NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI 13 FEBBRAIO 2019

https://voxnews.info/2019/02/06/presidente-nigeria-non-date-asilo-a-nigeriani-sono-delinquenti/

NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI

13 FEBBRAIO 2019

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

Chi da poco avendo ricevuto molto

è come se rispondesse a un’ingiuria grave.

ELISABETH LAFFONT, I libri di sapienza dei faraoni, Mondadori, 1985, pag. 129

 

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Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.

 

Tutti i numeri dell’anno 2018 della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com 

 

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SOMMARIO

 

KRANCIC CONVOCATO DALLA POLIZIA PER LE VIGNETTE. 1

ONU AMMETTE: CON SALVINI 1.000 CLANDESTINI MORTI IN MENO. 1

ONG / TUTTI GLI SQUALI NEI MARI DELLA “SOLIDARIETA’” – DA GATES A SOROS. 1

Una sinistra ben ‘addestrata’ 1

BREVI CENNI SULL’UNIVERSO NEOLIBERALE. 1

Striscia la notizia, la bomba di Dago su Sanremo: “Claudio Baglioni e Salvini, tutta la verità” 1

Festival di Sanremo, Claudio Bisio: “Baglioni ossessionato dai migranti” 1

PRESIDENTE NIGERIA: “NON DATE ASILO A NIGERIANI, SONO DELINQUENTI” 1

Altro che Venezuela, i veri interessi dell’Italia si chiamano Libia ed Egitto. 1

CNN: Arabia Saudita ed Emirati hanno fornito le armi americane a gruppi legati ad al Qaeda in Yemen 1

L’operaismo di «Empire» 1

Intelligenza artificiale e social network, la mappa del nuovo mondo 1

AMMIRAGLIO: “DOBBIAMO FERMARE LE ONG” 1

Perché Nava è stato silurato dalla Consob. Fatti, indiscrezioni e commenti 1

L’oro del Venezuela: non è l’unico caso di sparizione misteriosa di beni

IL PARTITO DELLE BANCHE ALLA BASE DELLA CRISI ECONOMICA 2018/2019 1

SIENA UNA VOLTA. 1

‘Bocconiana pentita’: banche d’affari e FMI i nuovi “colonialisti” 1

La Germania salva un’altra banca 1

Subodorare 1

A SANGUE FREDDO – IN PAKISTAN L’ANTITERRORISMO UCCIDE UNA COPPIA E UNA BAMBINA DI 12 ANNI SOLO PERCHE’ ERANO IN AUTO CON UN AMICO, SOSPETTATO DI TERRORISMO. 1

La grande campagna dell’imperialismo USA. 1

Israele: può finire il tempo dei maghi 1

Questi volti non esistono: li ha sfornati l’intelligenza artificiale 1

A cosa pensano gli algoritmi? Intervista a Dominique Cardon 1                 

Nuova pelle artificiale darà all’uomo abilità sovrumane

 

 

IN EVIDENZA

KRANCIC CONVOCATO DALLA POLIZIA PER LE VIGNETTE

5 FEBBRAIO 2019

Ieri Vox ha avuto problemi tecnici negli aggiornamenti dei post, quindi pubblichiamo oggi l’incredibile vicenda che sta colpendo Alfio Krancic (vignettista non allineato e non buonista):

https://voxnews.info/2019/02/05/krancic-convocato-dalla-polizia-per-le-vignette/

 

 

 

ONU AMMETTE: CON SALVINI 1.000 CLANDESTINI MORTI IN MENO

FEBBRAIO 6, 2019

 

E alla fine, anche l’Unhcr, famigerato braccio armato dell’Onu sull’immigrazione, ammette: con i porti chiusi non diminuiscono solo gli sbarchi ma, anche, come ovvio effetto collaterale, i clandestini morti.

E ora le chiacchiere dei buonisti stanno a zero: ditelo, che preferite più morti,

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ONG / TUTTI GLI SQUALI NEI MARI DELLA “SOLIDARIETA’” – DA GATES A SOROS

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Volete sapere tutto sul mondo delle ONG, ossia le Organizzazioni Non Governative? Volete leggere quello che gli altri non scrivono sugli affari, le cifre, i protagonisti, le connection di quell’universo in gran parte sconosciuto e che macina milioni di euro e di dollari sulla pelle dei cittadini, soprattutto dei migranti? Di coloro i quali issano bandiere di solidarietà, pietà umana e fratellanza, ed invece sguazzano nei più luridi traffici, tra scrosci d’appalusi di tutti coloro che “non sanno” o fanno finta di non sapere? Ebbene alcuni mesi fa – giugno 2018 – è uscito un libro edito da Zambon, “ONG, il cavallo di Troia del capitalismo globale” che tutti dovrebbero leggere, per farsi un’idea di quel mondo spesso sommerso, popolato da montagne di soldi, incredibili interessi, ragnatele societarie, personaggi  spesso border line e tutto quello che fa ONG. Un libro ovviamente oscurato dai media, sempre genuflessi di fronte ai colossi, da Big Pharma (tra l’altro nel volume si parla non poco dei business con i vaccini) ai giganti bancari fino alle ONG, nei cui mari dorati nuotano a loro piacimento squali della specie più famelica, un nome su tutti George Soros a bordo della sua corazzata, la Open Society Foundation.Un vero pugno nello stomaco, un j’accuse in piena regola, zeppo di documenti che stanno a sostegno di tutta l’impalcatura giornalistica. A scriverlo è Sonia Savioli, milanese  di nascita e toscana di adozione, un tempo dimafonista dell’Unità e poi fotografa per la Cgil. Al suo attivo romanzi (Campovento, Il viaggio di Bucurie, Il possente coro, Marea nera); e saggi (Alla città nemica, Slow life, Scemi di guerra). Collabora con il giornale on line Il Cambiamento e con Il Centro di Iniziative per la Verità e la Giustizia (Civg).

Seguiamo il filo dell’inchiesta partendo da alcune cifre base.

“Circa 50.000 organizzazioni non governative svolgono attività a livello internazionale. L’ammontare del denaro che utilizzano si misura in migliaia di miliardi di dollari. Nel 2012 si calcolava che superasse i 1.100 miliardi. Nel 2014 erano 4.186 le ONG consulenti dell’Onu“.”Le ONG sono uno degli attori e dei mezzi per sostituire il pubblico con il privato, persino nei rapporti istituzionali. Le ONG ‘affiancano gli Stati’, le ONG svolgono ruoli politici a livello ‘sistemico’. Le ONG, associazioni private che nessuno ha mai eletto. Che non sono soggette ad alcun controllo popolare. Delle quali i popoli non conoscono i dirigenti, i programmi, le politiche e spesso nemmeno i bilanci, sono diventate gli interlocutori delle istituzioni internazionali e gli agenti di politiche decise a livello globale. Altro che embrioni di democrazia internazionale!”.Più chiari di così…

DA AMNESTY SAVE THE CHILDREN

Comincia la rassegna delle ‘stars’. Scrive Savioli: “Amnesty International è finanziata dalla Commissione Europea, dal governo britannico, dalla Open Society Georgia Foundation del famigerato benefattore internazionale George Soros, solo per citarne alcuni. Irene Kahn, direttrice di Amnesty, suscitò lo sdegno degli stessi attivisti andandosene con una liquidazione di 500 mila sterline nel 2009. Suzanne Nossel, altra direttrice di Amnesty nel 2012-2013, aveva prima lavorato per multinazionali Usa della comunicazione, per il Wall Steet Journal, per il Dipartimento di Stato Usa dove si era distinta per le sue posizioni filoisraeliane e a favore dell’intervento militare in Afghanistan. L’attuale direttore di AmnestySalil Shetty, prende uno stipendio annuale di 210 mila sterline”.Passiamo a Save the Children. “Cacciata da Pakistan e Siria con l’accusa di lavorare per la Cia, prende soldi da Chevron, Exxon, Mobil, Merck Foundation, Bank of America e molti altri potentati economici citati sul suo sito ufficiale come sponsor, oltre che dall’immancabile Soros e dai due benefattori mondiali Bill Melinda Gates, dall’Unione europea e dal governo britannico. Uno dei suoi passati direttori, Justin Forsyth, nel 2013 prendeva un salario di 185 mila sterline per salvare i bambini. Era stato prima direttore di Oxfam, poi consigliere di Tony Blair, quindi direttore delle ‘campagne strategiche di informazione’ di Gordon Brown; adesso è direttore Unicef”.Eccoci a Medici Senza Frontiere. “Nel 2010 aveva un bilancio da 1 miliardo e 100 milioni di dollari. Nel 2014 il direttore Usa (Doctors Without Borders) prendeva uno stipendio di 164 mila dollari l’anno, però per risparmiare viaggiava in aereo in ‘economic class’. E di questo si vantava. Tra i finanziatori di MSF ci sono Goldman Sachs, Citigroup, BloombergRichard Rockfeller, padrone e dirigente di svariate multinazionali, per 21 anni presidente della filiale Usa di questa organizzazione caritatevole, che si è trovata spesso in situazioni ambigue sui teatri di guerra, accusata di essere di parte e non necessariamente la parte giusta. Accusata di lanciare falsi allarmi per false epidemie, che però richiedevano vere campagne di vaccinazione. Naturalmente anche qui non mancano Soros e Bill Gates”.Primo commento: “Il lato ‘umoristico’ di tutta la faccenda, e rilevatore in modo inequivocabile e incontestabile, è che se i 1.100 miliardi annui delle ONG e quelli spesi ogni anno dalle ‘fondazioni benefiche’ fossero semplicemente redistribuiti ai poveri, la povertà sarebbe solo un ricordo. Rivela quindi che queste montagne di denaro sono in realtà investimenti per fare altro denaro”.Ancora. “Il capitalismo globale ha intrecciato una rete sinergica tra le proprie grandi industrie, le istituzioni sovranazionali, le grandi fondazioni che ne sono del resto un’emanazione diretta, i centri di studio e di ricerca, le ONG. Che in alcuni casi sono anch’esse un’emanazione diretta e una delle facce del grande capitale”.

A BORDO DELLA CORAZZATA GRIFFATA SOROS

Come nel caso, emblematico su tutti, della Open Society dello squalo di tutti i mari, Soros, il Mangia-Paesi, come cercò di fare addirittura con l’Inghiterra un quarto di secolo fa, provocando il crollo della sterlina, ma anche gravissimi contraccolpi alla nostra lira, quando il governo Amato varò una politica lacrime & sangue.

Una Open, ironizza l’autrice citando alcune parole autocebratative della Fondazione, che “lavora per costruire democrazie vivaci e tolleranti i cui governi siano responsabili e aperti alla partecipazione di tutto il popolo”. Incredibile ma vero.Vediamo i principali dirigenti a livello internazionale. Partendo dalla nostra Emma Bonino, che fa parte del suo international board: “questa signora che ben conosciamo tra il 1994 e il 1999 era commissaria europea per gli aiuti umanitari, la pesca, i consumi, la salute dei consumatori, la sicurezza del cibo. E’ dirigente del partito Radicale Transnazionale”.Passiamo a Maria Cattaui: “Segretaria generale della Camera di Commercio Internazionale dal 1996 al 2005. Dal 1977 al 1996 ha diretto il Forum Economico Mondiale (World Economic Forum) a Ginevra. Dirigente dell’Internationl Crisis Group (ICG), dell’East West Institute, dell’Istituto Internazionale per l’Educazione, tra gli altri. Tanto per avere un’idea, l’ICG è una ONG internazionale diretta da politici di professione e globalisti neoliberisti imperialisti per vocazione, che dice di voler prevenire le guerre e, a questo scopo, cerca di far pressione sui governi di tutto il mondo che l’Occidente giudica scomodi, affinchè si sottomettano o levino le tende. Tra questi pacifisti troviamo Javier Solana e il famoso pacifista Wesley Clark, ex comandante supremo della Nato“.

Eccoci quindi ad altri pezzi da novanta nella task force delle truppe targate Soros.

Anatole Kaletsky, dirigente di Gavekal Dragonomics (Hong Kong e Pechino), azienda di investimenti globali; dirigente di JP Morgan per il ramo mercati emergenti. Annette Laborey invece si vantava di sostenere gli intellettuali ‘indipendenti’ in Jugoslavia, Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, Germania Est e Repubbliche Baltiche, fino a che non sono crollati i regimi socialisti. Marck Mallock Brown è particolarmente interessante: ex numero due dell’Onu, membro del Foreign Office e della Camera dei Lord, dirigente della Society of Ginecologic Oncology, una società diventata nel 2012 ONG i cui partners sono le più grandi multinazionali farmaceutiche; dirigente di Investec, multinazionale della finanza, e di Seplat, compagnia petrolifera nigeriana; dirigente di Kerogen, multinazionale del petrolio e del gas. Quindi vicesegretario Onu sotto Kofi Annan, docente alla Oxford University e alla Yale University“. Ottimo e abbondante.Tra le sigle nell’arcipelago tanto umanitario partorito da Soros, da rammentare un’altra ONG baciata dalla fortuna, Refugee International, dedita all’aiuto quotidiano dei rifugiati di tutto il mondo. Che però, secondo non pochi addetti ai lavori, recita una grande “sceneggiata” solo per drenare soldi e raccogliere applausi, come è stato nel caso dei Rohingya del Myanmar (l’ex Birmania) nel 2017.Ma chi è il numero uno di Refugee? Si chiama Eric P. Schwartz. “Un pezzo da novanta – dettaglia l’autrice – ha ricoperto l’incarico di assistente Segretario di Stato Usa per il settore Popolazione, Rifugiati, Immigrati; consulente per gli Affari Internazionali e assistente speciale del presidente per gli Affari Multilaterali e Umanitari. Ha giocato un ruolo fondamentale, Schwartz, nel dispiegamento di forze Usa nell’Africa Occidentale e nei rilevanti impegni Usa in Centroamerica e in Kossovo; ha lavorato con la segretario di Stato Hillary Clinton; ha diretto il Connect US Fund, una multifondazione ONG finalizzata a promuovere l’impegno ‘responsabile’ degli Usa oltreoceano”.Un pedigree anche stavolta multistellare.

