuti umanitari”

da aurorasito

Mision Verdad 15 giugno 2019

Il 14 giugno PanamPost, uno dei più politicamente attivi media a favore dell’anti-chavismo fuori dal Venezuela, presentava un rapporto dettagliato che illustra l’appropriazione indebita da parte degli inviati di Juan Guaidó nel gestire gli “aiuti umanitari” schierati sul confine colombiano. Come primo dettaglio di questa pubblicazione, ampiamente divulgata da altri media dell’opposizione, va ricordata la firma di Orlando Avendaño, un giornalista venezuelano caporedattore diel media. Ciò significa che per Panampost, l’esclusività ne accompagna la responsabilità editoriale, comprendendo la sensibilità del problema e le conseguenze. E cionondimeno, i tanto iperpropagandati “aiuti umanitari” che tentarono d’inviare in Venezuela il 23 febbraio, consistevano in un apparato volto a mettere in contraddizione l’unità della forza militare venezuelana e spezzarne le linee di comando. Quello era il suo scopo finale. Tuttavia, anche articolò ul concerto VenezuelaAid, dispiegamento sproporzionato di un armamentario mediatico che indicava la “crisi umanitaria” in Venezuela e, con esso, il flusso di risorse, come quelle approvate da Casa Bianca e Congresso degli Stati Uniti, presumibilmente a beneficio della popolazione venezuelana all’estero. Attraverso la pubblicazione, l’indagine sulla gestione delle risorse dei rappresentanti di Guaidó, mette in discussione credibilità e trasparenza dei capi anti-chavisti in modo molto serio, facendone conoscere su scala internazionale il modus operandi di cui il Venezuela è stufo.

Il furto sotto la tenda di Cucutà
La pubblicazione di PanamPost fa un tour dettagliato sulle questioni essenziali dell’appropriazione indebita di enormi quantità di risorse da parte di Rossana Barrera e Kevin Rojas, emissari del “presidente in carica” Guaidó nel gestire fondi e risorse degli “aiuti umanitari”. Spiega le ragioni per cui non c’erano risorse disponibili per la sistemazione dei disertori dalle Forze armate nazionali bolivariane (FANB) a Cúcuta, come emerso mesi fa. La ragione era l’appropriazione indebita e deviazione delle risorse destinate a questi scopi. La frode è anche riportata sul numero effettivo di disertori. Guaidó pretese il sostegno dal governo colombiano per assistere i militari e dava a Ivan Duque un certo numero di disertori, in 1450. Tuttavia, PanamPost pubblicò che l’intelligence

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http://aurorasito.altervista.org/?p=7583

 

 

 

DIRITTI UMANI – IMMIGRAZIONI

NIHIL SUB SOLE NOVUM 

Sisto Ceci 18 06 2019

 

“Arrivano qui alla spicciolata, chiedendo aiuto, con la scusa della fame nella loro provincia o della persecuzione delle popolazioni vicine. Li accogliamo, diamo loro lavoro, diamo loro anche magari la cittadinanza. E loro che fanno? si mettono a predicare le loro teorie religiose, irrispettosi di quanto i nostri antenati hanno tramandato, e convertono anche i nostri ignari cittadini. Ma non basta: si rivoltano contro le nostre usanze, non rispettano i nostri costumi e i nostri riti, e sono regolarmente e pervicacemente offensivi contro l’autorità suprema dello stato. Si riuniscono in conventicole private, ma rumoreggiano perché vogliono la libertà di culto,

 

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https://www.facebook.com/100031860510496/posts/155128622225821/

 

 

 

 

Migranti, la Lega sfida la Merkel: ​”Pronti a chiudere anche gli aeroporti”

La Merkel ci manda in aereo migranti storditi e sedati. L’ira dei leghisti: “Il Trattato di Dublino ora va rivisto”. E minacciano la chiusura degli scali

Sergio Rame – 18/06/2019

Adesso la Lega è pronta a usare le maniere forti anche contro la cancelliera Angela Merkel.

Dopo aver chiuso i porti alle ong, che a largo della Libia recuperavano gli immigrati per poi saricarli sulle coste italiane, starebbe valutando l’ipotesi di chiudere gli aeroporti ai voli che la Germania ci manda per scaricarci i “dublinanti“, ovvero quegli stranieri che hanno presentato la domanda di protezione internazionale nel nostro Paese. “Adesso – avverte la deputata Simona Bordonali a Radio Cusano Campus – abbiamo una nutrita compagine a livello europeo e faremo sentire ancora di più la nostra voce”.

Non è la prima volta che la Lega mette sul tavolo questa ipotesi estrema. Matteo Salvini l’ha già annunciato più volte. E oggi la Bordonali, intervistata dall’emittente dell’Università Niccolò Cusano, l’ha ritirata fuori. “Siamo pronti a chiudere anche gli aeroporti”, ha spiegato dopo che domenica scorsa Repubblica ha pubblicato un’inquietante inchiesta che svelava come i tedeschi riescano a rimandare in Italia i “dublinanti” con metodi che hanno destato non poco scalpore. Alcuni immigrati hanno raccontato che i poliziotti tedeschi li avrebbero buttati a terra e, dopo averli immobilizzati, li avrebbero ammanettati, sedati e, infine, messi su un aereo diretto a Roma“Ho visto qualche scalmanato, che cercava di ribellarsi al trasferimento – ha raccontato uno degli stranieri rientrati in Italia – dopo un po’, però, i rivoltosi erano diventati improvvisamente tranquilli, se ne stavano quasi addormentati nei loro sedili, buoni buoni”.

Le testimonianze raccolte da Repubblica sono state confermate anche da Raphael Reichel, responsabile di una associazione che difende gli immigrati in Germania. “Ci sono probabili sedazioni per impedire che fuggano o che si ribellino

 

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http://www.ilgiornale.it/news/mondo/migranti-lega-sfida-merkel-pronti-chiudere-anche-aeroporti-1712757.html

 

 

 

 

ECONOMIA

Se lo spread scende vuol dire che fanno austerità

18/06/2019 Massimo Bordin

Lo spread in queste ore è crollato. L’indice che misura la differenza tra i Btp decennali ed il Bund tedesco si ferma a quota 243, ma, soprattutto, ha ceduto quasi un 5 per cento rispetto a ieri. L’Italia cresce? Qualcuno è venuto a sapere che nel Belpaese si stanno riversando migliaia di finanziatori internazionali? Nonna Abelarda ha comparto il debito italiano e lo sta bruciando nel caminetto?

Naaa, mentre i media raccontano che lo spread scende perché Draghi ha tutto sotto controllo (che è come dire che fino a ieri non ce l’aveva…), i mercati scoprono il segreto di Pulcinella, e cioè che il governo italiano sta facendo austerità, cioè che non sta spendendo per i cittadini. Com’è noto, i mercati vanno pazzi per queste cose e voilà, ecco che miracolosamente torna fiducia sull’Italia, paese che è in avanzo primario dai tempi di Ottaviano Augusto.

Secondo quanto riferito alla stampa finanziaria internazionale dal ministro del MEF Giovanni Tria, “l’Italia taglierà la spesa pubblica per rispettare gli obiettivi di deficit di bilancio quest’anno ed è in grado di raggiungere un accordo con la Commissione europea sul debito”

Anche se Tria dopo l’imitazione di Crozza è diventato simpatico a tutti, sostenere che l’Italia taglierà la spesa pubblica significa fare le stesse cose che avrebbe fatto un Cottarelli qualsiasi e come già fatto da Tremonti e da Monti, con i pessimi risultati che tutti conosciamo: stagnazione economica, aumento debito del pubblico, alta disoccupazione, deindustrializzazione.