SIAMO LA COPPIA PIU’ UMANITARIA DEL MONDO 

Siamo ora al cospetto della coppia più bella del mondo sul fronte ‘umanitario’, gli arcimiliardari Bill e Melinda Gates, a bordo di un’altra super corazzata, la Bill & Melinda Gates Foundation (BMGF), la più ricca al mondo. Un tandem che ha molto a cuore la salute dell’umanità, i destini dei poveri, l’istruzione negata a tanti bimbi del mondo e via di questo passo, con carità & passione.

Vediamo adesso chi è al timone di BMGF, oltre ai due “pupazzetti” Bill e Melinda, come li colorisce Sonia Savioli.

Warren Buffett ne è l’amministratore fiduciario. Un finanziere dalla pelle dura e dallo stomaco impellicciato con un patrimonio stimato nel 2017 da 75 miliardi di dollari (quindi ai vertici della hit internazionale dei Paperoni, ndr). Guadagnato con i fondi d’investimento, cioè con speculazioni perlopiù sulla pelle dei poveri del terzo mondo e dei lavoratori in genere. E’ importante azionista di Coca Cola, Gillette, Mc Donald’s, Kirky Company, Walt Disney. Possiede la terza compagnia di assicurazioni a livello mondiale. Ed è anche uno dei maggiori licantropi, pardòn, filantropi”.Così prosegue la ricostruzione delle mirabolnati imprese di Bill & Melinda. “Abbiamo poi qualcuno che non si

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Una sinistra ben ‘addestrata’

6 febbraio 2019 –  Francesco Carraro

Landini, il nuovo segretario della CGIL, ha inaugurato il suo mandato nel CARA (il Centro Accoglienza Richiedenti Asilo) di Mineo. Qualche giorno fa Pierluigi Bersani, in un contraddittorio con Matteo Salvini, ha di nuovo toccato il tasto dei migranti provando a spiegare al leader leghista perché costoro hanno bisogno di noi e perché l’Italia ha bisogno di loro.

In particolare, l’ex segretario Dem ha tirato fuori il solito esempio dei lavori umili che gli italiani non vogliono più fare. I due episodi ci raccontano tantissimo sul declino, storico e irreversibile, della sinistra italiana, ma ancor di più ci spiegano perché essa si sia trasformata nel contrario di ciò che vorrebbe essere. Un insieme di partiti, di sindacati, di associazioni, di movimenti – una costellazione di forze, insomma – oggettivamente di destra, come direbbe un marxista duro e puro. E quando parlo di “destra” impiego il termine per riferirmi agli agenti della conservazione dello status quo. La destra intesa come agglomerato dei “conservatori” del sistema economico-finanziario-sociale oggi dominante: l’ordoliberismo in tutte le sue forme e manifestazioni. C’è più di qualche indizio a confermare tale tesi.

 

Innanzitutto, l’ossessione per tutto ciò che non è italiano e nazionale, quindi lo sradicamento della “Sinistra destrorsa” italiana dalle esigenze, dai bisogni, dalle speranze, dai desideri, dalle necessità, dalle aspettative della popolazione italiana.

 

Quando, nel dibattito di cui sopra, Salvini dice a Bersani di essere, prima di tutto, preoccupato dello stato di indigenza di sei milioni di connazionali, Bersani assume un’espressione tra lo stupefatto e l’ironico. Un’espressione che coincide con l’impressione suscitata in noi dal nuovo segretario della CGIL che va al Cara di Mineo per festeggiare la sua nomina. Segretario della CGIL, capite?

 

Confederazione Generale Italiana (non “Internazionale”) del Lavoro. Ecco, la sinistra odierna ha questa perversa, innaturale, illogica devozione per il melting pot culturale e non si rende conto che tale crogiuolo non è frutto di una libera scelta di masse gaudenti e liberate, ma il precipitato storico dello sfruttamento

 

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BREVI CENNI SULL’UNIVERSO NEOLIBERALE

MARCO ADORNI – 22 gennaio 2019

Quando un anziano piange ci rende particolarmente tristi. È più forte di noi. Mentre il pianto del bambino irrita (se stiamo mangiando al ristorante) o rallegra (se sta dando noia a qualcuno che ci sta antipatico), l’anziano in crisi suscita la più profonda empatia. Questa regola è stata infranta l’altro giorno. Davanti alle lacrime del coccodrillo Claude Juncker, che piagnucolava circa il fatto che l’Europa non è stata solidale con la Grecia, non ho provato altro che un senso di nausea e quieta disperazione: ma davvero crede che ce la beviamo?

Che cos’è successo, poi, dopo il pubblico pentimento? Niente. Tutto è continuato come se nulla fosse. A parte qualche articoletto rosa dei coraggiosi giornalisti italioti, che hanno telefonato ai soliti quattro o cinque personaggi arcinoti e iper-presenti della ribalta nazionale per sapere che pensassero, loro, dell’autodafé presidenziale. E, allora, ecco Alessandro Baricco salire sul palco e sostenere che, un tempo, la gente prendeva sul serio le lezioni degli insegnanti, le diagnosi e le terapie del medico, le ricette degli economisti: ah, i bei tempi di quando il popolo era crasso e credulo! E, poi, Ernesto Galli della Loggia prendersela con le classi dirigenti ormai incapaci di guidare e/o comprendere e/o rappresentare alcunché – men che meno «gli strati profondi delle società occidentali». E, dulcis in fundo, Enrico Letta, già economista della scuola di Andreatta e Prodi – i responsabili delle riforme che hanno spalancato le porte del debito pubblico italiano alla speculazione internazionale (con l’eccellente risultato di raddoppiarne il rapporto con il Pil nel giro di un gruzzolo d’anni) e aperto la strada alla deregulation bancaria –, già sotto-segretario alla presidenza del Consiglio (governo Prodi), già dirigente dell’Aspen Institute Italia, già frequentatore del gruppo Bilderberg, già membro della Trilateral Commission, accusare le élite politiche di due vizi capitali: volontà all’autoconservazione e machiavellismo. Un’accusa singolare, questa: è come lamentarsi con un nazista perché incapace di provare empatia nei confronti dell’ebreo cui egli stesso ha inflitto terribili e inumane sofferenze.

Sta parlando seriamente? Ebbene sì. Letta non sta scherzando. Non scherzava nemmeno nel 1997, quando pubblicava un libro, con intento non satirico, intitolato Euro sì. Morire per Maastricht (ed. Laterza). Se ne volete una conferma, vi è sufficiente digitare in Google il titolo del libro. Non vi dovrete stropicciare troppo gli occhi, avrete capito bene: Letta vi starà dicendo che gli Italiani devono sacrificarsi, fino a morire per l’Euro, come, a suo tempo (nel 1939), fu fatto per la Polonia! Il supremo sacrificio, nel 1997, veniva indicato come necessario per ragioni patriottiche: l’Italia avrebbe avuto tanto da guadagnare dalla costruzione della moneta unica! Sei anni dopo la pubblicazione, Enrico Letta, nelle vesti di Presidente del Consiglio (28 aprile 2013-22 febbraio 2014), avrebbe girovagato per le cancellerie europee, elemosinando impossibili margini di manovra all’interno del duro regime d’austerità a moneta unica promosso dalle banche tedesche. 

È davvero così difficile capire che il matrimonio tra Ue e poteri forti porta miseria, svuotamento delle sovranità nazionali e della democrazia? E, annesso a tutto ciò, al declino fatale e inarrestabile della politica? Se non riuscite a capacitarvi del perché sembri importarcene poco, e di quanto strana e contraddittoria risulti la relazione tra la biografia politica di un campione del neo-liberalismo come Letta e le sue esternazioni come libero cittadino nonché rettore della Scuola di affari internazionali e professore alla facoltà di Sciences Politique della Sorbona, è perché non avete fede nell’imperscrutabile νόος cosmico che configura l’ordine “spontaneo” del mercato e governa le nostre condotte individuali, sociali e politiche. È solo in questo cosmos che le altrimenti incomprensibili biografie dei governanti trovano una convincente chiusura razionale.

Storicamente il capitalismo tende a presentarsi come forma ultima di ordine naturale e sociale, assumendo un aspetto di religione puramente cultuale, «la più estrema forse che mai si sia data» (Walter Benjamin, Capitalismo come religione). Il neoliberalismo ne costituisce l’estremizzazione, una forma di potere governativo e biopolitico che cancella l’ambito della decisione dalla sfera del politico e impone il pensiero unico, l’impossibilità di trovare alternative al governo del mercato (Margaret Thatcher docet). Non c’è spazio di manovra politica se non attraverso tentativi di azioni di rottura dal basso, come stanno dimostrando i Gilets Jaunes in queste settimane, e in generale le rivendicazioni di sovranità popolare e democratica delle masse che si sono manifestate in questi anni inter alia con gli Indignados in Spagna o il movimento Cinque Stelle in Italia.

Dato un quadro politico continentale dei movimenti popolari piuttosto sconfortante (il declino di Podemos in Spagna, l’avvio di un processo di istituzionalizzazione dei Cinque Stelle in Italia, l’ascesa di forze che si ispirano al nuovo fascismo, ecc.), risulta sempre più difficile non cedere alle sirene rassicuranti del discorso del potere, che rovescia sugli organizzatori del consenso degli ultimi e penultimi l’accusa di populismo, quando la realtà è la semplice verità laclausiana che ogni costruzione politica è una costruzione discorsiva e populistica. Con un corollario: la ricetta populista doc non è prevedibile né predeterminabile quanto agli effetti politici. Ed è poi questo elemento di scarsa predicibilità a rendere il populismo autentico il vero spauracchio delle élite, da cui la malevola equazione populismo=sovranismo=neofascismo. Il popolo va impaurito, va paralizzato, va reso incapace di costruire un populismo non controllabile. E che cos’è, tale equazione, se non una delle sequenze cruciali delle catene equivalenti con cui viene costruita la totalità discorsiva neo-liberale? Cioè, siamo o no di fronte a un populismo dall’alto? Certo che sì.

Ma cosa si intende con “populismo dall’alto”? Una parodia del populismo laclausiano, per intenderci, in quanto basata su una costruzione del discorso politico che si fonda sulla neutralizzazione del campo politico, cioè su una declinazione irenica dell’antagonismo e della conflittualità che sono il sale delle moderne democrazie, così da determinare quella particolare condizione di disciplinamento dello spazio sociale e politico in grado di declinare i momenti rivoluzionari in momenti di restaurazione dell’ordine. Per dirla in termini gramsciani, il populismo dall’alto produce «rivoluzioni passive», momenti di risignificazione del campo politico in cui la tesi, in questo caso la ricetta neoliberalista, sviluppa tutte le sue possibilità di lotta egemonica fino al punto di incorporare una parte dell’antitesi (la ricetta social-democratica). L’opposizione amico-nemico, che caratterizzava l’agone politico moderno, diventa, così, una coincidentia oppositorum, una partnership concorrenziale, una lotta priva di polemos tra significanti che si legittimano vicendevolmente e alternativamente all’interno dello stesso frame egemonico. Non c’è più un fuori e un oltre: è il populismo senza frontiere antagonistiche, divisioni sociali e, quindi, politica. È il populismo che non attiva il popolo e che alla fine non corrisponde alle domande democratiche dei gruppi sociali che lo compongono. Il populismo dall’alto è, insomma, la negazione della politica, è la risignificazione del campo politico come mercato, luogo di scambio, di mediazione, di compromesso, di stasi, di “pace”. È ciò che è avvenuto nel trentennio neoliberale: la neutralizzazione del conflitto e quindi della politica, leggi democrazia.

Il populismo “dal basso” (o democratico), invece, è quello caratteristico delle forze politiche che sanno istituire una frontiera antagonistica tra popolo ed élite e sanno perciò individuare nell’oligarchia un hostis publicus, opponendovi un fronte sociale unificato in una prospettiva temporale di durata e fedeltà all’evento di rottura e in funzione di un programma politico di trasformazione radicale dell’ordine sociale in senso redistributivo.

Il M5S è nato su queste basi. Ora, al governo con forze sistemiche come la Lega, è chiamato a operare in una logica istituzionale che rischia di comprometterne la fisionomia delle origini. E certo, se va dato atto, tanto ai pentastellati quanto ai leghisti, che il loro populismo è partito davvero da un “registro basso” – l’appello al popolo è stato rude, volgare, schietto, senza mezzi termini, al limite dell’insopportabile (dal VaffaDay di Grillo alla comunicazione salviniana) – mi rifiuto di credere che il popolo italiano sia un’entità così semplice e ordinata da essere identificabile agli slogan più o meno razzisti, xenofobi o idioti dell’uno o dell’altro esponente. Nota di teoria politica: non andrebbe mai dimenticato che lo stesso termine “popolo” è, per sua natura, ampiamente polisemico, e che la volatilità dei consensi è talmente elevata da mettere in forte discussione la solidità dell’identificazione sic et simpliciter tra “discorso” del leader e sentimento della base.

Ampio è il vuoto tra élite e popolo, dunque, soprattutto nel nostro Paese. E questo per una semplice ma fondamentale ragione: la sedicente “sinistra” ha disertato il discorso della trasformazione sociale. Il punto è che, se escludiamo dall’analisi i partitini e i gruppetti politici che dimostrano una capacità egemonica inversamente proporzionale all’intensità del loro irriducibile attaccamento alla bandiera della testimonianza, il Pd e i suoi satelliti hanno abbandonato da lungo tempo un terreno che ha costituito un formidabile collante ideologico di Pci e Psi nel Secondo Dopoguerra, ovvero quel significante chiamato “anticapitalismo”, che non era tanto la lotta al “discorso del padrone” quanto la capacità di leggere criticamente l’apparato ideologico del presente, la realtà del capitale come forza non solo economico-materiale ma anche simbolica, come potere ontologico del sociale. La mancanza di un’analisi dei dispositivi del potere odierno – che di necessità deve assumere una prospettiva analitica multipla – non potendosi limitare né alla geopolitica né all’economia ma comprendendo anche la dimensione politico-simbolica – è la ragione per cui Pd e satelliti sono finiti – e finiranno – per non avere gli strumenti discorsivi necessari a trascendere il regime discorsivo dell’egemonia neoliberale, a rendere possibile l’impossibile. Il problema, evidentemente, è che il there is no alternative è diventato parte anche del loro immaginario, che si risolve in puro folkore.

Di fronte a questo desolante e statico quadro, gli unici momenti in cui ancora si sogna è quando qualcuno fa un po’ di casino, come succede in queste settimane in Francia con i Gilets Jaunes, che stanno facendo affossare i consensi, fino a poco tempo fa entusiastici, verso la presidenza del populista neo-liberal Macron. La cosa non sorprende minimamente. Si sapeva dell’estrema volatilità dei leader neo-liberali. Il parallelo italiano di Macron è Matteo Renzi, l’indemoniato della chiacchiera vuota, del flatus vocis, con i suoi modi sbrigativi da venditore di pentole in corriera, talmente convinto di rappresentare il “nuovo” da desiderare di far tabula rasa del suo stesso partito. Assurto agli onori della cronaca come Grande Rottamatore del Pd, il Torquemada dei democratici italiani si è rapidamente consunto come neve al sole. Quando si dice gioventù bruciata. Ma chiediamoci perché è finita la grande rivoluzione culturale che si proponeva?  E perché Macron rischia di fare la stessa fine?

Il discorso che accompagna al potere il populista neoliberale appoggia sistematicamente sull’immagine del liberatore che risveglia le intime potenze racchiuse nel popolo. La natura dell’eroe della rivoluzione neoliberale è quella del demiurgo, che promette di plasmare il mondo a sua immagine e somiglianza: farà svanire gli impedimenti e i lacciuoli che impediscono la crescita indefinita del mercato, favorirà il riconoscimento sociale dei meritevoli, perseguirà il bene comune, l’efficienza dei processi, la trasparenza, ecc.

Il 24 aprile 2017, quindi due settimane prima del secondo turno delle presidenziali (7 maggio 2017), Emmanuel Macron faceva uscire il suo memoir intitolato Rivoluzione. Il sito di Amazon lo presentava così: «Una sfida aperta ai populisti e a coloro che non credono più nelle istituzioni, senza false promesse, che potrebbe cambiare per sempre il modo di fare politica in Europa. “Alcuni pensano che il nostro Paese sia in declino, che il peggio debba ancora arrivare, che la nostra civiltà sia in via di estinzione. Che il nostro unico orizzonte consista nell’arretramento o nella guerra civile. Che per proteggerci dalle grandi trasformazioni mondiali dovremmo tornare indietro nel tempo e applicare le ricette del secolo scorso. Altri pensano che la Francia possa continuare più o meno così, scendendo sì la china, ma una china non troppo ripida. Che il gioco dell’alternanza politica basterà a darci un po’ di respiro. Dopo la sinistra, la destra. Le stesse facce e gli stessi uomini, oramai da tanti anni. Io sono convinto che abbiano torto, sia gli uni sia gli altri”». Notare le espressioni: “false promesse”, “cambiare per sempre il modo di fare politica”, “arretramento” e “guerra civile”, “le stesse facce, gli stessi uomini”. La risposta del popolo francese alle ricette di Macron è stata quella dei Gilet Gialli.

E in Italia? Da noi, intrappolati nella rete delle necessità della crisi economica, come possiamo far ripartire un discorso democratico dal basso? Resuscitando il Pd, è ovvio! Invece di porsi la questione dell’effettivo esercizio di sovranità popolare e democratica, i giornali vicini al centrosinistra si esaltano per la creazione, da parte dell’ex ministro allo sviluppo economico, Carlo Calenda, di una lista unitaria anti-sovranista per le Europee, comprendente, oltre al moribondo Pd, i partiti di sinistra e le forze civiche europeiste: questa lista salverà il Pd! È naturalmente una grande notizia.

Per confezionare al meglio questo nuovo prodotto elettorale neo-liberalista, la linea strategica del marketing team di Calenda ha esteso l’invito, oltre che all’immarcescibile filoeuropeista Bonino,anche alla new entry del centrosinistra nazionale, Federico Pizzarotti, non più solo sindaco di Parma ma ora anche presidente nazionale della nuova creatura politica, Italia in Comune, che lui stesso ha fondato con l’intento di superare il Pd (definito da Pizzarotti stesso un “partito di carta”) e creare una nuova classe dirigente nazionale (consultate il loro sito, please). Anche Pizzarotti, dunque, homo novus.

Analizzare il fenomeno dalla città di Pizzarotti può portare qualche elemento di riflessione a chi, non vivendola, non ne ha un’immagine esaustiva. Fa riflettere come «la Repubblica» lanci la volata a Pizzarotti, infischiandosene dell’accertamento della verità dei fatti. Michele Smargiassi, per esempio, su «la Repubblica» del 16 dicembre scorso, affermava, senza

Continua qui: https://www.senso-comune.it/rivista/penisola/brevi-cenni-sulluniverso-neoliberale/

 

 

 

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

Striscia la notizia, la bomba di Dago su Sanremo: “Claudio Baglioni e Salvini, tutta la verità”

2 Febbraio 2019

Ieri, venerdì 1 febbraio, a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35), Jimmy Ghione ha intervistato Roberto D’Agostino, fondatore del sito Dagospia.com, che ripercorre le tappe dell’affaire Baglioni-Salzano-Sanremo.

D’Agostino spiega: «Il conflitto d’interessi c’è ed è lampante, tant’è vero che nel 2011 Gianni Morandi rifiutò di fare il direttore artistico dicendo che c’era una clausola sul contratto che diceva in maniera esplicita che chi sceglieva le canzoni, cioè il direttore artistico, non poteva appartenere a una casa discografica. Questa clausola improvvisamente scompare nell’anno 2017 quando si appalesa la silhouette di Claudio Baglioni. E quindi si ha il via libera e il conflitto di interessi non esiste più».

E continua: «Il peccato originale di tutta questa faccenda è che la più grande trasmissione Rai, cioè il Festival di Sanremo, sia stata appaltata dal 2000 in poi a estranei. Il Festival di Sanremo Rai non esiste più perché prima era il Festival di Ballandi,

 

Continua qui: https://www.liberoquotidiano.it/news/spettacoli/13425913/striscia-la-notizia-sanremo-dagospia-salzano-baglioni-migranti-salvini.html

 

 

 

 

 

Festival di Sanremo, Claudio Bisio: “Baglioni ossessionato dai migranti”

5 Febbraio 2019

Claudio Bisio è tornato a Sanremo con un monologo sulla questione dei migranti, ripercorrendo le storiche canzoni di Baglioni e soffermandosi sui loro riferimenti al tema dell’immigrazione.

Se la politica nostrana non fa irruzione nella serata di debutto, non è Sanremo. L’edizione 2019 del Festival non viene meno a questa tradizione, giusta o sbagliata che sia. Stavolta a prendere il microfono è stato Claudio Bisio. Il 61 attore, conduttore e cabarettista piemontese ha affrontato di petto le polemiche dei giorni scorsi con un monologo tutto incentrato sul conduttore e dittatore artistico Claudio Baglioni. Queste all’incirca le sue parole: “Nel 1974 cantava ‘Passerotto non andare via’, ma era una posizione chiarissima, era un’esortazione agli immigrati: restate qui. E quello che è più grave è che lo ha scritto trent’anni prima che arrivassero, li ha sobillati. Baglioni da sempre è un sobillatore, un anarchico, un rivoluzionario!”. Il riferimento ironico è alle polemiche che hanno preceduto il Festival di Sanremo, legate alle dichiarazioni di Baglioni sul tema dei migranti, con alcuni versi delle sue canzoni presi a prestito per dimostrarne la “pericolosità”.

L’appello (serio) ai giornalisti

“Baglioni non contento – ha continuato Bisio – anni dopo ha scritto una canzone dal titolo… no, non voglio dirlo perché siamo su Rai 1”. Un po’ di suspense, poi la rivelazione: “La canzone si chiama Tutti Qui. Capite? Anni fa l’ha scritta… E mentre qui arrivavano lui che fa? Io me andreiiii”.

Lo stesso Baglioni “è ossessionato dai migranti: ha scritto ‘migravamo come due gabbiani’ e ‘100 ponti da passare’ e “sirene di navi che urlavano al vento”, “se avessi un’auto da caricarne 100 mi piacerebbe un giorno portarli al mare”

Continua qui:  https://www.viagginews.com/2019/02/05/festival-sanremo-claudio-bisio-baglioni-ossessionato-migranti/

 

 

 

 

BELPAESE DA SALVARE

PRESIDENTE NIGERIA: “NON DATE ASILO A NIGERIANI, SONO DELINQUENTI”

6 FEBBRAIO 2019

Sulla tratta di nigeriani che nel periodo del Pd al governo ha portato in Italia oltre 80 mila clandestini, è importante ricordare l’intervista al britannico Telegraph, che il presidente della Nigeria, Buhari, rilasciò tre anni fa.

 

Buhari spiegò che ad abbandonare il suo Paese sono, in gran parte, criminali, perché i nigeriani non avrebbero alcun motivo di chiedere Asilo, visto che in Nigeria non ci sono guerre.

E non c’erano allora come non ci sono oggi.

 

Parlando con il corrispondente Colin Freeman durante un viaggio a Londra,

Continua qui: https://voxnews.info/2019/02/06/presidente-nigeria-non-date-asilo-a-nigeriani-sono-delinquenti/

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

Altro che Venezuela, i veri interessi dell’Italia si chiamano Libia ed Egitto

Restare fuori dalla disputa Maduro-Guaidò, rimanere neutrali e agire per la mediazione tra le parti, è il minimo che si debba fare in questa fase storica: noi non siamo isolati sul Venezuela ma sulla Libia e sull’Egitto

Di Alberto Negri  05 Feb. 2019

Come al solito gli italiani e i loro leader politici fanno confusione tra ideologia, politica estera e interessi nazionali. I media e i giornali, sempre proni al più becero conformismo, accomunano la vicenda Venezuela alla Tav ma non alla Libia o all’Egitto e parlano di isolamento italiano.

All’Italia non dà retta nessuno da tempo e la storia è cominciata ben prima di questo governo, anzi l’esecutivo attuale è il risultato di questo isolamento. L’Italia venne già isolata nel 2011 quando decisero di far fuori Gheddafi, la sua caduta è stata la maggiore sconfitta del Paese dalla Seconda guerra mondiale che ha destabilizzato l’intero quadro politico.

Con il leader libico il 30 agosto 2010, sei mesi prima che iniziassero i raid, l’Italia aveva firmato un trattato economico, di difesa e cooperazione approvato da oltre il 90 per cento del Parlamento. Gheddafi era un dittatore ma era il “nostro” dittatore, che aveva scelto l’Italia come partner principale nell’energia a scapito degli altri paesi europei come Francia e Gran Bretagna.

In poche parole, il leader libico era la nostra carta geopolitica maggiore sul quadrante del Mediterraneo e si era impegnato a tenersi i profughi africani in campi che non avevano alcuno standard internazionale ma che non erano purtroppo diversi da quelli attuali. Il primo disastro umanitario lo abbiamo sotto gli occhi e l’Europa e gli Usa non fanno nulla per rimediare al disastro.

I paesi che allora attaccarono la Libia, passando sopra il nostro spazio aereo senza neppure farci una telefonata, sono Francia, Usa e Gran Bretagna, che non hanno mai sostenuto l’Italia, e mai la sosterranno, nel contenere il disastro libico e dei profughi.

L’Italia nel 2011 commise il grave errore di accodarsi ai raid della Nato e di concedere le sue basi anche sotto il ricatto che tra i bersagli dei nostri alleati c’erano pure i terminali di gas dell’Eni. Hanno fatto quindi leva sulla nostra paura di restare isolati per isolarci ancora di più.

La nostra partecipazione ai raid ha fatto crollare la credibilità dell’Italia sulla Sponda Sud: avevamo abbandonato e persino bombardato il nostro maggiore alleato. In sintesi, invece di aiutarci, ci hanno messo con le spalle al muro. Ci hanno ricattati e noi siamo caduti nella trappola. Anzi di più.

Questi stati hanno in seguito sistematicamente sabotato i tentativi italiani di ricomporre i dissidi laceranti tra le fazioni libiche infilando i loro rappresentanti nell’amministrazione di Tripoli. Tanto è vero che quando la Libia si spaccata tra governo di Tripoli e di Tobruk la Francia si è schierata dall’altra parte, appoggiata da Russia, Egitto ed Emirati.