Ma la dichiarazione che ha fatto commuovere chi specula sul mercato obbligazionario è stata un’altra, molto più chiara ed esplicita della precedente:

“Puntiamo a un deficit del 2,1% (del Pil). Faremo meglio di quanto concordato lo scorso anno”

Il Ragionier Filini dell’ufficio contabilità Italia, insomma, non smentisce il suo vero capo, tale Mattarella che lo ha piazzato lì «perché tutto cambi affinché nulla cambi».

Parafrasando il satirico Corrado Guzzanti quando sfotteva Bertinotti, questo governo si è mosso in modo interessante e alternativo sulla protezione di “alcune felci”. Per migranti, riforma pensionistica e reddito di cittadinanza, il governo ha provato strade discutibili, ma originali. Sul bilancio non è solo un governo come quelli – pessimi – che lo hanno preceduto, ma è pure peggio. Quelli che tutti si sbracciano a definire “populisti” e “sovranisti” in realtà, finora, hanno fatto più austerità e non meno di quelli che li hanno

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http://micidial.it/2019/06/se-lo-spread-scende-vuol-dire-che-fanno-austerita/

 

 

 

 

FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI

Sulle considerazioni finali del governatore di Bankitalia

di Roberto Romano

Titoli pubblici italiani a cinque anni meno appetibili di quelli greci e un debito pubblico record non traggano in inganno. Il problema della sostenibilità riguarda tutto il debito, anche privato, da noi molto basso. Anche Ignazio Visco lo riconosce, cadendo però sull’espansione restrittiva

La Banca d’Italia non è mai stata una istituzione del capitale nazionale banale. La storia e la credibilità maturata negli anni, con rare e sporadiche cadute di credibilità, hanno consegnato a questa istituzione un ruolo che supera la vigilanza del sistema creditizio, grazie anche al suo Ufficio Studi che produce analisi e dati utili per delineare delle policy più o meno condivisibili.

Le Considerazioni finali di Ignazio Visco (governatore di Bankitalia) del 31 maggio non sono un resoconto esatto e puntuale delle attività dell’istituto, piuttosto una riflessione sui grandi temi che l’Europa e l’Italia dovranno discutere.

Al netto dello scivolone circa il “rischio di una espansione restrittiva” (p. 8), che non ha nessuna giustificazione rispetto alle stesse cose affermate precedentemente dal governatore (“Le proiezioni prefigurano una ripresa dalla metà dell’anno, sostenuta dalle politiche economiche espansive nei principali paesi e dal conseguente miglioramento delle condizioni nei mercati finanziari.” (P.5), il governatore delinea come e quanto “l’Unione economica e monetaria rimane una costruzione incompiuta. Chi ne ha disegnato l’architettura ne era consapevole, richiedeva e confidava in progressi successivi.

Ancora prima dell’introduzione dell’euro erano state sottolineate la peculiare condizione di una moneta senza Stato, la solitudine istituzionale della BCE, i problemi posti dalla mobilità imperfetta del lavoro e dei capitali.” (p.20), ed è particolarmente severo circa “l’inadeguatezza della governance economica dell’area euro…”, e denuncia “l’assenza di strumenti comuni per la gestione delle crisi delle economie nazionali…” (p.20).

In effetti la politica monetaria della BCE è stata l’unica linea di difesa durante la crisi dei debiti sovrani e contro i rischi di deflazione emersi negli anni successivi (p. 23), mentre le politiche delineate dalla Commissione sono rimaste ancorate a valori (morali?) precrisi, senza un progetto di adeguamento del proprio bilancio, che rimane troppo piccolo e inconsistente per affrontare fenomeni di crisi tanto accentuati. Sul punto il governatore è consapevole delle implicazioni politiche ed economiche, ma l’orizzonte è condivisibile: “Un’unione di bilancio, realizzabile in forme diverse ma comunque diretta in primo luogo alla stabilizzazione macroeconomica, consentirebbe di conciliare il pieno esercizio di tale funzione con l’equilibrio dei conti pubblici in ciascun paese. Se è difficile pensare di realizzare nell’immediato strumenti di tipo discrezionale, è invece possibile progettare stabilizzatori automatici comuni, ad esempio con meccanismi che finanzino nelle fasi congiunturali avverse parte delle spese per la disoccupazione” (p.23).

Le considerazioni sollevate da Ignazio Visco diventano tanto più urgenti tanto più si osserva una brusca frenata del commercio internazionale, legata anche alla nuova strategia degli Stati Uniti (p.4). La compressione della domanda internazionale conseguente ha delle ripercussioni economiche e finanziarie rilevanti per l’Unione Economica Europea. Il governatore, acutamente, ricorda che “La dipendenza dalla domanda estera è particolarmente elevata in Germania, la nazione più vulnerabile sotto questo profilo, ma anche in Francia, Italia e Spagna, paesi molto integrati nelle catene globali del valore, incluse quelle intra-europee”(p.5); “vulnerabilità” è un termine da sempre associato alla sostenibilità del debito pubblico, ma ora è utilizzato per ricordare i rischi per la crescita economica se questa è per lo più legata (dipendente) dal commercio internazionale; un cambio di prospettiva che, in fondo, richiama la necessità di prefigurare un assetto economico europeo meno dipendente dalla domanda estera e, quindi, di una politica (macro) economica europea.

Sebbene le Considerazioni del governatore siano puntuali sull’inadeguatezza dell’UE, il nodo scorsoio del debito pubblico nazionale rimane un tema trattato senza la dovuta cautela. Indiscutibilmente “Il rendimento dei titoli decennali è di quasi un punto percentuale più alto dei valori osservati nel mese di aprile dello scorso anno; il differenziale rispetto ai corrispondenti titoli tedeschi è aumentato di 160 punti base, a circa 280; quello nei confronti dei titoli spagnoli di 140 punti, a 190…”, ma la sostenibilità del debito è una

 

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https://sinistrainrete.info/articoli-brevi/15169-roberto-romano-sulle-considerazioni-finali-del-governatore-di-bankitalia.html

 

 

 

Il Monte riscrive il funding plan

di Luca Gualtieri

Le turbolenze del mercato e le tensioni sul debito sovrano hanno reso il funding più costoso per le banche italiane. Nell’ultimo anno per gli istituti si è rivelato particolarmente complesso rifinanziarsi e, anche se per il momento non ci sono segnali di preoccupazione, i piani a medio termine cominciano a tener conto di questo scenario avverso.

Un esempio viene dal Monte dei Paschi. Il consiglio di amministrazione della banca senese guidata da Marco Morelli ha recentemente licenziato il funding plan strategico per il triennio 2019-2021, un documento che risponde ad alcune puntuali richieste avanzate dalla Bce in sede Srep. Come noto, Rocca Salimbeni ha preso impegni precisi con Francoforte e con Bruxelles nell’ambito del piano di salvataggio varato nel 2016. E tra i target posti dalle autorità europee quelli relativi alla liquidità sono particolarmente rilevanti. Sia chiaro, il vertice Mps è determinato a raggiungere quegli obiettivi ma nel nuovo funding plan ha dovuto tenere conto di un contesto di mercato particolarmente problematico. «Con riferimento al rischio di liquidità, nell’ambito della Srep Decision 2018», spiega un documento di registrazione appena depositato dalla banca, «la Bce ha evidenziato elementi di preoccupazione sull’effettiva capacità della banca di implementare con successo la strategia di funding per il periodo 2018-2021 data la situazione di turbolenza attraversata dai mercati italiani.

In particolare, la Bce ha valutato che la mancata esecuzione del funding pianificato sul mercato istituzionale per il 2018 possa creare ulteriore pressione sul profilo di funding di Mps negli anni a seguire». La Srep Decision 2018 non

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http://app.milanofinanza.it/news/il-monte-riscrive-il-funding-plan-201906122232074721

 

 

 

Deutsche Bank, 50 miliardi di titoli tossici: ecco i rischi e le conseguenze

18 GIUGNO 2019 – Nino Sunseri

Deutsche Bank sale dell’1,36 a 6,11 euro dopo una puntata a 6,19 che l’aveva incoronata reginetta del listino di Francoforte. A trainare le quotazioni un’indiscrezione del Financial Times sui piani di ristrutturazione della prima banca tedesca.

Il programma prevede un mega-spezzatino con la creazione di una bad bank dove spostare come minimo 30 miliardi di euro di vecchi derivati. Non è escluso di arrivare a cinquanta e magari quotare anche questa parte della banca. Nel piano è prevista la riduzione o addirittura la chiusura delle attività di trading (azioni e obbligazioni) negli Stati Uniti a causa delle mega-multe ricevute ripetutamente dalle autorità di Wall Street.

Questa parte del piano, per la verità, era già abbastanza nota dopo le anticipazioni più volte annunciate dall’ amministratore delegato Christian Sewing. Nuova di zecca, invece, l’indiscrezione relativa alla creazione della discarica nella quale far confluire i derivati e le altre operazioni ad alto rischio sepolte nel portafoglio del gruppo.

La manovra non ha solo una funzione contabile per pulire il bilancio. Rappresenta anche una rimodulazione totale delle strategie. Fuori dall’investment banking per concentrarsi sulle operazioni bancarie classiche e sulla gestione patrimoniale. Niente più rischi ma normale credito. Una metamorfosi rispetto alle scelte degli ultimi anni che avevano trasformato una delle più grandi banche del mondo in in gigantesco hedge fund.

LA SEMESTRALE

Da Francoforte non arrivano conferme. Solo l’indicazione che «come spiegato all’ assemblea degli azionisti il 23 maggio Deutsche Bank sta lavorando alla sua trasformazione in modo da raggiungere una redditività sostenibile. Aggiorneremo tutte le parti interessate se e quando richiesto». Secondo il FT il gruppo potrebbe annunciare il progetto di creazione della bad bank il 24 luglio

 

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https://www.liberoquotidiano.it/news/economia/13474580/deutsche-bank-50-miliardi-titoli-tossici-rischi-conseguenze.html

 

 

 

 

 

 

Così le banche centrali stanno falsando i mercati

18.06.2019 – Mauro Bottarelli

Guardando ai rendimenti dei vari titoli di Stato non si possono non notare gli effetti distorsivi delle politiche delle Banche centrali

Se c’è un errore che non si può compiere in periodi come questi, è peccare nella percezione della prospettiva. Ovvero, pensare che tutto sia un calderone indiscriminato, lanciarsi nel facile esercizio di stile del vittimismo e dell’analisi “un tanto al chilo”, sfruttando il momento storico che stiamo vivendo e che, giorno dopo giorno, pare sempre più incentrato sul livore rivendicativo, privo di analisi. La famosa “pancia”, la nostra rovina come società. Guardate questo grafico e non pensiate che sia chissà quale mostro di complicazione. È semplice e dice cosa semplici: è appunto la quintessenza della prospettica. Ci dice come a partire dal 2014, ovvero all’anno precedente dall’inizio del Qe della Bce, ma già in pieno regime di Whatever it takes, il rendimento dei titoli di Stato tedeschi abbia preso una traiettoria giapponese. Ovvero, perenne sottozero come cartina di tornasole di due nuove realtà. La recessione strutturale e la conseguente dipendenza del mondo dalle Banche centrali, percepite come l’unico soggetto in grado di contrastarla efficacemente.

 

Ora, guardate nell’analisi di Albert Edwards, uno che di certe dinamiche è il guru assoluto a livello mondiale, quale potrebbe essere il prossimo Paese destinato ad accodarsi a Tokyo: gli Stati Uniti. Ovvero, un qualcosa che finora non era presente nelle analisi mainstream, tutte incentrate sul nesso causa-effetto che ruota attorno al ruolo della Fed. In parole povere, se i mercati vanno male, interviene la Banca centrale come risposta. No, qui la questione è diversa: qui si preconizza implicitamente uno stato di allarme permanente sui mercati, tale da inviare in prospettiva in territorio negativo anche i Treasuries statunitensi, dopo i titoli di Stato nipponici e tedeschi. Siamo, di fatto, di fronte a una rivoluzione. Assoluta. E totale. L’eliminazione de facto del concetto stesso di rischio-Paese, tramutata per magia e con un colpo di bacchetta magica nel suo contrario: ovvero, la corsa al ribasso verso chi è maggiormente percepito come solido di fronte alla bufera. Ma i dati macro non sono cambiati, le dinamiche neppure. Anzi, sono peggiorate.

Il Giappone avrà sì una ratio debito/Pil tanto enorme quanto sostenibile a livello di rendimenti, a detta di qualcuno, ma solo perché i giapponesi lo comprano. E lo fanno come tossicodipendenti alla disperata ricerca di eroina: come questi ultimi, se ne fregano del grado di purezza della sostanza che si iniettano, così i primi se ne fregano dei rendimenti. Comprano il loro debito, perché è così che gli è stato detto di fare. È l’autarchia suicida di chi per uscire da una decade mortale di deflazione, decide di suicidarsi del tutto con l’espansionismo monetario fine a sé stesso. Il Giappone è un laboratorio terminale di carta stampata in cantina e bruciata per scaldarsi, quando esisterebbero metodi un pochino più intelligenti, moderni e strutturali per contrastare i rigori dell’inverno.

Il Giappone ha una Banca centrale che non solo ormai è l’unico soggetto attivo nel mercato dei bond sovrani, fino a dieci anni fa il più grande e attivo al mondo per volumi, ma, addirittura, è ormai fra i dieci principali azionisti di metà della aziende quotate al Nikkei, tramite l’acquisto di Etf: vi pare normale? Vi pare libero mercato, visto che ancora si agita questo fantasma? L’America vuole raggiungere lo stesso status, per il semplice fatto che ormai la sua struttura debitoria, se ancora si facesse riferimento a logiche da economia

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https://www.ilsussidiario.net/news/spy-finanza-cosi-le-banche-centrali-stanno-falsando-i-mercati/1895524/

 

 

 

 

GIUSTIZIA E NORME

NON AVREMMO PALAMARA SENZA DAVIGO, CASELLI, DI MATTEO ETC

Mauro Mellini – 18 giugno 2019

Un “mea culpa” tanto accorato quanto parziale e distorto si leva nella Magistratura.

Mea culpa parziale sotto un duplice aspetto.

Ci sono magistrati che si battono il petto ed altri, benchè appartenenti a quella che pochi giorni fa definivo la “Magistratura predicante”, che tacciono, come se la cosa proprio non li riguardasse.

Parziale e distorto il “mea culpa”, che un po’ tutti respingono dover essere “mea” ma sempre, invece, degli altri, e perché ciò che si ammette è che nell’ANM vi sia una questione morale. Ma non si accenna neppure ad una questione istituzionale, di ruolo politico-istituzionale della Magistratura che di quella “questione morale” e del suo lievitare praticamente indisturbato per anni è la matrice e la principale delle cause.

Il sistema giustizia, il corpo degli arcangeli giustizieri è marcio. Oramai lo si ammette, anche se con insulse ed ipocrite “precisazioni percentuali” (un corpo marcio è marcio tutto, anche se i vermi sono pochi e solo in alcune parti).