La frattura è diventata ancora più profonda quando il generale Khalifa Haftar ha preso il controllo della Cirenaica battendo l’Isis e gli islamisti. Oggi l’Italia sostiene a Tripoli un governo Sarraj riconosciuto dall’Onu ma appoggiato da Fratelli Musulmani, Turchia e Qatar. Un governo in realtà boicottato dagli altri partner dell’Italia che hanno come obiettivo non solo le risorse energetiche libiche ma anche far fuori i Fratelli Musulmani, la parte perdente di questa fase storica mediorientale.

L’Italia, vulnerabile alle ondate di profughi e soprattutto alle sue incertezze politiche, è in pratica in conflitto con quelli che dovrebbero essere i suoi alleati europei. Gli stessi Stati Uniti mantengono un atteggiamento ambiguo: non

Continua qui: https://www.tpi.it/2019/02/06/venezuela-italia-isolamento-libia-egitto/

 

 

 

 

 

CNN: Arabia Saudita ed Emirati hanno fornito le armi americane a gruppi legati ad al Qaeda in Yemen

Le rivelazioni della CNN mettono in dubbio l’affidabilità dell’Arabia Saudita e fanno riflettere sulla necessità di interrompere la vendita di armi al paese arabo

Di Redazione TPI  05 Feb. 2019


L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno trasferito armi americane a gruppi collegati ad al Qaeda e una milizia salafita il cui comandante aveva prestato servizio nella sezione yemenita dell’Isis, secondo quanto rivelato da un’indagine della CNN.

L’inchiesta dell’emittente americana ha svelato che una parte delle armi sono finite anche nelle mani dei ribelli houthi che combattono contro la coalizione a guida saudita per il controllo del paese.

L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno attaccato lo Yemen nel 2015 dando vita ad una coalizione militare per cercare di ripristinare il governo del presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi e bloccare l’avanzata dei ribelli sciiti filoiraniani houthi.

Secondo la CNN, la coalizione ha usato le armi fabbricate negli Stati Uniti come moneta di scambio per comprare la lealtà delle milizie locali, rafforzare gli attori che combattevano per loro e influenzare il complesso panorama politico.

Questo comportamento è stato criticato dal Pentagono, secondo cui le monarchie del Golfo hanno infranto i termini dell’accordo preso con Washington in merito alla vendita di armi prodotte negli States.

L’inchiesta della CNN ha anche rivelato che la brigata di Abu al-Abbas, il cui fondatore è stato sanzionato dagli Stati Uniti nel 2017 per aver finanziato al Qaeda e la costola yemenita dell’Isis, è entrata in possesso dei veicoli corazzati Oshkosh fabbricati negli Stati Uniti.

Sul caso è stato sentito anche il portavoce del Pentagono Johnny Michael, che ha affermato: “Gli Stati Uniti non hanno autorizzato il Regno dell’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi Uniti a ritrasferire alcuna attrezzatura a partiti all’interno dello Yemen”.

Le armi però non sono passate solo dall’Arabia Saudita alle milizie che

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CULTURA

L’operaismo di «Empire»

Antonio Negri e Michael Hardt nel dibattito internazionale

 

04 FEBBRAIO 2019 Elia Zaru

Pubblichiamo un’anticipazione del libro di Elia Zaru, La postmodernità di Empire. Antonio Negri e Michael Hardt nel dibattito internazionale (2000 – 2018), in uscita in questi giorni per Mimesis. Empire ha avuto una diffusione planetaria e la sua pubblicazione ha scatenato una discussione amplissima che ha interessato le accademie e i movimenti di tutto il mondo. A distanza di circa vent’anni dalla prima edizione dell’opera, il presente saggio si pone come obiettivo l’analisi critica di questo dibattito e una sua ricostruzione tematica, al fine di mettere a confronto il lavoro di Negri e Hardt con le diverse interpretazioni da essi suscitate e così comprendere compiutamente il loro pensiero. 

L’idea di un rovesciamento del rapporto tra tattica e strategia, con la prima delegata all’organizzazione politica e la seconda alla conflittualità di classe, si ritrova già nelle riflessioni di uno dei pilastri dell’operaismo italiano: Mario Tronti. Convinto del fatto che «l’anello in cui la catena si spezzerà non sarà quello dove il capitale è più debole, ma quello dove la classe operaia è più forte»1, nella prima metà degli anni Sessanta Tronti matura l’idea per cui «i comportamenti d’insubordinazione spontanea degli operai costituiscono la strategia, mentre il partito rivoluzionario deve riconquistare il momento della tattica, ossia raccogliere, esprimere e organizzare il rifiuto diffuso del lavoro, fino a stabilire un’autentica crisi della macchina dello Stato»2.

A Tronti si deve anche la formulazione di un’idea importante per la comprensione di Empire. Si tratta di quella rivoluzione copernicana in seno al marxismo secondo la quale nel rapporto tra operai e capitale la classe operaia è da intendersi come soggetto attivo, mentre il capitale costituisce, nel conflitto con essa, l’elemento reattivo, che risponde alle lotte del proletariato con le ristrutturazioni del suo modo di produzione: «abbiamo visto anche noi prima lo sviluppo capitalistico, poi le lotte operaie. È un errore. Occorre rovesciare il problema, cambiare il segno, ripartire dal principio: e il principio è la lotta di classe operaia»3.

L’esperienza dell’operaismo italiano è tra le più significative della storia politica e intellettuale dell’Italia repubblicana. Il fatto che essa si sviluppi all’interno delle turbolente vicende che hanno interessato il movimento operaio dalla fine degli anni Cinquanta evidenzia la particolarità di quella che è stata definita la differenza italiana4. Secondo Hardt, «ai tempi di Marx il pensiero rivoluzionario pareva fondarsi su tre assi: la filosofia tedesca, l’economia [economics] inglese e la politica [politics] francese. Oggi questi assi sono mutati, dunque (se restiamo all’interno dello stesso quadro euro-americano) potremmo affermare che il pensiero rivoluzionario guarda alla filosofia francese, all’economia [economics] statunitense e alla politica [politics] italiana»5, di cui l’operaismo costituisce una parte fondamentale.

Il pensiero operaista non può però essere considerato un insieme organico, ma una coalescenza di esperienze soggettive animate da un desiderio collettivo: partecipare teoreticamente e praticamente al conflitto sociale in atto in Italia tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta. In questo senso, «la teoria operaista […] è immediatamente anche una vicenda politica, un’esperienza storica»6. Sergio Bologna, uno dei protagonisti di questa stagione, ritiene che l’operaismo italiano non possa essere «racchiuso in un testo fondamentale, in una qualche Bibbia, ma è la somma di diversi contributi teorici provenienti da alcuni intellettuali militanti che hanno fondato le riviste Quaderni Rossi e Classe Operaia»7. La prima iniziò le sue pubblicazioni nella seconda metà del 1961 sotto la spinta di Raniero Panzieri, ed «ebbe un grande impatto sul movimento operaio italiano»8. È il grado zero dell’operaismo, in cui si condensano il neomarxismo di Panzieri e l’inchiesta operaia di Romano Alquati:

Il gruppo dei Quaderni rossi ha il merito di riscoprire testi di Marx largamente trascurati dalla tradizione marxista – la quarta sezione del I Libro del Capitale, il Frammento sulle macchine dei Grundrisse, il Capitolo VI inedito – e di applicare all’analisi delle trasformazioni di fabbrica i concetti marxiani di sussunzione formale e sussunzione reale del lavoro al capitale, di lavoro astratto, divisione del lavoro e scissione delle potenze mentali della produzione. Dalle inchieste di Romano Alquati sulla forza lavoro alla Fiat di Torino e alla Olivetti di Ivrea si ricavano i concetti di composizione di classe e di operaio massa. Lo studio della composizione di classe consiste nell’analisi del nesso tra connotati oggettivi e connotati soggettivi della forza-lavoro, tra una specifica composizione tecnica della forza-lavoro, condizionata dalla configurazione del processo lavorativo, e una determinata composizione politica, che si esprime in un sistema tipico di comportamenti sociali e di riferimenti organizzativi. L’operaio massa, tecnicamente dequalificato e scarsamente disciplinato rispetto all’operaio di mestiere, incarna esemplarmente il concetto di lavoro astratto, puro dispendio di energia lavorativa, e sembra esprimere un forte potenziale conflittuale9.

Nel 1963 si manifesta la frattura interna a Quaderni Rossi a opera del gruppo che, di lì a poco, fonderà Classe Operaia (1964-1967) e darà vita alla «fase classica dell’operaismo»10, guidata soprattutto dalle teorizzazioni di Mario Tronti e dalla centralità dell’operaio massa. Le motivazioni alla base della spaccatura riflettono, ancora una volta, la differenza italianapropria dell’esperienza operaista, ovvero il connubio indissolubile di teoria e prassi politica. A pesare nella scissione furono «le diverse connotazioni che Panzieri e i sostenitori dell’azione immediata davano ai comportamenti di classe»11 nel contesto degli scioperi metalmeccanici dopo la scadenza del contratto nazionale nel 1962. Una mobilitazione che trova il suo apice nel luglio di quell’anno con i fatti di Piazza Statuto, pesantemente sconfessati dalle strutture del movimento operaio tradizionale e ricondotti invece, dagli operaisti trontiani, all’azione dell’operaio massa12. La rottura si consuma in un incontro del 31 agosto 196313 in cui Panzieri delinea in modo chiaro le divergenze teoriche, organizzative e politiche maturate all’interno di Quaderni Rossi14. Tra il pensiero di Tronti e quello di Panzieri si è ormai sviluppata una differenza importante che riguarda la maturazione delle forze produttive e il loro conflitto nei rapporti di produzione. Alla tesi di Tronti, per cui dentro la società capitalistica il punto più alto dello sviluppo è costituito dalla classe operaia, Panzieri oppone «una realtà oggettiva della contraddizione, tra l’altro senza alcuna dialettica storica ma come bloccata in una rappresentazione dicotomica della società capitalistica, non riducibile a un solo punto di osservazione privilegiato, per quanto posto al vertice dello sviluppo»15. Al contrario, l’operaismo trontiano e quello di Classe Operaia si caratterizzano proprio per l’assunzione di questo punto di osservazione privilegiato come fondamento dell’analisi teorica e dell’azione politica.

Classe Operaia viene pubblicata fino al 1967, ma alla fine del decennio, nuovamente, si manifestano gli operaismi e le loro differenze. La redazione della rivista si spacca. Da una parte gli operaisti «di destra, rappresentati da Tronti, Cacciari e Asor Rosa»16, fautori di una logica entrista nel Pci che afferma la necessità tattica di spostare il conflitto tra capitale e lavoro sul piano delle istituzioni, dello Stato e, in ultima istanza, del politico. Dall’altra, Negri e gli «operaisti di sinistra»17 intendono sviluppare un’azione strategicamente rivoluzionaria nel segno dell’autonomia della classe operaia rispetto alle istituzioni. I primi prendono la via dell’autonomia del politico, i secondi quella dell’autonomia del sociale e danno vita a Potere Operaio e, successivamente, ad Autonomia Operaia.

Tronti sostiene che «l’operaismo degli anni Sessanta comincia con la nascita di Quaderni Rossi e finisce con la morte di Classe operaia»18. Successivamente, l’operaismo «si riproduce in altri modi, si reincarna, si trasforma, si corrompe e…si perde»19. Negli anni successivi a Classe Operaia è soprattutto Negri a sviluppare un lavoro a cui Tronti attribuisce l’aggettivo di «postoperaista»20, ma che – in accordo con Negri – si può definire come «una nuova versione dell’operaismo, nella continuità della sua fondazione ontologica e del suo metodo»21. Secondo Sergio Bologna,

Negri è uno dei fondatori dell’operaismo, ma sin dai tempi di Classe Operaia il suo lavoro teorico ha avuto una dimensione, un’ampiezza, che travalicava i confini dell’operaismo. Se poi teniamo conto di tutta la sua produzione politico-filosofica dalla metà degli Anni ’70 ad oggi è evidente che essa supera largamente per ricchezza e complessità il terreno occupato dall’operaismo. Non so se riusciamo a parlare di un ‘negrismo’, certamente possiamo parlare di un sistema di pensiero di Antonio Negri, che in parte arricchisce l’operaismo in parte se ne allontana, perché segue un percorso solitario, un progetto che è soltanto suo. Sono due sistemi di pensiero differenti, incrociati per un certo verso ma totalmente indipendenti22.

Questo è vero soprattutto alla luce dell’impossibilità di definire l’operaismo come sistema organico e omogeneo; va però riconosciuto che le elaborazioni di Negri hanno saputo mantenere viva negli anni la volontà operaista di operare una «rottura della tradizione marxista ortodossa, italiana e non solo, riguardo al rapporto tra operai e capitale»23. Nel pensiero negriano dagli anni Settanta l’operaio diventa sociale24, così come la fabbrica, ma esso mantiene la posizione che il pensiero degli operaisti gli ha attribuito a partire dalla rivoluzione copernicana di Tronti:

nel teorizzare il passaggio dall’operaio massa all’operaio sociale, l’intento di Negri di avvalersi del metodo operaista delineato in Operai e capitale è evidente: la precedenza delle lotte operaie – quelle dell’operaio massa dei primi anni Sessanta – rispetto alla ristrutturazione capitalista è pienamente rispettata; come è in accordo con l’insegnamento operaista ritornare, in https://operavivamagazine.org/loperaismo-di-empire/

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO DISINFORMAZIONE

Intelligenza artificiale e social network, la mappa del nuovo mondo

10 gennaio 2019

In linea con l’attenzione da sempre riservata ai ‘temi caldi’ dell’attualità, anche in quest’ultimo numero dell’anno 2018 Gnosis dedica un primo spazio di riflessione (che proseguirà nella prima uscita dell’anno 2019) agli effetti sociali, politici ed economici delle nuove tecnologie digitali, il cui ruolo ha tanto inciso sui codici e sui paradigmi relazionali del nuovo secolo, modificando in profondità il profilo informativo e comunicazionale dell’uomo moderno.

Dopo il tradizionale Punto di vista di Sergio Romano, focalizzato sulla Brexit e le possibili conseguenze all’interno del Regno Unito e nello scacchiere geopolitico non solo europeo, una teoria d’articoli, con scansione multidisciplinare, indagano i diversi aspetti legati alla diffusività e alla pervasività dei social network, ormai cartina di tornasole dell’evoluzione individuale e della collettività digitale.

Le prime conquiste dell’intelligenza artificiale già consentono tecniche di disambiguazione che superano gli inciampi della natura polisemica delle parole, contestualizzandole e razionalizzandone la raccolta e l’elaborazione semantica (Federico Martelli e Roberto Navigli).

Dal campione massivo e multidirezionale dei social si coglie l’assuefazione digitale degli utenti che, più o meno consapevolmente, alimentano quei Big Data tanto economicamente appetiti da ispirare ambigue e selettive azioni di profilazione e d’influenza che trasondano dal mero campo commerciale (Michele Colajanni), inducendo gli analisti istituzionali e gli esperti accademici a promuovere attività di ricerca di tipo non solo situazionale / nowcasting ma anche previsionale / forecasting (Stefano Maria Iacus).

È necessaria una risposta sempre più competitiva alle sofisticate minacce via web, come nel caso degli account automatizzati che consentono ai social bot di aumentare esponenzialmente l’effetto invasivo e intrusivo (Maurizio Tesconi), ribadendo il ruolo strategico della cyber sicurezza in un’epoca, qual è la nostra, in cui l’evanescente confine tra reale e virtuale, e il conseguente ibrido ecosistema sociale e culturale richiedono operatori dell’intelligence sempre più all’avanguardia e cross-disciplinari (Arije Antinori). Questa nuova sensibilità consente di cogliere la portata innovativa ed espansiva dei mercati ‘data rich’ e l’impegno ‘integrato’ della gestione dei rischi secondo un approccio combinatorio delle informazioni, fondato sulla datacy (Carlo Batini), o emozionale, attraverso la sentiment analysis (Andrea Ceron).

Tornando sui temi più generali dell’intelligence, Gnosis propone l’analisi di Manlio Graziano, sui complessi rapporti tra politica e religione, dagli albori del cristianesimo e dell’islam sino al XVII secolo, sotto la spinta decisiva delle ‘minoranze creative’ nonché dell’altalenante e contraddittoria osmosi tra l’instrumentum regni e l’instrumentum religionis; e di

Continua qui: http://www.sicurezzanazionale.gov.it/sisr.nsf/gnosis/intelligenza-artificiale-e-social-network-la-mappa-del-nuovo-mondo.html

 

 

 

DIRITTI UMANI – IMMIGRAZIONI

AMMIRAGLIO: “DOBBIAMO FERMARE LE ONG”

6 febbraio 2019

L’ammiraglio di Divisione, Nicola De Felice: IL flusso migratorio si può fermare, basta volerlo.

Il piano che ha in testa l’ammiraglio è multilivello: realizzare un’operazione militare multinazionale, attuare il blocco navale al largo delle coste libiche, decretare il divieto di approdo alle navi delle Ong e favorire un intervento dell’Onu in Africa per assistere i migranti.

L’ammiraglio De Felice, numero uno di Marisicilia dal 2015 al 2018, ha spiegato le sue proposte in una lunga intervista a ilsitodisicilia.it.

De Felice approva quindi il piano del Viminale di vietare le acque territoriali italiane alle Ong: “L’articolo 83 del Codice della Navigazione permette di vietare il transito e la sosta di navi nelle acque territoriali italiane per motivi di sicurezza e di ordine pubblico – spiega -. Fa bene dunque il Governo nazionale ad adoperarsi in tal senso verso le navi Ong ritenute sospette e pericolose”.

“Non si può attendere che il problema si presenti davanti alle nostre

Continua qui: https://voxnews.info/2019/02/06/ammiraglio-dobbiamo-fermare-le-ong/

 

 

 

ECONOMIA

Perché Nava è stato silurato dalla Consob. Fatti, indiscrezioni e commenti

di Fernando Soto

atti, indiscrezioni e commenti sulle dimissioni di Mario Nava da presidente della Consob. L’approfondimento di Fernando Soto

“Mattarella e Conte hanno fermato un arbitrio”. Così Giorgio Meletti del Fatto Quotidiano ha commentato l’uscita di Mario Nava da presidente della Consob.

Nava ieri si è dimesso da presidente della Consob lanciando stilettate politiche contro i due partiti della maggioranza di governo che di fatto lo avevano sfiduciato

Nava lascia la Consob e torna a Bruxelles. A meno di cinque mesi dal suo arrivo alla guida dell’Autorità di vigilanza sui mercati finanziari, il presidente ha rinunciato all’incarico, come chiesto da Lega e M5S, che hanno giudicato il suo legame con la Commissione Ue, regolato dall’istituto del “distacco”, incompatibile con la presidenza della Consob, e tale da minarne l’indipendenza.

L’AUTODIFESA DI NAVA

“La questione legale della mia posizione amministrativa è stata decisa e validata da ben quattro istituzioni, Commissione europea, presidenza del Consiglio, presidenza della Repubblica e Corte dei Conti, e non necessita miei commenti ulteriori. La questione e’ quindi solo politica” è invece la posizione ribadita da Nava, scelto dal governo Gentiloni.

Nel comunicare il suo passo indietro irrevocabile alla Commissione, il dirigente spiega che “La Consob è indipendente, ma non può essere isolata. Consob deve poter lavorare non solo con le altre autorità indipendenti, ma anche con le istituzioni politiche”. Nava, in uno sforzo riuscito di auto elogio, ha ricordato di essere stato chiamato a Roma, tra l’altro, “con l’obiettivo di integrare la Consob meglio nei vari consessi europei e internazionali”.

LA SENSIBILITA’ ISTITUZIONALE

“La richiesta di dimissioni per ‘sensibilità istituzionale’ da parte dei quattro capigruppo di Camera e Senato dei due partiti di maggioranza sono un segnale chiaro e inequivocabile di totale non gradimento politico. Il non gradimento politico limita l’azione della Consob in quanto la isola e non permette il raggiungimento degli obiettivi” aggiunge.

DA DOVE NASCE IL FORCING SU NAVA

L’attacco a Nava era partito a fine luglio quando il premier Giuseppe Conte aveva chiesto all’authority gli atti per verificare la regolarità della nomina ed è detonato questo giovedì con la nota dei capigruppo di M5S e Lega di Camera e Senato.

LE RAGIONI DEL DISSENSO

Il motivo dichiarato del pressing è il fatto che il funzionario, che viene da uno dei dipartimenti della Direzione generale per le finanze della Commissione europea sia arrivato alla Consob in “distacco” triennale per preservare il posto in Europa mentre la legge istitutiva dell’authority italiana richiede ai commissari provenienti da pubbliche amministrazioni di mettersi fuori ruolo.

LA DICHIARAZIONE DI SCANNAPIECO

Ha fatto scalpore oggi nei palazzi della politica e e della finanza una dichiarazione di una personalità come Dario Scannapieco, già al Tesoro con Mario Draghi, apprezzato nelle istituzioni europee e italiane, attuale vicepresidente della Bei (Banca europea per gli investimenti): “Non penso che il rischio di credibilità dell’Italia sia legato alla vicenda Nava”, ha detto  Scannapieco, a margine del convegno “10 anni dopo Lehman” riferendosi alle dimissioni presentate dal presidente dimissionario della Consob, Nava, dopo i contrasti con il Governo gialloverde. Il rischio di credibilità del Paese “è di portare avanti le riforme di cui l’Italia ha bisogno, di correggere o mantenere una rotta sostenibile sui conti e soprattutto di liberarci da lacci e lacciuoli che ancora ci bloccano nella crescita. Non è l’episodio Nava, Ilva, Tav e Tap perché sono tutti elementi” che influiscono su un Paese “ma è un discorso complessivo. Poi nel merito non commento la vicenda”, ha aggiunto Scannapieco. Non proprio un elogio di Nava, dunque.

L’APPROFONDIMENTO DEL SOLE 24 ORE

Le motivazioni delle forti perplessità dell’attuale governo, ma anche del collegio di Consob, che hanno portato all’epilogo di ieri, con le dimissioni del presidente Nava, sono racchiuse in una lettera inviata lo scorso 8 febbraio dall’ambasciatore italiano presso la Commissione europea, Maurizio Massari, alla responsabile delle risorse umane della Commissione stessa, ha scritto oggi il Sole 24 ore: “Una missiva scritta per conto del governo Gentiloni, lo stesso che aveva chiesto espressamente alle autorità europee di porre Nava in comando per ragioni di servizio. Dalla lettera si capisce che la Commissione, rispetto alla richiesta, aveva sollevato la questione di incompatibilità, in particolare in base a quanto previsto dalla norma istitutiva della Consob (216/76) che in sostanza prevede che il presidente svolga il ruolo a tempo pieno, ma soprattutto che non sia dipendente di un’altra amministrazione”.

Sono sicuro – dice Massari – che converrete sul fatto che in nessun caso una legge nazionale che si riferisce a dipendenti dello Stato può essere interpretata per estensione come applicabile anche a un “civil servant” della Ue limitandone diritti e doveri». “Su questo passaggio, però, dissentirà qualche mese più tardi Fabio Biagianti, avvocato generale della Consob, incaricato dal collegio il 26 aprile di verificare la compatibilità

Continua qui: https://www.startmag.it/economia/perche-nava-e-stato-silurato-dalla-consob-fatti-indiscrezioni-e-commenti/

 

 

 

 

L’oro del Venezuela: non è l’unico caso di sparizione misteriosa di beni

04.02.2019

Juan Guaidó, autoproclamatosi presidente ad interim del Venezuela, ha particolarmente apprezzato il rifiuto della Banca d’Inghilterra della richiesta di Caracas di vedersi restituiti 1,2 miliardi di dollari in lingotti d’oro. Infatti, ha definito la decisione una misura protettiva dei beni del Paese.

Sputnik ha rievocato alcuni altri casi in cui governi e banche occidentali hanno congelato o confiscato le ricchezze nazionali di altri Paesi.

Stando ai comunicati stampa, dalla fine dell’anno scorso Caracas conduce una irrimediabile lotta per riportare il proprio oro in patria. La Banca d’Inghilterra ha più volte declinato le richieste del Venezuela. La settimana scorsa il Ministro degli esteri venezuelano Jeremy Hunt si è allineato agli USA sostenendo Juan Guaidó e definendolo “la persona adatta a promuovere il Venezuela” poiché ha di fatto annullato le possibilità del Venezuela di rivedere i suoi lingotti. Nel fine-settimana, come se stesse eseguendo un ordine, Guaidó ha accolto la decisione di Londra di non restituire i lingotti.

In cosa consiste questa pratica?

La pratica di congelare o confiscare i beni di nazioni che in qualche modo si trovano in contrapposizione con gli interessi economico-politici americani ed europei non è nuova. Nel 1992 durante il riesame di talune sentenze emesse da tribunali statunitensi circa la confisca di beni extra-territoriali Rachel Gerstenhaber descrisse più di 10 casi di congelamento o confisca di beni di nazioni come Iran, Panama, Libia, Iran, Vietnam del Sud, Cuba, Nicaragua e di Paesi del blocco orientale. In questa lista non sono incluse operazioni analoghe effettuate dagli alleati europei degli USA: anche queste nazioni hanno privato altri Paesi di decine di miliardi di dollari. I corrispondenti di Sputnik hanno esaminato tre casi simili.

Iran

La quarantennale storia dei beni confiscati all’Iran risale alla rivoluzione iraniana del 1979 quando i rivoluzionari destituirono Mohammad Reza Pahlavi, il dittatore sostenuto dagli USA, e crearono una repubblica islamica. Il colpo di Stato che incluse la cattura di ostaggi nell’ambasciata USA di Teheran portò Washington a interrompere le relazioni diplomatiche, vietare le importazioni di petrolio iraniano e congelare beni per un totale di circa 11 miliardi di dollari (oggi 35,35 miliardi di dollari tenuto conto dell’inflazione).

Nel 2015 alla vigilia della sottoscrizione dell’Accordo sul nucleare iraniano (PAGC) i beni confiscati a Teheran e le sanzioni internazionali relative al settore nucleare furono stimate a un valore non inferiore ai 100 miliardi di dollari. Secondo il direttore della banca centrale iraniana, grazie all’accordo sul nucleare furono sbloccati solo circa 32 miliardi di dollari, ovvero un terzo del totale.

Tre anni dopo la firma del PAGC il destino di questi beni ancora non è chiaro. È noto che nelle corti americane è in corso la disamina di vari casi che richiedono la confisca diretta di beni iraniani. Ad esempio, una sentenza del 2016 secondo la quale l’Iran deve pagare con soldi pubblici rimborsi ai militari americani morti in seguito all’esplosione di alcuni tir il 23 ottobre del 1983 a Beirut. Teheran sostiene di non avere nulla a che fare con quell’attacco terroristico, ma fino ad ora tutti i tentativi di contestare la sentenza della Corte internazionale sono stati vani.