Ma nell’ambito della Magistratura non è bastata neppure la rivelazione dell’intreccio tra “correnti” ed ambienti politici “esterni” ad imporre la questione dell’abuso del ruolo, alla rottura dei confini istituzionali della Magistratura.

Rottura che non esiste solo nelle intenzioni, nei programmi, nelle dichiarazioni di principio delle “correnti”, nate, non dimentichiamolo come espressione “parallela” ai principali partiti politici della Prima Repubblica. La Magistratura ha realizzato almeno due Colpi di Stato: quello di “Mani Pulite”, con l’azzeramento della classe dirigente di allora, e, poi, quello contro Berlusconi, “quello di sfasciare”: perseguitato, demonizzato, sbeffeggiato con una serie impressionante ed ininterrotta di procedimenti giudiziari.

Ma lo “straripamento” della Magistratura è ancora più evidente, palpabile nella concretezza di prassi, che mi rifiuto di definire giurisprudenziale, tendente a reprimere con la giustizia penale e la sua sfacciata “anticipazione dei risultati” con l’uso addirittura delittuoso della stampa pennivendola e tirapiedi, con la propalazione di intercettazioni, indizi, ipotesi di addebiti che concretano lo “jus sputtanandi” con il quale i potentati togati tengono “sotto tiro” incutendo loro una poco salutare paura, la classe dirigente, la politica, i ministri, i sindaci.

L’erosione giurisprudenziale dei limiti tra potere legislativo ed esecutivo e potere giudiziario è costante ed unidirezionale, ma la prassi è ricca di espedienti che confermano che non si tratta di giurisprudenza, ma di “guerra civile”, di una rivolta contro i principi costituzionali.

Ed allora il “mea culpa” di fronte al “caso C.S.M.” che si cerca pure di ridimensionare in un nuovo “caso Palamara” è parziale ed ipocrita.

Ci sono i responsabili “marginali” degli intrallazzi del torvo magistrato calabrese che non

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http://www.lavalledeitempli.net/2019/06/18/non-avremmo-palamara-senza-davigo-caselli-matteo-etc/

 

 

 

 

 

 

La giudice Gabriella Nuzzi: “C’è un sistema istituzionalizzato per annientare i magistrati scomodi”

Il caso di cui parla Gabriella Nuzzi in quest’intervista è uno dei più gravi del marcio interno alla magistratura e ai suoi rapporti con la partitocrazia, che il caso Palamara/Lotti/Ferri ha squadernato di fronte alla pubblica opinione in tutta la sua profondità e gravità. Poiché ora da tutte le parti si dice che bisogna ricorrere ai ripari, fare piazza pulita di questo marcio, e tanti altri bei proponimenti e bellissime promesse, è necessario dire senza mezzi termini che va rovesciato il realistico “cosa fatta, capo ha”. Se si vuole davvero restituire credibilità e decoro alla magistratura e alla sua autonomia dagli altri poteri, pilastro cruciale di un sistema democratico almeno quanto le libere elezioni, bisogna che quanti si sono trovati implicati dalla parte del torto in casi come quello qui raccontato, se in buona fede si scusino pubblicamente e pubblicamente cerchino di capire in base a quali meccanismi perversi hanno potuto commettere queste incredibili ingiustizie. Mentre per quanti di tali brutture inqualificabili sono stati in qualsiasi modo vettori consapevoli, la cacciata dalla magistratura deve essere immediata. Consideriamo questo caso, e il seguito di pulizia che contiamo avrà, una cartina di tornasole della volontà oggi sbandierata di restituire all’autonomia della magistratura la sua dignità così gravemente compromessa.
(pfd’a)

 

(17 giugno 2019)

 

intervista a Gabriella Nuzzi di Rossella Guadagnini

Dieci anni fa, nel 2009, la dottoressa Gabriella Nuzzi, pubblico ministero, scrive una lettera al presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati in cui si congeda dal sindacato delle toghe per quanto profondamente addolorata. Il presidente all’epoca è Luca Palamara.

Lei è magistrato a Salerno e viene trasferita d’ufficio dal Consiglio Superiore della Magistratura – su richiesta del ministro dell’Interno Angelino Alfano – per aver indagato sul malaffare giudiziario di Catanzaro. Cosa era successo e perché questa lettera?

Le mie dimissioni dall’ANM nel gennaio 2009 seguirono alla decisione del CSM di privare me e i miei colleghi della Procura di Salerno delle funzioni inquirenti, mentre eravamo impegnati ad accertare, su denuncia dell’allora Pm Luigi De Magistris, gravi ipotesi di reato coinvolgenti magistrati di Catanzaro, politici, pubblici amministratori, imprenditori.

La decisione fu salutata con grande soddisfazione da Palamara, punta di diamante della corrente Unicost e presidente dell’ANM, che, con il plauso di AreaDG e Magistratura Indipendente, commentò: “Il sistema ha dimostrato di avere gli anticorpi”.

Non aveva capito -né lui né il “sistema” di cui si faceva garante- che il velo si era squarciato e il tempo avrebbe fatto la sua parte.

La vicenda aveva avuto inizio un anno e mezzo prima, nel settembre 2007, quando, rientrata in servizio dopo il congedo per maternità, avevo trovato sul tavolo del mio ufficio un mucchio di fascicoli con annotato il nome di Luigi De Magistris come indagato. Si trattava di numerosi esposti a suo carico per presunte illegittimità nell’esercizio delle sue funzioni di Pubblico Ministero a Catanzaro, provenienti da politici, avvocati, magistrati dei distretti di Potenza e Catanzaro. Le denunce, accompagnate da interrogazioni parlamentari e segnalazioni disciplinari, miravano, in sostanza, a giustificare la sottrazione a De Magistris, che ne era il titolare, di tre importanti inchieste, Poseidone, Why not e Toghe Lucane, da parte del Procuratore e del Procuratore Generale di Catanzaro.

In quel momento non potevo immaginare ciò di cui, invece, mi resi conto alcuni mesi più tardi, ovvero che la Procura di Salerno costituiva un ingranaggio essenziale di un “sistema” funzionale a dare a De Magistris il colpo di grazia: sarebbe, infatti, bastato rinviarlo a giudizio per uno solo di quei reati per delegittimarne definitivamente le inchieste e disintegrare la sua vita personale e professionale.

Il “sistema”, però, aveva fatto male i suoi conti.

Organizzai il mio lavoro e iniziai a studiare gli atti. Si unì a me il collega Dionigio Verasani. Dopo alcuni mesi di indagini, giungemmo alla conclusione che le tre inchieste Poseidone, Why not e Toghe Lucane erano state oggetto di illecite interferenze da parte dei capi e che gli esiti delle indagini avevano esposto De Magistris a una serie di azioni ostative e ritorsive, esterne ed interne agli ambiti giudiziari, finalizzate a determinarne il definitivo allontanamento dalla magistratura.

Nel giugno 2008, le accuse a carico di De Magistris furono archiviate; da indagato assunse la veste di persona offesa.

Gli organi di autogoverno e vigilanza (CSM, Procura Generale della Cassazione, Ministero della Giustizia), sebbene da noi informati sin dal dicembre 2007 della difficile situazione vissuta da De Magistris e del rifiuto frattanto opposto dal Procuratore e dal Procuratore Generale di Catanzaro alle richieste di esibizione degli atti delle inchieste Poseidone Why Not, necessari per il riscontro dei fatti da lui narrati, ne decretarono il trasferimento disciplinare al Tribunale di Napoli, privandolo delle funzioni inquirenti.

Cosa successe in seguito?

Nel dicembre 2008, dopo nove richieste e reiterate sollecitazioni agli organi di vigilanza tutte inevase, il mio ufficio decise di intervenire nei confronti dei magistrati di Catanzaro indagati per corruzione e abuso d’ufficio e procedere al sequestro di copia degli atti delle inchieste Poseidone e Why Not individuati come necessari alle indagini.