In una sentenza ancor più scandalosa emanata nel 2018 dalla Corte di New York si legge che i beni iraniani congelati devono essere impiegati per rimborsare le vittime della tragedia dell’11 settembre del 2001. E questo sebbene l’Iran non avesse nulla a che fare con quegli attacchi terroristici e 15 dei 19 terroristi in questione fossero cittadini sauditi.

Iraq

Nel 2003, alla vigilia dell’invasione statunitense in Iraq, il progetto militare di confisca di beni strategici del Paese arrivò a sequestrare in tutto circa 1,75 miliardi di dollari di beni. Questa confisca non fu che la punta dell’iceberg perché in seguito venne confiscata una quantità enorme di beni. Nel 2010 dopo un attento riesame il Pentagono dichiarò di non essere in grado di giustificare i circa 8,7 milioni di dollari di petroldollari scomparsi ma destinati alla ricostruzione.

In passato i media americani hanno parlato di tanto in tanto di fondi in denaro di circa 10-20 miliardi di dollari, la maggior parte dei quali era composta da beni di stato iracheno inviati in Iraq nel 2004 per i lavori di ricostruzione e in seguito spariti.

Duranti i controlli del 2005 l’Ispettore generale per la ricostruzione dell’Iraq (SIGIR), Stuart W. Bowen junior, ha dichiarato che non si riuscivano a trovare più di 8,8 miliardi di dollari.

Sei anni dopo Bowen ha dichiarato che le autorità statunitensi continuavano a non saper giustificare circa 6,6 miliardi di dollari e che quest’affare potrebbe essere definito “la più grande ruberia nella storia della nazione”.

Libia

I dettagli della supposta appropriazione indebita di una ingente somma di denaro libico dopo l’intromissione della NATO volta a destituire il leader libico Muʿammar Gheddafi sono ancora segreti dopo circa 8 anni dai fatti. Alla fine del 2018 i membri di uno dei gruppi belligeranti libici hanno invitato il Consiglio di sicurezza dell’ONU a difendere ciò che è rimasto dei beni libici ancora congelati su conti stranieri.

I timori sono sorti in seguito a comunicati del marzo dello scorso anno a proposito della sparizione da un conto belga di circa 10 miliardi di euro di beni nazionali libici (dal fondo iniziale di 16 miliardi di euro ne sono rimasti solo 5). A settembre dello scorso anno una commissione delle Nazioni Unite ha stabilito che il Belgio stesse violando le limitazioni di congelamento di beni poiché vi era il timore che i pagamenti di interessi su alcuni fondi libici fossero stati trasferiti su conti appartenenti ai miliziani in guerra, anche islamici.

Le autorità di Tripoli in seguito hanno dichiarato che dietro a queste appropriazioni indebite “molto probabilmente” vi fosse il governo degli Emirati Arabi Uniti sostenendo che il denaro fosse stato impiegato per sostenere il governo di Tobruk nella Libia orientale.

Questo scandalo è solo una delle molte confische di beni libici da parte di nazioni occidentali in seguito alla destituzione di Gheddafi. Nel 2012 su richiesta della Corte penale internazionale in Italia è stato confiscato più di 1 miliardo di euro di beni appartenenti alla famiglia di Gheddafi e a membri del suo governo, incluse quote in grandi società italiane e beni immobiliari.

Nel 2011 l’amministrazione Obama congelò beni per un totale di 29,8 miliardi di dollari in banche americane come Goldman Sachs, Citigroup, JPMorgan Chase e Carlyle Group. Nel dicembre del 2011 questi beni assieme ad altri 40 miliardi di dollari furono scongelati. Tuttavia, in seguito funzionari dell’ONU dichiararono che nel Paese erano giunti solamente 3 miliardi di dollari perché “vi erano incertezze riguardo a chi dovesse ricevere questi soldi e per via di altri problemi diplomatici”.

Alla fine del 2018 il direttore del Fondo nazionale libico per il benessere

Continua qui: https://it.sputniknews.com/mondo/201902047209698-oro-venezuela-sparizione-beni/

 

 

 

 

 

FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI

IL PARTITO DELLE BANCHE ALLA BASE DELLA CRISI ECONOMICA 2018/2019

www.maurizioblondet.it  – 10 FEBBRAIO 2019

Ferruccio de Bortoli‏ Compte certifié @DeBortoliF

#Salvini attacca Bankitalia con parole inaccettabili per un vicepremier. L’intolleranza verso le autorità indipendenti qualifica una maggioranza arrogante e incompetente. Una democrazia è fatta di controlli e bilanciamenti. Chi vince non può fare tutto ciò che vuole.

Vediamo:

CRISI ECONOMICA? IL GOVERNO NON C’ENTRA NULLA, È COLPA DEL PARTITO DELLE BANCHE (ED È UN GIOCHETTO A FAVORE DEL PARTITO DEI FRANCESI (PD)

Leggiamo dal pezzo:

 

“Prosegue senza sosta il credit crunch per le aziende italiane: i prestiti delle banche alle imprese, nel corso dell’ultimo anno, sono calati di quasi 36 miliardi di euro (-4,89) nonostante l’aumento di 2,6 miliardi dei finanziamenti a medio termine. A pesare sul calo è la diminuzione di 18 miliardi dei finanziamenti a breve e di 20 miliardi di quelli di lungo periodo. In aumento di 1,3 miliardi, invece, i prestiti alle famiglie, spinti dal credito al consumo (+6,9 miliardi) e dai mutui (+4,9 miliardi), comparti che hanno compensato il pesante calo registrato sul fronte dei prestiti personali (-10,3 miliardi). In totale, lo stock di impieghi al settore privato è diminuito di 34 miliardi, passando da 1.357 miliardi a 1.323 miliardi: in media quasi 3 miliardi al mese tagliati ad aziende e cittadini.”

SE CALA IL CREDITO A IMPRESE E FAMIGLIE, CALA NECESSARIAMENTE IL PIL poichè la gente non compra e le imprese licenziano e/o non investono.

Ma di che parliamo?

Finché non sottrarremmo il sistema bancario al Partito dei CarCarli Bancari, a cui interessano solo e soltanto i propri profitti:

Anche  La Verità e sotto, 24 Ore: 

TUTTI GLI ERRORI DI Visco Nei dieci anni della grande crisi la vigilanza di Palazzo Koch ha consentito di tutto alle banche, con l’idea sbagliata che così si salvasse il sistema. Nessuno ha presentato il conto a Bankitalia che ha fatto pagare ai risparmiatori i suoi errori

La super liquidità della Bce? Il 57% è in Germania e Francia
di Morya Longo

Il sistema bancario europeo ricorda, neanche troppo velatamente, il famoso pollo di Trilussa. Perché in generale gli istituti creditizi nel Vecchio continente hanno abbondante liquidità: le riserve in eccesso (cioè la liquidità delle banche che supera le loro necessità) ammontano alla mastodontica cifra di 1.250 miliardi. Ma se si guardano i singoli Paesi, la storia cambia drasticamente: si scopre infatti – grazie a uno studio elaborato dall’Ieseg School of Management – che il 67% della liquidità in eccesso si trova tutta concentrata nelle banche tedesche(32,7% del totale europeo), francesi (24%) e olandesi (10,7%). Mentre solo il 4% si trova in Italia. Insomma: a guardare l’Europa dall’alto si direbbe che ci sono “polli” (per tornare a Trilussa) in grande abbondanza per tutti, ma se si guarda nel dettaglio si scopre che a mangiarli sono in gran parte tedeschi, francesi e austriaci. Paradossalmente la liquidità creata in abbondanza dalla Bce “ristagna” nei Paesi che non ne hanno bisogno, mentre arriva col contagocce in quelli che ne avrebbero.

Questi dati dimostrano quanto sia squilibrato il sistema bancario europeo. E spiegano anche il dibattito tra i leader politici: «Il motivo per cui i tedeschi sono così contrari alla politica espansiva della Bce è che tenere liquidità in eccesso costa alle banche», osserva Eric Dor, director of Economic Studies presso la Ieseg School of Management di Parigi. La liquidità in eccesso (che è quella che supera le riserve obbligatorie, cioè la quantità di denaro che ogni banca deve avere disponibile per soddisfare le esigenze quotidiane) viene infatti depositata dagli istituti di credito nei “conti” che hanno presso le banche centrali nazionali o presso la Bce. E questi conti hanno un costo salato: attualmente il tasso d’interesse è infatti negativo dello 0,4%. Avere liquidità in eccesso significa dunque pagare per parcheggiarla in Bce. Le banche dovrebbero usare questa montagna di soldi per erogare credito, ma evidentemente sono troppi per l’economia di Germania e Francia.

Per contro le banche di Italia e Spagna spiccano per la dipendenza dalla Bce: in questi due Paesi è stato collocato il 56% dei finanziamenti agevolati erogati dalla Bce (Ltro e Tltro). E questo è un problema, perché i Tltro tra un anno scadranno. Ma già da giugno 2019, per un motivo squisitamente tecnico, una parte di questi finanziamenti agevolati andrà rimpiazzata con nuova liquidità: da quella data le banche non potranno infatti più includere il 50% di questi finanziamenti in un particolare parametro dei loro bilanci (non obbligatorio) che misura la liquidità di lungo periodo (il «Net stable funding ratio»). È per questo che, sebbene in Europa la liquidità nelle banche sia ultra-abbondante e ben superiore alle loro necessità quotidiane, la Bce sarà probabilmente costretta ad erogare nuovi finanziamenti Tltro. Perché il sistema bancario europeo è troppo frammentato. E perchè in alcuni Paesi (Italia in prima fila) potrebbe non essere semplice dover rinunciare a questi prestiti.

Senza un nuovo Tltro le banche italiane sarebbero infatti costrette a reperire sul mercato i soldi necessari per ripristinare il parametro (sebbene non obbligatorio) del «Net stable funding ratio»: calcola Deutsche Bank che, sommando anche il rifinanziamento dei bond in scadenza, le sole prime 7 banche italiane dovrebbero raccogliere nel 2019 ben 108 miliardi di euro. Si pensi che dal 15 maggio 2018 (da quando è stata pubblicata la prima bozza del contratto di Governo e lo spread dei BTp è salito) a metà gennaio 2019 le banche italiane sono riuscite a collocare solo 10 miliardi di bond, secondo i dati calcolati da Dealogic per Il Sole 24 Ore. Arrivare a 107 miliardi è dunque difficile. Certo, il parametro del «Net stable funding ratio» non è obbligatorio, per cui le banche italiane potrebbero aspettare. Ma nel frattempo diventerebbero più vulnerabili.

A gennaio la situazione è un po’ migliorata, insieme allo spread dei BTp, e le banche italiane sono riuscite a tornare sul mercato obbligazionario. Ma in maniera selettiva. E le difficoltà di Mps a collocare un bond subordinato dimostrano che il mercato è ancora in salita.

 

Continua qui: https://www.maurizioblondet.it/l-partito-delle-banche-alla-base-della-crisi-economica-2018-2019/

 

 

 

 

SIENA UNA VOLTA

LA CITTÀ DEL MONTE SI STA SVENDENDO AI RUSSI? LA TRAMA CHE HA PORTATO FIUMI DI RUBLI IN CITTÀ: SU 15 LOCALI CHE SI AFFACCIANO SU PIAZZA DEL CAMPO 10 SONO DI PROPRIETÀ DELLA “SIELNA”, CHE APRIRÀ ANCHE UN HOTEL A FIRENZE E UN AGRITURISMO A MONTERIGGIONI – DEL GRUPPO FA PARTE ANCHE LA PASTICCERIA “NANNINI”, DELLA FAMIGLIA DI GIANNA E DEL PILOTA ALESSANDRO – L’UOMO DIETRO TUTTO QUESTO SI CHIAMA IGOR BIDILO, UN KAZAKO INGUAIATO ANCHE NEGLI “OFFSHORE LEAKS” E FINANZIATORE DELL’EX GRILLINO SALVATORE CAIATA

Gianluca Paolucci per “la Stampa” – 5 febbraio 2019

 

Questa è la storia di due tesori. Un tesoro d’ arte e di bellezza che sta cercando forza e risorse per risollevarsi da una lunga crisi. E di un altro tesoro, questa volta fatto di dollari e petrolio, usato per comprare, pezzo dopo pezzo, il primo tesoro.

 

Il tesoro d’ arte e di bellezza è Siena ma prima di arrivarci c’ è da compiere un tortuoso giro per una mezza dozzina di Paesi tra l’ex Unione Sovietica, l’Europa e i Caraibi per raccontare chi e come sta comprando la città.

 

Tutto alle Isole Vergini

Si parte in Estonia nel 2011. In quell’ anno, il principale esportatore dell’Estonia è stata una società di trading di prodotti petroliferi, la Baltic International Trading (Bit). Nel 2011 ha esportato gasolio e altri derivati del petrolio per 1,34 miliardi di dollari. Di questi, 1,294 miliardi – più del 98% del totale – li ha venduti in un unico Paese: le Isole Vergini Britanniche.

 

L’ anno prima la stessa Bit era solo secondo, sempre con le Isole Vergini come primo cliente, ma in un anno ha raddoppiato i volumi. Da qui si arriva fino a una delle piazze più belle del mondo, piazza del Campo, dove troviamo un’altra società che si chiama Sielna spa. La Sielna è la società che sta comprando uno dopo l’altro i locali che si affacciano sulla piazza del Palio. Su 15 locali – bar, ristoranti e gelaterie – che si affacciano sulla piazza almeno 10 sono diventati, nell’ arco di due anni, in proprietà o in gestione, della Sielna. Una campagna acquisti che continua anche in questi giorni.