Le operazioni di perquisizione e sequestro furono eseguite il 2 dicembre 2008 nel pieno rispetto delle norme -come fu in seguito appurato- ma la reazione fu violentissima e imprevedibile.

Due giorni dopo, infatti, il 4 dicembre 2008, io e miei colleghi ci vedemmo recapitare in ufficio un’informazione di garanzia firmata dai nostri indagati. L’accusa mossa a me, Verasani e al procuratore Luigi Apicella era di avere quali “promotori” e “organizzatori”, abusato delle funzioni di Pubblico Ministero “al fine di occultare i reati perseguiti nel procedimento Why Not”, disponendo il sequestro degli atti con un decreto “abnorme” finalizzato a sottrarre l’inchiesta ai magistrati di Catanzaro, così “arrecando un danno ingiusto” a costoro, “alla Regione Calabria e all’intera collettività del distretto, nonché “perseguendo l’interesse privatistico e utilitaristico connesso alla artificiosa delineazione di un complotto a livello istituzionale contro il dottor De Magistris, tra l’altro, ad opera dei magistrati di Catanzaro”.

Sulla base di queste imputazioni, i magistrati di Catanzaro, indagati dalla Procura di Salerno, disposero il contro-sequestro degli atti dei procedimenti Poseidone e Why Not, sottraendoli così ai loro indagatori.

Un comportamento abnorme, che, anziché indurre le istituzioni a intervenire a nostra tutela, generò il pretesto per eliminarci, sfruttando quell’enorme fandonia nota come “la guerra tra procure”.

Nel giro di pochi giorni, dopo un’audizione dinanzi al plenum del CSM durata fino a notte fonda, i miei colleghi ed io fummo sottoposti, prima, a procedura di incompatibilità ambientale, poi, a procedura cautelare d’urgenza. Iniziarono le ispezioni ministeriali. Il Procuratore Generale della Cassazione avviò l’azione disciplinare, come pure il ministro della Giustizia Alfano.

Fummo definiti “eversivi”, il nostro agire “finalizzato alla destabilizzazione e all’eversione dell’istituzione dello Stato”.

E arriviamo così alla sua lettera.

Il 19 gennaio 2009 la Sezione Disciplinare del CSM dispose il nostro trasferimento cautelare in via d’urgenza di sede e funzioni, con l’appoggio dell’ANM, di cui erano presidente e segretario, rispettivamente, Luca Palamara di Unicost e Giuseppe Cascini di AreaDG.

A febbraio 2009 il procedimento penale iscritto a nostro carico dal Procuratore Generale di Catanzaro fu trasferito alla Procura di Roma e giunse nelle mani del Procuratore Aggiunto Achille Toro (condannato a due anni nell’inchiesta Grandi Eventi) che, invece di ascoltare le nostre ragioni, diede mandato ai Carabinieri del Ros di acquisire i tabulati telefonici di De Magistris e miei. L’obiettivo era tentare di accreditare una campagna diffamatoria, scaturita da interrogazioni di parlamentari del centrodestra, circa l’esistenza di una relazione personale nata durante le indagini tra me e De Magistris e finalizzata a distruggere la nostra reputazione personale e professionale, oltre che le nostre vite familiari. I contatti, però, erano stati preventivamente autorizzati dall’Ufficio, noti ai Carabinieri nostri collaboratori e dettati esclusivamente da ragioni d’ufficio, così che il tentativo di infangarmi fallì miseramente con un’azione di risarcimento dei danni, che mi vide vittoriosa.

Nel frattempo, a seguito del mio trasferimento a Latina, gli atti del procedimento penale furono trasferiti per competenza alla Procura di Perugia, che, svolti i dovuti accertamenti, archiviò in breve tempo le nostre posizioni.

Ciò nonostante, il 19 ottobre 2009 la Sezione Disciplinare del CSM presieduta da Nicola Mancino pronunciò la nostra condanna disciplinare e io, che ero il magistrato più giovane, fui sanzionata più duramente degli altri.

Come mai tanto accanimento nei suoi confronti?

La ragione non è aver scritto un decreto di sequestro “troppo lungo” né di avervi trasfuso “inopportunamente” i nominativi di soggetti che, tempo dopo, all’esito di altre inchieste, sono stati colpiti da condanne per corruzione e altri gravi reati. Il vero motivo è aver scoperto il sistema istituzionalizzato di annientamento dei magistrati ritenuti scomodi e, soprattutto, di averlo messo nero su bianco in provvedimenti e denunce alle autorità competenti.

Eppure, all’epoca, nessun esponente della magistratura associata gridò allo scandalo. Non solo le tre correnti non levarono una parola in nostra difesa, ma lasciarono che “il sistema” seguisse il suo corso, senza alcuno scrupolo, in cambio della possibilità di negoziare liberamente carriere e promozioni.

Un atto di convenienza della peggiore politica, di cui oggi l’intera magistratura paga le conseguenze. E il mio pensiero va ai giovani magistrati, soprattutto quelli di prima nomina designati nelle sedi ad alta densità mafiosa.

Oggi che situazione professionale e personale vive? Cosa ha conservato della sua esperienza?

E’ inutile dire che non è stato facile resistere a tanta violenza e ai suoi strascichi. Ho trovato sostegno nei familiari, negli amici più cari e in tantissime persone, associazioni, gruppi che mi hanno scritto, infondendomi fiducia e coraggio. Lungo il mio percorso, a Latina come a Napoli, dove attualmente esercito le funzioni di giudice, ho avuto la fortuna di incontrare colleghi di grande livello, che mi hanno apprezzato e con cui ho instaurato legami fortissimi sul piano umano e professionale. Molti di loro non fanno parte

 

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http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-giudice-gabriella-nuzzi-c-e-un-sistema-istituzionalizzato-per-annientare-i-magistrati-scomodi/

 

 

 

 

 

 

LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI

Salario minimo, Repubblica: ‘Nove Euro cifra troppo alta’. La replica di Fusaro: ‘Repubblica è voce del padronato contro le classi lavoratrici’

 

Diego Fusaro ha commentato sulla sua rubrica ‘Lampi del pensiero’ la decisione dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) di bocciare l’istituzione del salario minimo e il conseguente giubilo del quotidiano ‘La Repubblica’.

“Incredibile ma vero.

Ancora una volta la realtà ha superato la fantasia. E ha fatto apparire Orwell un dilettante” scrive Fusaro.

“Sul rotocalco turbomondialista “La Repubblica” – continua il filosofo -,

 

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https://www.silenziefalsita.it/2019/06/18/salario-minimo-repubblica-nove-euro-cifra-troppo-alta-la-replica-di-fusaro-repubblica-e-voce-del-padronato-contro-le-classi-lavoratrici/

 

 

 

 

 

 

Ci sarà ancora posto per l’Uomo nella società post-lavoro?

Roberto Paura – 3 febbraio 2018

Se la società contemporanea è fondata sul lavoro, cosa ne sarà delle persone quando entreremo nell’epoca post-lavoro? Un tema su cui si interrogano i filosofi del postumanesimo Yuval Noah Harari e Nick Bostrom, con scenari inquietanti per la sopravvivenza della nostra specie.

In un pezzo pubblicato dal “Guardian” intitolato The meaning of life in a world without work, “Il senso della vita in un mondo senza lavoro”, l’ormai celeberrimo Yuval Noah Harari, l’autore dei bestseller Sapiens. Da animali a dèi e Homo Deus, si chiede in che modo l’essere umano potrà reinvantare se stesso nell’epoca post-lavoro che sembra profilarsi all’orizzonte. Vincenzo Moretti, sociologo dell’organizzazione e sindacalista di lungo corso, uno che di lavoro se ne intende – è il patron della “Notte del Lavoro Narrato” e l’autore del Manifesto del lavoro ben fatto – ha scritto al riguardo un post sul suo blog ospitato su Nova-Il Sole 24 ore dal titolo Una vita senza lavoro è una vita senza significato, che prende le distanze dalla visione ambiguamente utopica di Harari. Moretti, che al Congresso Nazionale di Futurologia 2014 organizzato dal nostro Istituto presentò la sua tesi del “lavoro che cambia ma non finisce”, è tra coloro che non condividono l’idea di una società post-lavoro prossima ventura. Su questa dicotomia oggi si gioca molto del dibattito sul futuro dell’occupazione mondiale.

Scrive Moretti:

Sì, perché come sai l’idea di un mondo senza lavoro non mi piace, e non per gli aspetti materiali della questione, della serie senza soldi come si fa a vivere, perché anzi su questo sono d’accordo con Harari, si può vivere anche senza lavoro, se ci pensi già i cittadini greci compresi i filosofi che tanto amiamo di lavoro in senso stretto ne facevano poco, a quello ci pensavano gli schiavi e per noi potrebbero farlo le macchine. A non piacermi, o se preferisci a non convincermi, è proprio la tesi di fondo di Harari, perché sono convinto che il lavoro abbia un valore non solo in sé ma anche per sé, che insomma sia qualcosa di cui noi sapiens non possiamo fare a meno se vogliamo vivere vite più degne di essere vissute.

Nel suo libro Superintelligenza Nick Bostrom – l’influente filosofo di Oxford e direttore del Future of Humanity Institute che con quel libro lanciò per primo l’allarme sui rischi di sviluppare un’intelligenza artificiale superiore alle capacità cognitive umane – si dice convinto che la nuova età delle macchine sia destinata a sostituire il lavoro umano, perché nel momento in cui, a partire dall’inizio di questo secolo, gli algoritmi hanno iniziato ad automatizzare anche molte mansioni del terziario avanzato, tutto lasciare credere che, in prospettiva, intelligenze artificiali generali saranno in grado in un prossimo futuro di fare tutto quello che l’uomo fa oggi, meglio di oggi – e in generale meglio di qualsiasi essere umano. L’idea che l’unico significato della vita di un essere umano stia nel suo lavoro diventa a questo punto molto pericolosa.

C’è un passaggio del libro di Bostrom particolarmente inquietante: quello in cui ricorda come, nel momento in cui il motore a combustione ha iniziato a sostituire il cavallo come principale mezzo di locomozione, il numero di cavalli nei soli Stati Uniti sia sceso da 26 milioni nel 1915 a 2 milioni all’inizio degli anni Cinquanta. Una sorta di “estinzione di massa” dei cavalli. Potrebbe accadere qualcosa del genere anche per noi esseri umani? Noi sappiamo che, con l’inizio della seconda rivoluzione industriale, la popolazione umana – rimasta per millenni a livelli più o meno stabili salvo periodici incrementi e decrementi (questi ultimi causati da epidemie come la peste del Trecento, o collassi come quello dell’Impero romano) – ha iniziato a crescere in maniera esponenziale: ha raggiunto il miliardo di abitanti agli inizi del XIX secolo e i due miliardi negli anni Venti del secolo scorso, i tre miliardi negli anni Sessanta, e da lì un miliardo di persone in più per ogni decennio. I due fenomeni sono naturalmente collegati. Il miglioramento delle condizioni di salute grazie alla rivoluzione scientifica che ha preceduto la rivoluzione industriale ha ridotto la mortalità infantile e aumentato la speranza di vita. L’aumento della produttività industriale e agricola ha permesso alla ricchezza mondiale di aumentare esponenzialmente, garantendo più benessere nei paesi occidentali. Ma il ruolo determinante che il lavoro ha assunto con la rivoluzione industriale ha trasformato anche l’essere umano in pura forza-lavoro. Affinché la produzione industriale e agricola e l’estrazione mineraria potesse mantenere i suoi alti livelli di crescita, occorreva forza-lavoro. Crescita della popolazione e crescita della produzione mondiale sono quindi due fenomeni che vanno di pari passo.

Tuttavia, nel momento in cui l’automazione, inizialmente integrativa della forza-lavoro umana, ha iniziato a diventare sostitutiva, nei paesi a industrializzazione avanzata le cose hanno iniziato a prendere un’altra piega. I tassi di natalità sono cominciati a declinare fino a scendere ben al di sotto dei livelli di ricambio generazionale. Se si ignora l’apporto delle migrazioni, le popolazioni occidentali sarebbero già da qualche decennio in fase di calo; in alcuni paesi, come l’Italia, questo calo della popolazione è iniziato negli ultimissimi anni anche tenendo conto dell’apporto dei migranti. È possibile che ci sia un legame con la riduzione del lavoro? Fare più figli oggi vuol dire rischiare di mettere al mondo persone che fino a un’età ben più avanzata rispetto ai decenni precedenti sono dipendenti dal reddito famigliare (ormai quest’età supera, in paesi come il nostro, i trent’anni; negli anni del boom economico l’emancipazione economica avveniva circa dieci anni prima). Il rischio che restino tagliati fuori dal mercato del lavoro o che lavorino con retribuzioni al di sotto del livello di sussistenza, tale da necessitare dei redditi famigliari per diventare autonomi, è molto forte. È la classe disagiata di cui ci parla Raffaele Alberto Ventura nel suo controverso saggio. In quest’ottica, potremmo leggere il calo della popolazione nei paesi occidentali come l’effetto della mancanza di lavoro? Per dirla più chiaramente: stiamo assistendo all’inizio di quel fenomeno che ci vedrà, come i cavalli, ridurci ai minimi termini, perché tanto non serviamo più nella logica capitalista di aumento progressivo della ricchezza mondiale, demandata alle macchine?

Può essere, se restiamo ancorati all’idea della persona umana come forza-lavoro. È stato così per tutta la storia umana, ma in modi molti diversi. Fino alla Rivoluzione francese, in Europa il lavoro era considerato squalificante; lo schiavismo nell’antichità e il servaggio della gleba in età feudale ancorarono la relazione persona/forza-lavoro ai soli ceti-paria. La Chiesa stessa

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https://www.futurimagazine.it/scenari/ci-sara-ancora-posto-per-l-uomo-nella-societa-post-lavoro/

 

 

 

 

 

LA LINGUA SALVATA

Tampinare

tam-pi-nà-re (io tam-pì-no)

SIGNAssillare, importunare, seguire con insistenza

dal milanese tampinà ‘infastidire’, di origine sconosciuta.

Sarà forse per l’assonanza con ‘tamponare‘, ma questa parola riesce a descrivere con grande potenza un importunare che ha la dimensione di un seguire. Eppure, al di là della provenienza milanese, la sua origine è sconosciuta (qualcuno ipotizza una matrice onomatopeica, ma i migliori non si sbilanciano). Ciò che sappiamo per certo è che entra in italiano negli anni ’60 del secolo scorso, anche per effetto del suo uso da parte di importanti autori della sfera di Milano, come Gianni Brera e Dino Buzzati.