 

Nel novembre scorso ha comprato anche uno storico negozio di fotografia e uno di scarpe, uno accanto all’ altro, che dovrebbero diventare un ennesimo ristorante, questa volta di nuova concezione, con annesso mulino e pastificio ad uso e consumo dei milioni di turisti che ogni anno arrivano a Siena. Non c’ è solo piazza del Campo. Al gruppo fanno capo anche una mezza dozzina di bar in città e un albergo alle porte di Siena. Nei suoi piani prevede inoltre l’ apertura di un hotel a Firenze e di un agriturismo a Monteriggioni. Nei giorni scorsi si è parlato anche di un interesse del gruppo senese per la Pernigotti.

 

Le mani sul commercio

Per tornare nella città toscana, da qualche mese fa parte del gruppo anche la Nannini, storico marchio della pasticceria senese della famiglia di Gianna e del pilota Alessandro. Il piano di rilancio della Nannini, annunciato nel novembre scorso, prevede investimenti per 40 milioni, l’apertura di una serie di locali del marchio in Italia e due stabilimenti per la produzione dei dolci tipici del marchio, con l’assunzione di 200 persone.

 

Tanto davvero, per una città che sta cercando faticosamente di risollevarsi dalla devastante crisi del Monte dei Paschi. L’ uomo dietro tutto questo si chiama Igor Bidilo. È un cittadino kazako ma grazie agli investimenti fatti a Tallin ha un visto estone che gli consente di muoversi liberamente in tutta l’Unione europea (vedi altro pezzo nella pagina). È anche il principale azionista della Sielna, con l’80% delle quote. Il suo nome compare negli Offshore Leaks – il database di documenti relativi a società basate in una serie di paradisi fiscali – come azionista di una società con sede a Mosca, Somitekno Ltd. Cosa fa la Somitekno? Trading di prodotti petroliferi.

 

I giacimenti in Baschiria

All’inizio del decennio, la piccola e poco conosciuta Somitekno sfida la concorrenza di colossi del settore come Glencore, prende una serie di contratti miliardari con Bashneft, la società petrolifera statale della Baschiria, una delle repubbliche che fanno parte della Federazione russa. Situata a Nord del Kazakistan, tra il Volga e gli Urali, nel suo territorio si trovano importanti giacimenti sfruttati da Bashneftgaz, che controlla anche gli impianti di raffinazione. Nel marzo del 2012, ad esempio, Bashneft conclude un contratto da 1,7 miliardi

 

Continua qui: http://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/siena-volta-ndash-citta-monte-si-sta-svendendo-russi-194749.htm

 

 

 

 

 

 

 

 

‘Bocconiana pentita’: banche d’affari e FMI i nuovi “colonialisti”

5 Febbraio 2019, di Alessandra Caparello

 

Le multinazionali, le grandi banche d’affari, ma soprattutto le organizzazioni internazionali, come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale sono i nuovi colonialisti. A dirlo Ilaria Bifarini, conosciuta come la “bocconiana pentita” che nel suo libro “I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa” affronta il tema delle migrazioni.

Il neocolonialismo è per certi versi addirittura peggiore del colonialismo, perché più subdolo e universalmente accettato, salvo critiche parziali e isolate. I nuovi colonialisti sono le multinazionali, le grandi banche d’affari, ma soprattutto le organizzazioni internazionali, come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, che con la scusa dell’alto indebitamento dei paesi in via di sviluppo hanno imposto programmi economici basati sulla piena liberalizzazione e sulla massima apertura al commercio estero a economia che avevano bisogno di protezione, aggravando il tutto con massicce dosi di austerity, tagli alla spesa e ai servizi pubblici in territori dove lo Stato sociale è già fatiscente. Tra le potenze ex colonialiste, la Francia ha mantenuto fortissima la propria ingerenza economica e politica, continuando addirittura a imporre indisturbata la propria moneta coloniale a 14 paesi africani, il franco Cfa».

L’economista poi punta il dito contro le politiche di austerity che finiscono per arricchire solo il mondo della finanza.

Uno studio del Fondo monetario internazionale (“Neoliberalism Oversold?”, 2016) riconosce come il neoliberismo sia stato sopravvalutato e come le stesse politiche di austerity portino un aumento del livello di disoccupazione

Continua qui: https://www.wallstreetitalia.com/bocconiana-pentita-banche-daffari-e-fmi-i-nuovi-colonialisti/

 

 

 

 

 

 

La Germania salva un’altra banca

Le autorità tedesche usano denaro pubblico anche per Nord Lb e respingono le offerte di Centerbridge e Cerberus per il 49% dell’istituto. Berlino conferma la doppia morale sull’uso di fondi statali nelle crisi.

Due Lander mettono 1,5 mld e garanzie per 1 mld. Dalle Sparkassen altri 1,2 mld 

 

di Francesco Ninfole

La Germania mette altro denaro pubblico, stavolta per circa 4 miliardi, per salvare una banca domestica. L’ultimo caso è quello che riguarda Nord Lb, una delle maggiori landesbank. Il Paese che più di ogni altro spinge nelle sedi europee per il bail-in cambia orientamento quando si tratta di istituti tedeschi. L’unica soluzione possibile per Berlino, sia prima che dopo la crisi, è quella di impiegare risorse dei contribuenti nelle crisi locali. Per Nord Lb è stata anche messa da parte un’offerta privata (da parte dei fondi Cerberus e Centerbridge) per lasciare campo libero a due Länder: Bassa Sassonia e Sassonia Anhalt, azionisti con il 65% di Nord Lb, verseranno 1,5 miliardi nella banca e daranno garanzie per 1 miliardo, mentre l’associazione delle casse di risparmio tedesche (Sparkassen), anch’esse controllate dal comparto pubblico, inietteranno 1,2 miliardi.

Un portavoce della direzione Concorrenza della Commissione Ue guidata da Margrethe Vestager, contattato da MF-Milano Finanza riguardo all’autorizzazione dell’operazione, ha fatto sapere che Bruxelles è «in contatto con le autorità tedesche». Queste ultime si sono dette convinte di aver varato un piano in linea con le regole Ue sugli aiuti di Stato. L’ennesimo salvataggio tedesco con denaro pubblico è stato completato in pochi giorni. Per settimane si è lavorato a una soluzione diversa. Cerberus e Centerbridge secondo indiscrezioni avevano presentato un’offerta da 600 milioni limitata al 49% di Nord Lb (sarebbe stato comunque necessario il sostegno pubblico).

Cerberus ora potrebbe acquisire un portafoglio di non-performing loans per 2,7 miliardi. Ma l’ipotesi di comprare una quota nella banca, seppure di minoranza, è stata respinta. Il premier della Bassa Sassonia, Stephan Weil, ha definito l’operazione dei Länder «la migliore opzione possibile». Secondo il ministro delle Finanze Reinhold Hilbers la ricapitalizzazione pubblica costerà meno della vendita ai fondi, che avrebbero lasciato passività agli azionisti e incassato parte degli utili futuri.

L’intervento pubblico si è reso necessario perché la banca è piena di crediti deteriorati legati al settore marittimo. La crisi dello shipping ha messo in ginocchio diversi gruppi, tra cui Hsh Nordbank (sfuggito per pochi giorni alle nuove regole sugli aiuti di Stato e anch’esso salvato con soldi statali). Nonostante una florida economia nazionale, molti istituti tedeschi si sono trovati in difficoltà, principalmente a causa di errori di valutazione e investimenti azzardati. Nord Lb chiuderà il 2018 con perdite per 2,7 miliardi, che avrebbero portato il capitale attorno al 6%, quindi al di sotto dei minimi regolamentari. Grazie al denaro pubblico, la banca non sarà più a rischio dissesto e riporterà il patrimonio attorno al 14%, in una zona di tranquillità che consentirà lo smaltimento dei crediti deteriorati navali ancora in bilancio.

Il caso Nord Lb rimette al centro dell’attenzione le regole Ue sulle banche. Il via libera della Commissione Ue al salvataggio potrebbe arrivare sulla base del precedente della portoghese Caixa Geral de Depositos (Cgd) che nel 2016 aveva ricevuto dall’azionista statale ulteriori fondi «a condizioni di mercato». In quell’occasione MF-Milano Finanza aveva osservato che la vicenda avrebbe potuto creare un precedente per altre banche pubbliche, tra cui le Landesbank.

Il rischio è che le norme Ue, pensate per salvaguardare la concorrenza, abbiano l’effetto contrario di congelare la disparità di condizioni tra Paesi, favorendo quelli dove è ampia la presenza del comparto pubblico negli istituti. Le banche controllate dallo Stato, forti di garanzie esplicite o implicite, possono finanziarsi a tassi molto più bassi delle altre e sono al riparo da crisi per la presenza di un salvatore di ultima istanza. In Italia gli istituti di credito stanno vivendo uno scenario per certi versi opposto: pagano sui mercati lo spread sovrano e il maggiore rischio Italia; quando ci sono singole crisi tutto il settore rischia turbolenze. La Germania avrebbe potuto aprire il capitale di Nord Lb ai privati ma ha preferito alzare barricate.

Più in generale, le decisioni di Berlino sulle banche negli ultimi anni hanno confermato che gli Stati, alla prova dei fatti, preferiscono utilizzare denaro pubblico piuttosto che coinvolgere i privati, scatenare il panico e creare instabilità

Continua qui: https://www.milanofinanza.it/news/la-germania-salva-un-altra-banca-201902051653392952

 

 

 

 

 

LA LINGUA SALVATA

Subodorare

su-bo-do-rà-re (io su-bo-dó-ro)

SIGN Sospettare, avere sentore di qualcosa che si sta preparando o sta per accadere

dal latino tardo subodorari, composto di sub- ‘sotto’ e odorari ‘fiutare, odorare’.

Questa è una di quelle parole che per essere presa, capita perbene, richiede un momento di riflessione. Infatti, il subodorare è etimologicamente un ‘odorare sotto’, fin qui ci siamo: per quanto, nel latino medievale, subodorari potesse avere semplicemente il significato di ‘fiutare’, il ‘sub-‘ è un prefisso rilevante al nostro orecchio, un riferimento preciso, e in questo caso complica le cose.

La difficoltà di questo termine sta nella sua intrinseca sinestesia: per noi l’odore non è un senso spaziale, i nostri seni nasali sono in un punto e ci sanno dire solo sfumature e intensità di odore apprezzabili da quel punto. E anche se

Continua qui: https://unaparolaalgiorno.it/significato/S/subodorare

 

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

A SANGUE FREDDO – IN PAKISTAN L’ANTITERRORISMO UCCIDE UNA COPPIA E UNA BAMBINA DI 12 ANNI SOLO PERCHE’ ERANO IN AUTO CON UN AMICO, SOSPETTATO DI TERRORISMO

I POLIZIOTTI HANNO FATTO SCENDERE DALLA VETTURA TRE BAMBINI E POI HANNO FATTO FUOCO – LA STRAGE HA SCATENATO PROTESTE NEL PAESE E IL PRIMO MINISTRO

Mirko Bellis per “www.fanpage.it” – 5 febbraio 2019

 

Una famiglia innocente è stata sterminata a sangue freddo dalla polizia antiterrorismo pakistana. E’ la verità emersa dopo la diffusione di un video in cui si vedono gli agenti crivellare di proiettili un’automobile nei pressi di Sahiwal, una città della provincia del Punjab.

 

A bordo del mezzo viaggiavano Mohammad Khalil, un negoziante di generi alimentari, la moglie e i loro cinque figli. Oltre a loro, c’era anche Zeeshan Javed, un leader locale dell’Isis. In un primo momento, il Dipartimento Anti Terrorismo (Ctd) aveva diffuso un comunicato in cui dichiarava che quattro “terroristi” legati allo Stato Islamico, dopo aver aperto il fuoco contro gli ufficiali, erano stati uccisi in una “operazione di intelligence” a sud-ovest di Lahore.

 

Nel video diffuso sui social media si vedono i poliziotti che, dopo aver bloccato l’auto di Khalil lungo un’autostrada, fanno scendere tre dei suoi figli e subito dopo aprono il fuoco sul resto degli occupanti.

 

Poi, come se niente fosse, gli agenti dell’anti-terrorismo ripartono lasciando sul posto quattro cadaveri: Zeeshan Javed, il commerciante, la moglie e la figlia di 12 anni muoiono sul colpo. Gli altri tre figli di Khalil, prelevati dalla polizia, sono stati abbandonati in una stazione di servizio poco lontana dal luogo del massacro.

 

Quella che doveva apparire come una brillante azione, si è rivelata in realtà un’assurda strage a sangue freddo. Proprio grazie alla testimonianza di Umair, uno dei bambini scampati alla sparatoria, si è potuto far luce su quanto successo. In ospedale il piccolo ha raccontato che la sua famiglia stava andando al matrimonio di un familiare in un’auto guidata dall’amico del padre. Lungo l’autostrada sono stati fermati dalla polizia. “Mio padre ha detto agli agenti che potevano prendersi i nostri soldi, ma loro hanno iniziato a sparare”.

 

Continua qui: http://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/sangue-freddo-pakistan-39-antiterrorismo-uccide-coppia-194805.htm

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La grande campagna dell’imperialismo USA

La grande campagna dell’imperialismo Usa, per riassumere il controllo sul proprio “cortile di casa”, ha subito un’accelerazione decisiva.