C’è quasi contatto, quasi tocco, quasi spinta nel tampinare — e non particolarmente piacevoli, li sentiamo nella punta della scarpa contro il nostro tallone, nella mano invadente sulla spalla, nel petto premuto contro la schiena. Anche quando vuole gagliardamente descrivere una tattica di corteggiamento caricata di una certa spregiudicata malizia, ne esce

 

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https://unaparolaalgiorno.it/significato/T/tampinare?utm_source=newsletter&utm_medium=mail&utm_content=parola&utm_campaign=pdg

 

 

 

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

Quel patto tra Francia, Germania e Spagna che svela il futuro dell’Europa

Lorenzo Vita – 19 GIUGNO 2019

L’asse franco-tedesco ha una terza gamba: la Spagna di Pedro Sanchez. Sia chiaro, Madrid ha da sempre rappresentato un Paese fondamentale legato sia a livello politiche che a livello economico all’alleanza tra Francia e Germania. Ma adesso, con Sanchez, Emmanuel Macron ed Angela Merkel tutto appare più nitido. Le elezioni europee hanno confermato che Berlino, Parigi e Madrid hanno costruito un asse sempre più solido che serve non solo a Francia e Germania per rafforzarsi in Europa, ma anche alla stessa Spagna per scalzare l’Italia come terza potenza dell’Unione europea. Una convergenza di interessi che adesso si ripercuote su uno dei fronti più importanti dell’alleanza tra Berlino e Parigi: la difesa europea.

Dopo mesi di trattative, infatti, il governo spagnolo ha aderito al progetto del nuovo caccia europeo. Come scrive il quotidiano spagnolo Abc, il ministro della Difesa, Margarita Robles, ha firmato l’accordo con il quale la Spagna aderisce formalmente al Future Combat Air System (Fcas) durante il Salone internazionale dell’aeronautica e dello spazio a Le Bourget, Parigi. Il memorandum d’intesa del Fcas è stato firmato, oltre che dalla Robles, anche dal ministro della Difesa francese, Florence Parly, e dal ministro della Difesa tedesco, Ursula von der Leyen. L’accordo servirà alle difese di Berlino, Madrid e Parigi per sostituire entro il 2040 gli attuali Rafale ed Eurofighter e ha una durata di almeno dieci anni. Uno strumento che serve ai governi dell’asse franco-tedesco di mostrare la propria volontà di competere rispetto ai giganti dell’industria aeronautica militare mondiale, ma serve soprattutto per dare un’accelerata a quella difesa di matrice europea su cui Parigi sta puntando moltissimo e su cui sembra avere investito anche la Germania, preoccupata dall’essere una potenza industriale ma esclusa dai grandi giochi strategici internazionali.

Per quanto riguarda la Spagna, la mossa ha un chiarissimo connotato politico che dimostra la volontà di Sanchez di unire l proprio Paese a quell’asse franco-tedesco che rimane, secondo i suoi alleati, il vero motore dell’unità europea. Sgombriamo il campo da equivoci: Sanchez al pari di Macron e Merkel non lo fa per beneficenza né per sano europeismo. Quello che si nasconde

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https://it.insideover.com/politica/patto-francia-germania-spagna-fcas.html

 

 

 

 

 

Hong Kong e Macao: un giro nelle due città degli estremi

di Federico Giuliani – Pubblicato il 10 Giugno 2019

Era il 1957 quando lo scrittore Joseph Kessel si aggirava nei vicoli asfissianti degli ultimi avamposti europei in Estremo Oriente. Già in quel periodo si poteva intuire la storia futura di Hong Kong e Macao, due mondi a parte che avrebbero imboccato una strada differente rispetto alla Cina Continentale. Mentre nel resto del Paese la popolazione iniziava ad assaggiare il maoismo, qui si sperimentavano stili di vita alternativi. L’arte dell’arrangiarsi, che avrebbe in futuro premiato i mercanti e gli uomini d’affari più intraprendenti, stava già plasmando la mentalità dei cinesi di periferia.

Kessel, da attento osservatore, ha riportato i suoi appunti di viaggio nell’opera Hong Kong e Macao. Città degli estremi (Obarrao, 2018). Ai tempi dell’autore, a Hong Kong non c’erano ancora gli enormi palazzoni luccicanti arrivati negli anni ’90 ma la densità abitativa era già al limite. Macao aveva meno casinò di oggi ma quelli presenti erano già trappole letali per i tanti stranieri che speravano in una svolta milionaria. L’estremo di queste due città sta nella facilità con cui i due margini della vita si toccano quotidianamente. Ricchi e poveri, privilegiati e dannati, gente per bene e criminali, giocatori d’azzardo e gentiluomini. Proprio di questo parla il reportage giornalistico di Kessel, uno dei primi a raccogliere storie, suoni e immagini della più profonda periferia cinese.

Un capitolo è dedicato al mercante William Jardine, considerato nella seconda metà dell’800 il principe del contrabbando dell’oppio. Hong Kong, colonia britannica fino al 1997, si stava affermando come uno dei centri asiatici più dinamici e legati al commercio internazionale, ma allo stesso tempo l’altro business che alimentava la ricchezza di questa città erano i traffici illegali. Jardine si affermò come il più abile nel trasformare lo spaccio di droga in un business molto redditizio.

Diverse pagine sono poi dedicate all’inventore del Balsamo di Tigre, il rimedio tuttofare ideato da Aw Boon Haw, uomo celebrato da statue e templi. Il Balsamo di Tigre è un particolare unguento a base di canfora, mentolo e vari oli utilizzato per alleviare piccoli e grandi disturbi; dal mal di testa ai dolori muscolari, dalla tosse ai problemi alle articolazioni. Fu sviluppato in Birmania

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https://larivistaculturale.com/2019/06/10/hong-kong-e-macao-un-giro-nelle-due-citta-degli-estremi/

 

 

 

 

 

Venezuela: si allarga lo scandalo che coinvolge Guaido e Voluntad Popular. Fondi destinati ad aiuti umanitari usati per discoteche, alcol e prostitute

di Fabrizio Verde
Si allarga a macchia d’olio lo scandalo che coinvolge il golpista autoproclamatosi presidente del Venezuela Juan Guaido e il suo partito Voluntad Popular. I fondi ricevuti per portare aiuti umanitari in Venezuela sono in realtà stati in larga parte utilizzati in Colombia per pagare discoteche, alcol e prostitute.

 

Ci sarebbero tutti gli ingredienti per montare delle interessanti inchieste giornalistiche. Invece in Italia notiamo silenzio assoluto. Basta fare una ricerca sul più popolare dei motori di ricerca per constatare che non vi sono notizie pubblicate in merito allo scandalo che coinvolge Guaido e la sua cricca di golpisti. Quegli stessi media che utilizzano ogni minimo rumors proveniente da Caracas per attaccare il governo e il presidente Maduro adesso tacciono. Imbarazzati evidentemente. Sarebbero costretti ad ammettere che da anni mentono su tutta la linea.

 

Nella giornata di lunedì, il ministro del Potere Popolare per la Comunicazione e l’Informazione della Repubblica Bolivariana del Venezuela, Jorge Rodriguez, ha mostrato foto e video esclusivi a proposito delle due prostitute colombiane che portarono via 250.000 dollari statunitensi in contanti al deputato venezuelano di opposizione Freddy Superlano la notte prima degli atti terroristici che da Cucuta, in Colombia, avevano come obiettivo quello di forzare la frontiera venezuelana il 23 di febbraio.

 

Cosa faceva un deputato venezuelano con 250 mila dollari in contanti in una camera d’albergo

 

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https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-venezuela_si_allarga_lo_scandalo_che_coinvolge_guaido_e_voluntad_popular_fondi_destinati_ad_aiuti_umanitari_usati_per_discoteche_alcol_e_prostitute/5694_28984/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ong, gli stipendi stellari dei “buonisti”

di Lorenzo Mottola

www.liberoquotidiano.it

 

Volontari sì, ma a pagamento. È questa la condizione di buona parte degli operatori delle Ong che si occupano di immigrazione, partendo dai centri profughi per arrivare ai marinaretti che pattugliano le coste al largo della Libia per rastrellare e trasportare in Italia clandestini. Per qualcuno il cosiddetto no-profit è una pacchia, per usare una definizione cara a Matteo Salvini. Ad esempio, per i vertici delle organizzazioni più importanti. Recentemente ha fatto molto discutere lo stipendio del presidente dell’americana Save the Children, che si mette in tasca 365 mila dollari l’anno.