 

di Carlo Formenti – 27 gennaio 2019

La grande campagna dell’imperialismo Usa (non esito a usare tale concetto, anche se Negri e soci accusano di “antiamericanismo” chi vi ricorre), per riassumere il controllo sul proprio “cortile di casa”, ha subito un’accelerazione decisiva. Dopo avere fatto rientrare Argentina, Brasile (con un golpe giuridico che, togliendo di mezzo Lula, ha aperto la strada alla vittoria del fascista Bolsonaro) ed Ecuador nel branco dei vassalli di Washington (gli altri non se ne erano mai allontanati, o avevano fatto atto di contrizione dopo timidi accenni di libera uscita) è il turno del Venezuela che, con Cuba e Bolivia, rappresenta uno degli ultimi caposaldi dell’autonomia dai padroni del Nord.

 

Dopo avere tentato a più riprese di scatenare la guerra civile, alimentando violenze di piazza e chiamando alla diserzione l’esercito chavista,dopo un lungo assedio finanziario e diplomatico,sostenuto e accompagnato dalle campagne propagandistiche di tutti i media occidentali (compresi quelli “progressisti”), è venuto il momento di passare ai fatti, sponsorizzando l’autoproclamazione a presidente di Guaidò. In precedenza l’opposizione borghese invocava elezioni anticipate ma ora, temendo di perderle (le tante che ha perso, ad eccezione di una, le ha boicottate e dichiarate non valide), preferirebbe allontanare prima Maduro, il presidente in carica legalmente designato dal popolo, in modo da evitare di confrontarsi con scomode alternative.

 

Stati Uniti, Unione Europea, destre latinoamericane, partiti occidentali di destra, centro e sinistra, definiscono “restaurazione della democrazia” questo colpo di stato. Nessuna novità, visto che in passato l’imperialismo Usa e i suoi reggicoda europei hanno appoggiato i regimi fascisti di Cile, Argentina e Brasile, così come oggi appoggiano il neofascista Bolsonaro, i nazisti di Kiev e l’opposizione integralista siriana. Più “innovative” appaiono le prese di posizione delle sinistre nostrane (con l’ineffabile Boldrini in testa) le quali, con rare voci controcorrente (o cercando – vedi CGIL – di salvare la faccia con lo slogan né con Guaidò né con Maduro), si accodano al coro dei regimi liberisti che pregustano il momento in cui potranno rimettere le mani sul petrolio venezuelano e rinserrare la morsa su Cuba e Bolivia, ridotti al ruolo di Fort Alamo della sinistra latino-americana.

 

C’è anche, però, una sinistra radicale che, pur condannando il golpe, addebita agli errori e all’insipienza politica di Maduro la responsabilità di aver fatto precipitare la crisi del Paese fino a questo punto.  Questa personalizzazione dello scontro rientra nello stile della politica contemporanea, ma non aiuta a capire le cause reali del riflusso dell’onda bolivariana, che tante speranze di cambiamento aveva acceso. C’è chi attribuisce l’arretramento in atto al fatto di non avere compiuto scelte sufficientemente radicali sulla via della costruzione del socialismo del XXI secolo. Io stesso, in un libro di qualche anno fa sulla Revolucion ciudadana di Rafael Correa in Ecuador, avevo sottolineato le timidezze bolivariane in tema di nazionalizzazione dei settori strategici, l’assenza di radicali riforme agrarie (indispensabili per ottenere la sovranità alimentare), la lentezza con cui procedevano la democratizzazione dello stato e la lotta alla corruzione e le difficoltà del progetto di integrazione economica fra i Paesi dell’area denominata Alba, che avrebbe consentito di avviare una politica di delinking (per citare un concetto caro a Samir Amin) dal capitalismo globale.

Insistere oggi su questi limiti sarebbe tuttavia ingeneroso per varie ragioni. In primo luogo, perché le rivoluzioni bolivariane non si sono mai definite socialiste (il referendum per approvare la trasformazione in senso socialista della costituzione venezuelana, indetto da Chavez, fu bocciato) ma si sono limitate a rivendicare la costruzione di sistemi economici “misti”, o “postneoliberisti” come venivano definiti qualche anno fa, caratterizzati da politiche ridistributive, espansione della spesa sociale e investimenti infrastrutturali. Per questo sono stati accusati dalle sinistre radicali (trotskisti, maoisti, autonomi, ecc.) di “riformismo”. Apro qui una parentesi per ricordare che quelle stesse sinistre, mai protagoniste di alcun processo rivoluzionario, e sempre confinate in ambiti minoritari, se hanno avuto un qualche spazio politico in anni recenti, lo devono esclusivamente al fatto di avere goduto dell’opportunità di farsi “rimorchiare” dai processi bolivariani, mentre oggi alcune di queste forze (al pari dei “sinistri” di casa nostra) si uniscono alle opposizioni di destra per rivendicare “democrazia”.

Tornando al tema riforme ritengo valga il punto che Engels e la Luxemburg stabilirono nel corso di un dibattito teorico fra fine Ottocento e primo Novecento: una politica di riforme non è positiva o negativa di per sé: occorre stabilire se è funzionale al superamento della società capitalista o se è fine a sé stessa. Qual è il caso dei regimi bolivariani? Con un ventaglio di radicalità che va dall’Ecuador (il meno radicale) a Venezuela e Bolivia, mi pare di poter affermare che si tratta di riformismi atti a costruire società miste, caratterizzate da forme di dualismo di potere e suscettibili di evolvere in senso socialista o regredire (come è avvenuto in Ecuador e potrebbe ora succedere in Venezuela) al liberismo in base all’evoluzione dei rapporti di forza fra le classi sociali.

Il punto debole di quei processi non è stato tanto la mancanza di radicalità o l’inettitudine di questo o quel leader, bensì la necessità di tenere assieme un blocco sociale in cui il peso delle classi medie resta elevato rispetto a quello degli strati popolari. Un blocco che ha tenuto finché il mercato delle materie prime ha giocato a favore dei governi progressisti, consentendo di

 

Continua qui: https://megachip.globalist.it/cronache-internazionali/2019/01/27/la-grande-campagna-dell-imperialismo-usa-2036607.html

 

 

 

 

 

 

 

 

Israele: può finire il tempo dei maghi

5 FEBBRAIO 2019

 

La disfida elettorale in Israele è tesa. Netanyahu ha lanciato una nuova televisione con la mission di ribattere alle NOTIZIE FALSE che lo riguardano.

Bibi sembra voglia ripercorre i passi di Trump, che vinse le elezioni sulla scia di un’analoga iniziativa. Ma c’è una differenza di fondo, impossibile da eludere: Trump era una novità di sistema, Netanyahu il perpetuarsi sistemico.

Comandante in capo vs generale

In altra nota abbiamo accennato che il premier ha trovato uno sfidante vero, ovvero il generale Benny Gantz, con sondaggi in ascesa.

La sfida si gioca su un focus vitale, dal momento che il premier ha sempre trionfato sui suoi avversari presentandosi come l’unico leader in grado di garantire la sicurezza di Israele.

Gantz è un generale stimato e si presenta all’elettorato come alternativa in grado di dare sicurezza al Paese come e più del suo avversario.

Una sfida anche sull’idea stessa di sicurezza. Gantz offre sicurezza nella stabilità, laddove Bibi, al contrario, offre, oggi come sempre, sicurezza nell’instabilità permanente (che egli ha alimentato per ritagliarsi il ruolo di salvatore).

Sotto pressione

Netanyahu appare in affanno, come spiega un articolo di Haaretz, secondo il quale, quanti conoscono il premier “affermano che non è mai apparso sottoposto a così tanta pressione”.

Netanyahu è un politico. E gli è arduo sostenere un duello sulla sicurezza con un generale.

Da qui la rincorsa a ritagliarsi l’immagine di Comandante in capo, i cui panni ha sempre indossato ma in via subordinata a quelli del politico in grado di cavalcare tutte le tempeste, interne ed esterne.

A questo proposito, racconta Haaretz, Netanyahu sta moltiplicando le visite a c

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SCIENZE TECNOLOGIE

Questi volti non esistono: li ha sfornati l’intelligenza artificiale

Volti che non esistono ma che danno l’idea della potenza dell’AI. Non senza sollevare qualche dubbio etico sul mondo del “fake”

Simone Cosimi – 31 GEN, 2019

 

Volti che non esistono

Ma che qualche anno fa non sarebbero neanche potuti esistere per come sono. Così convincenti e affascinanti. In una parola: credibili. E che danno l’idea dell’avanzamento massiccio dell’intelligenza artificiale nell’ambito della generazione di immagini inedite. In altre parole, i sistemi di Ai stanno diventando eccellenti nel partorire fake face, volti che non esistono, ma

Continua qui: https://www.wired.it/ai-intelligenza-artificiale/storie/2019/01/31/volti-intelligenza-artificiale/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A cosa pensano gli algoritmi? Intervista a Dominique Cardon

PUBBLICATO 6 ottobre 2016 da Dario Boemia

 

Il web sembra spesso aver ereditato il ruolo che un tempo avevano i re: è capace di decidere della nostra sorte, può renderci gloriosi o designarci l’ultimo anello della catena sociale. Può farci guadagnare o perdere i soldi. È conoscenza oppure ignoranza. E come la recente cronaca ha dimostrato, può dare anche la morte. Ma come funziona il web? Cosa fanno gli algoritmi? Secondo quali regole? Cosa possiamo fare noi utenti per non lasciarci inghiottire? L’abbiamo chiesto al Festival della mente di Sarzana al sociologo francese Dominique Cardon, autore del libro “Che cosa sognano gli algoritmi. Le nostre vite nel tempo dei big data” (Mondadori Università). In fondo all’articolo trovate la videointervista originale in francese. Ringraziamo Giulia Marani per la traduzione.

Il web dà l’impressione di essere un luogo dove il valore principe sia la libertà. Ma quanto siamo liberi sul web? Quanto è democratica la rete?

La storia del web è prima di tutto la storia di come l’individuo abbia conquistato la libertà di prendere la parola. I pionieri del web pensavano che tutti i desideri, tutte le opinioni e le informazioni dovessero poter essere condivise sul web, cosa che effettivamente poi è stata possibile. Le difficoltà sono nate quando il web ha cominciato ad avere tanto successo e sono entrati in campo interessi commerciali ed economici. Sono nate così una serie di tecniche che “ci calcolano”, che si servono di noi per elaborare dati, che riducono la nostra libertà, in un certo senso. Questo non vuol dire che la libertà del web sia scomparsa, però può voler dire che bisogna accettare di essere sulla terza o quarta pagina di Google, perché i primi risultati rispondo ad altre logiche e per lo più sono gli inserzionisti paganti. Bisogna accettare di essere meno visibili negli universi digitali.

Un’altra grande trasformazione che ha avuto luogo sta nel fatto che adesso siamo sorvegliati, i nostri clic, le nostre modalità di navigazione, tutto ciò che facciamo sul web viene registrato dalla rete. La tecnologia stessa di internet è fatta in modo da conservare le tracce di quello che noi facciamo. L’uso che è fatto oggi di queste tracce può rappresentare una minaccia per la nostra libertà. L’abbiamo visto, per esempio, col caso Snowden e lo vediamo nel fatto che le grandi piattaforme web hanno acquistato una grande forza e il grande potere di influenzare le nostre vite, perché noi stessi abbiamo detto loro molte cose di noi, delle nostre attività, dei nostri centri di interesse.

Come funzionano gli algoritmi? Secondo quali valori lavorano?

Il codice informatico lavora con degli algoritmi che sono delle procedure di calcolo. Quindi, nella scrittura stessa del web, c’è qualcosa del rigore logico degli algoritmi. Oggi il punto centrale di questo discorso è quello relativo agli algoritmi che classificano grandi masse di dati e che cercano di raccomandarci un prodotto piuttosto che un altro, che ci fanno strada quando guidiamo la macchina. Questi algoritmi si appoggiano sul trattamento di una grande massa di segni che vengono lasciati dall’utente in rete. Quello che cerco di dire e di dimostrare è che questi calcoli sono diversi tra loro e possono produrre effetti differenti, per cui per capire come funzionano dobbiamo capire quali rappresentazioni della realtà ci forniscono. Per esempio, possono produrre tra i vari effetti popolarità, autorevolezza, affinità. Questi algoritmi cercano sempre più di calcolare l’individuo e di dirci con un calcolo predittivo cosa farà questo individuo, quali prodotti acquisterà, che cosa gli piacerà, dove si sposterà. E tutto ciò è possibile proprio a partire dai dati che questo individuo ha lasciato in giro per la rete.

Non c’è contrasto tra la presunta razionalità degli algoritmi e la frequente irrazionalità dell’uomo?

Ci sono due cose che mi sembrano importanti a tal proposito. Nel dibattito filosofico sulla razionalità, c’è l’idea che ci sia un’opposizione, uno shock frontale tra la saggezza degli umani, che può essere anche irrazionale o poetica, e la fredda razionalità computazionale delle macchine. In realtà questi due aspetti sono interconnessi e implicati gli uni negli altri da sempre. Secondo gli

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Nuova pelle artificiale darà all’uomo abilità sovrumane

06.02.2019

Dei ricercatori hanno sviluppato una pelle artificiale, dotata di vari sensori, che consente, in particolare, di percepire un forte campo magnetico e cambiamenti di pressione.

La nuova pelle artificiale è stata sviluppata da esperti dell’Università del Connecticut e di Toronto. Il lavoro sullo sviluppo è stato pubblicato sulla rivista Advanced Materials.

È stato riferito che la pelle è dotata di sensori multifunzionali in grado di rilevare un forte campo magnetico, cambiamenti di pressione e vibrazioni delle onde sonore. “Il tipo di pelle artificiale che abbiamo sviluppato può essere chiamato pelle elettronica”

Continua qui: https://it.sputniknews.com/mondo/201902067218951-Nuova-pelle-artificiale-uomo-abilita-sovrumane/

 

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