E parliamo di un’associazione che con la sua nave – la Vos Hestia – ha collaborato a riempire l’Italia di profughi. Un altro dirigente fortunato è quello di Care, che prende 250 mila dollari l’anno. Belle buste paga, insomma, anche se ovviamente non per tutti va così: sui battelli si inizia a lavorare guadagnando meno di 2.000 euro al mese. Fare carriera, tuttavia, non è impossibile. Le organizzazioni in questione, però, fanno molta fatica a fornire le cifre esatte, per ragioni facilmente intuibili.

LE DONAZIONI

In questi giorni si parla molto della SeaWatch, nave armata da un’organizzazione creata da cittadini tedeschi che continuano a sfidare la dottrina del governo italiano dei “porti chiusi”. A furia di campagne contro la Lega, la Ong di Berlino ha raccolto nel 2018 circa 1.800.000 euro in donazioni da parte di privati. Una somma che quest’ anno, grazie proprio all’ esposizione mediatica data dalle polemiche con il Viminale, dovrebbe crescere considerevolmente. Dirà qualche insolente: sarebbe molto bello se queste cifre finissero realmente nelle tasche dei poveracci in fuga da miseria e guerre. In realtà circa il 30% delle spese serve a pagare gli stipendi di persone che il mar Mediterraneo lo vedono al massimo durante le ferie estive. La gran parte finisce ad attivisti che restano tranquillamente a organizzare le grandi manovre contro il Viminale a Berlino. Poi troviamo un minuscolo “distaccamento” italiano. In pratica, c’ è una persona sola, la portavoce: Giorgia Linardi. Un volantino circolato sui social network in questi mesi denunciava gli incassi della signora: 5.000 euro al mese. Sicuramente si tratta di un’esagerazione: effettivamente il bilancio rivela che i coordinatori hanno stanziato nel 2018 circa 60mila euro per la delegazione nel nostro paese, ovvero 5.000 ogni trenta giorni, ma in questo conto bisogna inserire anche le spese per i viaggi i telefoni e altro. Difficile stabilire una cifra esatta,

 

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https://www.imolaoggi.it/2019/06/18/ong-gli-stipendi-stellari-dei-buonisti/

 

 

 

 

 

POLITICA

Otto e Mezzo, da Lilli Gruber l’armata contro Matteo Salvini: tutti insieme, loro tre in studio

18 giugno 2019

Vietato dire che Otto e Mezzo di Lilli Gruber, il salottino politico in onda su La7, sia un programma a senso unico. Vietato. Vietatissimo.

 

Così come è vietato dire che sempre a Otto e Mezzo ci sia un bersaglio a senso unico, ovvero Matteo Salvini (sono ormai epici gli scontri tra Lilli e il ministro dell’Interno, quando si palesa in studio). Figurarsi, non è affatto così: la Gruber mica apparecchia un programma tutto contro il vicepremier del Carroccio.

 

E quanto accaduto nella puntata di martedì 18 giugno lo testimonia in modo

 

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https://www.liberoquotidiano.it/news/spettacoli/13474659/otto-e-mezzo-lilli-gruber-puntata-18-giugno-la7-contro-matteo-salvini-andrea-scanzi-beppe-severgnini-gianrico-carofiglio.html

 

 

 

 

 

SCIENZE TECNOLOGIE

A Hong Kong un software riconosce i manifestanti da come camminano

Quello che sta capitando nell’ex colonia britannica ci riguarda tutti anche perché è la prima dimostrazione di come cambia la manifestazione del dissenso nell’era della sorveglianza digitale di massa: niente selfie, schede prepagate e uso di Telegram tramite VPN. Ma potrebbe non bastare

RICCARDO LUNA17 giugno 2019

Quello che sta capitando ad Hong Kong ci riguarda tutti. Non solo perché c’è in gioco la libertà nell’ex colonia britannica passata sotto il controllo della Cina ormai ventidue anni fa ma ancora piuttosto autonoma. Non solo perché quando da quelle parti scendono ripetutamente in piazza due milioni di persone, soprattutto giovani, il pensiero non può non andare a quel che accadde a Pechino, a piazza Tienanmen, il 3 giugno 1989.

Ma anche perché è la prima dimostrazione di come sta cambiando la manifestazione del dissenso nell’era digitale. Solo dieci anni fa, in occasione dei moti di Teheran, in Iran, era Twitter lo strumento per organizzarsi e raccontare al mondo quello che stava capitando.

Era emozionante seguire le proteste da qui e illudersi di incoraggiarle con qualche facile retweet. E qualche mese dopo la primavera araba che scosse diversi paesi mediterranei, dalla Tunisia all’Egitto, ai tweet aggiunse la potenza dei gruppi di Facebook.

Erano gli anni in cui si credeva che con i social network si potessero abbattere le tirannie. Non si era ancora capito che quelli sono piuttosto lo strumento dei regimi autoritari per sorvegliarci e punirci. Lo si è visto chiaramente in occasione della guerra di Siria, quando gli oppositori sono stati sgominati grazie al fatto che la polizia aveva messo le mani sui loro computer. Lì dentro c’era tutto: la loro condanna a morte.

Ad Hong Kong in questi giorni stiamo assistendo ad un cambio di strategia. Gli oppositori fanno di tutto per usare la tecnologia, ma senza lasciare tracce digitali: comprano biglietti della metro invece degli abbonamenti nominali; usano sim card prepagate e anonime invece di quelle personali; vanno su Internet creando reti virtuali anonime, preferiscono Telegram a Whatsapp e ricorrono a parole in codice come “pic nic” per indicare gli appuntamenti pubblici; infine durante le manifestazioni non si fanno selfie né scattano foto in cui si possano distinguere dei volti e molti usano mascherine antismog per evitare di essere individuati tramite i potenti software di riconoscimento facciale

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https://www.agi.it/blog-italia/riccardo-luna/hong_kong_protesta_tecnologie_digitali-5674978/post/2019-06-17/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Libra, la criptovaluta di Facebook, ufficialmente al via con il wallet Calibra

18 06 2019

 

Libra è realtà: la criptovaluta di Facebook, data per imminente la scorsa settimana, è stata ufficialmente annunciata insieme agli strumenti per utilizzarla.

 

Facebook ha svelato l’app Calibra, che funge da walle t(portafoglidigitale) e tramite la quale sarà possibile effettuare pagamenti o inviare denaro tra utenti, anche attraverso la scansione di un codice QR presso gli esercizi (virtuali e reali) che aderiranno a Libra.

 

La disponibilità generale di Calibra è fissata per il 2020: si tratterà di una app separata da quelle di Facebook e WhatsApp, e non integrata come inizialmente si pensava che sarebbe avvenuto.

Per quanto riguarda la privacy, Facebook sostiene che Calibra mette in campo tutta una serie di misure – analoghe a quelle adoperate dalle tradizionali app di home banking– per proteggere non solo il denaro ma anche la privacy degli utenti: verifica a più fattori e funzionalità anti-frode sono presenti nell’app.

Come già si vociferava, Libra ha il sostegno di diverse realtà importanti, tra cui istituzioni

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https://www.zeusnews.it/n.php?c=27429

 

 

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